Giambattista Vico |
C’era un lord in Lucania.... *
Se pochi filosofi e letterati sanno dell’omaggio di Ugo Foscolo al filosofo delle “nozze e tribunali ed are” (“Dei sepolcri”, v. 91), moltissimi “addottrinati” ignorano ancora e del tutto che Vico per circa nove anni decisivi per la sua vita ha abitato a Vatolla, nell’antica Lucania (in particolare, nell’attuale Cilento, a poca distanza dall’antica Elea-Velia, Ascea, Paestum, Palinuro, Agropoli) e, al contempo, che James Joyce a Giambattista Vico ha reso l’omaggio più grande che mai poeta potesse fare a un filosofo: "La strada di Vico gira e rigira per congiungersi là dove i termini hanno inizio. Tuttora inappellati dai cicli e indisturbati dai ricorsi, sentiamo tutti sereni, mai preoccupati al nostro doveroso compito... Prima che vi fosse un uomo in Irlanda c’era un lord in Lucania".
C’era un lord in Lucania (Italia): "The Vico road goes round and round to meet where terms begin. Still anappealed to by the cycles and onappaled by the recourses, we fill all serene, never you fret, as regards our dutyful cask... before there was a man in Ireland there was a lord in Lucan " (Cfr.: AA. VV., Introduzione a Finnegans Wake, trad. di Francesco Saba Sardi, Sugar Editore, Milano 1964. La citazione è ripresa dal saggio di Samuel Beckett, "Da Dante a Bruno, da Vico a Joyce", pp. 9-26. La precisazione sulla Lucania e Vatolla è mia).
E, ancora: nessuno sa che Giambattista Vico, stampata la sua prima “Scienza Nuova”, inviò a Londra, a Isaac Newton una copia del suo capolavoro. E che la "Scienza Nuova" seconda (1730), con la "dipintura" di Domenico Antonio Vaccaro, è un omaggio e una ’risposta’ al lavoro di Shaftesbury (a Napoli, dal 1711 al 1713, anno della sua morte).
Per lo più si è ancora dentro il sofisticato cerchio hegeliano di Benedetto Croce: "Propugnatore, come sono della filosofia intesa nel senso di uno «storicismo assoluto», il Vico mi attirava e parlava alla mia mente per una ragione che mi si è poi chiarita e che ho potuto definire: in lui si presenta la prima forma, la «forma arcaica», dello storicismo assoluto".
Dopo quasi tre secoli, nei confronti di colui che ha osato disubbidire alle Leggi della Repubblica di Platone e riammettere a pieno titolo nello Stato Omero, i “poeti”, e restituire alle donne tutta loro dignità, la rimozione continua: la cecità dei nipotini di Platone (come di Cartesio, Hegel, e Heidegger), i sacerdoti della casta atea e devota, è totale! Di fronte all’impresa e alla dipintura della Scienza Nuova perdono subito (e ancora) la loro ‘magistrale’ lucidità e ripiombano nella notte della loro “barbarie della riflessione”!
Persa la Memoria delle Muse, delle Grazie (“Charites”), e della Grazia (“Charis”), e delle Dee come delle Sibille, non sanno più cogliere nemmeno la differenza tra Mosè e il Faraone, tra Gesù e Costantino, tra l’amore e la carità dell’uno (“charitas”) e la “carestia” e l’elemosina dell’altro (“caritas”)!
Quanto segue vuol essere solo una sollecitazione e un invito a rileggere tutta l’opera di Vico e, possibilmente, a valutare al meglio il suo grande contributo, a gloria dell’Italia, per la dignità dell’uomo, dell’intero genere umano! Non altro.
Federico La Sala
INDICE: *
PREMESSA
C’era un lord in Lucania....
Introduzione
A) CROCE E "LA FILOSOFIA DI G. B. VICO". Due note
B) "NOVA SCIENTIA TENTATUR": VICO E "IL DIRITTO UNIVERSALE".
1. VICO CONTRO CARTESIO.
2. UNA METAFISICA PER LA FISICA DI GALILEI E NEWTON. Note per una (ri)lettura del "De antiquissima italorum sapientia" (I parte)
3. IL DESIDERIO, LA RAGIONE, E DIO. Note per la (ri)lettura del “De antiquissima italorum sapientia” (II parte)
4. ESSERE GIUSTI CON VICO. Riprendere l’indicazione di Eugenio Garin.
5. LE TRE EDIZIONI DELLA “SCIENZA NUOVA”: QUESTIONI DI METODO.
6. PER LA CRITICA DELLE VERITA’ DOGMATICHE E DELLE CERTEZZE OPINABILI.
7. VICO CON NEWTON: "NON INVENTO IPOTESI"!
8. LA "BIBBIA CIVILE" RAGIONATA E GLI INTELLETTUALI ITALIANI: IL CASO COLLETTI.
9. IL DESIDERIO DI IMMORTALITA’, LA STORIA, E LA PROVVIDENZA.
10. FILIAZIONE DIVINA E PRATICA DELLA SCIENZA NUOVA: "LA MENTE EROICA". Il testo dell’orazione inaugurale del 1732
11. LA CARITA’ “POMPOSA” DI LUDOVICO A. MURATORI E IL GIUDIZIO DI VICO. Un breve estratto dalla “Prefazione ai lettori” del “Trattato sulla carità cristiana” di Ludovico A. Muratori
12. PRINCIPI DI SCIENZA NUOVA [1730, 1744]: SPIEGAZIONE DELLA DIPINTURA PROPOSTA AL FRONTISPIZIO CHE SERVE PER L’INTRODUZIONE DELL’OPERA
13. “LEMURUM FABULA”: IL PUTTANESIMO. LA BRUTTEZZA DELLA DIPINTURA TUTTA CONTRARIA [La Scienza Nuova 1730]
14. MATERIALI SUL TEMA.
FLS
UN "SOGNO" DI #TEOCRITO, LE GRAZIE ("CHARITES"), E UNA QUESTIONE DI #GRATITUDINE:
DELLA #GRAZIA ("#CHARIS - #ΧÁΡΙΣ"), DELLA CARITÀ ("CHARITAS") E DEL "SÀPERE AUDE!" (#KANT): COME MAI OGGI, NELL’ATTUALE PRESENTE STORICO, LE "#GRAZIE" (LE GRECHE "CHARITES = ΧÁΡΙΤΕΣ", LE COSIDDETTE "CARITI") SONO DEL TUTTO ASSENTI DA OGNI #CATTEDRA DI ISTRUZIONE E INFORMAZIONE E LE "#DIS_GRAZIE" HANNO INVASO DEL TUTTO IL CAMPO DELLA COMUNICAZIONE E DELLA #CONVIVENZA UMANA? #MEMORIA E #POESIA.
Sul filo di #Virgilio ("Bucoliche") e di #DanteAlighieri, forse, un aiuto a trovare una possibile risposta alla domanda del "cruciverba" può venire da Teocrito (in greco antico: Θεόκριτος, Theókritos; #Siracusa, 315 a.C. - 260 a.C. circa). Egli è stato un poeta siciliano, inventore della poesia bucolica, che in una sua opera, gli "Idilli", in particolare nel XVI, intitolato "Le Grazie, o Ierone", così conclude:
"Che cosa esiste di amabile per gli esseri umani senza le Grazie? Che io possa restare insieme con le Grazie per sempre
("[...[τί γὰρ Χαρίτων ἀγαπητόν ἀνθρώποις ἀπάνευθεν; ἀεὶ Χαρίτεσσιν ἅμ’ εἴην.").
NAPOLI E LA SCIENZA. STORIA E STORIOGRAFIA: GIAMBATTISTAVICO CON #NEWTON E CON #SHAFTESBURY.
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LA PUNTA DI UN ICEBERG: "[...] #ROYAL SOCIETY, NEWTON, VALLETTA. Se Vico, nel 1725, invia a Newton una copia della sua prima “#ScienzaNuova”, ha le sue buone ragioni: non è il gesto di un isolato dalla cultura europea del suo tempo! Una di queste ragioni è che egli, sin dagli anni degli studi universitari (1689-1693), era in relazione con Giuseppe Valletta.
Ecco quanto #Croce dice di lui nel suo discorso del 1924: a Napoli, “lo Shaftesbury entrò in relazione (...) con Giuseppe Valletta e col suo circolo (...) Valletta, già mercante e avvocato (...) conoscitore com’era, oltre che del latino e del greco, del francese, e dell’inglese, segnatamente verso l’#Inghilterra tenne rivolto lo sguardo, e coi dotti e le società scientifiche inglesi coltivò corrispondenze.
Di libri inglesi, scarsissimi allora in Italia, era assai ben provvista la sua libreria, e dall’inglese egli traduceva in italiano o in latino le notizie scientifiche, in specie quelle che la Società reale di Londra gl’inviava sulle esperienze che essa veniva compiendo. Il segretario di quella società, il Waller, gli richiese tra l’altro, nel 1712, una informazione - continua e precisa Croce - sull’eruzione del #Vesuvio allora accaduta, e poi ancora sull’epidemia del bestiame che impersava in Italia, e le sue memorie su tali argomenti furono lette in quell’adunanza, presente e presidente il Newton. Così stimato era quei dotti - continua ancora Croce - che più volte gli fu offerta (narra un biografo) da milordi e signori inglesi un luogo in quella Regia società: onore che egli, modesto com’era, rifiutò” [...]" (cfr. Federico La Sala, "IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO. CROCE IN INGHILTERRA E SHAFTESBURY IN ITALIA").
NOTE:
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b) ANTONIO GENOVESI.
IL "CORPO MISTICO" (IL MOTTO DEI MOSCHETTIERI: "UNO PER TUTTI, TUTTI PER UNO"), L’ANTROPOLOGIA-POLITICA E LA COSTITUZIONE (L’ISOLA DEL "CONTE DI MONTECRISTO").
"ORIENTARSI NEL PENSIERO" (#KANT2024). Una "vecchia" nota in memoria di Alexandre Dumas, e, delle 21 "Moschettrici" (le Donne, le "Madri della Costituzione" della Repubblica Italiana):
NOTE:
IL CAFFE’ DEL GIORNO E LA "MOKA": UN OMAGGIO AI "TRE MOSCHETTIERI", AL CAPOLAVORO DI ALEXANDRE DUMAS, E ALLO STORICO SUCCESSO DELLA "MOKETTIERA" (CAFFETTIERA) ITALIANA (Bialetti).
"Les Trois Mousquetaires" (A. Dumas):
A) «"I tre moschettieri" è in verità la storia del quarto» (Umberto Eco);
B) «Non credete ai denigratori. "I tre moschettieri" emana un vero profumo storico: non meno di "Guerra e Pace"; un #profumo che Dumas ricava con #astuzia e #grazia dalle memorie, dalle lettere e dai romanzi del primo #Seicento.» (Pietro Citati);
C) «Il romanzo "I tre moschettieri" è una serie ininterrotta di vendette, dal principio alla fine. C’è una vendetta ad ogni pagina. Ogni tanto, una esaltazione tutta esplicita della vendetta, definita qualche volta come "le plaisir des dieux", il piacere degli Dei.» (Beniamino Placido).
CAFFETTIERA: MOKA. "[...] #Etimologia. L’origine del nome dell’apparecchio risiede nel nome della città portuale di #Mokha, nello #Yemen, da dove partivano per l’Occidente le navi cariche di caffè: questo paese è da secoli infatti una delle prime e più rinomate zone di produzione di caffè, in particolare della pregiata qualità arabica. Di questa qualità speciale si trova testimonianza nel capolavoro di #Voltaire, #Candido, quando il protagonista, in viaggio nell’allora Impero ottomano, viene ricevuto da un ospite che, tra le altre cose, gli offre una bevanda preparata «con caffè di Moca non mescolato con il cattivo caffè di Batavia e delle Antille». In #Spagna è nota come cafetera de rosca, cafetera de fuego o italiana, in #Portogallo e #Brasile la si conosce come #cafeteira italiana o cafeteira de rosca [...]" (https://it.wikipedia.org/wiki/Moka).
Nota:
UNA #STORIA DI #LUNGADURATA E, FORSE, DI UN PROSSIMO "ARROSSIMENTO GENERALE" : IL "#SIDEREUSNUNCIUS" (#GALILEOGALILEI, 1610), L’#ITALIA E IL SUO GRANDE #PROVINCIALISMO NELLO STORICO PRESENTE DEL "#VILLAGGIO #GLOBALE" (2024).
CULTURA E SOCIETÀ, #OGGI: "SÀPERE AUDE!" (Koenigsberg, 1784; Kaliningrad, 2024).
ANTROPOLOGIA, #STORIOGRAFIA, E #CRITICA DELLA #FACOLTÀ DI #GIUDIZIO (#KANT2024). CONSIDERANDO che il "villaggio globale" dell’attuale storico presente (#Nicea 325-2025) è molto prossimo (epocalitticamente) alla "#pace #perpetua" (#Kant2024), è sperabile che in giro emergano molte tracce di rimorso dell’incoscienza passata (e presente) e che "lo spirito critico" sia in Italia sia in Europa riprenda il suo cammino.
Nota:
TEATRO METATEATRO E "COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (S. FREUD):
LA SCOPERTA DEL "MARCIO IN DANIMARCA" (IN EUROPA), LA "STORIA" DEL "RE LEONE", E LA PROFETICA "VITTORIA" DEL #FORTEBRACCIO DI #SHAKESPEARE ("HAMLET", V.2).
"QUANDO IL GATTO NON C’E’, I TOPI BALLANO". Per orientarsi nel pensiero e nell’analisi dell’opera di Shakespeare (#Hamlet), forse, è utile rileggere la "storia" del #pifferaio di #Hamelin (Der #Rattenfänger von #Hameln, letteralmente "l’ accalappiatore di ratti di Hameln").... e ripensare in parallelo la pericolosa "condizione" di #Amleto, #Principe #Figlio (in relazione alla #Regina-madre, #Gertrude, e all’avvelenatore "Re-padre", #Claudio), e ... la "condizione" di Simba, il principe-figlio di Mufasa, il "Re Leone", sotto il governo dello zio assassino, diventato re, il leone Skar, alleato con le iene, e sposo della leonessa, regina-madre: una situazione molto simile all’assalto dei Proci a Itaca, al regno di Penelope e Ulisse e Telemaco dell’ #Odissea...
SUL TEMA, PER APPROFONDIMENTO, SI CFR.:
L’ITALIA AL BIVIO: VICO E LA STORIA DEI LEMURI (LEMURUM FABULA), OGGI. Un invito alla (ri)lettura della "Scienza Nuova" - di Federico La Sala
IL PUTTANESIMO. "Potrai facilmente, o Leggitore, intendere la bellezza di questa divina Dipintura dall’orrore, che certamente dee farti la bruttezza di quest’altra, ch’ora ti dò a vedere tutta contraria".
fls
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, "RELIGIONE DEL DOVERE", E "DIVINA COMMEDIA":
BENEDETTO CROCE E LA PUNTA FILOSOFICA DI UN ICEBERG COSMOTEANDRICO.
Sul "lascito morale di Benedetto Croce", forse, è opportuno ricordare storiograficamente (filologicamente e antropologicamente) che "la lingua batte dove il dente duole": può essere condivisibile, oggi, la considerazione che “ciò che si richiede e che si ubbidisca ad una necessità morale. La quale comanda che si attenda con ogni rischio, a tutelare gli umani valori e le umane virtù, il rispetto della personalità, il dir no al male e sì al bene, ciò che si chiama insomma il culto della libertà; la quale è il principio direttivo a cui sempre deve si deve far ricorso. Quale che sia lo schema di ciò verso cui il mondo va, quello schema sarà riempito da uomini e sarà reale solo nei pensieri, nei sentimenti e negli atti degli uomini, e avrà quella realtà che essi gli daranno, e tanto migliore quanto migliori quegli uomini. Non vi date dunque pensiero di dove vada il mondo, ma dove bisogna che andiate voi, per non calpestare cinicamente la vostra coscienza, per non vergognarvi di voi stessi” (cfr. Tito Lucrezio Rizzo, "Il lascito morale di Benedetto Croce", L’Opinione delle Libertà, 08 febbraio 2024)?!
All’interno dell’attuale presente storico (dell’Europa del 2024), proprio per non vergognarsi di sé e ri-accogliere come indicazione antropologica piena l’affermazione che «L’uomo morale - affermerà nuovamente il #Croce - è il "Vir bonus agendi peritus", chiamato ad operare nel quotidiano sorretto da una retta #coscienza che ne ispirava l’agire concreto, perseguendo i fini di utilità generale da raggiungere e di cui farsi strumento» (T. L. Rizzo, cit.), non è , forse, necessario re-interrogarsi e re-interpretare il rapporto tra la tradizione greco-romana e la tradizione cristiana (con spirito critico, con le famose "virgolette" crociane, del saggio del 1942), proprio a partire da questa "ovvia" (ma indebita) generalizzazione, in cui l’uomo (#Vir) vale immediatamente come l’Uomo (#Homo), come il #genereumano nella sua totalità (cioè, per l’#uomo e per la #donna, per "Adamo ed Eva", e per "Giuseppe e Maria")?
Non è bene riprendere il filo almeno dalla "Divina Commedia" e reinterrogarsi non solo sul significato della lezione di #Beatrice a #Dante sul senso di quel "sarai meco sanza fine cive / di quella #Roma onde #Cristo è romano" (Purg. XXXII, 101-102), ma anche sul "Tu devi" kantiano, sul problema dell’imperativo categorico di Immanuel Kant, se si vuole vivere secondo Coscienza, cioè secondo la Costituzione della Repubblica italiana?
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA, ARTE, FILOLOGIA, E STORIOGRAFIA.
UNA “SOPRAVVIVENZA” DELLE “DICERIE SACRE” (G. B. MARINO, 1614) IN UN LAVORO IN CRETA DI ANTONO CANOVA (1757-1822). *
RI-LEGGENDO INSIEME LE “DICERIE SACRE” (1614) E IL POEMA “ADONE” (1623) di Giovan Battista Marino E RECUPERANDO (alla luce delle indicazioni date dal “professore con la rosa in mano”) il contesto ideologico del programma umanistico-rinascimentale della “prisca teologia” e della “docta religio”, e, AL CONTEMPO, RIPONENDO ATTENZIONE a un “modello in creta della dea Venere che abbraccia Adone morente”, realizzato da Antonio Canova, forse, non appare ("cum grano salis") ben visibile il filo che lega l’orizzonte storico-culturale di Michelangelo Buonarroti con quello di Giovan Battista Marino, e, infine, gli stessi Carmelitani scalzi di Contursi Terme (Salerno), che affrescano e dedicano (nel 1613) la loro Chiesa della Madonna del Carmine con la figure di 12 Sibille?
Qualche anno più tardi, dopo la morte di ShaKespeare, Cervantes, e Garcilaso El Inca de la Vega nel 1616, prenderà il via la Guerra dei Trentanni e tutti i sogni di una “pace della fede” (Niccolò Cusano, “De pace fidei”, 1453) vanno in fumo.
FILOLOGIA ANTROPOLOGIA, E PSICOANALISI
LA "PIETAS" DELLA TRADIZIONE DI ROMA E LA "CARITAS ROMANA" NELLA STORIA DELL’ARTE E NELLA LETTERATURA.
ALCUNE NOTE SULLA "PRIMA LEGGE DI NATURA"
"CARITAS ROMANA"- In Valerio Massimo (sua è la fonte da cui proviene il racconto, ripreso poi da Giovanni Boccaccio, in "De mulieribus claris", con il titolo "Una Giovanetta Romana"), la figlia allatta la vecchia madre in carcere; nella tradizione artistica diventa invece la figlia che allatta il vecchio padre in carcere.
AMORE (CHARITAS): "COME NASCONO I BAMBINI". Come mai questa sottolineatura rappresentativa della giovane donna che allatta il vecchio padre nell’immaginario culturale europeo che ha quasi cancellata l’altra, quella della figlia che allatta la vecchia madre?! Non è tempo di svegliarsi dal sonno dogmatico (Kant) e avere il coraggio di pensare il "complesso edipico completo" (S. Freud) e imparare ad amare il padre e la madre?:
A) LA PIETAS COME ORIGINE DI TUTTE LE VIRTÙ: "Un pretore consegnò al triumviro una donna di nobile stirpe condannata alla pena capitale presso il suo tribunale affinché fosse uccisa in carcere. Colui che era a capo della custodia, dopo averla presa, mosso da misericordia non la strangolò subito: diede anche il permesso alla figlia di andare da lei, ma diligentemente perquisita affinché non portasse del cibo, ritenendo che sarebbe morta di fame. Poiché trascorsero molti giorni, lui stesso si chiedeva con che cosa mai riuscisse a sostentarsi così a lungo, osservando la figlia con più attenzione si accorse che quella, denudando il petto, placava la fame della madre con l’aiuto del suo latte.
Di uno spettacolo così straordinario quella novità fu portata da lui stesso al triumviro, dal triumviro al pretore, dal pretore al consiglio dei giudici, e procurò alla donna la remissione della pena.
A che punto non arriva o cosa non escogita la #pietas, che scoprì un nuovo sistema per salvare una madre dal carcere? Cosa c’è di tanto inusitato, che cosa di tanto inaudito se non che una madre sia nutrita dal petto di sua figlia? Qualcuno potrebbe ritenere questo fatto contro natura, se amare i genitori non fosse la prima legge di natura." ("Factorum et dictorum memorabilium libri IX", cit. da Laura R. Bevilacqua, "UN PANTHEON PER LE VIRTÙ II 13, I QUADERNI DEL RAMO D’ORO ON-LINE n. 10 , 2018).
B) "LA SCENA PERDUTA" E LA "CARITÀ ROMANA" (ALLA LUCE DELLA PSICOANALISI): "[...] Nell’ultimo romanzo di Abraham B. Yehoshua “La scena perduta”, un anziano regista è invitato ad una retrospettiva dei suoi film, durante la quale gli verrà attribuito un premio. Con sorpresa i film che vengono proiettati sono le sue prime prove cinematografiche e Moses si trova ad assistere alle scene che aveva girato allora, usando come set la casa della propria infanzia: è un ritorno alle origini. [...] La retrospettiva servirà a Moses per ricucire un’antica rottura, la fine della collaborazione con il suo creativo, ispirato, sceneggiatore, colui con cui aveva girato le opere più riuscite della sua carriera. Era successo che, al momento di riprendere la scena finale di un film, frutto della fantasia visionaria dello sceneggiatore, il regista avesse esitato, optando per un’altra conclusione, meno ardita e cruda, tradendo la fiducia nell’intuizione e nelle fonti generose della creatività del collega [...]
la scena ripudiata riprendeva il tema della Caritas Romana, e raffigura la leggenda meravigliosa di Pero e Cimone, messa per iscritto nel primo secolo d.C. da Valerio Massimo nei suoi Factorum et dictorum memorabilium libri IX . Vi si narra di una giovane donna che allatta il vecchio padre.
Da Guido Reni a Caravaggio, a Rubens, a Murillo, la storia è stata rappresentata poi da innumerevoli pittori: l’impatto dei dipinti si rivela più forte di quello del #racconto e ogni artista ha cercato di presentare la propria versione. Perfino a #Pompei è riemerso un affresco con questo motivo; a #Budapest esiste una statua in cui la donna che allatta il vecchio sorregge un bambino già sazio, col dito in bocca, quasi pronto per addormentarsi. Nel 1606 #Caravaggio riuscì ad inserire la scena, così scandalosa nella sua carnalità, nella Pala d’altare della chiesa del Pio Monte della #Misericordia di #Napoli, sublimando la sua sensualità nella cornice delle opere di misericordia corporale, “dar da mangiare agli affamati e “visitare i carcerati”.
Allo psicoanalista la “retrospettiva” di Yehoshua evoca subito il termine freudiano di Nachträglickheit, che indica il lavoro psichico che torna a ritroso sul passato, per farlo rivivere in una rinnovata significazione affettiva, ricostruendo ogni volta, insieme al soggetto anche l’oggetto di desiderio. E’ quella ciclica e indispensabile modalità del soggetto di accostarsi alle proprie origini, alle fonti di sé, nel corso delle varie tappe della vita.
La storia di Pero, che col suo latte salva Cimone, incatenato e condannato a morire di fame, può rappresentare una delle diverse e inaspettate forme del ripresentarsi della configurazione edipica e del generoso dono d’amore, Caritas -Agape, all’origine dell’esistenza psichica. Quanto con l’età sarà simbolizzato e acquisterà limite e regola definendo il soggetto (il carcere e le catene di Edipo) all’inizio era unione carnale con la madre, senza confini definiti. Il quadro sconvolgente, che ci parla anche di realtà che a volte si rendono dolorosamente presenti nella crisi della coppia di oggi, mostra come nella figlia riviva la madre, nel vecchio il bambino che era stato.
Nel 1920 la psicoanalista Lou Andreas Salomé, a completamento del concetto di narcisismo primario, ci teneva a ricordare a Freud il valore dell’originario materno e gli proponeva: “Allo stato primario è presente un’identità tra mondo e Io, dove non esistono ricordi”, identità che nell’esperienza di godimento ripresenta “quel non-esser-ancora-Io, quell’esser-tu-e-Io che vigeva all’origine.”
Su questo sentimento di estasi, che Romain Rolland aveva chiamato “sentimento oceanico”, nel 1929 (Il disagio della civiltà) Freud si sarebbe fermato a riflettere, riconoscendo come il senso soggettivo dell’Io sia “soltanto un avvizzito residuo di un sentimento assai più inclusivo, anzi di un sentimento onnicomprensivo che corrispondeva a una comunione quanto mai intima dell’Io con l’ambiente”
Può essere doloroso per l’Io, soprattutto dopo essersi dovuto staccare da un’esperienza così appagante ed aver attraversato con fatica le difficili conquiste che portano alla maturità, alla costituzione dei limiti e della conoscenza, tornare a ripensare all’illimitato e al perturbante rapporto con il femminile originario, per andare nuovamente ad attingere alla fonte della saggezza.
Secondo Luce Irigaray (All’inizio, lei era, 2012), per capire qualcosa del “tra-noi”, sarebbe necessario tornare al mondo e alla filosofia dei presocratici. E’ toccante quello che scrive, e che sembra commentare la scena della Caritas Romana: “All’origine è una lei -natura, donna o Dea- che ispira la verità a un saggio... La totalità del discorso è ancora misteriosamente fondata a partire da lei - natura, donna o Dea - che rimane inaccessibile cosa dalla quale sorgono le parole e alla quale sono rivolte.”
Inoltratosi ormai nella vecchiaia, nel 1935, Freud scriveva a Lou Andreas Salomé: “Quanto buon carattere e umorismo ci vogliono per sopportare l’orribile avanzare dell’età! (...) Il giardino là fuori e i fiori della stanza sono belli, ma la primavera come noi diciamo a Vienna, è una presa in giro. Naturalmente sono sempre affidato alle cure di Anna, proprio come una volta ha osservato Mefistofele (Faust II, 7003): «E si finisce che si dipende dalle creature fatte da noi.»”
*Fonte: cfr. Maria Pierri, “Questo è il posto, questa è l’origine”, SpiWeb, 4 marzo 2014 (ripresa parziale).
SCIENZA NUOVA: NUOVO ANNO ACCADEMICO E NUOVO RETTORE ALL’UNIVERSITÀ DI MACERATA. UN OMAGGIO A John McCourt - in ricordo dell’omaggio di James Joyce a Giambattista Vico...
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UNIMC: ORTO DEI PENSATORI E CORTILE DELLA FILOSOFIA. *
Chiarissimo John McCourt, augural-mente, per ben iniziare i lavori e meglio illuminare il cammino nella nuova #direzione, ripensando al profondo legame di James Joyce con Giambattista Vico (vissuto per quasi dieci anni in Lucania, oggi Cilento), forse, non è male ricordare di considerare la particolare rilevanza per il "Dip. di Scienze della formazione, dei beni culturali e del turismo", dell’antica città di Elea - Velia /Ascea), invitare a rileggere il "Poema" di Parmenide e a ripercorrere la strada che portava sull’acropoli, al tempio della Dea Giustizia (Dike): come si sa, la via non passa e non è mai passata attraverso la cosiddetta "Porta Rosa", ma attraverso il ponte, il viadotto che passa appunto sopra la cosiddetta "Porta Rosa" (https://it.wikipedia.org/wiki/Porta_Rosa). Contrariamente a quanto pensava Platone (e hanno pensato nei secoli i suoi "nipotini"), il #Logos della città di Parmenide, non il Logo del padrone di una #caverna, era ed è il fondamento stesso del dialogo, «l’unico ponte tra le persone» (Albert Camus). Moltissimi auguri. Buon inizio...
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ARCHEOLOGIA, PSICOANALISI, E PLATONISMO PER IL POPOLO: "COME NASCONO I BAMBINI". Osare mettere il dito nella "piaga" e interrogarsi sulla storia del nome della "Porta Rosa" (https://it.wikipedia.org/wiki/Porta_Rosa#Storia->). A mio parere, la "cosa" è carica di teoria e qui è opportuno (per capire) ricollegarsi a Freud e andare oltre Lacan: è una questione di immaginario e di una "logica" più che bimillenaria e ... di "fretta". L’Archeologo, probabilmente troppo eccitato dalla scoperta, ha voluto rendere omaggio alla propria compagna, alla luce della propria e generale tragica tradizionale concezione della donna (un vicolo cieco in cui mettere il proprio seme e far fiorire la pianta), senza fare i conti con le spine della Dea Giustizia (Dike) e la Costituzione (il Logos) materiale e spirituale della stessa città di Elea (come della Repubblica Italiana): "Il dialogo è l’unico ponte tra le persone" (Albert Camus)!
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QUESTIONE ANTROPOLOGICA: L’ITALIA, LA CHIESA CATTOLICA, I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!! E CHE COSA SIGNIFICA ESSERE CITTADINI E CITTADINE D’ITALIA!!!
Federico La Sala
L’alba di tutto, ovvero: non siamo mai stati stupidi
di Lorenzo Velotti (Sinistrainrete. 11 marzo 2022)
Un giorno d’ottobre 2018, in una Londra decisamente già troppo invernale, entravo nervoso in una classe stracolma. Anche ai lati, per terra, gli spazi scarseggiavano. Riuscii a sedermi per terra, quasi sotto un banco. Il professore, David Graeber, che vedevo in quel momento per la prima volta, era impegnato a scrivere sulla lavagna: “Rousseau; Hobbes; De Lahontan; Kandiaronk...”. Si girò e ci rassicurò: avrebbe chiesto all’amministrazione una classe più grande. Poi cominciò la lezione, con un po’ di studenti costretti a seguire da fuori, sbirciando dalla porta aperta. Fu la prima lezione del corso “Antropologia e Storia Globale”, che si tenne solo quell’anno e del quale gran parte dei contenuti erano relativi al libro che, ci rivelò, stava scrivendo con l’archeologo David Wengrow. Il corso si interrogava sulla relazione tra antropologia e storia, e culminava con le domande: “In che modo la storia è consapevolmente prodotta da chi ne partecipa? Secondo quali dinamiche la potenziale inquadratura narrativa degli eventi diventa un elemento chiave in politica o, addirittura, l’aspetto decisivo dell’azione politica stessa?”
Ora, queste non sono, almeno esplicitamente, le domande che pone il libro L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità (Rizzoli 2022), che Wengrow e Graeber finirono di scrivere soltanto una settimana prima della prematura morte di quest’ultimo (avvenuta a Venezia nel settembre 2020). Tuttavia, sono domande particolarmente utili da cui partire per cogliere gli aspetti fondamentali di questa ricerca. Infatti, nonostante i sospetti postmoderni nei confronti delle metanarrative, queste ultime sembrano aver costituito, da sempre, un elemento fondamentale nell’intreccio tra storia e azione politica.
Da una parte, scegliere di ignorarne la rilevanza implica quasi sicuramente la loro accettazione. Dall’altra, riconoscerle, spacchettarle, studiarne le basi storiche e le implicazioni politiche, problematizzarle e, così facendo, porre potenzialmente le basi per narrative diverse, è l’ambiziosa e interessante sfida colta da Graeber e Wengrow.
Il punto di partenza è che, nonostante l’illusorio disincanto associato parallelamente al metodo scientifico e alla massimizzazione di utilità e profitti, la società e la sua “scienza sociale” continuano a fondarsi su una serie di miti. I miti, ci dice l’antropologia, si svolgono sempre in un passato indefinito, ma hanno effetti concreti sul mondo presente. Il più delle volte hanno a che fare con un’indagine sulla natura umana.
Ora: vi sarà capitato, in un’accesa discussione politica sull’origine dei problemi attuali, di arrivare al punto in cui da una parte si sosterrà che la natura umana è fondamentalmente egoista e competitiva e, dall’altra, qualcuno dirà che invece è essenzialmente altruista e collaborativa? Tendenzialmente, la prima sarà una posizione difesa da chi si colloca un po’ più a destra, e la seconda da chi si sente un po’ più a sinistra (ma non necessariamente).
Questa dicotomia, in ogni modo, ha un chiaro corrispettivo nella storia delle dottrine politiche e viene ricercata in ciò che viene spesso definito lo “stato di natura”. In questo passato mitico, in cui troviamo esseri umani che altro non hanno che la loro pura umanità, le possibilità sembrano essere due: o gli esseri umani vivevano fondamentalmente la violenza quotidiana del tutti contro tutti (da qui la posizione hobbesiana secondo cui lo stato sarebbe necessario per convivere in pace); o erano invece esseri cooperativi ed egualitari “per natura”, ma la rivoluzione agricola e la conseguente invenzione della proprietà privata hanno rappresentato una caduta dall’Eden (elemento mitico ricorrente) verso l’inevitabile disuguaglianza attuale (Rousseau).
La tesi hobbesiana è di fatto ripresa da gran parte della destra o da pensatori liberali come Steven Pinker. Quella rousseauiana, in realtà dominante, è il sottotesto dei best seller di Francis Fukuyama, Jared Diamond o Yuval Noah Harari. L’agricoltura introduce necessariamente un surplus appropriabile e dunque la proprietà privata. La popolazione aumenta e le società diventano più “complesse”, dove la complessità è praticamente sinonimo di gerarchia. -Un’idea di “scala” tanto diffusa quanto infondata (che gli autori confessano essere, probabilmente, la più difficile da scalfire) crea una corrispondenza tra gerarchie spaziali e sociali, che si materializzano inevitabilmente attraverso la burocrazia e lo stato. Ma, per fortuna, con tutto questo arrivano anche la scrittura, la scienza e l’arte. La civilizzazione è inspacchettabile: o tutto o niente.
I miti, tuttavia, non si fondano primariamente su fatti realmente avvenuti. La storia classica delle dottrine politiche, neppure. Né Hobbes né Rousseau affermano, in alcun modo, che si tratti di fatti (pre-)storici. Si tratta di ipotesi, o esperimenti mentali, che tuttavia hanno finito per diventare miti cosmogonici.
In L’alba di tutto, la conoscenza delle più recenti scoperte archeologiche da parte di David Wengrow, unita alla teoria antropologica e politica di David Graeber, servono a mettere insieme innumerevoli pezzi - di fatto già esistenti nella letteratura specifica delle due discipline - per rivelare l’abisso che le separa dalla metanarrativa mitica. Naturalmente, la messa in discussione della metanarrativa imperante ha delle profondissime implicazioni per quanto riguarda il dibattito politico contemporaneo e il relativo spettro di possibilità alternative. Gli autori sono in grado di presentare un’abbondanza di dati archeologici e antropologici così da mostrare, essenzialmente, una diversa, ben più complessa, storia del mondo. Non solo, sono in grado di farlo in modo estremamente piacevole per chi legge, mantenendo, attraverso le oltre cinquecento pagine che compongono il saggio, una suspense continua.
Non è facile riassumere un tomo di queste dimensioni, ma proverò a delinearne alcuni elementi fondamentali. Il libro inizia problematizzando una domanda piuttosto comune, da cui gli autori stessi raccontano di essere partiti: “Quali sono le origini della disuguaglianza sociale”? Il problema, rilevano però gli autori, sta nella domanda stessa, giacché si presta con estrema facilità a una risposta di natura mitica. Il concetto di eguaglianza, peraltro, è relativamente recente: nel medioevo, i termini “uguaglianza” e “disuguaglianza” erano tutt’altro che comuni.
Verso la fine del diciassettesimo secolo, raccontano gli autori, l’incontro tra coloni europei e indigeni americani (e in particolare la critica politica elaborata dai secondi nei confronti dei primi) ha prodotto un notevole fermento di idee riguardo al concetto di libertà. Gli americani, infatti, erano particolarmente scossi dall’assenza di libertà che rilevavano presso gli europei.
In particolare, i protagonisti di questo capitolo sono: Kandiaronk, noto leader politico e diplomatico nordamericano (che visitò l’Europa), e il Baron de Lahontan, grazie ai cui scritti conosciamo il pensiero di Kandiaronk. Non è l’unico incontro rilevante, ma sicuramente il principale. In breve, le idee nordamericane di libertà, nell’incontro con la realtà europea, cominciano a scontrarsi con determinate nozioni di proprietà, l’abilità di trasformare la ricchezza in potere, e dunque l’“uguaglianza”. In Europa, acquisiscono una tale rilevanza che qualcuno comincia a sentire la necessità di rispondere e giustificare le condizioni sociali europee: è qui che Turgot elabora la nozione stessa di “progresso”, fatto di stadi di sviluppo che, pur creando inevitabilmente la povertà di alcuni, hanno fatto avanzare la società “complessa” nella sua interezza. L’idea non dispiacque a Adam Smith, che la riprese. In questo quadro, Rousseau non fece altro che una sintesi intelligente tra le due posizioni di cui si discuteva animatamente nella Francia di quei tempi, e la sua sintesi divenne, in qualche modo, il documento fondante del progetto intellettuale della sinistra dominante fino a oggi (chiamata appunto: “sinistra progressista”).
Tornando alla domanda sulle “origini”: il progetto di Graeber e Wengrow è quello di confutare la tesi che ci sia una netta separazione tra uno stato di natura composto da selvaggi egualitari (o di caos e violenza) e un successivo, unidirezionale, monolitico processo di civilizzazione che ci ha portato sin qui. -La preistoria, per esempio, è un periodo di circa tre milioni di anni che viene spesso appiattito in frasi quali: “l’uomo preistorico era così”; “le società preistoriche erano organizzate cosà”; e così via. Esiste un tacito pregiudizio nei confronti dei “primitivi” quali esseri del tutto incapaci di riflessioni consapevoli, ed è infatti comune - per esempio nel caso di Harari, fanno notare gli autori - considerarli più simili alle scimmie che agli esseri umani. Da qui il determinismo di chi sostiene che il “modo di sussistenza” è l’unica variabile in grado di spiegare quanto un popolo fosse più o meno gerarchico: le condizioni ecologiche non sono prese come alcune delle variabili in gioco ma come la variabile determinante.
Gli autori argomentano che nel periodo corrispondente all’era glaciale le forme sociali non erano “congelate”, bensì costantemente trasformate in base a molteplici fattori, a volte anche stagionalmente.
Da qui la domanda che ricorrerà più e più volte tra le pagine del libro: piuttosto che interrogarci sulle origini della disuguaglianza, chiediamoci: com’è possibile che gli esseri umani sono stati in grado di fare e disfare gerarchie costantemente, e ora non sembrano esserlo più? Come si è persa quell’autoconsapevolezza politica? Come si è finiti a credere che ci sia una sola modalità possibile? Che cosa si è inceppato?
Da un certo punto di vista, il problema è la proprietà: gli autori analizzano dunque diverse concezioni di proprietà (nella storia e nell’antropologia) per dimostrare che anche la proprietà non ha, di per sé, un’origine definita: in un certo senso, esiste da sempre. La domanda da porsi è, piuttosto, come sia arrivata a definire così tanti altri aspetti dell’esistenza umana. La riflessione viene dunque portata ai processi di schismogenesi culturale (e di rifiuto creativo) avvenuti nella costa occidentale del continente nordamericano, in relazione alla schiavitù, alla cura, e ai modi di produzione.
Chi legge è dunque trasportato da un continente all’altro per problematizzare l’idea che la “rivoluzione agricola” sia un concetto effettivamente utile. La domesticazione di pianti e animali, secondo l’archeologia più recente, ha cominciato a verificarsi in una ventina di posti diversi nel mondo, in un processo durato almeno 3000 anni, senza implicare necessariamente delle enclosures, e peraltro spesso alternata o parallela alla caccia e ai raccolti, o addirittura adottata per certi periodi, abbandonata e poi ripresa. Peraltro, sottolineano gli autori, la prima agricoltura ha avuto a che fare con un’organizzazione sociale più egualitaria, e non il contrario; il tutto, sostengono Graeber e Wengrow, in un contesto di scelte politiche consapevoli.
Un altro viaggio nel tempo e in diversi continenti avviene per demolire, servendosi di recenti scoperte archeologiche, la narrativa convenzionale e teleologica che riguarda l’avvento delle città. Anche qui, l’associazione tra urbanizzazione e gerarchizzazione delle relazioni risulta riflettere più dei preconcetti che non sulle prove fornite dall’archeologia. Tra le vicende più interessanti ci sono quelle che compongono la storia sociale mesoamericana, composta da repubbliche urbane e da democrazie indigene (come l’incredibile storia di Tlaxcaca).
Segue una brillante argomentazione sulle origini dello stato; o meglio: sul perché lo stato non avrebbe “un’origine”. Si tratta anche qui di un concetto recente (risalente alla fine del sedicesimo secolo), nei confronti del quale gli autori mostrano che qualsivoglia definizione si decida di adottare, si trovano innumerevoli esempi di forme di organizzazione sociale storica in grado di smentire, rendere inadeguata, o sfidare il senso di qualsivoglia particolare descrizione contemporanea di stato.
Siamo invitati dunque a lasciar perdere gli stati-nazione attuali come categorie di cui proiettare l’immagine su società passate, per ricercare invece direttamente nella storia l’esistenza o meno di quelle che gli autori identificano come le tre forme di dominazione fondamentali: il controllo della violenza (alla base della sovranità), il controllo dell’informazione (alla base della burocrazia), e il carisma individuale (alla base della politica competitiva, ossia della “democrazia” liberale). Questi tre principi, a seconda dell’esempio storico prescelto, possono essere ipotizzati in un ordine temporale diverso, ma l’assunto teleologico criticato dagli autori è che, fondamentalmente, si dia per scontato che il risultato è e debba essere necessariamente l’unione definitiva di questi tre principi. Gli autori, attraverso una lunga analisi delle varie combinazioni possibili di tali principi che si ritrovano nella storia, dimostrano che gli attuali stati nazione sono solo una delle innumerevoli organizzazioni possibili dei vari elementi, che hanno origini proprie e assai diversificate. Così facendo, riescono a liberare il concetto di “civilizzazione” da quello di “stato”, riscoprendone il significato di “estesa comunità morale”, peraltro in gran parte fondata sul lavoro e le innovazioni delle donne (al contrario del luogo comune che lega la civilizzazione allo stato-nazione patriarcale e ai monumenti).
Infine, una volta concluso quest’avvincente viaggio attraverso la storia dell’umanità, il libro torna a mettere in luce la trappola dell’evoluzionismo, nonché ciò che ci può offrire uno sguardo nuovo nei confronti delle popolazioni nordamericane, a partire dal loro stesso pensiero politico, che sembra aver avuto un ruolo fondamentale nel dare forma alle idee più emancipatorie dell’illuminismo.
L’emancipazione e la libertà sono senza dubbio i concetti chiave del libro. Gli autori non si riferiscono alla libertà in senso astratto, o liberale, ma identificano, a partire dalla loro ricerca, tre forme concrete di libertà sociali che hanno avuto enorme peso in passato e che, nella configurazione attuale, sembrerebbe che abbiamo perso. Queste sono (1) la libertà di andarsene o trasferirsi altrove; (2) la libertà di ignorare o disobbedire gli ordini; (3) la libertà di dare forma a nuove realtà sociali, o di alternarne più d’una. Le prime due emergono come sostegno fondamentale della terza in innumerevoli casi.
Ed è proprio questa terza libertà, e la consapevolezza politica su cui si fonda, a destabilizzare le basi delle nostre concezioni mitiche. Incrociando i dati gli autori scoperchiano un’abbondanza di elementi controintuitivi: piccoli gruppi di cacciatori e raccoglitori estremamente gerarchici da una parte, grandi città egualitarie che praticavano l’agricoltura dall’altra, ma anche società che cambiavano organizzazione sociale a seconda delle stagioni, o regioni che vivevano lunghi periodi di libertà, seguiti da secoli gerarchici poi ribaltati da ribellioni che innescavano interi periodi di pratiche consapevolmente anti-autoritarie, o infine il fatto che tanto la schiavitù quanto la guerra stessa siano state abolite più volte, in luoghi diversi, lungo tutto il corso della storia dell’umanità.
Tra i fattori in grado di materializzare queste forme concrete di libertà ricorre quello del gioco (in particolare associato a riti, feste e carnevali), presentato come costante elemento di sperimentazione sociale o, lo definiscono gli autori, come un’enciclopedia delle possibilità sociali. Non è un caso che Graeber abbia definito altrove il giocare come la massima espressione della libertà. Ma anche alle origini dei regni, racconta il libro, c’erano forme giocose, così come si possono identificare agli inizi dell’agricoltura. Non è un caso, credo, che gli autori scrivano di aver iniziato a fare ricerca per questo libro, circa dieci anni fa, al margine delle loro principali preoccupazioni accademiche, come forma di gioco: anche il libro stesso è, in un certo senso, un’enciclopedia delle possibilità sociali.
La pubblicazione di The Dawn of Everything: A New History of Humanity (Allen Lane, 2021), nel mondo anglofono, ha avuto una certa risonanza. Immediatamente un best seller del New York Times, nonché libro dell’anno del “Sunday Times”, dell’“Observer” e di “BBC History”, è stato elogiato da innumerevoli intellettuali. Mi limito a tradurre le belle parole di James Scott: “L’Alba di Tutto merita di diventare il porto di imbarco per quasi tutti i successivi lavori su questi temi così significativi. Chi si imbarcherà avrà, nei due David, navigatori impareggiabili”. Indubbio, quest’opera non è stata e non potrà essere ignorata. È altrettanto vero, com’è ovvio, che ha suscitato reazioni di tutti i tipi. Tra le recensioni entusiaste ci sono quelle di “The Atlantic”, il “Guardian”, il “New York Times” - che si chiede “E se tutto quello che abbiamo imparato sulla storia umana fosse sbagliato?” - e “Jacobin”, dove Giulio Ongaro paragona il libro alle opere di Galileo e Darwin.
Tra le recensioni critiche: sulla “New York Review of Books” il filosofo Kwame Anthony Appiah contesta, in modo molto dettagliato, le fonti storiche e archeologiche utilizzate (e da qui emerge un interessante scambio a partire dalle risposte di Wengrow); l’antropologo Chris Knight scrive che il libro sbaglia quasi su tutto; lo storico David A. Bell lo valuta trascurato e pieno di errori anche sul sito di “Domani”; mentre troviamo un’interessante e bilanciata recensione su “Micromega”, dove Graeber e Wengrow vengono tuttavia accusati di volontarismo. Certamente, come ha scritto lo stesso Wengrow, il libro è tutto fuorché la parola definitiva sulla storia dell’umanità (se così fosse sarebbe tutt’altro che emancipatorio) e c’è da augurarsi un ampio spettro di ricerche che investighi più a fondo le questioni poste.
Concludo da dove ho iniziato. Quando Graeber, ai margini del corso, ci parlava del libro, raccontava divertito del titolo provvisorio che aveva in mente: “Non siamo mai stati stupidi”, in una sorta di ribaltamento del “non siamo mai stati moderni” di Latour. A me, forse, piaceva di più, e ci diceva che il “selvaggio” non era né nobile né stupido. In altre parole, è come noi tanto cognitivamente quanto intellettualmente, e non esiste un’“infanzia degli esseri umani” dove gli umani più umani di noi mostrano la vera natura umana. La vera natura umana, probabilmente, non è altro che la singolare capacità di negoziare costantemente tra le infinite alternative possibili.
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA E FILOLOGIA.
LA SCOMPARSA DELLA "FANCIULLA STRANIERA" (F. Schiller, 1796) E DELL’AMORE (K. Marx, 1844) E IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ (S. Freud, 1929: "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità [...]").
Una nota a margine di una memoria dell’antica commedia greca ...
"HOMO HOMINI LUPUS" (Freud, 1929). Formidabile questa riflessione di Andreas Katsouris sulla frase di Menandro! A ben riflettere sulle parole (e, in particolare, sul legame tra la "grazia" ("charis") del χαρίεν ("charien") e "l’anthropos), si dovrebbe tentare di capire su come e quando è stata persa la memoria delle Grazie (greco: Χάριτες - Charites) ed è stata persa anche la traccia di ogni umanità e l’orizzonte culturale dell’Europa (e del Pianeta Terra) è diventato sempre più cosmoteandrico, edipicamente, con la stessa connivenza della filosofia, della filologia, e della psicoanalisi!
CRITICA DELLA VIOLENZA: J.-J. ROUSSEAU, K. MARX, W. BENJAMIN. Una prima traccia della "caduta" è nell’atto logico-storico ("primordiale", che prima di essere materiale è linguistico) della recinzione: "Il primo che, dopo aver recintato un terreno, pensò di dire questo è mio, e trovò altri tanto ingenui da credergli, fu il fondatore della società civile"("Discorso sull’origine della disuguaglianza", 1754"); la seconda è nella denuncia marxiana (nella "Sacra Famiglia") dell’inversione soggetto-predicato (il problema della mele, delle pere, e delle fragole... del Mentitore) e della "fanciulla straniera e la civetta hegeliana" (cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 190-197)"!
A quando il sorgere della Terra?
COSMOTEANDRIA E SONNO DOGMATICO: SCHOPENHAUER E IL MACROANTROPO, IL CORPO MISTICO DEL MONDO.
Storia della filosofia
Le considerazioni di Schopenhauer sulla sua filosofia
di Saverio Mariani (Ritiri Filosofici, 20 Febbraio 2022)
In quella che abbiamo definito (almeno in parte) un’opera a sé stante di Arthur Schopenhauer, il filosofo tedesco si pone nella posizione di commentare il suo contributo filosofico in relazione alla storia della filosofia nella quale sente di ricoprire un posto. Nei Supplementi a «Il Mondo come volontà e rappresentazione» infatti, Schopenhauer è franco, diretto, in alcuni passaggi appare “scocciato” da un certo ambiente filosofico. Ci sono ampi passi dell’opera nei quali entra in un dialogo nient’affatto morbido con la filosofia del suo tempo. -L’ultimo capitolo dei Supplementi, il cinquantesimo, è sintomatico essenzialmente di due cose: dell’enorme contrasto che Schopenhauer ha vissuto con l’ambiente filosofico tedesco e del rapporto ambivalente con Spinoza [1]. Entrambe queste cose, a ritroso potremmo dire, ci permettono di capire ancora meglio quanto nelle pagine precedenti l’autore ha trattato con dovizia e una acutezza importante. In queste poche pagine l’autore condensa alcune coordinate fondamentali per apprezzare lo sforzo immane che nel Mondo e poi nei Supplementi egli ha compiuto.
Filosofia immanente ed esperienza
In apertura del capitolo Schopenhauer dice esplicitamente che, prima di chiudere, c’è ancora qualche considerazione sulla sua filosofia che si può svolgere. Ancora una volta, per i motivi che abbiamo già indagato, egli rivendica l’aderenza «ai dati di fatto dell’esperienza esteriore e interiore» (Schopenhauer 2013, 817), quasi a rimarcare la solidità delle premesse di tutto il suo ragionamento. Ciò che è fuori dell’esperienza non è oggetto della filosofia: la filosofia per questo è immanente, ovvero si occupa di ciò che è all’interno della sfera dell’esperienza («nel senso kantiano del termine», scrive).
Tuttavia, persistono delle domande che non possono non essere prese in considerazione; domande che però evadono il campo dell’esperienza e quindi si pongono su un livello diverso rispetto alla filosofia immanente di cui Schopenhauer si fa promotore. Sono le stesse questioni che Kant riconosceva come oggetto della metafisica, alle quali quindi il Principio di ragione - che per l’autore è «l’espressione della forma più generale e costante del nostro intelletto» (Schopenhauer 2013, 818) - non può rispondere. È il tentativo di applicare il Pdr a elementi esterni all’esperienza che ci porta a sbattere contro problemi senza soluzione, «contro le pareti del nostro carcere». L’imperscrutabilità di queste domande, si badi bene, è assoluta, non relativa: in nessun luogo e in nessun tempo si potrà dare, per mezzo dell’intelletto umano, una risposta a tali questioni. Questa zona insondabile non rientra nella forma della conoscenza, e per dare conto di ciò Schopenhauer si affida alle parole di Scoto Eriugena nel De divisione naturae: «Della meravigliosa divina ignoranza, per la quale Dio non capisce che cosa Egli stesso sia» (Schopenhauer 2013, 819).
Quello che sfugge è dunque l’essenza delle cose, una essenza che non è «conoscente, non è intelletto, bensì un’essenza priva di conoscenza», di essa se ne può avere una comprensione parziale, non «esauriente e capace di soddisfare ogni esigenza». Ma questo, conclude Schopenhauer, «concerne i limiti della mia e di ogni filosofia» (Schopenhauer 2013, 819-820).
L’unità
Fatte tutte queste premesse, Schopenhauer compie un passo in avanti. Scrive infatti che l’unità e unicità dell’essenza delle cose è qualcosa di già concepito da tempo: «gli Eleati, Scoto Eriugena, Giordano Bruno e Spinoza lo avevano ampiamente insegnato e Schelling aveva rinfrescato questa dottrina» (Schopenhauer 2013, 820). Il che cosa sia questa unità (Uno) e come si manifesti nella molteplicità (ovvero come si compia il processo di rarefazione da Uno a Molti), sono questioni «la cui soluzione si trova per la prima volta nella mia filosofia».
La svolta si ha grazie a un rovesciamento del punto di vista e al contempo del principio su cui si incardina la comprensione del mondo: non è l’uomo ad essere un microcosmo, piuttosto è il mondo ad essere un «macroantropo». Il mondo si comprende a partire dall’uomo, da ciò che è immediato (l’autocoscienza), per poi passare a quel che è mediato, ovvero all’intuizione esterna.
Il metodo analitico che Schopenhauer rivendica - installato nel quadro ineluttabile dell’esperienza - apre una nuova visuale filosofica nella quale i dati immediati della coscienza, come li chiamerà Bergson qualche anno dopo, ci mostrano la rete di rapporti e il tessuto che ci tiene connessi l’uno all’altro: la volontà.
Se questa posizione può sembrare affine a quella della filosofia panteista, Schopenhauer prende subito le distanza mostrando come esistano sì dei punti di contatto ma anche dei decisivi punti di distanza. Innanzitutto il metodo di conoscenza, ma anche la ricomprensione del male e delle storture del mondo nella “perfezione” di Dio o della Natura. Inoltre, scrive Schopenhauer «per i panteisti il mondo dell’intuizione, ossia il mondo come rappresentazione, è appunto una manifestazione intenzionale del Dio che abita in esso, ma questo non include alcuna spiegazione autentica del suo prodursi» (Schopenhauer 2013, 821-822).
Spinoza
Le riflessioni generali sui panteisti non sono che i prodromi del confronto che Schopenhauer sente di dover avere con Spinoza, e con il quale chiuderà la sua opera.
Dopo la critica kantiana, sostiene Schopenhauer, «i filosofanti tedeschi si sono nuovamente gettati quasi tutti su Spinoza», costruendo di fatto una filosofia post-kantiana che «altro non è che spinozismo agghindato senza gusto, avviluppato in discorsi incomprensibili d’ogni sorta e in vario modo deformato» (Schopenhauer 2013, 822). Il giudizio è sferzante, netto, inequivocabile e pienamente nello stile schopenhaueriano.
Il rapporto che c’è fra Spinoza e Schopenhauer, dice quest’ultimo, è quello che intercorre fra il Vecchio e il Nuovo Testamento: per entrambi «il mondo esiste per sua forza interiore e da se stesso». Ma se Spinoza si è limitato a spersonalizzare Jehova, il Dio-Creatore del Vecchio Testamento, la Volontà schopenhaueriana - «intima essenza del mondo» - è Gesù crocefisso, o il ladrone crocefisso al suo fianco. In Spinoza, infatti secondo Schopenhauer, il Deus è una perfezione di cui rallegrarsi, un’unità dalla quale nulla fuoriesce e tutto è divino. «Quello di Spinoza è ottimismo» (Schopenhauer 2013, 823); ottimismo a cui Schopenhauer guarda con sospetto, poiché tanto il neo-spinozismo, quanto ogni altra dottrina che riconduce l’esistenza del mondo a una qualche necessità assoluta, tanto le dottrine di chi crede che il mondo sia il frutto della creazione benevola di un Dio, ci pongono nell’alveo del fatalismo.
Schopenhauer sostiene di essere il primo ad aver liberato la filosofia da questo vincolo, perché «l’atto di volontà dal quale scaturisce il mondo è il nostro. È un atto libero, giacché il principio di ragione, dal quale solamente ogni necessità riceve il proprio significato, è la mera forma della sua manifestazione fenomenica» (Schopenhauer 2013, 824). E per questo nel momento in cui essa esiste si dipana secondo necessità. Il piano della rappresentazione, dunque, governato dal Principio di ragione ci mostra come necessario qualcosa che è invece, naturalmente, libero. La nostra libertà - conclude Schopenhauer - sta nell’arretrare alle spalle della rappresentazione, immergersi nella «costituzione di quell’atto di volontà e conseguentemente eventualiter volere altrimenti». In altre parole, risiede in quello “spazio” pre-umano che pone le condizioni del nostro mondo come rappresentazione.
Su quest’ultimo punto, per quanto Schopenhauer scriva, Spinoza risuona forte insieme a una piccola schiera di filosofi per cui la molteplicità è il mondo e la porta di accesso alla sfera comune entro la quale tutti ci ritroviamo a bagno sentendoci finalmente liberi.
Note:
[1] Su un altro rapporto ambivalente nei confronti di Spinoza ho provato a dare conto in: Bergson duplice. Spinoza nemico-amico della filosofia della durata, in Lo sguardo n. 26-2018 (I): http://www.losguardo.net/it/bergson-duplice-spinoza-nemico-amico-della-filosofia-della-durata/
Bibliografia:
Schopenhauer 2013: A. Schopenhauer, Supplementi a «Il mondo come volontà e rappresentazione», trad. Giorgio Brianese, Einaudi, 2013
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
SPINOZA, UN "FIGLIO" DEL "DEUS", NON UN "FIGLIO" DEL "LUPUS" (A FIANCO DI KANT, NON DI HEGEL).
Federico La Sala
Questioni teoretiche
Cantiere Spinoza
di Maurizio Morini (Ritiri Filosofici, 16 Gennaio 2022)
Così come per qualsiasi altra occupazione, anche in filosofia sono necessari strumenti adeguati per fare bene il proprio lavoro, tali soprattutto da superare le difficoltà che presto o tardi sempre si dovranno affrontare. In questo senso uno dei suoi strumenti principali è il concetto di definizione, stabilire il quale non è neutrale ed implica delle conseguenze decisive. Chi delle definizioni ha fatto l’essenza del proprio filosofare è stato Spinoza il quale ha costruito l’intero suo edificio proprio grazie al metodo geometrico. Molti però, tra gli stessi filosofi, ne hanno dichiarato l’inutilità o addirittura l’artificiosità. Adorno nelle sue lezioni confessava che, di fronte alle definizioni del filosofo olandese, si trovava «del tutto disorientato, come la mucca di fronte alla porta nuova». Il filosofo della Dialettica dell’Illuminismo finiva poi per dichiarare che in filosofia ci sono dei concetti che non sono passibili di definizione con la conseguenza che la sua ricerca era inutile. Adorno si rifaceva esplicitamente a Kant il quale aveva sostenuto a sua volta una ben precisa critica della definizione così come utilizzata in filosofia. Solo al termine delle sue lezioni, guardando ai risultati della filosofia contemporanea, Adorno (in maniera onesta) sembra spezzare una lancia a favore della definizione e addirittura ritirare la propria tesi.
La definizione in Aristotele e in Kant
Da un punto di vista etimologico, la parola definizione è composta dalla preposizione de e dal nome finis: discorso sul limite. La definizione quindi indica i confini entro i quali è racchiusa l’essenza o il concetto di qualche cosa. Essa pertanto deve cogliere gli aspetti comuni o differenziali di una certa cosa: in altre parole, la definizione si intende secondo il genere e la differenza specifica. Questa impostazione risale ad Aristotele il quale affermava che c’è definizione solo quando il termine significa qualcosa di primario, ovvero quando si parla di cose che non possono essere predicate di altre. Il genere è il primo elemento della definizione (dove per genere si intende il complesso di caratteri di un certo tipo riuniti sotto un certo nome); la differenza specifica invece, ciò invece che caratterizza la cosa che si intende definire rispetto a tutte le altre.
Kant, nella Dottrina trascendentale del metodo, assume un’altra prospettiva, per comprendere la quale è necessario distinguere due usi della ragione: il primo riguarda l’uso della ragione in base a concetti; il secondo l’uso della ragione in base alla costruzione di concetti. Al primo uso viene dato il nome di filosofia; al secondo il nome di matematica. In quest’ultima i concetti sono già determinati a priori dall’intuizione pura, senza che via sia necessario alcun dato empirico; la filosofia invece non può prescindere dall’esperienza in quanto essa sta a fondamento dei concetti. Posto ciò, Kant conclude che la fondatezza della matematica poggia su definizioni, assiomi e dimostrazioni, nei confronti dei quali la filosofia deve fare a meno («come il geometra, usando il suo metodo nella filosofia, non può costruire che castelli in aria, così il filosofo, applicando il proprio nella matematica, non dia luogo che a chiacchiere»). Kant sostiene che in filosofia la definizione non può essere utilizzata proprio perché i concetti empirici, più che essere definiti, andrebbero resi espliciti, chiariti, dichiarati (tutti termini che in tedesco fanno riferimento al termine Aufkärung). Sono fuori strada quindi tutti coloro che utilizzano termini come sostanza, causa, diritto: in altre parole una vera e propria stroncatura della filosofia di Spinoza.
La definizione in Spinoza
Cosa diceva Spinoza in merito? «Se si deve conoscere una cosa attraverso la definizione costituita da genere e differenza - scrive nel Breve Trattato - non possiamo mai perfettamente conoscere il genere supremo, che non ha alcun genere sopra di sé» (KV, I, 9). Piuttosto, bisogna seguire la vera logica, ovvero la divisione della natura in natura naturans e natura naturata.
Ma è in una corrispondenza epistolare, quella intrattenuta con un giovane mercante di Amsterdam, Simone De Vries, che Spinoza chiarisce meglio il suo pensiero. Chiesto su che cosa dovesse intendersi per definizione, egli rispondeva che bisogna distinguere la definizione della cosa in senso reale, in quanto fuori dall’intelletto, e la definizione della cosa in quanto è concepita in senso nominale. Alla prima si chiede di essere vera in quanto ha un oggetto determinato; la seconda si propone invece al solo scopo di ricerca. In altre parole: il primo genere di definizione deve essere necessariamente vero in quanto, se io ad esempio voglio definire l’essenza del tempio di Salomone, devo stabilire una descrizione esatta della cosa (altrimenti si ha una cattiva definizione). Il secondo tipo di definizione implica invece che si esplichi la sua progettualità, non importa che essa sia vera o no: in questo caso la definizione o si concepisce oppure non si concepisce. Chiariamo con un esempio: un conto che io debba definire l’orologio a parete che ho di fronte a me; un’altra è che io debba definire un orologio a parete che devo ancora costruire, in cui ciò che importa è che la sua costruzione non sia autocontraddittoria, tale cioè da renderlo inservibile allo scopo.
Il problema, insiste Spinoza, consiste nel fatto che la definizione tradizionale (quella aristotelica, che distingue genere e differenza specifica) riposa essenzialmente sull’esperienza, la quale però «non ci dà alcuna essenza delle cose», sicché noi dell’esperienza non abbiamo mai bisogno per la definizione. Infatti - si potrebbe dire - come si potrebbe definire una cosa soggetta al continuo divenire? Lo potremmo fare solo fingendo, per esigenze legate a questioni pratiche, come quello di intendersi su ciò di cui si sta discutendo. La prospettiva dunque sembra avvicinarsi a quella kantiana per poi però allontanarsi in modo radicale: se il tedesco sosteneva che l’esperienza è l’unico campo della filosofia (e per questo rinunciava alla definizione), l’olandese sosteneva che, proprio perchè l’esperienza non era l’unico campo della filosofia, la definizione era essenziale.
Un sistema aperto non una cattedrale di ghiaccio
Se il dialogo tra Spinoza e il suo giovane amico non può essere considerato un dialogo tra sordi, non si può non riconoscere però che i due parlano linguaggi diversi. Da esso si ricavano alcune impressioni (vedi le lettere 8, 9 e 10 dell’epistolario), soprattutto in merito all’oggetto della loro discussione, cioè le proposizioni dell’Etica.
La prima è che l’intero dialogo sulla definizione (tema piuttosto acceso nel circolo spinoziano, come ammette De Vries) è fondato sull’intelletto come strumento per accedere alla verità: cosa che oggi è talmente lontana dalla nostra sensibilità filosofica che facciamo difficoltà a seguirlo e a comprenderlo pienamente.
La seconda impressione è che, contro la retorica del “cristallo” e della “cattedrale di ghiaccio”, il sistema di Spinoza (riassunto nell’Etica) si rivela essere un cantiere aperto in cui, oltre alla scelta dei materiali, rimane determinante la capacità di costruire dei costruttori.
Questo conduce ad una terza domanda (da cui nasce l’impressione): le definizioni dell’Etica sono definizioni reali oppure definizioni nominali? Qui l’impressione è che Spinoza mescoli le carte, alternando le une alle altre senza un indice preordinato e dove la risposta sembra lasciata all’intelligenza del lettore, il quale è invitato a prendere parte alla costruzione. Diceva Wolfson che «l’Etica non è una comunicazione al mondo; è la comunicazione di Spinoza con se stesso». Questo non significa che le sue definizioni siano lasciate al relativismo delle interpretazioni o peggio al solipsismo. Tutt’altro: ciò significa che ogni definizione impegna il lettore nella forza del ragionamento, perché solo questo può mostrare la verità o la falsità di un asserto. Nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto Spinoza scrive: «ho dimostrato e ancora tendo a dimostrare il buon ragionamento, ragionando bene».
NOTA: SPINOZA, UN FIGLIO DEL "DEUS", NON UN FIGLIO DEL "LUPUS" (A FIANCO DI KANT, NON DI HEGEL).
CANTIERE SPINOZA. ETICA, MATEMATICA, E CRITICA DELLA DIALETTICA...
Se è vero, come è vero, che l’Etica di Spinoza è “un sistema aperto non una cattedrale di ghiaccio” e che è necessario sciogliere l’enigma se “le definizioni dell’Etica sono definizioni reali oppure definizioni nominali” (M. Morini, "Cantiere Spinoza", Ritiri Filosofici, 16.01.2022), non si può ricadere nella stesso passo falso dell’analisi del “Discorso del Re” (M. Morini), e portare l’acqua al mulino non di “Amleto” (Shakespeare), ma a quello di Hobbes!
Una interpretazioni riduttiva della “Critica della Ragion pura” e della concezione kantiana della “definizione”, dalla sez. della “Dottrina trascendentale del metodo”, riconduce direttamente e di nuovo il discorso sotto il “principio di Hobbes” (e nell’orizzonte di Hegel e di T. W. Adorno), nell’orizzonte del “Leviatano” (e, al contempo, della dialettica di Hegel e della “dialettica dell’illuminismo” di Adorno), “secondo cui le azioni del sovrano non possono mai essere accusate di ingiustizia dai sudditi e il sovrano non può né essere messo a morte né essere punito dai suoi sudditi” (M. Morini, “ [1]”, Ritiri Filosofici, 02.01.2022).
“HOMO HOMINI LUPUS EST”?! Pur condividendo l’impressione “che Spinoza mescoli le carte, alternando le une alle altre senza un indice preordinato e dove la risposta sembra lasciata all’intelligenza del lettore, il quale è invitato a prendere parte alla costruzione” (M. Morini, cit.), è assolutamente non condisibile una conclusione dell’analisi accogliendo la dichiarazione del “Figlio del Lupo” (“Wolf-son”) e dire davvero con Wolfson che «l’Etica non è una comunicazione al mondo; è la comunicazione di Spinoza con se stesso»! E’ posssibile asservire la “filosofia” (nel senso di Kant) di Spinoza al calcolo e alla matematica di Platone, di Cartesio, di Hobbes, ed Hegel, e dire che questo “significa che ogni definizione impegna il lettore nella forza del ragionamento, perché solo questo può mostrare la verità o la falsità di un asserto” (M. Morini, cit.)?!
Non è il caso di riprendere il discorso dalla figura del “capo”, dal “discorso del re”, e rimeditare la “filosofia” e la “matematica” di Kant?! Se no, come è possibile distinguere tra “essere e non essere”, definire, ragionare e, al contempo, decidere sul “che fare?”, qui ed ora?! Non è meglio uscire dall’inferno della “fenomenologia dello spirito” di Hegel e, con Dante e Virgilio, uscire dalla caverna (Inf. XXXIV, v. 90) e ammirare il “cielo stellato” di Koenigsberg?
La piccola Neve, in Liguria la più antica sepoltura di una neonata
di Osvaldo Baldacci *
L’hanno chiamata Neve. È stata scoperta in Liguria la più antica sepoltura di una neonata in Europa risalente a 10.000 anni fa: si tratta di un’eccezionale testimonianza del Mesolitico e rivela una società di cacciatori-raccoglitori che teneva in particolare considerazione anche i suoi membri più giovani. Il ritrovamento è avvenuto nel sito dell’Arma Veirana, in provincia di Savona ed è oggi pubblicato su “Scientific Reports”, rivista del gruppo “Nature”.
I ritrovamenti e la più antica sepoltura di una neonata
Scavando in una grotta del comune di Erli, nell’entroterra di Albenga, un team internazionale di ricercatori ha scoperto la più antica sepoltura fino ad oggi mai documentata in Europa relativa a una neonata mesolitica. Le attività di scavo e di ricerca sono state condotte in regime di concessione da parte del Ministero dei Beni Culturali, per conto della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Imperia e Savona, rilasciata al professor Fabio Negrino, in quanto coordinatore e responsabile scientifico del progetto.
Un antichissimo rito funebre per la sepoltura di una neonata
La scoperta permette di indagare un eccezionale rito funerario della prima fase del Mesolitico, di cui sono note poche sepolture, che testimonia un trattamento apparentemente egualitario di un loro giovanissimo membro. La comprensione di come i nostri antenati trattassero i loro morti ha un enorme significato culturale e consente di indagare sia i loro aspetti comportamentali sia quelli ideologici.
Esiste una buona documentazione di sepolture riferibili alla fase media del Paleolitico superiore (Gravettiano), nonché alle sue fasi terminali (Epigravettiano recente). Non frequenti sono le sepolture riferibili al Mesolitico e particolarmente rare, per tutte le epoche considerate, quelle attribuibili a soggetti infantili. La scoperta di Neve è quindi di eccezionale importanza e ci aiuterà a colmare questa lacuna, gettando luce sull’antica struttura sociale e sul comportamento funerario e rituale di questi nostri antenati.
Lo studio delle gemme dentarie
L’istologia virtuale delle gemme dentarie della neonata, realizzata presso il laboratorio di luce di sincrotrone Elettra a Trieste, ha stabilito la sua età di morte, avvenuta 40-50 giorni dopo la nascita; ha inoltre evidenziato come la madre di Neve avesse subito alcuni stress fisiologici, forse alimentari, che hanno interrotto la crescita dei denti del feto 47 e 28 giorni prima del parto. L’analisi del carbonio e dell’azoto, sempre estratto dalle gemme dentarie, ha inoltre evidenziato che la madre si nutriva seguendo una dieta a base di prodotti derivanti da risorse terrestri (come ad esempio animali cacciati), e non marine (come la pesca o la raccolta di molluschi).
Gli ornamenti
La sepoltura ha restituito, insieme ai resti del piccolo corpo, un corredo formato da oltre 60 perline in conchiglie forate (Columbella rustica), quattro ciondoli, sempre forati, ricavati da frammenti di bivalvi (Glycimeris glycimeris) e un artiglio di gufo reale. Lo studio degli ornamenti, costituiti da conchiglie cucite su di un abitino o un fagotto in pelle, ha evidenziato la particolare cura che era stata investita nella loro produzione; inoltre, diversi ornamenti mostrano un’usura che testimonia come fossero stati prima indossati per lungo tempo dai membri del gruppo e che solo successivamente fossero poi stati impiegati per adornare la veste della neonata. Neve testimonia dunque che anche le femmine più giovani erano riconosciute come persone a pieno titolo in queste antiche società.
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AL DI LA’ DELL’ORIZZONTE DI "PERICLE IL POPULISTA" E DI PLATONE...
PER NON CADERE (di nuovo e ancora, dopo millenni) NELLA TRAPPOLA DELLA TRACOTANZA E DELLA MALAFEDE DI "PERICLE", E NON DIMENTICARE CHE LA SUA LINEA POLITICA SEGNA L’INIZIO DELLA FINE DELLA GLORIA E DEL PROGETTO POLITICO DI ATENE, forse, è opportuno - ricordando la messa al bando di Omero e dei "poeti" dalla "Repubblica" di Platone - riprendere e rivedere (non solo i lavori di Eric A. Havelock, ma anche) la brillante analisi del cosiddetto "Elogio di Atene" da parte di Umberto Eco nella sua nota sul "Pericle il populista" di ieri e di oggi (la Repubblica, 14 gennaio 2012):
e, al contempo, volendo, rimeditare la storica lezione di Giambattista Vico sulla questione "Omero" e riflettere sulla sua proposta di una "Scienza Nuova", al di là dell’imbalsamazione crociana.
Federico La Sala
Un esistere oltre noi stessi
di Valeria Cesaroni (BombaCarta, 1 Febbraio 2021)
Cosa succede quando si riduce la dimensione dell’esperienza a quella dell’esperimento? Ci si mette al sicuro, in primo luogo. Al riparo dalle perdite, dalle contaminazioni, dai rischi, dalle cadute, dalle ferite e dalla casualità che invece contraddistinguono la vita vera, agita, rispetto ad una vita immaginata o vissuta a distanza di sicurezza. A prima vista può sembrare che con questa mossa si possa vincere tutto senza perdere nulla, e invece il prezzo che si paga può essere più consistente del rischio che si voleva evitare. Nel saggio Elogio dell’amore. Intervista con Nicolas Truong, il filosofo Alain Badiou sostiene che il concetto di amore attualmente in vigore nella nostra società sia contraddistinto da una connotazione securitaria: come l’idea della “guerra a morte zero” dei conflitti della nostra epoca, così l’amore è oggi pensato e proposto come un esperimento più che come esperienza, come un evento cioè reversibile, privo di rischi, calcolabile, ripetibile e seriale, in cui tutto è, proprio come in un laboratorio, perfettamente sotto controllo. Prova ne sarebbero gli slogan di alcune agenzie pubblicitarie per siti di incontri che promettono “l’amore senza l’innamoramento”, o “l’amore privo di rischi” ovvero senza quella caduta che la lingua inglese conserva perfettamente nell’espressione “to fall in love”.
Ciò che accomuna tanto l’amore securitario con l’idea della guerra a rischio zero è secondo Badiou la concezione per la quale viene eliminata la componente dell’esperienza, la quale è caratterizzata invece da un rischio intrinseco. Ciò che la visione securitaria dell’amore cerca di dimostrare è che il rischio che il soggetto corre nell’esperienza (in questo esempio dell’amore) sia inutile, anziché essere il rischio stesso l’elemento attraverso cui l’esperienza in quanto tale si dà.
Se l’amore è una caduta, in primis al di là di noi stessi, che infligge una ferita al nostro solipsismo e ci costringe ad un’apertura all’altro, e in quanto tale dunque è uno scossone violento e dirompente per la nostra singolarità; è però anche in questa lacerazione, in questo donarsi alla contingenza della vita e dell’altro, che l’Io ritrova un senso di sé e del mondo più profondo e più ampio rispetto al mero vissuto monadico-individuale.
Nel romanzo di Emily Brontë Cime tempestose, Catherine esprime così il suo sentimento per Heathcliff:
L’amore provato da Catherine è innanzitutto esperito come una perdita dei confini del proprio Io: ella perde, nell’amore, il senso di sé come autoriferimento per approdare ad un senso di sé che ha un riferimento invece nell’altro, in questo caso nell’altro amato. Attraverso questa dinamica di perdita e di ferita alla propria individualità, Catherine riesce non solo a trovare sé nell’altro, ma acquisisce anche un nuovo e diverso sguardo sul mondo, uno sguardo a partire dal due, anzichè dall’uno. L’esperienza amorosa permette cioè, per dirla ancora con Badiou:
Ma cosa significa pensare l’amore come un’esperienza personale di una universalità possibile? La dinamica amorosa ci mostra come il processo di realizzazione dell’Io sia una dinamica tra un perdere e un ritrovare, mostra il nesso indissolubile tra una ferita ad un Io autofondato e la possibilità di costruzione di un Noi. Questa dinamica, lungi dall’essere prerogativa esclusiva dell’esperienza amorosa, è alla radice della possibilità di formazione stessa della nostra soggettività e del rapporto tra individuo e comunità.
Secondo Hegel, filosofo che fa dell’esperienza della perdita e del ritrovare il leitmotiv della sua filosofia, la formazione stessa della soggettività avviene attraverso una dinamica complessa che si gioca tra la consapevolezza del nesso tra indipendenza e dipendenza che abbiamo rispetto agli altri, tra perdita del riferimento a sé e conquista del riferimento a sé attraverso l’altro. Nella Fenomenologia dello Spirito l’autocoscienza, per divenire reale, comprende che deve superare l’autoriferimento, “l’immota tautologia dell’Io = Io” per rivolgersi ad un’altra autocoscienza, dalla quale soltanto può scaturire il riconoscimento di sé come autocoscienza vera e reale.
L’Io cioè non può prodursi da solo, non può costitutivamente essere bastevole a se stesso. Così l’autonomia, l’indipendenza e l’autoriferimento si dileguano come illusioni. L’Io riesce a essere reale quando, per dirla con Kojève:
Ed è in questa dimensione di smarrimento di se stessa che l’autocoscienza si ritrova in un’essenza diversa, nella quale riconosce se stessa solo attraverso il riconoscimento dell’altro:
La dialettica dell’Io come alterità porta Hegel a porre nel cuore stesso della soggettività l’esperienza di lacerazione della propria autoreferenzialità ed indipendenza, dischiudendo così la possibilità di arrivare ad una dimensione che ci permetta di realizzare “un Io che è un Noi ed un Noi che è un Io”.
Questa dinamica, lungi dall’essere una irenica visione dei rapporti tra soggetti, in cui l’antagonismo scompare e si assicura la relazione e la differenza, è in realtà una storia di fallimenti, di battute di arresto, di cadute e di scontri: il servo e il signore infatti, figure idealtipiche della Fenomenologia hegeliana, mostrano il fallimento del riconoscimento; e l’amore provato da Catherine si rivela essere una forza distruttrice e mortifera, piuttosto che conciliante e pacifica.
D’altronde, è proprio questo che caratterizza la maturazione di un’esperienza: solo confrontandosi con situazioni “non a rischio zero” si può accedere ad una dimensione di reale formazione ed apertura rispetto ai propri limiti e barriere.
Lasciamo le brughiere inglesi di Cime tempestose e il panorama filosofico tedesco per immergerci nella realtà ateniese del V secolo, in cui questo “esistere oltre noi stessi” di cui abbiamo parlato è al centro della costruzione della collettività: nel famoso Epitaffio di Pericle, quello che doveva essere un discorso di commemorazione funebre in onore dei soldati caduti nella difesa della pòlis contro i Persiani, diviene invece un vero e proprio elogio di Atene e del suo progetto politico più innovativo: la democrazia. La democrazia ateniese non viene elogiata però in quanto mera architettonica politica, ma come quel progetto collettivo che in quanto tale riesce a dare un significato inedito alla morte:
Non più dunque l’aedo che canta le sorti dell’eroe, singolo e solitario, donandogli così l’immortalità, ma il progetto politico collettivo garantisce l’esistere oltre la propria individualità, inaugurando un pericoloso gioco di equilibrio di valorizzazione tra l’esistenza individuale e quella collettiva che sarà caratteristico delle costruzioni politiche antiche e non.
Al culmine del suo discorso Pericle, invita l’uditorio, composto quindi da coloro che hanno perso qualcuno durante le guerre persiane, ad amare, non però i loro cari, ma ciò che dei loro cari sopravvive: la città.
Nota:
PER UNA "SCIENZA NUOVA" DELL’AMORE E DELLA POLITICA...
PER NON CADERE (di nuovo e ancora, dopo millenni) NELLA TRAPPOLA DELLA TRACOTANZA E DELLA MALAFEDE DI PERICLE ("Non abbiamo bisogno di alcun Omero che canti la nostra gloria"), E NON DIMENTICARE CHE LA SUA LINEA POLITICA SEGNA L’INIZIO DELLA FINE DELLA GLORIA E DEL "PROGETTO POLITICO" DI ATENE, forse, è opportuno riconsiderare il valore delle riflessioni di Umberto Eco su "Pericle il populista" (del 2012): "Il discorso di Pericle (riportato da Tucidide, in Guerra del Peloponneso) è stato inteso nei secoli come un elogio della democrazia, e in prima istanza è una descrizione superba di come una nazione possa vivere garantendo la felicità dei propri concittadini, lo scambio delle idee, la libera deliberazione delle leggi, il rispetto delle arti e dell’educazione, la tensione verso l’uguaglianza. Ma che dice in realtà Pericle?" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP//forum.php3?id_article=3554&id_forum=702397) e al contempo, volendo, ripensare la storica lezione di Giambattista Vico sulla questione "Omero" e sulla "Scienza Nuova" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5634). O no?
Federico La Sala
Filosofia
Il senso dell’italica sapienza
Giambattista Vico. Ristampata un’opera molto complessa, nella quale il filosofo elabora definitivamente due concetti centrali nel suo pensiero: quello di forza e quello di azione
di Michele Ciliberto (Il Sole-24 Ore, 28.12.2020)
Sono molti, negli ultimi decenni, gli studi e le ricerche sulla figura e sull’opera di Giambattista Vico grazie, in primo luogo, al Lessico Intellettuale Europeo, specialmente nel periodo in cui fu diretto da Tullio Gregory, e al Centro di studi vichiani. È stata ora pubblicata una delle opere più complesse di Vico, il De antiquissima Italorum sapientia, ad opera di Vincenzo Placella, che aggiunge, opportunamente, al testo vichiano la trascrizione critica degli articoli del «Giornale de’ letterati d’Italia» in cui le posizioni del filosofo erano state contestate e le risposte con le quali il «Signor Giambattista Vico» replica alle «oppositioni» fatte «contra il primo libro De antiquissima italorum sapientia» con due specifiche «risposte», entrambe assai importanti.
Il De antiquissima esce nel 1710. Esso, come è noto, avrebbe dovuto essere costituito da tre parti: una sulla metafisica, una sulla fisica, una sulla morale. Uscì soltanto il primo libro, il Liber metaphysicus, che ha avuto notevole fortuna nella critica vichiana - da Croce a Nicolini, da Pagliaro a Badaloni, da Paolo Rossi a Battistini (per limitarsi ai «classici»).
Antica filosofia italica
È interessante a rileggerla, ancora oggi, la tesi di Badaloni secondo cui, nel De antiquissima, il richiamo all’antica filosofia italica ha «carattere di finzione»: si tratterebbe «di una specie di gergo, entro cui la cultura napoletana capiva perfettamente le allusioni ed i colpi polemici, che in Vico del resto, sono del tutto scoperti». Dal punto di vista filosofico l’importanza del De antiquissima non sarebbe dunque nel richiamo all’antica filosofia italica, ma nella definitiva elaborazione di due concetti diventati centrali per Vico: il concetto di forza che traduce in termini fisici il concetto di spiritus; il concetto di azione, «quale risposta umana al richiamo che la forza in quanto conatus esercita sull’uomo».
Paolo Rossi ha utilizzato il De antiquissima, le due Risposte e l’Autobiografia per delineare «il ritratto di uno zenonista da giovane», sottolineando, con grande originalità, come Vico abbia avuto «una qualche conoscenza dello Zenonismo storico», delle cui posizioni dà anche conto, ma usandole in modo vario e libero nell’ambito della sua riflessione.
Sia Badaloni che Rossi sono stati tra i più insigni studiosi di Vico nella seconda metà del Novecento, e perciò si sono citati: per sottolineare l’incidenza e l’importanza del De antiquissima nella critica degli ultimi decenni. In effetti si tratta di un testo straordinario per la ricchezza di motivi che esibisce: la concezione di un’antica sapienza italica; la critica, fondamentale, del cogito e dei limiti di Cartesio, congiunta - come sostiene con buone ragioni Biagio de Giovanni - a un’altra visione del «moderno» rispetto a quella incentrata sul primato della «ragione scientifica»; il motivo del verum-factum; la distinzione tra intelligentia divina e cogitatio umana; le certezze della matematica e della geometria; il conatus; lo sperimentalismo...
Il libro è dedicato - ed è un altro elemento da rimarcare - a Paolo Mattia Doria, di cui è rivendicata l’originalità del pensiero politico: egli ha formato «il Principe immune da ogni cattiva arte di regno con cui C. Tacito e Nicolò Machiavelli istruirono il loro».
Platone nel Cratilo
Il metodo che Vico segue, distanziandosi dai grammatici, è quello di Platone nel Cratilo: «ricavare l’antichissima sapienza degli Italiani dalle origini della lingua latina». Infatti è con questo metodo che Platone «si sforzò di attingere la primitiva sapienza dei Greci».
Centrale, come si è detto - e vale la pena di ribadirlo, perché è un principio destinato a grandi sviluppi - è nel De antiquissima la riflessione sul principio del verum-factum, i quali in latino «sono in rapporto di reciprocità, o, come si suol dire nelle Scuole, “sono convertibili”». In altre parole: «il criterio e la regola del vero è proprio l’averlo fatto», ed è a questa luce che si può stabilire la distinzione tra uomo e Dio. Vico lo fa con una similitudine: «il vero divino è un’immagine solida delle cose, quasi un’opera d’arte plastica, mentre il vero umano è un pallido abbozzo, ovvero una immagine piana, come una sagoma. E al modo in cui il vero divino è quello che dio nel mentre conosce ordina e produce, così il vero umano, secondo gli antichi filosofi d’Italia, è qualcosa che l’uomo, nel mentre la conosce, compone e fa».
Rendendosi conto della limitatezza della sua mente, l’uomo si è forgiato, tramite l’astrazione, due elementi: il punto e l’uno. «E in questo modo s’è costruito un mondo di forme e di numeri tale da poterlo abbracciare per intero all’interno di se stesso; e prolungando o accorciando o mettendo insieme linee, addizionando, sottraendo o comunque calcolando numeri, compie infinite opere, in quanto conosce, all’interno di se stesso, infiniti veri».
Nella matematica dunque il vero si identifica col fare, e l’uomo - concentrandosi sul «dentro» - è capace di raggiungere il vero. I «veri umani» vanno commisurati sulla «norma del vero divino»: essi «sono quelli di cui noi stessi ci formiamo gli elementi, possiamo contenerli dentro di noi e portarli all’infinito tramite i postulati e, nel mettere insieme tali elementi, siamo in grado di fare i veri che conosciamo tramite quel mettere insieme e, in forza di tutto ciò, di possedere il genere, ovverosia la forma secondo cui facciamo».
Come scrisse Badaloni, la differenza del De antiquissima con il De ratione sta in questo: lì il verum-factum era un principio limitativo, qui è «l’umano criterio di verità».
Nell’Autobiografia Vico descrive in due belle pagine il lavoro fatto nel De antiquissima e lo svolgimento ulteriore del suo pensiero: «il Vico, con la lezione del più ingegnoso e dotto che vero trattato di Bacone da Verulamio De sapientia veterum, si destò a ricercarne più in là i principi che nelle favole de’ poeti, muovendolo a far ciò lauttorità di Platone, ch’era andato nel Cratilo ad investigargli dentro le origini della lingua greca», cominciandogli a dispiacere - dice, riferendosi a se stesso - «le etimologie de’ grammatici»; ma quel «dispiacimento» - così continua poco dopo - «era un indizio di ciò onde poi, nell’opere ultime, ritruovò le origini delle lingue tratte [...] da un principio di natura comune a tutte, sopra il quale stabilisce i principi di un’etimologico universale da dar l’origini a tutte le lingue morte e viventi».
Il De antiquissima è dunque citato e, al tempo stesso, «superato». Sono pochi gli autori che hanno saputo periodizzare con la stessa lucidità lo svolgimento del proprio pensiero.
Accademie siciliane: un confronto col Settecento
di Pietro Simone Canale ( L’Identità di Clio, 14 Dicembre 2020)
Spirito nuovo e diverso coraggio
Tre secoli sembrano tanti.
Il Settecento, dopo avere scavalcato quel limite immaginifico del terzo millennio, può sembrare anacronistico e superato. Eppure, l’Europa ha un debito profondo verso quel secolo. In esso ha radici, di esso possiede impronta, ne custodisce geni e germi.
A contraddistinguere il Settecento è la «rivoluzione delle idee», ossia quel radicale cambiamento del paradigma fondato su diseguaglianza, rassegnazione e agricoltura. Una rivoluzione che pone le basi per il mondo industriale e l’ordine liberal-democratico, basati su ragione, libertà, tolleranza e felicità (vedi E. Felice, Storia economica della felicità, Bologna, Il Mulino, 2017, pp. 194-196).
È l’Illuminismo, che non è sempre sinonimo di Settecento, ma che ne è però espressione, sintesi, essenza. Ad essere generoso con il secolo dei Lumi è infatti il Seicento, dal quale ha acquisito le forti spinte della Rivoluzione scientifica. L’idea tutta baconiana che la conoscenza debba guardare alla tecnica e al miglioramento della condizione umana si innesta in quel pensiero nuovo dei philosophes del diritto alla felicità. Un diritto, o un’aspirazione, che è tutt’oggi punto di riferimento identitario per l’Europa.
In questo articolo non si scrive però un’apologia, poiché sarebbe bene ricordare anche gli aspetti più bui del XVIII secolo: le numerose guerre, come quelle di successione nella prima metà, o quella dei Sette Anni, considerata la prima vera guerra mondiale, il commercio degli schiavi, il razzismo scientifico, il Terrore giacobino.
Ciò non toglie tuttavia importanza alle conquiste, alcune anche solo di ordine mentale, di questo secolo: la fiducia nella ragione, la critica allo schiavismo, il rifiuto della tortura, l’affermazione del pensiero laico e dello «spirito pubblico». Tutto ciò si incarnava in «una élite culturale e informata e sottratta all’influenza della gerarchia ecclesiastica, pronta a recepire e a contrastare l’influenza del potere politico» (P. Viola, L’Europa moderna. Storia di un’identità, Torino, Einaudi, 2004, pp. 193-194).
Si fa presto a pensare a Parigi, ma la verità è che bisogna parlare di una «Repubblica internazionale delle lettere», già fiorita nel Cinquecento, ma che nel Settecento è comunità corposa, vivacissima e sostenuta da fitti scambi epistolari, pubblicazioni di opuscoli e di periodici, istituzioni di società, circoli e accademie che sorgono copiose tra la capitale della Francia, Londra, Napoli, Firenze, Amsterdam, Pietroburgo, Copenaghen, Edimburgo, Berlino, Milano, Vienna, Padova, Palermo.
Nulla è vera novità, ma tutto ha uno spirito nuovo e un diverso coraggio. Se si pensa alle accademie, molte erano già sorte ben prima: l’Accademia della Crusca di Firenze nel 1583, l’Accademia dei Lincei di Roma nel 1603, mentre la celeberrima Royal Society londinese, della quale furono membri Robert Boyle, Michael Faraday, John Locke, Isaac Newton, Leibniz, Alessandro Volta e Albert Einstein (solo per citarne alcuni), nel 1660.
Tuttavia, nel Settecento nascono numerose le accademie, che si presentano come luoghi di decisivo rinnovamento dei contenuti culturali e dei modelli tradizionali di sociabilità. Da esse passano i nuovi temi della cultura europea e il «senso nuovo della utilità della scienza» (M. Verga, Da letterato a professore della Regia Università. Le accademie a Palermo nel XVIII secolo, Palermo, Palermo University Press, 2019, p. 9). Si manifesta anche un interesse nuovo e scientifico per l’agricoltura, le produzioni, le macchine e le nuove tecnologie e si dà ampio spazio alla riflessione economica e politica.
Le accademie del Settecento si pongono anche in aperta critica al sapere tradizionale e statico delle università. Non è un caso che in questo secolo, mentre si assiste al loro proliferare, si manifesti contestualmente una spinta innovatrice nei confronti del settore dell’istruzione per liberarlo dal monopolio gesuitico, per ampliarne l’utenza e per introdurvi più attuali discipline (come la fisica e la chimica) e adeguare i sistemi educativi alle nuove istanze della politica, dell’industria e della società.
Il XVIII è anche il secolo delle accademie siciliane. Lo storico fiumano Michele Maylender, nella sua Storia delle accademie d’Italia, ne indica almeno 170 per l’isola tra il Cinquecento e il Novecento, molte delle quali sorte proprio nel Settecento. La maggior parte dei grandi centri della Sicilia ne ospita qualcuna: accademie sorgono a Palermo, Catania, Messina, Siracusa, Caltagirone, Gangi, Castelbuono, Nicosia. Ciò testimonia una vivace, ma a volte poco nota, vita intellettuale dell’isola.
Il Settecento siciliano è, quindi, marcato da importanti elaborazioni culturali e da alcune incisive mutazioni sociali ed economiche. Esso, riprendendo le parole di Renda, «presenta nella sostanza le medesime caratteristiche del Settecento napoletano e del Settecento in altre regioni italiane, e in modo più o meno definibile ripete le tendenze di fondo del Settecento europeo» (F. Renda, Società e politica nella Sicilia del Settecento, in La Sicilia nel Settecento. Atti del Convegno di studi tenuto a Messina nei giorni 2-4 ottobre 1981, Messina, Università degli studi di Messina-Facoltà di lettere e filosofia - Centro di studi umanistici, 1986, v. 1, p. 11). Per questo motivo, l’isola è progressivamente coinvolta in trasformazioni che fanno eco alle grandi rivoluzioni e alle vive e feconde correnti di pensiero del tempo. I cambiamenti mettono radici profonde e durature in Sicilia, ne condizionano il suo sviluppo e creano la consapevolezza di essere parte di un processo di rinnovamento culturale europeo. Proliferano, quindi, le fondazioni di nuovi istituti, le sottoscrizioni ai periodici italiani ed europei, l’edizione di riviste locali, la pubblicazione di opuscoli, orazioni e conversazioni.
Le città si animano di incontri, scambi e dibattiti culturali. Nell’isola si introducono le colonie dell’Arcadia romana e della Accademia fiorentina della Colombaria, a testimonianza degli intensi rapporti tra Palermo e Firenze. Allo stesso modo nascono la celebre Accademia palermitana del Buon Gusto (1718), istituita nel palazzo di Pietro Filangieri, Principe di Santa Flavia, l’Accademia degli Ereini (1730), sotto la protezione del Principe di Resuttano, ma anche quella dei Pericolanti di Messina (1727), degli Aretusei a Siracusa (1735) e degli Etnei a Catania (1672). A metà del Settecento è istituita pure l’Accademia degli Agricoltori Oretei di Palermo (1753), la quale si interessa prevalentemente dei problemi dell’agricoltura, delle produzioni e delle tecniche agricole.
Un impulso notevole è dato dall’attività di raccolta di documenti, fonti narrative, dall’edizione di repertori bibliografici al fine di ripensare la storia siciliana e di dirimere gli annosi contrasti giuridici tra feudalità e monarchia. Non va però dimenticato che l’attività culturale siciliana si poneva sempre all’ombra della nobiltà, che si serviva degli eruditi per affermarsi anche politicamente.
L’evoluzione della attività culturale e pubblica delle accademie nel corso del secolo contribuisce a dare una spinta decisiva ai processi di innovazione dei sistemi educativi e di istruzione, soprattutto a seguito della cacciata dei Gesuiti dalla Sicilia nel 1767. Quest’atto politico offriva finalmente agli intellettuali palermitani, ma anche agli altri religiosi, in special modo i teatini, in contrasto e competizione con la Compagnia di Gesù, la possibilità di insegnare pubblicamente e di ottenere una cattedra.
È evidente che, in questo momento di trasformazione prevalgano le nuove sensibilità accademiche e le suggestioni provenienti dal resto d’Italia e dall’Europa. Tuttavia, la storia del Collegio Massimo, poi della Regia Accademia e infine dello Studium, sono già altro da queste pagine sul Settecento e le accademie e meritano uno specifico approfondimento, che va oltre lo spazio a disposizione, sebbene sia grande l’apporto degli intellettuali e delle accademie siciliane, e soprattutto palermitane, nella diffusione di una diversa idea di istruzione maggiormente corrispondente alle necessità della società siciliana in trasformazione.
Per chi volesse approfondire la storia delle accademie siciliane e più in generale la figura dell’intellettuale settecentesco, utile ed estremamente interessante è il volume di Marcello Verga, professore di Storia moderna presso l’Università di Firenze e già direttore dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea del Consiglio Nazionale delle Ricerche, edito per i tipi di Palermo University Press, Da letterato a professore della regia università. Le accademie a Palermo nel XVIII secolo.
PROFETI, SIBILLE, E MESSAGGIO EVANGELICO:
ANTONIO ROSMINI E LA "CHARITAS". Un invito a ...
Rileggere il testo della "BREVE DISSERTAZIONE DI ANTONIO ROSMINI SULLE SIBILLE" (Patricia Salomoni, "Rosmini Studies", 6, 2019). Che Rosmini abbia iniziato il suo percorso riflettendo sulle figure delle Sibille, è da considerarsi un fatto degno della massima attenzione - e, ovviamente, di ulteriore approfondimento!
La riflessione su tale tema, probabilmente, lo ha reso più vigile nel suo cammino e nella sua fedeltà alla lettera e allo spirito della "Charitas". Il "Kant italiano", infatti, iniziando il suo percorso con la tesi di laurea sulle Sibille (1822), non solo non ha perso il suo legame con la Grazia (Charis) e con le Grazie (Charites), ma - coerentemente - ha saputo custodire anche l’«h» della Charitas! E ha cercato di tenere ferma la sua distanza dalla logica economica - sempre più dilagante - della "carità" del "mercato" ("caritas") e, al contempo, dalla politica di sostegno alla diffusione della "eu-carestia" - a tutti i livelli. Ma, alla fine, non è riuscito a coniugare - come voleva, in spirito di verità e carità - - il rapporto tra filosofia (sapienza pagana) e rivelazione (sapienza ebraica).
Già all’inizio del suo percorso, benché partito con buona volontà e - kantianamente ("Sapere aude!") - con gran coraggio, infatti, egli s’inchina all’autorità di sant’Agostino ("De Civitate Dei", XVIII, 47) e - pur rendendosi conto con lo stesso Agostino che "qualsiasi predizione su Cristo poteva essere dichiarata falsa dagli empi e soggiacere al medesimo discredito, sia che si trattasse degli oracoli delle Sibille o delle profezie degli Ebrei" - conclude con un "non è gradito a Lui stesso che, nelle dispute, noi dedichiamo troppe energie più a quelli che a queste" e attribuisce la palma della credibilità solo a "queste .. certissime, luminosissime, custodite dal popolo ebraico a noi assai ostile, e protette da ogni corruzione con incomparabile ed encomiabile cura nel corso di molti secoli" (P. Salomoni, cit, p. 227).
A partire da "queste" premesse (promesse già non mantenute!), ovviamente, accolta solo la parola dei "profeti" non si può che rinarrare e riscrivere la vecchia "storia dell’Amore" di Adamo ed Eva:
E così, contravvenendo frettolosamente alle regole morali del suo stesso "metodo filosofico", il suo desiderio di lasciarsi guidare "in tutti i suoi passi dall’amore della verità", come dalla carità ("charitas") piena di grazia (charis), resta confinato nell’orizzonte della caduta e della minorità - e la presenza delle Sibille insieme ai Profeti nella Volta della Cappella Sistina è ancora un grosso problema!
Federico La Sala
VITTORIO FOA, GIAMBATTISTA VICO, E I PRINCIPI DELLA "SCIENZA NUOVA" E DELLA NUOVA ITALIA ....
— ***VITTORIO FOA. "Caduto il regime fascista, Vittorio Foa lasciando il carcere donava al suo compagno di cella la Scienza nuova di Vico, con una dedica tratta dal testo: «Per varie e diverse vie, che sembravano traversie ed eran in fatti opportunità» [cf. "Principj di una Scienza Nuova", dedica a Clemente XII, 1730 - fls]. L’eterogenesi dei fini è una regola della scienza sociale moderna, un invito a far leva sui limiti della ragione per cogliere risvolti positivi da ogni evento, anche il più negativo [...]" (Nadia Urbinati, cit. - qui, allegato).
Vittorio Foa: ricordiamo la lezione dei costituenti
Vittorio Foa, l’anticonformista militante
di Ilaria Romeo (Collettiva, 18/09/2020)
Centodieci anni fa, il 18 settembre 1910, nasceva a Torino un politico, un sindacalista, un giornalista e uno scrittore indimenticato. Un uomo che dagli esordi in Giustizia e libertà, passando per la Resistenza, la Costituente, la militanza nella Cgil ha attraversato l’intera storia della sinistra italiana
Amico di Leone Ginzburg, nel 1933 Vittorio Foa si avvicina al gruppo antifascista di Giustizia e Libertà, collaborando con lo pseudonimo di ‘Emiliano’ agli omonimi quaderni pubblicati a Parigi. Arrestato a Torino il 15 maggio 1935 su delazione dell’informatore dell’Ovra Pitigrilli resta in carcere fino al 23 agosto 1943. Padre costituente, deputato socialista per tre legislature, nel 1955 diventa segretario nazionale della Fiom per passare, alla morte di Giuseppe Di Vittorio, alla segreteria della Cgil.
Nel 1970 decide di lasciare gli incarichi sindacali per dedicarsi agli studi (dal 1987 al 1992 è senatore, eletto nelle liste del Pci e poi del Pds, come indipendente). Dirà nel suo discorso di addio alla confederazione: “Voi sapete che questo distacco è difficile. Mi consentirete di non vestire di parole dei sentimenti che sono agitati e profondi. Vi prego caldamente, in ragione di una antica stima reciproca, di dispensarvi da parole di commemorazione o gratificazione. Voglio solo ringraziarvi tutti, e con voi mille e mille compagni noti o sconosciuti, per quel che in tanti anni avete fatto di me”.
“Età e ragioni di salute - affermava nell’occasione - mi hanno indotto a dimettermi da segretario della Cgil. Si è amichevolmente osservato che l’età non si misura col numero degli anni. Resta il fatto che, l’attenzione dovuta al merito che uno ha acquisito con molti anni di lavoro, contraddice la cruda necessità di congedare chi è logorato. Solo rimedio utile per attenuare quella contraddizione è la fissazione di un limite di età oggettivo, impersonale, oltre il quale si deve partire non per incapacità soggettiva, ma per una norma. E in questo caso la norma vale se non vi sono eccezioni. Si è anche osservato che uno deve, per la Causa, sopportare i malanni dell’età e una salute deteriorata. Ma se la salute ha poca importanza per i singoli, essa ne ha molta per l’organizzazione, soprattutto quando si tratta di quel logoramento tipico del lavoro sindacale che coinvolge il modo di lavorare, la calma e la necessaria capacità di percezione dei particolari del movimento, fuori degli schemi generici”.
“La Cgil è stata la sua casa”, diceva il giorno dei funerali l’allora segretario generale Guglielmo Epifani. “Se ne va uno dei grandi uomini del nostro sindacato. Dobbiamo ringraziarlo per tutto quello che ci ha dato e per il senso di libertà che ci ha lasciato. A volte la sua poteva sembrare una speranza disarmata, ma Vittorio ha sempre visto nel fare e nell’agire il legame tra la speranza e il cambiamento (...) Si considerava un operatore sindacale, e la sua più grande preoccupazione è sempre stata quella di avere un sindacato autonomo. Fino agli ultimi giorni aveva chiesto di vederci, di parlarci: non si considerava uno messo di lato, si considerava, ed era, uno di noi”.
A dare notizia della morte di Vittorio Foa sarà, per desiderio della famiglia, l’allora segretario del Pd Walter Veltroni: “È un immenso dolore per noi - dirà - per il popolo italiano, è un immenso dolore per gli italiani che credono nei valori di democrazia e libertà, per l’Italia che lavora, per il sindacato a cui Vittorio Foa ha dedicato la parte più importante della sua vita (...) È un dolore per me personalmente perché Vittorio Foa incarnava ai miei occhi il modello del militante della democrazia, un uomo con una meravigliosa storia di sofferenza, di lotta e di speranza, un uomo della sinistra e della democrazia, mosso da un ottimismo contagioso e da un elevatissimo disinteresse personale (...) Penso che tutto il paese senta Vittorio Foa come uno dei suoi figli migliori”.
Autore di numerosi libri (fra gli altri, Il cavallo e la torre, Questo Novecento, Lettere della giovinezza), Foa aveva pubblicato poco prima della morte Le parole della politica. “Forse - sosteneva nel saggio - il degrado della politica e delle sue parole sta proprio nell’agire pensando di essere soli e nel pensare solo a se stessi [...] Io non credo che si possa insegnare a pensare al resto del mondo, ma pensare se stessi insieme agli altri è l’unico modo per ricostruire i cosiddetti valori”.
È il principio che sta alla base della confederalità della nostra organizzazione, quel principio del quale Guglielmo Epifani diceva in occasione del centenario della Cgil: “L’identità confederale richiede inevitabilmente una ricerca permanente di valori e politiche di unità, partendo dalle differenze; e un’idea alta di autonomia comunque espressa nelle alterne fasi che hanno segnato la storia dei rapporti fra partiti e sindacati. Solo un sindacato confederale - quello di ieri e quello di oggi - può tenere unite dentro di sé le ragioni dei lavoratori della terra a quelli dell’industria, quelli pubblici e quelli privati, quelli del Sud e quelli del Nord, gli emigranti e gli immigrati, i giovani che studiano, i disoccupati, gli anziani e i pensionati. Tutto, proprio tutto, della vita centenaria del sindacato italiano sta qui, in quell’atto, in quella scelta, in quell’inizio. In quell’idea - come ci ricorda Vittorio Foa - per la quale battendosi per i propri diritti si pensa insieme sempre ai diritti degli altri”.
Un uomo particolare Vittorio, fedele ai suoi ideali ma indisciplinato, dal sorriso sornione e l’intelligenza acuta, la mente brillantissima. Affermava lui stesso all’interno del volume Cent’anni dopo. Il sindacato dopo il sindacato: “Nel lavoro della formazione e soprattutto in quella che il dirigente dà agli altri dirigenti, nella continuità del suo lavoro, vi è un elemento molto importante, e non si tratta della disciplina, ma è la lotta contro il conformismo. Non bisogna accusare l’indisciplina. Non c’è niente di male a essere indisciplinati, se nell’indisciplina c’è una volontà. La cosa peggiore è quando la volontà non c’è più, quando si sceglie sempre di dare retta ad altri. L’insegnamento da dare ai compagni è che pensino con la loro testa. Possono anche pensare male, ma l’importante è che pensino con la loro testa. Questa è la vita che io credo di avere vissuto nella Cgil e credo di aver amato nella Cgil più di ogni altra cosa”.
Parole che tratteggiano una personalità straordinaria, fresca, incredibile, originale, di una grande curiosità intellettuale.
Una personalità ben riassunta dalla frase - notissima - rivolta a Pisanò durante un dibattito televisivo: “Se avesse vinto lei - affermava Vittorio - io sarei ancora in prigione. Avendo vinto io, lei è senatore della Repubblica e parla qui con me”.
IL SENSO DEL SUD PER LA SINISTRA
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 23 marzo 2018)
Caduto il regime fascista, Vittorio Foa lasciando il carcere donava al suo compagno di cella la Scienza nuova di Vico, con una dedica tratta dal testo: « Per varie e diverse vie, che sembravano traversie ed eran in fatti opportunità». L’eterogenesi dei fini è una regola della scienza sociale moderna, un invito a far leva sui limiti della ragione per cogliere risvolti positivi da ogni evento, anche il più negativo. Con le dovute proporzioni, la sinistra del dopo 4 marzo dovrebbe saper vedere nella caduta un’opportunità. Altre volte in passato, la riflessione su "che cosa è andato storto" è stata fondamentale. È evidente che saper leggere implica avere dei criteri di giudizio come antenne; solo così la sconfitta si può fare opportunità.
La questione della rappresentanza sociale - dello schierarsi con chi - è una di queste antenne: la sinistra ha la missione di partire dalla condizione di chi sta peggio per poter correggere in positivo i rapporti sociali. In Italia, questa condizione è propria di alcune fasce (giovani e vecchi) e aree geografiche (il Sud). Ma non basta censire la mancanza cronica di lavoro e una vita di espedienti ( non sempre legittimi) come fanno gli scienziati sociali. Occorre sentire quei problemi e le loro implicazioni, poiché la politica è vicina alle emozioni che guidano le azioni. E un partito deve saper progettare le azioni, non solo dei pochi che lo dirigono, ma soprattutto dei molti che lo seguono o lo votano.
Pensiamo alla " questione meridionale" che molta parte della dirigenza della sinistra sembra aver lasciato cadere, consolandosi col dire "basta ai piagnistei", ci si " rimbocchi le maniche", " l’Italia è ripartita". Pochi anni fa, Roberto Saviano obiettò su questo giornale che quello del Sud «è un urlo di dolore, non un piagnisteo che sembra invece somigliare di più alla cantilena del va tutto bene » . Il Sud come " palla al piede" che deturpa l’immagine di un’Italia che riparte: in anni recenti, questo è stato il sentire della sinistra. E l’abbandono del Sud è stato reciproco, un divorzio. La quasi scomparsa della sinistra era una sconfitta annunciata. Che lo si sia visto dopo, questo è il problema.
Alle origini del fascismo, Antonio Gramsci scriveva che la classe politica era fatta di "dilettanti" che si preoccupavano di eliminare dalla vista ciò che ostacolava il cammino, preferendo magari usare il piglio autoritario: « Non hanno alcuna simpatia per gli uomini [ che soffrono]... Obbligano a soffrire inutilmente nel tempo stesso che sciolgono degli inni alati alla virtù, alla forza di sacrificio e di volontà del cittadino italiano » . E intanto, le forme di illegalità, le periodiche rivolte fanno del Sud un’incognita. Una storia eterna.
La "questione meridionale" non è così misteriosa e neppure una " palla al piede": mostra come con una lente di ingrandimento la disgregazione sociale, lo sfarinamento delle forze associative, che sole possono attivare protagonismo, e opporre una politica di programmi a una di promesse assistenziali. La condizione del disagio deve poter stimolare il sentire per meglio orientare il comprendere.
Ritornare a riflettere sulle politiche sociali, per abbandonare i piccoli stratagemmi elettorali della monetarizzazione del bisogno, per riprendere la via del rilancio di politiche per l’occupazione. E collegarsi con le altre forze della sinistra europea per riportare al centro la condizione di chi è penalizzato dalla globalizzazione. E intanto, aprire le sezioni e ogni luogo di incontro per dare voce a chi è restato ai margini, e rimettere in funzione i radar; tornare a leggere un Paese del quale si sono perse le tracce. Non può essere il premio David di Donatello a farci capire che il Sud c’è e non è una "palla al piede".
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VICO, LA « SCUOLA » DEL GENOVESI, E IL FILO SPEZZATO DEL SETTECENTO RIFORMATORE. Una ’Introduzione’ di Franco Venturi.
VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Note per una rilettura
Federico La Sala
SCHEDA E NOTA EDITORIALE *
ECHI OSCO-ITALICI. Valli del Sele e Lucania antica
di Italo Cernera
Il libro si compone di quattro parti. Nella prima parte l’autore individua nella lingua osca il sostrato linguistico di quasi tutta l’Italia del centro-sud offrendo un ricco repertorio di termini di cui indaga l’etimologia. Seguono tre capitoli dedicati alla dea Mefite, a Fauno e a Ercole. La ricerca ci mostra che queste tradizioni costituiscono il filo conduttore di miti, atteggiamenti, che, ancora oggi, legano abitanti di paesi geograficamente lontani, ma culturalmente e antropologicamente molto vicini...
NOTA
di Franco Villani *
Italo Cernera, autore di Echi osco-italici, Valli del Sele e Lucania antica, è di Contursi, paese oggi appartenente alla regione Campania, ma un tempo compreso nel territorio della Lucania antica. Il paese si trova, infatti, poco distante dai luoghi menzionati nel Liber coloniarum, (Libro delle colonie, attribuito a Frontino) che, nell’antica Lucania, annoverava sette prefetture alcune delle quali non fanno più parte dell’attuale Basilicata: Volcei (Buccino), Atina (Atena Lucana), Consilium (Sala Consilina) e Tegianum (Teggiano) sulla via Popilia; Potentia (Potenza) e Grumentum (Grumento Nova) sulla Via Herculia e Paestum sulla costa tirrenica.
Pur uniti nel titolo del libro, l’etimologia dei termini Sele e Lucania hanno storie molto diverse. Il termine Sele, secondo l’autore, deriverebbe dall’osco Seile. Sil, da antichissima lingua mediterranea, significa, infatti, zona di sorgenti, “canale in cui scorre l’acqua”. Non altrettanto certa è, invece, l’etimologia del termine Lucania. Deriva da leukòs che significa chiaro, bianco o dal latino lux che indica la luce? I Lucani, asserragliati sui monti, prima di altri vedevano ad Oriente la comparsa del sole che presto penetrava nel buio freddo dei loro boschi. Ma potrebbe derivare anche da lukos (lupo) presente nei boschi lucani o dai Lyki, popolazione proveniente dal Medio Oriente. È ugualmente il caso di sottolineare che il nome dell’autore, Italo deriva certamente da Italia, ma pochi, probabilmente, sanno del leggendario Lucio che conquistò il Sud della nostra penisola dando ad essa il nome di Italia.
Oggi, come è noto, il nome Lucania è quasi scomparso a vantaggio di Basilicata. Tutti sanno che i Lucani sono gli abitanti della Basilicata! E si domandano perché. Per i Romani esistevano i Lucani, popolo bellicosissimo che, protetto dalle montagne e usando la tecnica della guerriglia, era riuscito a resistere a lungo, infliggendo non poche umiliazioni al forte esercito romano. Solo nel 298 a.C., furono sottomessi dal console Scipione Barbato.
Quando Augusto divise l’Impero romano in province creò la provincia di Lucania. Successivamente la Lucania fu indicata come terra del Basileus cioè amministrata dal Basilikòs, funzionario bizantino. Di qui il termine Basilicata che venne confermato al momento della proclamazione dell’Unità d’Italia (1861). Nel 1932, Mussolini sostituì il nome di Basilicata con Lucania che meglio si adattava alle italiche tradizioni romane e preromane a cui il fascismo, idealmente, si collegava. Nel 1948, però, al momento di promulgare la nuova Costituzione della Repubblica, in opposizione a quanto il fascismo aveva fatto e introdotto, fu ripristinato il nome Basilicata.
Il contenuto del libro, composto da quattro capitoli, può essere riassunto nell’incipit imperioso con cui l’autore apre il volume: “Gli Osci furono un antico popolo italico stanziato negli attuali territori della Campania, del Molise e della Lucania. Costumi, usi e lingua degli Osci costituiscono il fondo etnico originario della regione campana e lucana. Sono i “padri antichi” delle tracce e delle inflessioni linguistiche tuttora presenti”.
Nella prima parte, l’autore, a sostegno di tale tesi riporta un ricco repertorio di termini di cui indaga l’etimologia. La presenza, infatti, ancora oggi, di termini dialettali usati in posti anche molto lontani fra loro testimonia che la lingua parlata era l’osco che, con il greco e il latino, condivideva il comune ceppo linguistico indo-europeo. Fino a che non ci fu il dominio di Roma, a partire dal III secolo a.C., tutto il Meridione continentale si esprimeva in lingua osca. La parlavano i Campani, i Lucani, i Bruzi, gli Apuli e anche i Siculi. La scrittura dell’osco partiva da destra verso sinistra e non aveva maiuscole. Poteva essere scritto con l’alfabeto latino, greco o con un alfabeto di derivazione etrusca. L’osco si mantenne vivo nell’uso ufficiale per tutto il II secolo a.C.
Nel secondo capitolo viene affrontata la venerazione per la Dea-madre: “Al principio era la Grande Madre, poi Mefite, divinità dei corsi d’acqua e delle sorgenti, della terra e della vita”. Pur identificata con nomi diversi quali Sirena bicaudata, Mefite, Ninfa, il culto “ha riconosciuto nell’essere femminile il potere di creare la vita, di allontanare la malattia, di proteggere dalle avversità. Un potere legato al corpo, alla terra, ai ritmi della natura, al futuro”. Non sorprende, quindi, il parallelo tra la dea Mefite che richiama le sorgenti termali di Contursi Terme e la venerazione per questa dea praticata, per centinaia di anni, nel lontano Santuario di Rossano di Vaglio in Basilicata.
La Dea-madre era anche la protettrice di greggi e pastori. A lei si offrivano sacrifici e feste riservate poi al dio Fauno, (di cui si parla nel terzo capitolo) considerato suo figlio che, già presente nella storia romana, identificato e talora, sovrapposto, con il dio Silvano richiama i grandi boschi della Lucania.
Profonde riflessioni suscita anche l’ultimo capitolo dove si parla del mito di Ercole la cui origine sembra una sorta di evoluzione dal forte e rustico Fauno ad una presenza più urbana di Ercole, dal pastore dei villaggi al protettore dei centri abitati. Difensore del giusto e nemico della prepotenza, Ercole, era considerato anche Salvatore del mondo, come è vero che sarà assunto in cielo quale dio. E qui non si può non rimanere stupiti dalla ricostruzione del mito di Ercole la cui vita è costellata di episodi che richiamano molti aspetti della vita, nientemeno che di Gesù.
In conclusione, a nostro parere, si tratta di un libro da leggere tutto di un fiato. Ci pare, anche, di poter dire che il filo conduttore del volume, al di là delle articolate e documentate ricostruzioni storiche, sia da individuare nel “cuore” dell’autore che avverte, fortemente, la tradizione e l’orgoglio etnico di appartenere a una cultura che è il portato di molti secoli di storia.
* Fonte: Villani Editore
CONCILIO DI NICEA I e il CONCILIO DI NICEA - 2025. Materiali sul tema:
2 MAGGIO 2020. Il santo del giorno
Atanasio. Discepolo di sant’Antonio, difensore dell’ortodossia
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 2 maggio 2019)
Sant’Atanasio fu come un ponte per la Chiesa antica: sulle spalle, infatti, portò il “peso” della retta dottrina, dell’ortodossia, traghettandola attraverso un periodo difficile, nel quale sembrava che l’eresia dovesse trionfare.
Era nato ad Alessandria nel 295 e nel 325 era al Concilio di Nicea come diacono del vescovo Alessandro. Lì si stabilì che il Figlio era della stessa sostanza del Padre, Cristo non era “come” Dio, ma era Dio.
Una verità che gli ariani tentavano di negare, mettendo in campo una lotta aspra, spesso fatta di calunnie e strategie politiche.
Nel 328 la gente volle Atanasio come nuovo vescovo di Alessandria e lui, nei suoi 46 anni di episcopato, si dimostrò un saldo difensore della verità. Ma dovette subire attacchi personali e anche esili prima di essere riabilitato. Ebbe come maestro sant’Antonio abate di cui scrisse una Vita. Morì nel 373.
Altri santi. San Felice di Siviglia, martire (IV sec.); sant’Antonino Pierozzi (di Firenze), vescovo (1389-1459).
Letture. At 5,27-33; Sal 33; Gv 3,31-36.
Ambrosiano. At 4,32-37; Sal 92; Gv 3,7b-15.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Federico La Sala
«Scienza nuova». Attraverso l’analisi delle tre redazioni del testo è possibile entrare nell’elaborazione del pensiero del filosofo che ha delineato un’altra via del «moderno» in una diversa prospettiva
Nel laboratorio di Giambattista Vico
di Michele Ciliberto (Il Sole-24 Ore, Domenica, 19.04.2020, p. VIII)
Come si sa della Scienza nuova di Vico esistono tre edizioni, quella del 1725, la seconda del 1730, la terza del 1744. Una situazione per molti aspetti eccezionale, paragonabile in letteratura a quella del Furioso dell’Ariosto, del quale esistono, come nel caso della Scienza nuova, tre edizioni, quella del 1516, del 1521, del 1532.
Le diverse redazioni dello stesso testo ci permettono di entrare nel laboratorio di un autore e di vedere in presa diretta come egli lavori, in un continuo farsi del testo, che viene riafferrato nella sua concretezza storica, anche quando ha assunto, come capita ai capolavori, la fisionomia di un classico fuori del tempo in cui è nato e si è sviluppato, reagendo a impulsi e tensioni dell’epoca alla quale appartiene. Naturalmente, non tutte le redazioni stanno sullo stesso piano, né è detto che l’ultima sia, in quanto tale, la migliore.
È un fatto che nel caso di Vico, l’attenzione degli studiosi si sia concentrata a lungo sull’edizione del 1744, preferendola a quella del 1725 e a quella del 1730. A conferma però di quello che dicevo, uno dei meriti più importanti della ricerca contemporanea su Vico è stata la “riscoperta” dell’edizione del 1730, prima sottovalutata, ad opera degli studiosi raccolti nel Centro di studi vichiani fondato e diretto prima da Pietro Piovani, poi, con risultati di notevole valore, da Fulvio Tessitore, il quale ha fornito nel 2002 anche un’edizione anastatica del testo dimostrando il rilievo e l’originalità che esso ha nel pensiero di Vico. Questa anastatica si inseriva a sua volta in un ampio progetto di pubblicazione delle edizioni anastatiche delle principali opere di Vico - per iniziativa del Lessico Intellettuale Europeo, fondato da Tullio Gregory - fra cui, naturalmente, la Scienza nuova del 1744.
Gli studiosi di Vico possono quindi disporre oggi delle edizioni originali delle sue opere più importanti, che possono studiare, agevolmente, nel loro processo di formazione e di sviluppo - cogliendole nella loro specificità, al di fuori, dunque, di prospettive di carattere teleleologico che non servono mai, quando si lavora sul piano della critica storica.
Della Scienza nuova del 1744 è stata pubblicata ora una nuova edizione anastatica ad opera di una piccola, e benemerita, casa editrice di Napoli, Belle Époque Edizioni, che si avvale - e questo mi pare un suo merito non secondario - della Introduzione di uno dei maggiori studiosi di Vico, Biagio de Giovanni, che su questo tema ha scritto pagine che sono un punto di riferimento e che si riflettono anche in questo volume. Penso, ad esempio, all’insistenza con cui de Giovanni batte sulla pluralità delle linee interne a quello che si suole chiamare «Moderno», mostrando come Vico si muova in una diversa, anche volutamente opposta a quella di Cartesio e al «soggettivismo riflessivo» della Mente, spingendo la prospettiva in altre direzioni ben rappresentate dalla famosa battuta di Vico: non è vero che homo intelligendo fit omnia, è vero invece, e lo dimostra la «metafisica fantasticata», che homo non intelligendo fit omnia.
Vico, insiste de Giovanni, delinea un’altra via del moderno, e lo fa scoprendo il territorio della storia. E questo vuol dire che la verità è un farsi, con un «oltrepassamento» quindi del rapporto intellettualistico soggetto-oggetto, con tutti i problemi che questo comporta, a cominciare dall’individuazione del confine tra il preistorico e lo storico, lì dove - ed è un problema cruciale - l’umanità inizia a formare il proprio destino.
Credo che su questo punto de Giovanni abbia ragione: il “moderno” si configura come una pluralità di linee e di tensioni, di cui il paradigma “scientifico” di Cartesio, Galilei, è un aspetto essenziale, ma non esaustivo. È un discorso che si potrebbe fare allo stesso modo per Giordano Bruno, che certo è un pensatore “moderno” ma non ha niente in comune con la concezione della natura, dell’atomo, del minimo di un pensatore come Galilei. Sono molte le linee che hanno portato alla “modernità”.
Al centro di queste pagine, e qui mi pare l’elemento maggiore di novità, è l’insistenza con cui de Giovanni si misura con il problema del rapporto tra la «storia ideale eterna» e la «storia che corre in tempo», cioè tra eternità e tempo, individuato come «il nodo cruciale del pensiero di Vico». Ed è muovendo di qui che de Giovanni scrive le pagine più nuove e interessanti: «entrambe le storie», sottolinea, «stanno ambedue nelle modificazioni della Mente umana», e muovendo da questa affermazione giunge a una determinazione di questa Mente che, opponendosi all’ego cartesiano, si configura come una «realtà collettiva», «una vera potenza della prassi umana». La Mente non si risolve dunque nella coscienza, ha un campo di riferimento molto più vasto: «è piuttosto evento, accadere, realtà collettiva, vitale...».
’Vitale’, lemma centrale in de Giovanni, che, qui come sempre, ha presente come ’fonte’ della sua meditazione sul moderno le pagine di Husserl ne La crisi delle scienze europee: «la Mente», scrive, «nasce per la salvezza e la conservazione della Vita, ecco la storia ideale eterna. È la ragione collettiva, carica di infondatezza logica, che permette la nascita del mondo umano e resta dentro tutto il corso della storia umana». In conclusione, la Mente è «unità di ’storia ideale eterna’ e ’storia eterna’». È il loro rapporto che rende possibile la salvezza della Vita, salvando il finito, mantenendo insieme Logos e physis, Mente e corpo, intelligenza e natura. Una salvezza mai acquisita una volta per tutte.
E qui veniamo a un altro punto importante dell’immagine che de Giovanni presenta di Vico: afferra la crisi del suo tempo, esprimendosi anche con toni tragici, mettendo in evidenza quali possono essere gli effetti della diffusione di una filosofia come quella di Epicuro o del pensiero di Cartesio - tutto riflessione e niente storia -, o dello scetticismo che, spingendo gli uomini a chiudersi nel proprio piacere e nella propria utilità, disgrega le società, con il rischio di passare da «perfetta libertà» a una «perfetta tirannide», e finendo col fare «selve delle città» e delle «selve covili d’uomini».
Rischio sempre aperto, ieri ed oggi: lo sapeva bene Alessandro Manzoni, che nei Promessi sposi, parlando della peste, riprende il lessico, e il motivo, di Vico: «S’immagini il lettore il recinto del lazzeretto, popolato di sedicimila appestati... e su tutto quel quasi immenso covile, un brulichio, come in ondeggiamento... Tale fu lo spettacolo che riempì a un tratto la vista di Renzo...».
PIANETA TERRA. Fine della Storia o della "Preistoria" ?
CORSI E RICORSI STORICI : CIVILTA’ AL COLLASSO.
Uno studio della Nasa : l’Occidente è destinato a crollare come Roma antica e gli altri grandi imperi del passato.
La filologia al servizio delle nazioni. Storia, crisi e prospettive della filologia romanza
di Stefano Rapisarda *
«Se un giorno la filologia morisse, la critica morirebbe con lei, la barbarie rinascerebbe, la credulità sarebbe di nuovo padrona del mondo». Così Ernest Renan ne "L’avenir de la science" (1890) tesseva un altissimo elogio della filologia, una delle scienze regine del XIX secolo.
Oggi, al tempo delle fake news e della post-verità, quelle parole ci ricordano che la filologia può essere ancora argine alla barbarie. E ci ricordano che la filologia, quella con aggettivi e quella senza, è intrinsecamente politica. Non è utile o interessante in sé: lo è quando è schierata, militante, "calda", quando tocca interessi, quando serve interessi. Quando è "al servizio" di un Principe o di un partito o di uno Stato o di una visione del mondo.
Ci ricordano insomma che la filologia è anche politica, come sapevano Lorenzo Valla e Baruch Spinoza, Ernest Renan e Ulrich Wilamowitz-Möllendorff, Gaston Paris e Paul Meyer, Eduard Koschwitz e Joseph Bédier, Ernst Robert Curtius e Erich Auerbach, Cesare Segre e Edward Said.
Eppure la filologia, con o senza aggettivi, oggi sa di polvere e di noia. Ciò sollecita varie domande: perché questa antica "scienza del testo" si è ridotta al margine della cultura di oggi? Può tornare al centro dei bisogni intellettuali dell’uomo contemporaneo? Quale tipo di filologia può ancora servire il mondo e servire al mondo?
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SCHEDA - Academia.Edu
BENEDETTO CROCE, Recensione 1934*:
Il prof. Heidegger non vuole che la filosofia e la scienza siano altro, per i tedeschi, che un affare tedesco, a vantaggio del popolo tedesco. Gli studenti tedeschi, a suo dire, hanno tre «Bindungen», tre obblighi, il primo e fondamentale dei quali è la «Volksgemeinschaft», il nazionalismo. Ma se egli si ripiegasse davvero sulla sua coscienza morale (l’ha ogni uomo e l’avrà anche lui), direbbe piuttosto che il primo obbligo, di studenti e di professori, è il timor Dei, come sta scritto sul frontone della Sapienza di Roma.
Scrittore di generiche sottigliezze, arieggiante a un Proust cattedratico, egli che nei suoi libri non ha dato mai segno di prendere alcun interesse o di avere alcuna conoscenza della storia, dell’etica, della politica, della poesia, dell’arte, della concreta vita spirituale nelle sue varie forme - quale decadenza a fronte dei filosofi, veri filosofi, tedeschi di un tempo, dei Kant, degli Schelling, degli Hegel! -, oggi si sprofonda di colpo nel gorgo del più falso storicismo, in quello, che la storia nega, per il quale il moto deila storia viene rozzamente e materialisticamente concepito come asserzione di etnicismi e di razzismi, come celebrazione delle gesta di lupi e volpi, leoni e sciacalli, assente l’unico e vero attore, l’umanità.
Scrive nel bello stile che ci è già noto dai suoi libri filosofici: «Der Wille zum Wesen der deutschen Universitat ist der Wille zur Wissenschaft als Wille zum geschichtlichen geistigen Auftrag des deutschen Volkes als eines in seinem Staat sich selbst wissende Volkces. Wissenschaft und deutsche. Schicksal mussen zumal in Wesenswillen zur Macht kommen» (p. 7). E così si appresta o si offre a rendere servigi filosofico-politici: che è certamente un modo di prostituire la filosofia, senza con ciò recare nessun sussidio alla soda politica, e, anzi, credo, neppure a quella non soda, che di cotesto ibrido scolasticume non sa che cosa farsi, reggendosi e operando per mezzo di altre forze, che le son proprie.
Ben diverso atteggiamento è quello del teologo Karl Barth, che dice il fatto loro ai «Deutschen Christen», ai tedesco-cristiani, pronti a gridare che la chiesa evangelica deve servire alla fortuna del popolo tedesco e del terzo Impero, a richiedere un capo, una sorta cli papa, che fermamente li governi nella nuova vita cominciata con la primavera del 1933, e ad escludere, per intanto, dal loro seno i cristiani di sangue giudaico o a trattarli come cristiani di second’ordine, e via per simili turpitudini.
«Noi - scrive il Barth - abbiamo l’ufficio di portare al popolo tedesco la parola di Dio; e pecchiamo non solo verso Dio, ma anche verso questo popolo stesso se perseguiamo altri ideali e fini, che non sono cominessi a noi. Nella natura del nostro ufficio è che esso non possa essere subordinato o coordinato ad alcun’altra istanza; e di nuovo peccheremmo verso Dio e verso il nostro popolo, se lasciassirilo scuotere anche solo menomamente quest’ordine gerarchico!».
Il Barth degnamente tutela l’indipendenza della teologia, mentre il prof. Heidegger si è affrettato a far getto di quella della filosofia.
B. C.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA.
VENI, CREATOR SPIRITUS: LO SPIRITO DELLA VERITA’. Lo Spirito "costituzionale" di Benedetto Croce, lo spirito cattolico-romano di Giacomo Biffi, e la testimonianza di venti cristiani danesi (ricerca scientifica)
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
PER LA RICERCA DELLA COPIA DELLA"SN 1725" inviata a Newton:
cfr.: A book from Sir Isaac Newton’s library discovered at the Warburg Institute (https://warburg.blogs.sas.ac.uk/2018/10/11/book-isaac-newtons-library-warburg/).
È la legge del desiderio a farci amare la creatività
Non è solo una forza oscura, vuota: ha a che fare sempre con la materia, con il costruire. Elogio di una pulsione che va ben al di là di fisiologia e psicologia
di Elio Franzini (la Repubblica, 05.10.2018) *
Rettore dell’università Statale di Milano
Pensare al problema del desiderio ha significato, per molti anni, aderire a una sorta di prospettiva che genericamente potremmo chiamare " postmoderna", che scioglieva il desiderare nell’inconscio, o in macchine desideranti, " indebolendola" nelle pulsioni dell’Es. Non si può infatti dimenticare che, per un autore come Lyotard, sin dagli anni Settanta del Novecento, il desiderio si pone sul piano di una decostruzione come strada per distruggere la metafisica occidentale, annullandone le categorie e riportandole a pulsioni originarie. Questa strada è stata variamente percorsa da molti autori, con volumi di grande successo (si pensi a "L’anti- Edipo" di Deleuze e Guattari).
Strada lecita, senza dubbio, ma che forse non riesce a far comprendere non solo la ricca fenomenologia del desiderio, ma neppure l’ambiguità del suo ruolo multiforme nella formazione del soggetto e nella storia del pensiero stesso.
"Romanae Disputationes", l’ormai noto certamen filosofico che ogni anno raccoglie migliaia di studenti delle scuole superiori italiane, aiuterà certo ad ampliare questo concetto, rendendo possibili nuovi percorsi, che mostrino le possibilità formative del desiderio.
Il desiderio deve infatti essere guardato anche, se non soprattutto, al di fuori di uno schema psicologico, vedendolo connesso a un percorso di costruzione del senso. Il desiderio è creativo e, come dimostra la pratica dell’arte, ha una funzione formativa: è grazie al desiderio, a questo fondo oscuro, al suo lavoro nei processi costruttivi come in quelli ricettivi, che l’opera appare come una realtà "infinita", ovvero mai pacificata, che non possiamo ridurre a una sorta di ambigua sublimazione estetica.
In altri termini, il desiderio, in sé indefinibile per la varietà di significati che assume nei suoi vari campi di azione, può venir visto come ciò che tiene viva, nel processo e nel progetto dell’arte, la forza formativa, un senso sensibile e, per così dire, " mitico" e originario.
Il desiderio non può allora essere " spiegato", definito, ridotto a una sequenza lineare, clinica, sintomale. Ridurre questo percorso a economie libidinali non permette di comprendere che il desiderare è connesso a un piacere non riducibile alla fisiologia o alla psicologia. Il desiderio non è un impulso vuoto, meramente fantastico, ma si confronta sempre con la materia, con il costruire.
Tende a riempire di contenuti radicati nel mondo stesso la forza produttiva dell’immaginazione. L’energia che circola nello psichico è senza dubbio un’azione desiderativa: ma le sue manifestazioni non possono rimanere isolate nel vuoto di una perdita, nell’impersonalità, nell’Es.
La costruzione artistica come emblema di un percorso formativo mostra invece il desiderio in un’opera concreta, che si confronta con il mondo, la società, la cultura, la storia.
Desiderio di costruire qualcosa che rimanga, e che generi nuovi processi desiderativi, in questo modo liberandosi da un soggettivismo relativistico e affidandosi a un dialogo costruttivo che comporta il gesto di un soggetto costruttore.
Il desiderio, per concludere, è lo sfondo, che mai potrà essere rinchiuso in una sola prospettiva, di una possibilità costruttiva e progettuale capace di cogliere, nel mondo che ci circonda, una serie di trame che sono già nelle cose e che il desiderio porta in luce, mostrando sempre di nuovo la profondità e l’intensità della vita.
* https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2018/10/05/news/franzini_desiderio-208274414/
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA POTENZA DEL DESIDERIO E IL PROBLEMA DI DIO. UNA IMPOSTAZIONE ALL’ALTEZZA DI NEWTON E KANT, CHE SI SPINGE IN UN’ORIZZONTE CHE VA OLTRE FREUD E LACAN ...
GIAMBATTISTA VICO: LA LIBERTA’, LA PROVVIDENZA, E LA TEOLOGIA DELL’UMANITA’ "TUTTA DISPIEGATA":
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5609
FILOSOFIA. Il desiderio del desiderio, il desiderio antropògeno di riconoscimento, l’antropologia e la FENOMENOLOGIA ....
DELLO SPIRITO DI ALEXANDRE KOJÈVE: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3231
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829
Federico La Sala
Canfora, la filologia è libertà
Il volume curato da Rosa Otranto e Massimo Pinto (Edizioni di Storia e Letteratura)
di Livia Capponi (Corriere della Sera, 29.06.2018)
Come lavoravano gli autori greci e latini? Nel suo lungo e intenso magistero, Luciano Canfora, a cui gli allievi Rosa Otranto e Massimo Pinto dedicano il volume collettivo Storie di testi e tradizione classica, ha insegnato ad affrontare ogni testo a partire dalla sua storia, reinventando la filologia come disciplina in grado di leggere non solo i testi giunti fino a noi, ma anche le cicatrici, i tagli, i contorni invisibili di ciò che è stato modellato da un censore, da un copista, dal gusto di un’epoca.
Diversamente da Isocrate, famoso per la sua lentezza nel comporre, e da Pitagora, che preferiva depositare la sua dottrina nei libri più sicuri, cioè nella memoria degli alunni, Canfora, la cui bibliografia conta 843 opere, è più simile a Demostene, che cesellava ogni rigo o a Fozio, patriarca bizantino che salvò il patrimonio letterario antico, aiutato da un’affezionata cerchia di studenti.
Nei contributi qui raccolti, l’erudizione è messa al servizio di una coinvolgente ricerca della verità, intesa come integrità testuale, storica ed etica. Sono toccati i temi prediletti, come l’analisi critica della democrazia, la storia della tolleranza e della libertà di parola, la schiavitù e i perseguitati politici e religiosi da Atene ai giorni nostri, attraverso lo studio di storiografia, archivi, biblioteche e pubblicistica d’ogni epoca. Il tutto condito da empatia e indipendenza di giudizio, in grado di far rivivere gli antichi con grande vivacità: Cesare è ritratto mentre elabora il primo sistema crittografico per l’intelligence romana; Fozio nell’atto di divorare romanzi d’amore greci (per poi censurarli). Coerentemente con la lezione canforiana, lo studio dei classici diventa motivo di apertura mentale perché aiuta a capire il presente e noi stessi.
TEOLOGIA, ECONOMIA, E STORIA ..... *
Il documento vaticano.
Verso una nuova finanza: il cammino ora è segnato
Il testo della Congregazione per la Dottrina della Fede «Oeconomicae et Pecuniariae Quaestiones» offre spunti per un discernimento etico sul sistema attuale e offre soluzioni per il bene comune
di Stefano Zamagni (Avvenire, martedì 12 giugno 2018)
«Oeconomicae et Pecuniariae Quaestiones» (Opq) è un documento - reso di dominio pubblico il 17 maggio 2018 - originale e intrigante.
Originale per il taglio espositivo e soprattutto perché è la prima volta che la Congregazione per la Dottrina della Fede - la cui competenza copre anche le questioni di natura morale - interviene su una materia di Dottrina Sociale della Chiesa. Il lavoro congiunto tra Congregazione e Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale è già di per sé qualcosa che non può passare inosservato e che lascerà il segno.
Opq è poi un contributo intrigante per il modo e per lo spessore con cui affronta una tematica che, come quella della nuova finanza, è oggi al centro delle preoccupazioni della Chiesa e della società in generale. (Papa Francesco ha approvato il Documento che entra pertanto nel Magistero ordinario). Come recita il sottotitolo («considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario» - corsivo aggiunto), non ci troviamo di fronte ad una sorta di esortazione apostolica o ad un testo di taglio pastorale. Piuttosto, vi si legge un’analisi, scientificamente fondata, delle cause remote dei disordini e dei guasti che l’architettura dell’attuale sistema finanziario va determinando.
Si legge al n. 5: «La recente crisi finanziaria poteva essere l’occasione per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria, neutralizzandone gli aspetti predatori e speculativi (sic!) e valorizzandone il servizio all’economia reale. Sebbene siano stati intrapresi molti sforzi positivi... non c’è stata però una reazione che abbia portato a ripensare quei criteri obsoleti che continuano a governare il mondo».
A scanso di equivoci, è bene precisare che il documento non parla affatto contro la finanza, di cui riconosce la rilevanza e anzi la necessità (e non potrebbe essere diversamente, se si considera che la finanza moderna nasce entro l’alveo del pensiero economico francescano). Esso prende piuttosto posizione nei confronti di una realtà efficacemente descritta dal seguente dato: nel 1980, l’insieme degli attivi finanziari a livello mondiale era pressoché eguale al Pil sempre mondiale; nel 2015 la prima variabile era diventata dodici volte superiore alla seconda.
Il punto centrale dell’argomento sviluppato nel Documento è l’affermazione del principio secondo cui etica e finanza non possano continuare a vivere in sfere separate. Ciò implica il rigetto della tesi del Noma (Non Overlapping Magisteria) per primo formulata in economia nel 1829 da Richard Whateley, cattedratico all’Università di Oxford e vescovo della Chiesa Anglicana.
Secondo questa tesi, la sfera dell’economia va tenuta separata sia dalla sfera dell’etica sia da quella della politica, se si vuole che l’economia ambisca a vedersi riconosciuto lo statuto di disciplina scientifica. E così è stato, almeno fino a tempi recenti, quando si è cominciato a parlare con Amartya Sen e altri, di economia e etica.
I paragrafi 7-12 di Opq si soffermano con grande incisività a descrivere come dall’accettazione del principio del Noma sia derivato l’accoglimento dell’assunto antropologico (di ascendenza Hobbesiana) dell’homo homini lupus, posto a fondamento della figura dell’homo oeconomicus.
Ben diverso è l’assunto antropologico da cui parte il paradigma dell’economia civile - fondato da Antonio Genovesi nel 1753 a Napoli - che, rifiutando esplicitamente il Noma, riconosce che homo homini natura amicus. («L’uomo è per natura amico dell’altro uomo»).
Seconda novità di rilievo del Documento è la rilevanza attribuita al principio della responsabilità adiaforica, di cui quasi mai si fa cenno. Il par. 14 recita: «Ad li là del fatto che molti operatori siano singolarmente animati da buone e rette intenzioni, non è possibile ignorare che oggi l’industria finanziaria, a causa della sua pervasività e della sua inevitabile capacità di condizionare e di dominare l’economia reale, è un luogo dove gli egoismi e le sopraffazioni hanno un potenziale di dannosità della collettività che ha pochi eguali».
È questo un esempio notevole di struttura di peccato, come la chiamò, per primo nella Dottrina Sociale della Chiesa, Giovanni Paolo II nella sua Sollecitudo Rei Socialis (1987). Non è il solo operatore di borsa, o banchiere o uomo d’affari ad essere responsabile delle conseguenze delle azioni che pone in atto. Anche le istituzioni economiche, se costruite su premesse di valore contrarie ad un’etica amica dell’uomo, possono generare danni enormi a prescindere dalle intenzioni di coloro che in esse operano. Per meglio comprendere la ragione di ciò, conviene fissare l’attenzione su tre caratteristiche specifiche della nuova finanza.
La prima è l’impersonalità dei contesti di mercato, la quale oscura il fatto che da qualche parte vi è sempre un qualcuno sull’altro lato dell’affare. La seconda caratteristica è la complessità della nuova finanza che fa sorgere problemi di agentività indiretta: il principale si riconosce moralmente disimpegnato nei confronti delle azioni poste in essere dal suo ’ingegnere finanziario’, cioè dall’esperto cui affida il compito di disegnare un certo prodotto, il quale a sua volta si mette il cuore in pace perché convinto di eseguire un ordine.
Accade così che ognuno svolge il suo ruolo separando la propria azione dal contesto generale, rifiutandosi di accettare che, anche se solo amministrativamente, era parte dell’ingranaggio. Infine, la nuova finanza tende ad attrarre le persone meno attrezzate dal punto di vista etico, persone cioè che non hanno scrupoli morali e soprattutto molto avide. Riusciamo così a comprendere perché il problema non risiede unicamente nella presenza di poche o tante mele marce; ma è sulla stessa cesta delle mele che si deve intervenire.
Il Documento in questione, infine, prende definitiva ed esplicita posizione contro la tesi della doppia moralità - purtroppo diffusa anche tra alcune organizzazioni di tipo finanziario che dichiarano di ispirarsi alla Dottrina Sociale della Chiesa. Per capire di che si tratta conviene partire dal saggio di Albert Carr, ’Is business bluffing ethical?’ pubblicato sulla prestigiosa Harvard Business Review nel 1968. È questo il saggio che, più di ogni altro, ha guidato fino ad oggi la riflessione etica nel mondo degli affari. Vi si legge che l’uomo d’affari di successo deve essere guidato da «un diverso insieme di standars etici», poiché «l’etica degli affari è l’etica del gioco [d’azzardo], diversa dall’etica religiosa». Assimilando il business al gioco del poker, il noto economista americano conclude che «gli unici vincoli di ogni mossa nel business sono la legalità e il profitto.
Se qualcosa non è illegale in senso stretto (sic!) ed è profittevole allora è eticamente obbligante che l’uomo d’affari lo realizzi». I paragrafi dal 22 al 34 di Opq si soffermano sul faciendum: che fare per cercare di invertire la situazione? Parecchie le proposte - tutte realizzabili - che vengono avanzate. Dal sostegno a istituti che praticano la finanza non speculativa, come le Banche di Credito Cooperativo, il microcredito, l’investimento socialmente responsabile, alle tante forme di finanza etica. Dalla chiusura della finanza offshore e dalle forme di cannibalismo economico di chi, con i credit default swaps, specula sul fallimento altrui, alla regolamentazione dello shadow-banking, soggetti finanziari non bancari che agiscono come banche ma operando al di fuori di ogni quadro normativo ufficiale.
L’obiettivo da perseguire è quello di assicurare una effettiva biodiversità bancaria e finanziaria. Di speciale interesse è inoltre la proposta di affiancare ai Cda delle grandi banche Comitati Etici costituiti da persone moralmente integre oltre che competenti - così come già accade nei grandi policlinici. Nell’aprile 2015 la ’Dutch Banking Association’ (l’Associazione di tutte le banche olandesi) stabilì di esigere dai dipendenti delle banche (circa 87.000 persone) il ’Giuramento del Banchiere’, stilato sulla falsariga del giuramento ippocratico per i medici.
Il giuramento consta di otto impegni specifici. Ne indico solamente un paio: «Prometto e giuro di mai abusare delle mia conoscenze»; «Prometto e giuro di svolgere le mie funzioni in modo etico e con cura, adoperandomi di conciliare gli interessi di tutte le parti coinvolte: clienti, azionisti; occupati; società». Si opera dunque a favore di tutte le classi di stakeholder e non solamente di quella degli azionisti. Sarebbe bello se sull’esempio dell’Olanda - un Paese non certo sprovveduto né arretrato in materia finanziaria - anche l’Italia volesse seguirne la traccia.
Delle tre principali strategie con le quale si può cercare di uscire da una crisi di tipo entropico - quale è l’attuale - e cioè quella rivoluzionaria, quella riformista, quella trasformazionale, il Documento Opq sposa, in linea con il Magistero di papa Francesco, la terza. Si tratta di trasformare - non basta riformare - interi blocchi del sistema finanziario che si è venuto formando nell’ultimo quarantennio per riportare la finanza alla sua vocazione originaria: quella di servire il bene comune della civitas che, come ci ricorda Cicerone, è la «città delle anime», a differenza dell’urbs che è la «città delle pietre». È questa la strategia che vale, ad un tempo, a scongiurare il rischio sia di utopiche palingenesi sia del misoneismo, che è l’atteggiamento tipico di chi detesta la novità e osteggia l’emergenza del nuovo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
LA CHIESA DI COSTANTINO, L’AMORE ("CHARITAS") E LA NASCITA DELLA DEMOCRAZIA DEI MODERNI. LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
LA CATTEDRA DI SAN PIETRO UNA CATTEDRA DI ECONOMIA POLITICA. Tutti a scuola in Vaticano, per aggiornamenti. Materiali per approfondire
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL RAZZISMO E LA LEZIONE DI VICO
Una commissione contro il razzismo
di Liliana Segre (la Repubblica, 05.05.2018)
Cari ragazzi e ragazze della Nuova Europa, ci sono molti modi per impegnarsi, efficacemente, nella materia, enorme e delicata, della discriminazione, ed io non cerco scorciatoie. Per dirla con parole antiche (Giambattista Vico) i rischi di una deriva autoritaria sono sempre dietro l’angolo. Lui, l’autore dei corsi e ricorsi storici, aveva visto lungo. Arrivo subito al punto consegnando a voi, che siete su un’isola, un “messaggio in bottiglia”: il mio primo atto parlamentare.
Intendo infatti depositare nei prossimi giorni un disegno di legge che istituirà una Commissione parlamentare d’indirizzo e controllo sui fenomeni dell’intolleranza, razzismo, e istigazione all’odio sociale. Si tratta di raccogliere un invito del Consiglio d’Europa a tutti i paesi membri, ed il nostro Paese sarebbe il primo a produrre soluzioni e azioni efficaci per contrastare il cosiddetto hate speech.
Questo primo passo affianca la mozione che delibera, anche in questa legislatura ( la mia firma segue quella della collega Emma Bonino) la costituzione di una Commissione per la tutela e l’affermazione dei diritti umani. C’è poi il terzo anello del discorso, l’argomento che più mi sta a cuore e che coltivo con antica attitudine: l’insegnamento in tutte le scuole di ogni ordine e grado della storia del ‘900. In una recentissima intervista, la presidentessa dell’Anpi, Carla Nespolo, ha insistito sullo stesso punto: «La storia va insegnata ai ragazzi e alle ragazze perché raramente a scuola si arriva a studiare il Novecento e in particolare la seconda guerra mondiale. Ma soprattutto non si studia che cosa ha significato per interi popoli europei vivere sotto il giogo nazista e riconquistare poi la propria libertà». Ora che le carte sono in tavola rivolgo a voi un invito molto speciale.
Un appello per una rifondazione dell’Europa, minacciata da “autoritarismi e divisioni” che segnalano l’emergere di una sorta di “nuova guerra civile europea”.
Il vento che attraversa l’Europa non è inarrestabile. Riprendete in mano le carte che ci orientano, che sono poche ma buone: in quelle righe sono scolpiti i più alti principi della convivenza civile, spetta a voi battervi perché trovino applicazione: grazie alla nostra Costituzione (70 anni fa) siamo entrati nell’età dei diritti e gli articoli 2 e 3 della Carta sono lì a dimostrarlo, il passaporto per il futuro.
La carta europea dei diritti fondamentali (che ha lo stesso valore dei trattati) è l’elevazione a potenza europea di questi principi, intrisi di libertà ed eguaglianza che abbiamo, orgogliosamente, contribuito a esportare.
Se vogliamo impastare i numeri con la memoria direi che siamo passati, in un solo “interminabile” decennio, dalla difesa della razza (1938) alla difesa dei diritti (1948). Il futuro deve essere orientato diversamente nel solco dei diritti inalienabili ecco perché, concedetemi la citazione, a cinquant’anni dal suo assassinio, Martin Luther King diceva che occorre piantare il melo anche sotto le bombe. È questo il momento giusto!
PER UN’ALTRA EUROPA E PER UN’ALTRA ITALIA. Al di là dei "corsi e ricorsi", il filo della tradizione critica. Contro la cecità e la boria dei dotti e delle nazioni ...
Una terra per millenari incroci di destini
Tra passato e presente. «Storia mondiale d’Italia», a cura di Andrea Giardina, per Laterza. Il monumentale volume, che uscirà il 16 novembre, presenta un racconto aperto, contro la boria di ogni nazionalismo
di Piero Bevilacqua (il manifesto, 12.11.2017)
Costituisce un evento editoriale e culturale di prima grandezza la pubblicazione della Storia mondiale d’Italia, a cura di Andrea Giardina (Laterza, pp.820, euro 30) e per più di una ragione. L’idea del libro, mutuata da Giovanni Carletti, editor laterziano, dalla recente edizione in Francia dell’Histoire mondiale de la France a cura di Patrick Boucheron, trova nella vicenda millenaria del nostro paese una realizzazione che si può definire monumentale. Se non fosse che il termine allude più alle dimensioni e alla organicità dell’opera che non al carattere programmaticamente sovvertitore che anima il testo.
UNA STRATEGIA INNOVATIVA già saggiata dal prototipo francese, ispirata, come scrive Boucheron nel suo Invito al viaggio, che accompagna l’introduzione di Giardina: «la scelta di seguire il tracciato di una storia discontinua, sorprendente, aperta, che consentisse al lettore di attraversare liberamente un racconto nel quale ci si riconosce ma dove, nel riconoscersi, ci si scopre diversi da ciò che si credeva di essere».
Il fine è quello di «disorientare la storia» e, ancor di più arditamente, «defatalizzare il tempo». Vale a dire correggere soprattutto l’immaginario identitario di popoli che hanno attraversato vicende «nazionali» di straordinaria ricchezza e ampiezza di influenza e che oggi si trovano immersi in una storia mondiale molto più ravvicinata e quotidiana di quanto non sia stato in passato. Una storia in cui appare urgente riconoscere i propri apporti di lungo periodo e i condizionamenti subiti perché «è nel loro rapporto con l’universale che i sentimenti nazionali si costruiscono tanto in Francia che in Italia».
Il testo coordinato da Giardina, parte dalle Alpi preistoriche e termina con la Lampedusa di oggi, un quadro geografico ben delimitato e chiuso entro cui si svolge una vicenda millenaria di straordinaria e forse unica varietà.
Il «popolamento eccezionalmente misto dell’Italia nel corso dei millenni - ricorda Giardina - la politica già romana della cittadinanza e dell’integrazione, le invasioni germaniche, le presenze islamiche, francesi, spagnole e così via, quasi un caleidoscopio etnico in perenne rotazione» ne fanno un caso esemplare per questo nuovo modo di fare storia. Per millenni dentro i confini territoriali della Penisola si è svolta una vicenda che ha coinvolto le culture, le religioni, le consuetudini di decine di altri popoli insediati in spazi prossimi e lontani del pianeta. Ma al tempo stesso mondiale è stata la proiezione dell’Italia, con i suoi uomini, le sue idee, il suo cibo, la sua arte e le sue tradizioni religiose. Si pensi all’universalismo cattolico, incarnato dalla centralità di Roma, che sorge nel mondo antico e vive ancora nella spiritualità e nell’immaginario di oggi. Questa molteplicità etnica e culturale del nostro Paese, consente di guardare in maniera ricca e spiazzante al cosiddetto carattere degli italiani, «uno dei principali protagonisti di questo libro, anche perché forse nessun altro popolo ha ricevuto un numero altrettanto grande di aggettivi».
MA GIARDINA tiene conto dell’insegnamento di Croce: «Qual è il carattere di un popolo? La sua storia: tutta la sua storia e nient’altro che la sua storia». Ed è questa storia che oggi ci riappare, grazie al lavoro corale di diverse decine di specialisti italiani e stranieri, sotto una luce nuova, più aderente al modo in cui essa realmente si è andata svolgendo, più vicina all’orizzonte universale con cui noi oggi osserviamo l’accadere nella nostra epoca. Occorre infatti considerare quanto di «tolemaico», subalterno all’apparente, c’è ancora nel nostro modo di guardare al passato, come se a una storia mondiale approdassimo oggi, grazie alla globalizzazione. E invece la storia mondiale precede quella nazionale, non solo perché le nazioni nascono tardi, ma perché per millenni la geografia ha imposto il suo dominio al movimento di uomini e merci che dovevano ricorrere agli spazi internazionali del mare.
UN MODO DI GUARDARE al passato che manda in frantumi ogni «boria delle nazioni» e annichilisce alla radice ogni pretesa chiusura identitaria, il pregiudizio di una storia delimitabile entro muri e confini. E il messaggio civile di Giardina è esplicito «non sono pochi gli italiani che oggi vorrebbero serrare il mare come se fosse l’uscio di casa... Ma il fatto è che l’istinto della tana conduce verso spazi sempre più stretti: dalla nazione alle città, dalle città ai quartieri, dai quartieri agli isolati, alle case e infine agli appartamenti. E dopo, cosa viene dopo?».
NON È FACILE dar conto dei centottanta saggi contenuti nel libro, che occupano otto pagine di indice. La segnalazione sarà necessariamente casuale come in parte erratica è stata sinora la nostra lettura. E tuttavia sufficiente per fornire più che una suggestione, per un testo che potrebbe diventare un breviario di storia da tenere sul comodino, un vademecum per la formazione cosmopolita dei giovani, un’«enciclopedia» da consultare costantemente.
I capitoli sono scanditi da date, spesso un anno, talora un preciso giorno, qualche volta un gruppo di secoli. Si pensi al saggio 150 a.C. Dall’Italia alla Groenlandia (Elio Lo Cascio). I carotaggi effettuati nei ghiacciai della Groenlandia rivelano che l’inquinamento atmosferico generato dalla produzione di rame e argento giunge al massimo, prima della rivoluzione industriale, tra i secoli II a.C. e il II d.C. Una straordinaria conferma della potenza dell’economia romana e del primato della Penisola in quell’epoca.
MA LA POTENZA ha i suoi lati oscuri e mostra la multiforme umanità che ha contribuito a costruirla. La rivolta di Spartaco, che con 70mila uomini infligge non poche sconfitte all’esercito romano, rivela la natura multietnica del proletariato dell’epoca: «Schiavi-merce portati da ogni angolo del Mediterraneo. Uomini soprattutto, ma anche donne e bambini acquistati sui mercati orientali», oppure prigionieri di guerra trascinati a Roma come bottino (Orietta Rossini).
Il carattere internazionale della storia della Penisola non è meno rilevante quando, nel medioevo, la potenza sovranazionale dell’Impero vive solo nell’immaginario dell’epoca e l’Italia non è neppure uno stato-nazione. Ma le sue città sono già terminali dell’economia-mondo.
Nel saggio 1088 Una comunità sovranazionale basata sulla conoscenza (Annick Peters-Custot) l’autrice mostra come l’Università di Bologna - che ha avuto più seguito e fortuna della scuola medica salernitana - diventi, a partire da quell’anno, uno straordinario centro di attrazione mondiale dei giovani dell’epoca, ansiosi di conoscenza e di manifestare il libero pensiero. Un’altra città, Firenze, che nel 1252 avvia la coniazione del fiorino d’oro - dopo un millennio che l’oro era scomparso dalla monetazione - ne fa «il dollaro della crescita medievale», destinato a governare il commercio internazionale. Mentre, nello stesso anno, viene coniato a Genova il «genovino d’oro», Firenze e la Penisola vengono acquistando «una posizione di primo piano nell’economia europea» (Franco Franceschi).
ANCHE IN ETÀ MODERNA e contemporanea, tra primati e fallimenti, il profilo della nostra storia appare inscindibilmente legato a quella di altri popoli e di altri spazi nazionali e continentali: per commercio, migrazioni, guerre e avventure coloniali, influenze culturali (arte e cibo soprattutto) e perfino sport. C’è un 1982 Italia-Germania 3 a 1 (Fabien Archambault) a indicare la popolarità identitaria guadagnata dal calcio in Italia e il nuovo prestigio mondiale acquisito in questo sport. Felice poi la chiusa del libro con la tragedia dell’affondamento del peschereccio di migranti, africani e asiatici, di fronte a Lampedusa il 18 aprile 2015 (Ignazio Masulli).
Una vicenda che ci ricorda come le Penisola continui a essere terra d’incrocio dei destini di vari popoli e come il nostro abbia concorso, e concorra, nel bene e nel male, alla storia degli altri, per farne una vicenda plurale comune.
IN MEMORIA DI SANT’AGOSTINO (E IN ONORE DEL LAVORO DELLA FONDAZIONE "TERRA D’OTRANTO").
"ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS"), DALLA GRAZIA ("gr.: "XAPIS", lat.: "CHARIS") DI DIO AMORE ("CHARITAS"), NON DI DIO MAMMONA ("CARITAS") ...
Lode a Marcello Gaballo per questa bellissima e preziosa nota su "L’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/28/laffresco-di-santagostino-nella-cattedrale-di-nardo/#_ftn1) - e il lavoro di De Giorgi: la sua trascrizione della scritta sul cartiglio (ormai scomparsa) "iuste/et cas/te viv/ere et/ xarita(te)" - contrariamente alla protervia che ha portato allo "sproposito maiuscolo" e alla brutta abitudine instauratasi almeno a partire da Ludovico A, Muratori di una "caritas" latina! - conserva ancora la memoria del legame della tradizione dell’evangelo (non: "vangelo"!) con la lingua greca ("charis", "charites"... "charitas").
FILOLOGIA E FILOSOFIA/TEOLOGIA. Giambattista Vico ("De constantia iurisprudentis", 1721) giustamente e correttamente e onestamente così pensava e scriveva: "Solo la carità cristiana insegna la prassi del Bene metafisico"("Boni metaphysici praxim una charitas christiana docet"). Sapeva che Gesù ("Christo") aveva cacciato i mercanti FUORI dal tempio, e non aveva autorizzato i sacerdoti a vendere a "caro-prezzo" (lat.: "caritas") la "grazia" (gr.: "Xapis", lat.: "Charis") di Dio (lat.: "Charitas")!!!
Due padroni: Dio "Charitas" o dio "Caritas"?!, Dio Amore o dio Mammona?! In questo bivio ("X") ancora siamo, oggi - e ancora non sappiamo sciogliere l’incognita (""x")!
Sul tema, mi sia consentito, si cfr. la seguente nota:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori
MURATORI E RATZINGER. "DEUS CARITAS EST": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ E SULLO SPIRITO CRITICO, OGGI. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Storiografia in crisi d’identità ...
LO SPIRITO E L’OSSO storia, immaginario, filosofia e psicoanalisi
L’analogia armata del Califfato. Parole e conflitti retorici
di Fabio Milazzo*
Sgozzature, lapidazioni, defenestrazioni, crocifissioni, esecuzioni di donne, bambini e anziani, come forma di disciplinamento di massa alle "quali assistono folle intere, mentre fanno acquisti o nel bel mezzo del traffico di tutti i giorni" (p. 10). Tra tanti segni di barbarie, gli omicidi ritualizzati e "scenarizzati" a fini di propaganda, forse, rappresentano l’elemento che più di tutti ha colpito l’immaginario dell’Occidentale, quello che si confronta con ciò che Slavoj Žižek definisce l’orrore del Reale insimbolizzabile. Un orrore incomprensibile che, proprio per questo, scatena sterili reazioni di diniego e ingenui tentativi di reductio ad absurdum. Si invoca l’analfabetismo culturale e politico, l’idiozia gutturale sottolineata "dalle grida dei selvaggi" (p. 10), si riporta tutto alla miseria psico-sociale di chi, nato e cresciuto in una condizione di cieca disperazione, regredirebbe alla condizione animale (avete mai visto animali uccidere ritualmente?). Ma siamo così sicuri che oltre lo sconcerto ci sia solo il confronto con un mondo-barbaro da cui crediamo esserci emancipati?
Non è che semplicemente ci stiamo rapportando con un mondo che utilizza logiche espressive - e quindi modelli mentali - troppo diversi dai nostri per poterli ridurre alle comode e rassicuranti coordinate che danno forma al mondo sorto dall’Illuminismo?
Questi interrogativi tengono in piedi il libro di P.-J. Salazar "Paroles Armées. Comprendre et Combattre la Propagande Terroriste, appena tradotto in Italia per Bompiani. Lo dico subito: quello di Salazar è un grande libro che ha il coraggio di non abbandonarsi ai toni ideologici della maggior parte delle ermeneutiche in circolazione e, senza girarci intorno, chiarisce la posta in gioco dello scontro con l’Is: la retorica.
Continuare a ripetere che le ragioni dello scontro sono (innanzitutto) economiche, legate all’arretratezza dell’Islam o effetti residuali del colonialismo, non consente di focalizzare quella che possiamo chiamare l’oscena fantasia che tiene in piedi le narrazioni in campo. Ci sono visioni del mondo - quindi modi di usare le parole per costruire le storie che riempiono l’immaginario - totalmente diverse tra l’Occidente logocentrico e questo Islam tanto violento quanto retoricamente eccessivo e dallo stile figurato.
Precisiamo che le dicotomie, i "noi" e i "loro", ovviamente, non hanno ragion d’essere alla luce di una microfisica psico-sociale in grado di evidenziare la contingenza e l’irriducibile valore differenziale delle soggettività, ma mostrano il loro valore nel momento in cui si ha a che fare con il campo dell’immaginario di gruppo, con quei quadri-mentali-collettivi[2] su cui tanto si sono dibattuti gli storici novecenteschi delle Annales[3]. Quadri riconosciuti dallo stesso Lacan con la definizione di "mentalità". D’altra parte il parlante è sempre immerso nel proprio involucro immaginario, fatto di parole che organizzano sia le rappresentazioni, sia il senso attraverso cui fa esperienza del mondo. Non si capisce perché questa considerazione - neanche troppo originale oggi - non debba valere per le collettività, per mondi e nicchie-antropologiche che prendono forma entro coordinate storico-discorsive contraddistinte da una condivisione retorica di fondo molto forte.
In quest’ottica, non comprendere la mentalità dei terroristi, ridurla ad epifenomeno di cause economiche e materiali, significa operare con un perverso rasoio irriflesso in nome del riduzionismo più becero e ingenuo. Salazar lo sottolinea a più riprese, evidenziando quanto il problema dello scontro con l’Isis riguardi l’incomunicabilità di mondi che usano forme discorsive diverse.
"C’è - ci dice - una logica dietro i discorsi del Califfato, che sembrano presentare uno scarto rispetto a ciò che noi consideriamo logico, ragionevole e persuasivo in politica. Una logica di altro genere [...] che possiede, oltre alla professione di fede e alla sua forza evocativa poetica un rigore dialettico. Il rigore del ragionamento per analogia" (p. 14).
Soprattutto queste ultime parole fanno venire voglia di riprendere in mano un gigante del pensiero come Enzo Melandri che nel suo «La linea e il circolo»[4] lungamente si è espresso sulle peculiarità di questo procedimento discorsivo. Si tratta di fare fino in fondo i conti con uno stile retorico-espressivo, ma anche con modelli di pensiero, che solo a fatica possono essere ricondotti "al sistema logico dei ragionamenti scientifici o razionali" (p.13). Se l’Europa ha messo al bando (salvo riconoscergli un ruolo osceno) la poetica e la retorica, separandole nettamente dal ragionamento logico e dalle argomentazioni scientifiche, così non è accaduto nel mondo islamico in cui "uno slancio lirico" vale come argomento e prova logica. -Facciamocene una ragione.
Siamo dunque condannati all’incomunicabilità e all’impossibilità del dialogo? Salazar non è così pessimista e lo dice bene in questa intervista:
«Se le armi non bastano, come possiamo contrastare il Califfato? Con l’istruzione. Dobbiamo educare una popolazione, quella europea, che vive di luoghi comuni. [...] Gli allievi europei non studiano bene la storia e la geografia. Di conseguenza, il vecchio continente si ritrova con una marcia in meno rispetto al Califfato che invece mette in mostra una notevole cultura, coltiva i grandi testi non solo religosi, cita i filosofi, recita poesie e canta inni. L’Europa mette in mostra una tecnologia che le si ritorce contro e nel frattempo vive un deficit culturale»[5].
Per inciso, la scuola - e il suo valore formativo - trova in queste dichiarazioni spazi inediti di possibile affermazione e rivalutazione in un periodo di profonda crisi in atto. Ma questo è un altro discorso.
Il libro di Salazar non si limita soltanto ad evidenziare quanto sia scorretto, oltre che inutile, cercare di imporre la logica argomentativa sviluppatasi dopo la rivoluzione scientifica come chiave di lettura per decifrare l’orrore del Califfato, ma sottolinea anche quanto siano falsate - e ingenue - le ermeneutiche che riducono il fenomeno jihadista a semplice effetto sovrastrutturale, a conseguenza di una subordinazione economica, da parte del mondo musulmano, insostenibile nell’epoca della colonizzazione mediatica.
Questa tesi, più o meno argomentata, è inconsistente se consideriamo quanto il proselitismo del Califfato interessi anche (soprattutto?) persone istruite che sembrano essere alla ricerca di valori chiari e di ideali da difendere, piuttosto che il riscatto economico, centrale invece per l’immaginario collettivo Occidentale.
Non «considerare - ci dice l’Autore - il jihadismo come qualcosa di diverso da una patologia di imbecilli» (p.70) è una «cantonata» fondamentale, tipica di una società incapace di relazionarsi con l’Altro - per dirla con Lacan - senza ridurlo all’altro - delle proiezioni narcisistiche. I video e i periodici dei jihadisti dell’Isis, invece, sono pensati «per giovani intelligenti e istruiti, beneficiari di un buon capitale culturale e materiale, lettori attenti alla ricerca di argomenti solidi (anche se in ordine ad una teoria dell’argomentazione diversa dalla “nostra”) e di idee sviluppate con cura» (p.71).
Non deve così sorprendere - né essere considerata una eccezione - che le «tre brillanti liceali inglesi passate al Califfato [...] e il giovane medico australiano che è andato a esercitare il suo mestiere là dove lo hanno portato le sue convinzioni» (p.71) appartengano a quell’universo di gente istruita, che è andata a scuola e si è magari laureata, che le teorie del sottosviluppo economico come molla per l’adesione agli ideali dell’Isis dovrebbero non contemplare.
Invece ecco che si palesa un dato: la propaganda del Califfato si rivolge a persone «animate da un desiderio meditato» (p.71) di martirio. Per quanta fatica si faccia ad accettare questo elemento, questo ci dicono i dati a nostra disposizione e negarli, o cercare spiegazioni poco convincenti e contorte per giustificare una tesi postulata per principio è non soltanto epistemologicamente scorretto ma anche intrinsecamente contraddittorio.
Ma allora «come rispondere a tutto questo? Banalizzando il fenomeno - ci dice Salazar-: facendo circolare quelle riviste [del Califfato] nelle scuole, prendendone spunto per analisi del testo e decostruzioni radicali [...] per ridurre a poca cosa quei documenti materiali attraverso prove argomentate di linguaggio, grazie a ciò che la tradizione culturale francese sa fare meglio. Pensare in modo chiaro e distinto» (p.100). Si tratta cioè di non rifiutare il confronto, di non giocare sulla difensiva ma di contrattaccare retoricamente. E, in tale ottica, la risposta più intelligente che possiamo dare è quella di costruire narrazioni convincenti, basate su argomenti solidi, in grado di convincere quei giovani che sono tentati di abbracciare l’idea mortifera del Califfato di quanto l’intenzione sia una scelta da vicolo cieco. Contro-narrazioni in grado di decostruire la propaganda jihadista e di offrire valide alternative teoriche innanzitutto. Continuare a ripetere lo stanco e logoro mantra dell’arretratezza culturale, figlia del sottosviluppo economico, è controproducente, inutile e scioccamente supponente, anche se di una supponenza perversa, tipica di chi non riconosce effettiva autonomia di pensiero all’Altro ma, implicitamente, lo considera incapace di processi simbolici autonomi e, quindi, di scelte etiche libere. Lo dice con chiarezza Salazar:
«Che si conduca o meno un’offensiva militare effettiva sul campo del Califfato, bisogna ripensare i termini retorici di questo eventuale impegno e ammettere che lo scontro comincia con una guerra retorica in cui l’avversario controlla una panoplia omogenea che va dall’ingiunzione all’analogia, passando per un’arte oratoria convincente e sostenuta dalla potente logica di un legalismo imperativo. [...] Bisognerà pensare islamico, parlare islamico, argomentare islamico. Mettersi alla portata retorica dell’avversario» (p.19).
Mettersi alla portata retorica dell’avversario significa anche considerarlo come tale, nel suo essere radicale differenza, alterità da prendere come tale, anche quando si serve, ragiona e giudica attraverso una forma argomentativa - quella analogica - che alle nostre orecchie stupisce e ci appare «perversa o delirante» (p. 14). «L’analogia è il quarto fondamento del ragionamento giuridico» (p.15) islamico, che vuol dire che attraverso l’analisi di un esempio tratto dalla Tradizione si procede all’emissione di un parere giuridico (fatwa) vincolante. Anche le condanne a morte, che tanto orrore provocano a Occidente, vengono inflitte su questa base logica. Possiamo davvero pensare di confrontarci con questo mondo senza aver adeguatamente sviluppato le conseguenze teoriche ed etiche di ciò? «Utilizzando le analogie nella sua propaganda - ci dice Salazar-, la politica jihadista si nutre quindi di un’atmosfera retorica che ci sembra strana o irrazionale [...], che però costituisce una forma politica di interpretazione delle cose, potente e generale» (p.16). Improntare una guerra-retorica per decostruire la propaganda dell’avversario, significa dunque, innanzitutto, «ripensare i termini retorici» (p. 19) di questo scontro e non sottovalutarne la portata performativa.
In definitiva la lezione di questo libro riguarda il fatto che c’è una "potenza oratoria e persuasiva" (p.8) assolutamente incomprensibile per i canoni logocentrici delle "nostre orecchie" abituati a concatenamenti logici di causa ed effetto e fintanto che non riusciremo a misurarne il peso e il valore saremo "disarmati", teoricamente innanzitutto. Prendere confidenza, conoscere, valutare "una logica di altro genere"(p.14), e i fantasmi (dell’inconscio collettivo) che la incorniciano, è quindi il passo necessario per evitare quella forma di etnocentrismo culturale da cui riteniamo di esserci vaccinati ma che, in forma perversa, rischia di vanificare le nostre interpretazioni e, quindi, le strategie per combattere la propaganda del Califfato.
[1] Cfr. P.-J. Salazar “Parole armate” di Salazar: ecco la cultura del Califfato che sottovalutiamo in «Io Donna- Corriere della Sera», 22 Gennaio 2016, http://www.iodonna.it/attualita/in-primo-piano/2016/01/22/philippe-joseph-salazar-parole-armate-il-califfato-lo-si-combatte-con-la-cultura-e-le-minacce-a-roma-sono-serie/
[2] Cfr. P. Corrao, Storia della Mentalità in «Studi culturali», http://www.studiculturali.it/dizionario/lemmi/storia_delle_mentalita.html
[3] Cfr. Voce «Annales» in Treccani.it, http://www.treccani.it/enciclopedia/annales/
[4] Cfr. E. Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia (1968), Quodlibet, Macerata 2004
[5] Cfr. P.-J. Salazar “Parole armate” di Salazar: ecco la cultura del Califfato che sottovalutiamo...cit.
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA. Storiografia in crisi d’identità:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Note per una rilettura (pdf, scaricabile)
PAROLA DI VICO. SULLA MODERNITÀ DI CARTESIO, RICREDIAMOCI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
IL MITO DELLA ROMANITÀ E DELLA GRECITÀ: LA PUNTA DI UN ICEBERG. Molti filologi, storici, archeologi e filosofi italiani e tedeschi si prestarono a favorire questa operazione ...*
Nazisti antiquari, non filologi
di Roberto M. Danese (Alfabeta-2, 27 luglio 1917)
Nel 2008 esce in Francia il volume di Johann Chapoutot Le national-socialisme et l’Antiquité per le edizioni PUF. Nel 2012 il libro viene ripubblicato in edizione rivista con il titolo Le nazisme et l’Antiquité. È quest’ultima versione che esce ora in Italia come Il nazismo e l’Antichità. La differenza nel titolo non è secondaria. Se vogliamo trovare infatti un limite in quest’opera, è il tono generale un po’ troppo apertamente irridente nei confronti dei nazisti, a partire dalla scelta di sostituire nel titolo l’originario national-socialisme con il più polemico nazisme usato negli anni Venti dagli oppositori di Hitler.
Chapoutot è un brillante storico del Terzo Reich, che ha voluto riservare specifica attenzione a un fenomeno già piuttosto noto e indagato, ma comunque bisognoso di una nuova analisi scientifica. La necessità di un libro come questo, molto ben documentato e altrettanto ben costruito, è data non solo dall’interesse per un aspetto importante della politica culturale nazista, ma anche dall’impatto che uno studio del genere può avere sul nostro tempo.
Chapoutot dimostra con grande abilità che il nazismo non si è limitato a mistificare la cultura greca e romana, ma ha fatto di questa mistificazione una base fondamentale per la giustificazione ideologica del proprio agire politico e uno strumento formidabile di indottrinamento per il popolo tedesco. Insomma, ben più di quanto fece il fascismo con il folclorico riutilizzo della romanità. Hitler (e in qualche modo Himmler) prima crearono, grazie alla connivenza di studiosi tedeschi proni al dettato ideologico del Reich, una base scientifica che sancisse in modo indiscutibile l’origine germanica delle grandi civiltà greca e romana, quindi utilizzarono questa - per loro - incontrovertibile verità per rivendicare a sé tutti i migliori frutti di quelle antiche culture, a cominciare dalle città e dalle opere d’arte.
Non fu purtroppo solo un gioco propagandistico, ma una delle giustificazioni principali per l’espansionismo tedesco e per il progressivo irrobustirsi della politica razziale: proclamandosi eredi e insieme padri delle civiltà di Pericle e Augusto (entrambi, per loro, di sangue nordico), si arrogarono il diritto di proclamare inferiori, corrotte e corruttrici tutte quelle razze e quelle culture che non rientravano in questa netta linea genealogica, arruolando come campioni della razziologia autori quali Tirteo oppure Orazio.
Sulla reviviscenza di quegli antichi valori modellarono poi il loro inquietante programma ideologico: superiorità della razza nordica, eliminazione delle razze degenerate di origine negroide-semitica, una institutio nazionale che unisse cura del corpo e della mente, fede nell’irrazionalismo e nello Stato sociale contro il razionalismo di matrice umanistica, opposizione fra l’uomo “totale” ariano e l’uomo “scisso” di ascendenza cristiana.
Il libro di Chapoutot è molto dettagliato e complesso, ma di lettura agevole e avvincente, soprattutto chiaro nel mettere a fuoco gli obiettivi che il nazismo perseguiva nell’utilizzo dell’antichità classica. Sarebbe interessante analizzare molti aspetti di questo saggio, ma ne sceglierò solo un paio per cercare di mostrarne l’utilità e l’attualità. Nel 1933 Hitler volle una grande riforma scolastica che contribuisse a formare sin dall’infanzia il vero uomo tedesco.
Molti filologi, storici, archeologi e filosofi tedeschi si prestarono a favorire questa operazione, che voleva inculcare nei ragazzi i grandi ideali “nordici” della Grecia e di Roma, senza però farli riflettere troppo sui testi. Chapoutot documenta molto bene il dibattito che si accese in merito fra politica, classicisti e insegnanti di scuola: bisognava esaltare l’affinità di sangue e di cultura con gli antichi, ma bisognava anche diminuire le ore di greco e di latino nelle scuole, privilegiando gli studi storico-ideologici a discapito di quelli linguistico-grammaticali.
Se guardiamo al dibattito oggi in atto in Italia e in Europa sugli studi classici, non possiamo non accorgerci che si stanno usando simili argomentazioni per limitare il ruolo e lo studio delle lingue antiche, in vista del perseguimento di una cultura del fare più che del pensare.
Scrive Chapoutot sul programma educativo nazista: “Il sapere è legittimo solo nella misura in cui è immediatamente utile alla comunità del popolo e allo Stato”. E poi: “Il sapere specializzato consacrato dal regime è un sapere tecnico, pratico, immediatamente disponibile e utilizzabile, che dunque esclude ogni meditazione e quella libertà disinteressata che è propria del pensiero”.
Leggete gli attacchi contemporanei verso il liceo classico e verso lo studio del greco e del latino sui nostri giornali e sul web, considerate la filosofia di accreditamento degli Atenei da parte delle Agenzie per la Valutazione dell’Università e della Ricerca, quindi provate a fare un confronto con la cultura del fare esaltata dal regime nazista e messa alla base di ogni suo progetto formativo. Alla fine anche Heidegger aveva capito che tutto ciò era pericoloso, molto pericoloso...
Veniamo poi al marcato antifilologismo di tanti intellettuali al servizio del Führer. Chapoutot ci racconta che Hitler volle un aumento di attenzione verso l’antichità classica ma un’attenuazione del suo studio dal punto di vista veramente scientifico.
È qualcosa di simile a quello che sta succedendo oggi, in un quadro di crescente attenzione per l’antichità classica: nelle università ci sono sempre più archeologi che non sanno una parola di greco o di latino, modernisti che non riusciranno mai a leggere Stazio o Virgilio in latino, latinisti e grecisti che considerano un fastidio fare edizioni critiche e lavorare su testi ecdoticamente fondati. Non parliamo di quello che succede nei licei.
Lo studio delle grammatiche e della prassi filologica per l’antichità classica insegna a non dar mai per scontato nulla di fronte a un testo, insegna a interrogarsi sempre su ciò che una sequenza di parole o di immagini vuol veramente dire, insegna a capire le retoriche.
Questo per i nazisti non solo era inutile, ma anche dannoso: la verità sul significato dei testi antichi su cui si fondava la loro ideologia la diceva il regime stesso, quindi perché fornire allo studente i mezzi per cercare di comprendere da solo quei testi, rischiando di fargli nascere nella testa idee “sbagliate”?
La filologia è invece un bene prezioso perché, come ci hanno mostrato i primi grandi umanisti, raffina l’arte del dubbio: e anche oggi non dobbiamo dimenticare quanto si debba stare in guardia nei confronti di chi subdolamente bolla come inutile al progresso e perditempo colui che indugia nel lento esercizio della perplessità e della riflessione.
Il libro di Chapoutot non è dunque solo interessante, ma anche assai utile e la sua lettura dovrebbe essere consigliata a molti, se è vero che historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriæ, magistra vitæ, nuntia vetustatis.
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SUL TEMA, SI CFR.:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA... *
La prosa clericale di un laico antico
di Giorgio Pecorini (il manifesto, 25 agosto 2012)
La pagina conclusiva dei «Coni d’ombra» in cui Marco D’Eramo (il manifesto del 18 agosto) ha perpetrato quel «crimine di lesa crocianità» di cui molto si è doluto Massimo Raffaeli (21 agosto), inviata a farsi. Non m’avventuro certo in astrattezze filosofiche o esegesi storiche: conto soltanto sulle capacità osservatorie del mio mestiere di cronista. Incoraggiato e aiutato questa volta dalle osservazioni di Norberto Bobbio sul «giustificazionismo intrinseco» ricordate dallo stesso D’Eramo nella sua replica (sempre il 21). E torno, recidivo, al famoso Perché non possiamo non dirci cristiani pubblicato da Benedetto Croce su La Critica del 20 novembre 1942 e due anni dopo ristampato in fascicolo, sempre nel pieno delle seconda guerra mondiale.
In quel suo saggio il filosofo si dichiara impegnato a scrivere con libero spirito laico «né per gradire né per sgradire agli uomini delle chiese». Rivendica come «legittimo e necessario» l’uso di quel nome anche da parte di chi non appartiene ad alcuna chiesa. Vuole «unicamente affermare, con l’appello alla storia, che noi non possiamo non riconoscerci e non dirci cristiani e che questa denominazione è semplice osservanza della verità. (...) Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso e ancora possa apparire un miracolo, una rivelazione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo».
Il trionfo del genocidio
Ma se davvero non possiamo non dirci cristiani, allora non possiamo neppure non tenerci corresponsabili di una serie di errori e crimini del cristianesimo. Misurandoli col proprio metro razionale laico, il filosofo liberale assolve la «chiesa cristiana cattolica per la corrutela che dentro di sé lasciò penetrare e spesso in modo assai grave allargare», dato che «ogni istituto reca in sé il pericolo della corrutela». E anzi la elogia per aver animato «alla difesa contro l’Islam, minaccioso alla civiltà europea». Le riconosce infine il merito, «continuando nell’opera sua», di aver riportato «i trionfi migliori nelle terre di recente scoperte del Nuovo mondo». Il fatto che quel «trionfo» sia consistito in un genocidio cristianissimo distruttore assieme alla vita della cultura e della dignità di un intero popolo è soltanto uno fra i tanti accidenti del generale processo storico con le sue crisi, e amen. Se poi gli abitatori originarii di quel Nuovo mondo non hanno gioito di quel «trionfo», non se ne sono almeno contentati se non addirittura rallegrati fra una tappa e l’altra di un genocidio cristianissimo che la loro cultura non s’è limitato a minacciarla: l’ha distrutta, assieme alla loro storia e alla loro stessa identità, dipende dalla loro mancante sensibilità eurocentrica e occidentalocentrica, che li autorizza, unici, a non dirsi cristiani. Il «famigerato giustificazionismo intrinseco» all’analisi crociana denunciato da Bobbio, appunto.
Perché non possiamo non dirci cristiani è uno smilzo opuscoletto di appena una ventina di pagine ma dense di analisi e di riferimenti a meditazioni e conclusioni precedenti dell’autore. Tanto dense che molti credenti anziché leggerle si contentano del titolo, per sbatterlo in faccia ai miscredenti: se persino un grande filosofo e critico liberale e ateo come Croce dice così.
Avessero la pazienza di leggerlo, ci andrebbero più cauti nel prenderlo e cercar di imporlo come assoluzione laica dei dogmatismi religiosi. Riconosciuta la «nuova qualità spirituale» di quella rivoluzione, cioè l’aver agito «nel centro dell’anima, nella coscienza morale» dell’uomo, Croce sùbito la ridimensiona: «non fu un miracolo che irruppe nel corso della storia e vi si inserì come forza trascendente e straniera (...) fu un processo storico, che sta nel generale processo storico come la più solenne delle sue crisi».
Il saggio di Croce è del 1942, conviene ripeterlo: nel pieno della seconda guerra mondiale. Mezzo secolo giusto dopo, 1992, chiusa anche la guerra fredda, nel cinquecentenario della presunta scoperta dell’America da parte dell’Europa e dell’inizio del genocidio delle popolazioni americane indigene da parte degli europei in nome della civiltà e del Vangelo, il Nobel per la pace viene assegnato a una donna guatemalteca di 33 anni, discendente dei rari scampati ai massacri: Rigoberta Menchù.
La scelta della giuria del premio sembra ad alcuni un contentino fra il paternalistico e il demagogico al risentimento degli amerindi e dei loro pochi sostenitori bianchi per l’enfasi e la retorica con cui l’Occidente andava celebrando l’impresa di Cristoforo Colombo. Alcuni altri si indignano: per gente di mondo smaliziata, ricca di esperienza e di efficienza pragmatica, è una scelta che suona resa e bestemmia:
«Per compiacere la pseudocultura dell’ultimo anticolonialismo abbiamo messo la sordina a una delle più straordinarie vicende della storia europea. È assurdo che il papa, a Santo Domingo, si sia scusato pubblicamente come un qualsiasi uomo politico giapponese; ed è ridicolo che i discorsi commemorativi abbiano fatto ipocrite concessioni agli umori dominanti del terzomondismo pacifista. Ma che i giurati di Oslo abbiano scelto il cinquecentesimo anniversario di una grande epopea occidentale per dare l’insufficienza a Cristoforo Colombo ci pare francamente risibile». Firmato: Sergio Romano, ex ambasciatore della Repubblica italiana presso alcune fra le maggiori capitali del mondo, da molti anni oracolo dei migliori radio e telegiornali italiani pubblici e privati, abituale commentatore politico oggi del Corriere prima della Stampa. (La frase qui citata era sul quotidiano torinese del 17 dicembre ’92, in un articolo intitolato: «Se il Nobel boccia Colombo»).
Lo spirito dei tempi
Per compiacere l’eterno pragmatismo della chiesa postcostantiniana, l’Europa e l’Occidente dovrebbero insomma rivendicare gli sbudellamenti fatti in nome di Dio dalle crociate all’Iraq, i roghi delle streghe e degli eretici, le benedizioni ai regni e agli eserciti, le indulgenze, le scomuniche eccetera: tutto quanto a quelle radici è intrecciato.
Il papa assimilato con disgusto a «un qualsiasi uomo politico giapponese» era il polacco Wojtyla. Per schivare un eguale rischio, il suo successore tedesco, Ratzinger, ci chiede di non giudicare il passato col metro dell’oggi: bisogna tener conto dei diversi contesti, delle percezioni e sensibilità mutate. E come si faccia a farlo ce lo ha mostrato in concreto lui, con la visita e i discorsi ai campi di sterminio nazisti in Polonia.
S’arriva così sullo scivoloso terreno del «segno dei tempi» e alla vecchia storia delle condanne seguite dalle riabilitazioni. Vicende emblematiche di quelle tecniche riappropriatorie, di quelle smanie di normalizzazione che, accompagnate da sapienti manipolazioni censorie e da cauti sondaggi santificatorii, presiedono sempre all’interno di ogni chiesa, religiosa, culturale o politica, a ogni operazione riabilitatoria. Tecniche e smanie vecchie (si pensi soltanto a Galileo) ma che con aggiustamenti minimi continuano a funzionare. Con l’obiettivo di far credere che ad aver bisogno di perdono e riabilitazione sia il perseguitato, non il persecutore. Al quale va sempre riconosciuto lo stato di necessità o almeno l’attenuante del «segno dei tempi».
Segno talmente vago ed elastico da dover tener conto persino del «livello medio della cultura dominante da non contraddire, non urtare, non rovinare», pensa Ferdinando Camon, scrittore cattolico. Che pazientemente ci spiega: «la condanna di Galileo fu pronunciata dalla chiesa come intermediaria del senso comune». (editoriale sul supplemento Tuttolibri de La Stampa, 16 novembre 1995).
Ecco dove si finisce, a furia di non potersi non dichiarare cristiani. Al laico don Benedetto va bene così, convinto com’è che il «reale è razionale», sempre e comunque. Ma ecco anche perché un altro filosofo e matematico ateo, Piergiorgio Odifreddi, ha preso e rovesciato proprio la strausata sentenza di Croce per farne il titolo di un proprio libro contro tutte le radici dei possibili fondamentalismi religiosi: Perché non possiamo essere cristiani. E per scrupolo di maggior chiarezza ci ha aggiunto tra parentesi: (e meno che mai cattolici).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
TEORIA E STORIA DELLA STORIOGRAFIA. IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO E IL PROBLEMA DELLA COSTITUZIONE
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA.
RENZO DE FELICE E LA STORIA DEL FASCISMO: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
CRISTIANESIMO E COSTITUZIONE (DELLA CHIESA E DELL’ITALIA). PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ...
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?".
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ E SULLO SPIRITO CRITICO, OGGI. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA...
Maghe, streghe, sciamane, guaritrici: le artiste alla Biennale d’Arte di Venezia 2017
Aperta ai Giardini e all’Arsenale la 57esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, diretta dalla francese Christine Macel
inserito da Flavia Matitti *
Sono maghe, streghe, sciamane, guaritrici. Consolano, curano, condividono, ma quando svelano ansie e minacce dei nostri giorni diventano perturbanti. Appaiono così le artiste presenti alla 57esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, aperta ai Giardini e all’Arsenale dal 13 maggio al 26 novembre 2017.
L’edizione 2017 della Biennale di Venezia, del resto, conta su una marcata presenza femminile. A cominciare dalla direzione artistica, affidata alla storica dell’arte parigina Christine Macel (n.1969), curatrice capo al Centre Pompidou, convinta che: “L’arte di oggi, di fronte ai conflitti e ai sussulti del mondo, testimonia la parte più preziosa dell’umanità, in un momento in cui l’umanesimo è messo in pericolo”. Nella sua mostra intitolata “Viva Arte Viva” (una programmatica dichiarazione di fiducia nel potere rigenerante dell’arte) Christine Macel ha inserito oltre quaranta artiste su un totale di 120 nominativi.
Tra queste vi sono alcune figure leggendarie come Maria Lai (1919-2013), sarda, custode del bagaglio culturale della sua isola, autrice di poetici lavori incentrati sull’uso del filo. Qui è rievocata anche la performance collettiva “Legarsi alla montagna”, realizzata dall’artista con gli abitanti del suo paese, Ulassai, l’8 settembre del 1981, un esempio di come l’arte possa innescare un processo di partecipazione e condivisione.
Singolare la coincidenza con il lavoro della coreografa americana Anna Halprin (n.1920), attiva dalla fine degli anni ’30, che nel 1981, in seguito allo shock provocato dall’assassinio di sette donne sui sentieri del Monte Tamalpais, vicino San Francisco, sviluppa una danza rituale di gruppo, per riconciliare la montagna con la comunità, poi divenuta la “Planetary Dance”, una danza per la pace che viene ripetuta annualmente ed eseguita in mostra nei giorni del vernissage.
Tra i tanti lavori esposti spicca ai Giardini la bella sala dedicata a Kiki Smith (n.1954), popolata di sculture e delicati disegni a inchiostro su carta nepalese, mentre all’Arsenale si segnalano la vivace installazione, fatta di balle colorate, dell’americana Sheila Hicks (n.1934), che ama definire le sue opere “tessiture senza pregiudizi” e il lavoro della polacca Alicja Kwade (n.1979), attiva a Berlino, una raffinata installazione che sfida le nostre capacità percettive.
Numerose sono anche le artiste chiamate a rappresentare il loro Paese attraverso progetti individuali concepiti appositamente per i rispettivi padiglioni nazionali, che quest’anno sono 86, sparsi tra i Giardini, l’Arsenale e il resto della città. Per il Padiglione della Germania, ad esempio, Anne Imhof (n. 1978) ha ideato “Faust”, un lavoro cupo sul tema del controllo e della sicurezza, col quale il padiglione tedesco si è aggiudicato il Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale.
L’artista ha trasformato lo storico edificio ai Giardini in un bunker recintato e sorvegliato all’esterno da guardie accompagnate da cani feroci, mentre l’interno appare come un carcere, in cui un team di performer mette in scena episodi di arbitrio e autorità, resistenza e libertà.
La sensazione di trovarsi in un luogo minaccioso si avverte anche nel Padiglione del Brasile (premiato con una menzione speciale), dove Cinthia Marcelle (n.1974) ha realizzato il progetto “Hunting Ground”, sostituendo al pavimento delle grate metalliche disposte secondo piani inclinati.
Il Padiglione della Gran Bretagna appare invece invaso da sculture informi e colorate, festose e inquietanti, secondo il progetto “Folly” di Phyllida Barlow (n.1944).
Kirstine Roepstorff (n.1972) vorrebbe al contrario rassicurare e dal Padiglione della Danimarca invita, tramite un’esperienza immersiva, ad accettare la precarietà, l’ignoto e la trasformazione come componenti naturali del processo di crescita. L’artista ha allestito un teatro nel quale il visitatore si impegna a trascorrere mezz’ora, al buio, in un’oscurità mistica evocatrice dell’utero materno, del cosmo o dell’aldilà, mentre una voce sussurra: “Hai tutto dentro di te, devi essere disposto a cambiare completamente dal vecchio sistema di orientamento al nuovo: l’oscurità è il vuoto gravido da cui sorge e nasce ogni cosa”. -Tracey Moffatt (n.1960), la prima artista indigena a rappresentare l’Australia con una mostra individuale, presenta il progetto “My Horizon”, che attraverso fotografie, filmati e video affronta, tra realtà e finzione, il tema dei migranti e dello spaesamento quale condizione esistenziale.
Tra l’altro si può vedere un vecchio filmato (Tracey Moffatt dice di averlo recentemente riscoperto) girato dai popoli indigeni australiani nel 1788, quando le prime navi della flotta britannica entrarono nel porto di Sidney.
La Romania dedica per la prima volta a una donna, Geta Brătescu (n.1926), una mostra individuale, offrendo così l’occasione per conoscere il lavoro di quest’artista, che attraverso disegni, collage, fotografie, oggetti e film conduce una riflessione affascinante sulla soggettività femminile.
Vale la pena ricordare, infine, Jesse Jones (n.1978) col suo progetto video “Tremble, tremble” per il Padiglione dell’Irlanda in cui recupera, con la straordinaria performer Olwen Fouéré, la figura della strega quale archetipo femminista ed elemento di rottura in grado di trasformare la realtà. Il titolo riprende lo slogan delle femministe italiane degli anni ’70 “Tremate, tremate, le streghe son tornate!” e invoca una trasformazione dei rapporti tra Chiesa e Stato nell’Irlanda di oggi.
Spesso anche la direzione artistica dei padiglioni nazionali è donna, come nel caso del Padiglione Italia, senza dubbio uno dei migliori di questa edizione. Da notare che la curatrice, Cecilia Alemani, ha voluto richiamare il tema della magia fin dal titolo della sua mostra - “Il mondo magico” (dal libro di Ernesto de Martino) - un tema che i tre artisti invitati (Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey) hanno declinato magnificamente, ciascuno a suo modo.
Su proposta di Christine Macel, inoltre, il Leone d’oro alla carriera è andato quest’anno all’americana Carolee Schneemann (n.1939), pioniera della performance femminista fin dagli anni ’60. “Schneemann - si legge nella motivazione - ha utilizzato il corpo nudo come forza primitiva e arcaica in grado di unificare le energie”.
Come sempre, durante la Biennale, sono innumerevoli gli eventi organizzati in città, ma sulle artiste si segnalano in particolare: la piccola mostra-dossier sulla pittrice surrealista danese Rita Kernn-Larsen (1904-1998), una riscoperta promossa dalla Collezione Peggy Guggenheim (fino al 26/6); l’esposizione “The Home of My Eyes”, che presenta 26 fotografie e il toccante video “Roja” (2016) dell’iraniana Shirin Neshat al Museo Correr (fino al 26/11); i raffinati progetti site specific realizzati da Marzia Migliora, in collaborazione con la Fondazione Merz, per le sale di Ca’ Rezzonico (fino al 26/11) e da Elisabetta Di Maggio (fino al 24/9) e Maria Morganti per gli spazi della Querini Stampalia.
Da non perdere, infine, la mostra collettiva “Intuition” a Palazzo Fortuny (fino al 27/11), che spazia da Hilma af Klint a Marina Abramovic, e “Future Generation Art Prize@Venice 2017” a Palazzo Contarini Polignac (fino al 13/8).
In quest’ultima spiccano la misteriosa installazione rituale dell’artista sudafricana Dineo Seshee Bopape, vincitrice di questa quarta edizione del premio istituito dal mecenate ucraino Victor Pinchuk, e la fiabesca opera multisensoriale “Mutumia” (donna in Kikuyu) dell’artista kenyota Phoebe Boswell, vincitrice del premio speciale.
Biennale di Venezia 2017- didascalie
1. Sheila Hicks, Scalata al di là dei terreni cromatici, 2016-17, Arsenale, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva (Photo Flavia Matitti)
2. Alicja Kwade, WeltenLinie, 2017, Arsenale, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva (Photo Flavia Matitti)
3.Tracey Moffatt, Madre con bambino, dalla serie Traversata, 2017, Padiglione dell’Australia, Giardini, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia (Photo courtesy the Artist, Australia Council for the Arts).
4. Una veduta esterna del Padiglione della Germania trasformato da Anne Imhof, Giardini, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia (Photo by Flavia Matitti).
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LA BIENNALE DI VENEZIA - Noi Donne, 15 Maggio 2017 (ripresa parziale).
Se la mappa della filosofia cancella il Sud
di Massimo Adinolfi (Il Mattino, 23.02.2017)
Impossibile tracciare una mappa della filosofia in Italia. Accompagnando la meritoria iniziativa del «Corriere della Sera» che pubblica una nuova collana di libri dedicata ai «maestri del pensiero più importanti», Pierluigi Panza, a colloquio con il presidente della Società italiana di estetica, Elio Franzini, ci prova coraggiosamente in due righe. Eccole: «la scuola di Milano ha avuto una tradizione fenomenologica con Banfi e Paci; quella di Torino è stata caratterizzata dall’ermeneutica, ma ora ha svoltato con il «ritorno alle cose» di Ferraris; epistemologia e cognitivismo di stampo anglosassone sono variamente disseminati; al Sud è sopravvissuto un po’ di idealismo crociano con un approccio più storicista». Poche righe sommarie, in cui non compaiono Venezia, Padova o Pisa, ma in cui soprattutto il Mezzogiorno quasi non è avvistato: se non fosse per le sparute sopravvivenze storiciste, citate con troppa sufficienza, sembrerebbe che al di sotto della linea Gustav di filosofia non ve ne sia quasi più traccia.
Le cose però non stanno così. Basti pensare che fra gli autori italiani di gran lunga più tradotti all’estero vi sono oggi Giorgio Agamben e Roberto Esposito, uno romano e l’altro napoletano: chiunque intendesse stendere una mappa della filosofia in Italia, a meno di personali idiosincrasie, non potrebbe non includerli in posizione di spicco. E, certo, comprenderebbe il bresciano Emanuele Severino, il milanese Carlo Sini, il veneziano Massimo Cacciari e il torinese Gianni Vattimo, ma anche i napoletani Vincenzo Vitiello, Biagio De Giovanni e Paolo Virno, e i romani Donatella Di Cesare, Pietro Montani e Gennaro Sasso. Se si disputasse il derby fra Nord e Sud come fecero i Monty Pithon con la finale mondiale fra filosofi greci da una parte e tedeschi dall’altra Roma e Napoli, insomma, non sfigurerebbero affatto.
Ci sarebbero volute più righe? Certo. Ma soprattutto ci sarebbero voluta una più generosa attenzione verso tradizioni e stili di pensiero che evidentemente l’articolista non ama: dall’ermeneutica al post-operaismo, dal neoparmenidismo alle filosofie del senso. Ne sarebbe venuta fuori la rappresentazione di una ricerca filosofica molto più vivace e molto più plurale, per nulla prossima alla scomparsa.
Quel che invece rischia davvero di scomparire, e che forse induce a qualche errore di prospettiva, è l’infrastruttura istituzionale che dovrebbe sostenere l’insegnamento e la diffusione del pensiero filosofico, ormai al Sud quasi del tutto assente. La morte di Gerardo Marotta ha riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica la vicenda dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e della sua biblioteca, che rischia di divenire metafora di un più generale destino della ricerca nel Mezzogiorno. Ma siccome l’articolo del «Corriere della Sera» si chiude con una sentenza discutibile, che cioè oggi si fa filosofia «senza disturbare», proviamo a recare qualche disturbo.
O almeno a porre una domanda: se il Mezzogiorno non ha più un grande editore (e non ha più una grande banca), se il sistema universitario meridionale viene continuamente penalizzato nel trasferimento delle risorse, se i centri di ricerca non dispongono degli stessi polmoni finanziari che sostengono la ricerca al Nord, se manca o è carente l’organizzazione di grandi kermesse, se chiudono le fiere della letteratura o dell’arte, se tutto questo avviene nonostante la ricchezza di espressioni artistiche, fermenti letterari, compagnie teatrali, gruppi musicali che si muovono in città come Napoli, deve meravigliare il fatto che un grande giornale milanese, a colloquio con un professore milanese, scriva che di filosofia al Sud ce n’è pochina, quasi nulla, e che magari quella che c’è ha un certo sapore d’antico?
Qualche settimana fa si è tenuta a Bologna la Fiera internazionale di arte contemporanea. Bologna: ovvero il lembo più meridionale del sistema italiano dell’arte, perché sotto l’Appennino tosco-emiliano esposizioni simili non ce ne sono. È quasi inevitabile, allora, che chi volesse basare la propria mappa dell’arte italiana oggi su tutto quello che simili manifestazioni mettono in circolo avrebbe qualche difficoltà a inserirvi significative presenze meridionali. La teoria istituzionalista sostiene che è arte ciò che le istituzioni del mondo dell’arte affermano che sia tale. Forse è solo un escamotage, per sfuggire al compito impossibile di metter su una definizione che consenta di tenere insieme Raffaello e Malevic, Giotto e Warhol. Ma se qualcosa del genere è stata proposta persino per la scienza, al punto che vi sono epistemologi per i quali scienza è ciò che la comunità degli scienziati dice che è tale, figuriamoci se questo non accade anche nei riguardi della filosofia, il cui statuto è molto più incerto.
O perlomeno: è incerto solo in linea di principio, perché, come giustamente osserva Franzini, se si prende un filo che proviene dal fondo della tradizione occidentale e lo si prova a tirare fino a noi, un modo per orientarsi nel pensiero, e riconoscervi la forma in cui la filosofia si continua, di fatto c’è. Ma chi lo tira, quel filo? Se a tirarlo sono sempre gli stessi giornali, a margine della pubblicazione delle stesse collane, proposte dagli stessi gruppi editoriali, con operazione culturali che guardano verso le stesse scuole filosofiche che son lì a fare da sponda, allora è inevitabile che solo alcuni fili vengano sempre di nuovo tessuti, mentre altri finiscono con lo spezzarsi e col perdersi.
Una mappa della filosofia in Italia è impossibile, dicevamo. O meglio: dice Panza sul «Corriere della Sera». Ma non dice chi, nel caso, dovrebbe tracciarla, e soprattutto ignora il punto decisivo, che cioè la mappa viene ogni volta tracciata in via di fatto entro l’organizzazione dei saperi e dei poteri di una società. Se si vuole una filosofia che torni a recare qualche disturbo, forse non bisogna liquidare troppo in fretta una simile questione. E le commistioni con società, politica e scienza, che ancora Franzini giudica positive, come un accrescimento del senso del filosofare, aiuteranno allora a disegnarne una trama meno semplificata e soprattutto meno sbrigativa di quella che vede solo un po’ di Milano e un po’ di Torino, qualche sparso e inoffensivo residuo storicistico, tra Napoli e Bari, ma tutto considerato posizioni marginali, a cui non si deve molto più che un atto di omaggio. Le cose non stanno così e, sia detto en passant, se mai compariranno nelle prossime uscite della collana filosofi italiani, si può star certi che da Bruno a Vico, da Croce a Gentile saranno pensatori meridionali.
UNA RISPOSTA AD ANNA CATTANEO:
CHIARISSIMA CATTANEO
MI COMPIACCIO ALLA GRANDE della sua attenzione e della sua passione - e della sua sottolineatura e precisazione! Ma, su questo, cfr., in dettaglio, nel testo completo del mio lavoro (qui: pdf, scaricabile).
DELLA COSA, a suo tempo, sensibilizzai anche il Centro Studi Vichiani e ho sollecitato anche un prof. del Warburg Institute a cercare la possibile presenza della copia della SN 1725 a Londra - risultato: ne è stata individuata una sola! Ma oltre, per ora, non mi è stato possibile andare. Un dirigente del Centro Studi Vichiani mi assicurò che avrebbe "sguinzagliato" i suoi Ricercatori. Ma fino ad ora...
COME PUO’ BENISSIMO VEDERE, dalla nota apparsa su "Logos" (10-2015) ( IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO. CROCE IN INGHILTERRA E SHAFTESBURY IN ITALIA. La punta di un iceberg), nei limiti delle mie forze, sono riuscito, ad alzare il coperchio sul problema più vasto di una necessaria rilettura del lavoro di Vico, ma il mondo accademico, evidentemente, pensa a ben altro!!!
Personalmente sono contento non solo della ricerca avviata sulla SN 1725 inviata a Newton, ma anche della piccola e bella scoperta fatta nel Finnegans Wake di Joyce. Alla fine, non potrà non mancare l’omaggio al Lord!
Federico La Sala
I due traduttori raccontano l’impresa impossibile di entrare in un labirinto di sogni, vocaboli, immagini
di Fabio Pedone, Enrico Terrinoni (La Stampa, 23/01/2017)
Quando abbiamo iniziato il lavoro su Finnegans Wake ci siamo trovati di fronte un unicorno dei boschi narrativi, il più imprendibile e affascinante degli organismi verbali, composto con l’idioma caleidoscopico di un Sognatore misterioso nella cui mente va in scena, «riraccontata», la storia umana. Ricco di allusioni e significati disposti con pazienza da Joyce in ogni piega del testo.
Tradurre l’intraducibile, proprio perché «non si può fare», è sempre possibile, cioè ri-pensabile, secondo una rete di rifrazioni e associazioni attente; e conduce, in un rilancio infinito, a una «abnihilisation» di quell’etimo/atomo che per Joyce diventa «etym». Ecco allora una paradossale nascita di atomi dal nulla (ab nihilo) che è pure un annichilimento dell’etimo, della statica origine di ogni parola, verso una ricreazione del caos primordiale, ovvero una plurale, nuova possibilità di cosmo: senza frontiere, distinzioni o identità fisse.
Di fronte a parole-prisma che brulicano sulla pagina quasi fossero materia vivente, altalenando tra le lingue, ogni lettore diventa rabdomante, scettico e aperto alle sorprese, e lui stesso vive in un permanente «stato di traduzione», tessendo in modo accurato o visionario il proprio «libro-sogno».
Se la forza dell’enigma è di essere sempre inesauribile, Finnegans Wake ci immerge nell’oscurità dell’esistere dicendoci che siamo noi a dover portare un bagliore di luce nella sua selva intricata, sciogliendo la lingua; per riscrivere storie e miti della famiglia umana mettendo in viaggio le solite vecchie parole che ci portiamo addosso da sempre, fino a farne qualcosa di «mai sentito».
Luigi Schenoni, il nostro predecessore nel tentativo di rendere in italiano il Wake, chiamava la propria opera una ri/creazione. Questo perché, spiegava, «il nipote di James, figlio di Giorgio Joyce, ha espressamente proibito di chiamare traduzione qualsiasi rifacimento in altra lingua di Finnegans Wake». Il che ricorda un’occasione simile, quando lo stesso erede concesse i diritti di traduzione dell’Ulisse a un team di traduttori, ma li ammonì: «non ne cambiate una sola parola».
Ora, la traduzione - di qualunque testo - impone di cambiarle tutte, le parole; e Joyce lo sapeva bene, quando nel 1930 parlò a Hoffmeister dell’impossibilità di tradurre il suo libro, perché non era scritto in una lingua precisa, e aveva un protagonista, il fiume, che ovviamente parlava il linguaggio di un fiume. Tuttavia, poi, incoraggiandone una traduzione in ceco, disse che era possibile mutare il testo in poesia, «poeticizzarlo con la più grande libertà poetica di cui si è capaci», lasciando così al potenziale traduttore «ogni possibile libertà nella trasformazione delle parole», e aggiungendo: «Devo restare come sono, semplicemente spiegato nella vostra lingua».
Altro che l’impossibilità di tradurre poesia. Qui abbiamo il testo più intraducibile che può esser tradotto soltanto in poesia. E poesia è da intendersi nel suo senso greco, come «fare, creare». Creare le parole, e dedicarvisi, dice Joyce, con il più gran «transfusiasmo» possibile.
Questo fece quando assieme a Nino Frank tradusse parti del suo testo in uno scoppiettante straitaliano, al punto che persino frasi semplici divennero in traduzione arditissime: «What was it he did» diventò «Che cozzo ha fotto», mentre in Schenoni è semplicemente «Che cosa ha fatto». Ma poi, dove Joyce scrive «the roughty old rappe», e Schenoni imitando traduce «la vecchia rozza repceanaglia», il sommo irlandese si straduce e s’inventa: «Forcadea, che carogna!»
Impossibile è sì quel che non si può fare, ma anche quel che non s’è ancora fatto. Missione ancora più importante rispetto a un libro come Finnegans Wake, che per dirla con Beckett «non riguarda qualcosa: è quel qualcosa». Tradurre il Wake non è solo reinventare una lingua, ma andare alle radici, storiche e mitiche, dell’atto linguistico. Joyce ci insegna che ogni parola è inventata. E se è stato capace di riscrivere la Creazione in senso atomistico (Adam and Eve divengono Atoms and ifs, meri «atomi e se»), o se ha saputo inserire nel termine biography («biografia») i semi della paura producendo beogrefright, in cui abbiamo beo che in irlandese è «vita», ogre, «orco» in inglese; e fright che sempre in inglese è «paura», questo è perché i fantasmi del passato possono spaventare, soprattutto se non provengono dal nostro, di passato.
La creatività, o meglio il creazionismo linguistico del Wake, proviene dal crollo di Babele e dal turbinoso ricomporsi delle sue rovine. Nel libro di Joyce Babel diviene babble («cicaleccio»), una nuova lingua ribelle e luciferina, l’idioma ridanciano di Belzebù (belzey babble). Uno slanguage fatto di espressioni giocate in più sensi e di sfrenati e serissimi giochi di parole.
La pagina di Finnegans Wake è il luogo delle metamorfosi, ed è inutile muovervisi per esclusione come nella logica diurna, rigida e disgiuntiva, perché qui errori, sviste ed espressioni dubbie, intrasentite nel dormiveglia, ci gettano in un labirinto, lo stesso che è nell’orecchio di uomini e animali. Un labirinto a forma di punto interrogativo, dove ascoltare e ri-dire sarà anche ridere. Tutto è movimento, le parole fanno capriole e sono in festa, ma sappiamo che dietro di loro si nasconde un potere immane: così ciascuno, traducendosi attraverso il Wake , potrà essere quel che è Shakespeare nel Wake: Shapesphere, un plasmatore di mondi, come il Linguaggio stesso, che trasforma la realtà.
PER UN’ALTRA EUROPA E PER UN’ALTRA ITALIA. Al di là dei "corsi e ricorsi", il filo della tradizione critica. Contro la cecità e la boria dei dotti e delle nazioni ...
JAMES JOYCE
VIAGGIO AL TERMINE del ’900
di Stefano Bartezzaghi ( "Il Venerdì di Repubblica", 13.01.2017)
Con l’Ulisse aveva sconvolto il romanzo, ma con Finnegans Wake andò oltre, inventando un poema dalla lingua babelica dove i miti si confondono con le canzoni da pub. L’ammiratore Umberto Eco lo definì «terrificante».
Tradurlo sembrava impossibile. Però due italiani ci sono riusciti. Qui spiegano come hanno affrontato un capolavoro venerato dalle avanguardie ma che oggi qualsiasi editore butterebbe nel cestino.
«Riverrun», «Meandertale», «Chaosmos» sono tre fra le parole-chiave (molte, e tutte assenti da ogni vocabolario) del romanzo di cui l’autore stesso pensava: «Forse è una follia. Si potrà giudicare solo fra un secolo». Oggi è ancora troppo presto, di anni ne sono passati meno di ottanta, e l’opera estrema di James Joyce può continuare a sembrare un libro immaginario, una congettura di Jorge Luis Borges.
Invece il Finnegans Wake non solo esiste davvero, ma viene persino tradotto in italiano. Di Joyce è opera estrema non solo perché ultima (è uscito nel 1939, diciassette anni dopo l’Ulysses, e due anni prima della morte dell’autore).
Lo spiegò Umberto Eco, nel 1962: «Pareva che Ulysses avesse sconvolto oltre ogni limite la tecnica del romanzo: Finnegans Wake supera questo limite oltre i confini del pensabile. Pareva che in Ulysses il linguaggio avesse dato prova di tutte le sue possibilità: Finnegans Wake porta il linguaggio oltre ogni confine di duttilità e di comunicabilità. Pareva che Ulysses rappresentasse il più ardito tentativo di dare una fisionomia al caos: Finnegans Wake costituisce il più terrificante documento di instabilità formale e ambiguità semantica di cui si sia mai avuta notizia».
Più di recente lo scrittore Martin Amis ha significativamente intitolato «La guerra contro i cliché» una prefazione all’ Ulysses, e vi ha così riassunto le quattro tappe fondamentali della produzione joyciana: «Gli accessibilissimi racconti di Gente di Dublino, il più o meno comprensibile Ritratto dell’artista dagiovane, poi l’ Ulisse, prima che Joyce si prepari per quell’immolazione di ostilità, di sterminio del lettore che è Finnegans Wake, dove ogni parola è un pun multilingue».
È il gioco di parole, quindi, la «terrificante» (Eco) arma con cui si compie lo «sterminio del lettore» (Amis).
Nel pun le parole possono incastrarsi l’una nell’altra, aprendo nuove dimensioni di significato: i gemelli «siamesi» sono «soamheis» (so-am-he-is, così come io sono, egli è); «Chaosmos» è il caos che non si oppone ma si interpone al cosmo; «riverrun» (prima e ultima parola del romanzo, scritta in minuscolo perché la fine si salda con l’inizio) è un’unione di «fiume» e «scorrimento» (ma può essere molte altre cose); «Meandertale» è una sorta di sciarada fra il «meandro» e il «racconto» (tale) che finisce per produrre un’entità vicina a «Neanderthal», quindi all’uomo primordiale e ai suoi istinti primari. Giochi, ma quanto divertenti? Il titolo Finnegans Wake è ricavato dalla canzonaccia irlandese da osteria La veglia di Finnegan, il cui ritornello dice: «Vedi che avevo ragione? / Alla veglia di Finnegan ci si diverte da matti!». Per Joyce agglomerare parole o, al contrario, disaggregarle in atomi entropici di significato era anche un divertimento personale: non a caso gli capitava di chiamarlo «joycity», gioiosità joyciana.
Al proprio «meandertale», oscuro labirinto e puzzle narrativo, Joyce augurava lettori poliglotti e idealmente insonni. Dei traduttori non ha parlato (per quanto lui stesso abbia partecipato alla traduzione italiana di una sezione), ma il testo li postula onniscienti e invulnerabili.
Dopo qualche saggio di traduzione italiana assai parziale da parte di scrittori intrepidi come Gianni Celati e Rodolfo Wilcock (oltre allo stesso Joyce), a decidere di affrontare non l’Ottomila di uno o due capitoli ma l’intero Himalaya del libro completo è stato un traduttore bolognese, Luigi Schenoni (1933-2008): nell’incredulità generale pubblicò il primo volume nel 1982, da Mondadori, e arrivò poi a tradurre i due terzi dell’opera.
Il suo testimone è stato raccolto da Enrico Terrinoni e Fabio Pedone di cui ora esce la traduzione del penultimo tratto di Finnegans Wake (Libro Terzo, capitoli 1 e 2; Mondadori, pp. 420, euro 24), corredato da diversi apparati, oltre che dall’imprescindibile testo origi- nale a fronte.
Come dicono i nuovi traduttori, la difficoltà è che il romanzo «si traduce da solo», poiché è scritto in una lingua babelica, in cui l’inglese si confronta con apporti di ogni altra lingua conosciuta o raggiunta da Joyce (ivi compreso non solo l’italiano ma anche il dialetto triestino: chissà quanti non-italiani leggendo «riceypeasy» penseranno ai «risi e bisi» qui evocati consapevolmente da Joyce).
La storia di questo libro inimmaginabile era cominciata nel 1922, un anno dopo l’uscita di Ulysses. Fu allora che Joyce prese ad alludere a un nuovo progetto: per iscritto vi si riferiva con il disegno di un quadratino ; quando ne parlava, lo chiamava Work in progress, il lavoro in corso. Nel 1928 mise in palio mille franchi, per chi avesse indovinato il titolo definitivo (il premio fu aggiudicato dieci anni dopo, un anno prima dell’uscita del romanzo).
La canzone Finnegan’s Wake parla della veglia funebre per un ubriacone, durante la quale gli amici bevono e litigano, fanno cadere un goccio di whisky sul cadavere, che si ridesta («wake» come nome significa «veglia» ma come verbo sta per «svegliarsi»).
Joyce trasformò «Finnegan’s» in «Finnegans», e la veglia di Finnegan diventò «la veglia dei Finnegan» o «i Finnegans si svegliano». Né si può trascurare la circostanza per cui Finn è un gigante della mitologia irlandese, nel mito di fondazione della città di Dublino, e sempre per assonanza e pun «Finnegan» può diventare «Finn again»: ancora Finn, in riscossa dello spirito irlandese. Come se non bastasse, c’è il latino, dove «negans» è participio presente di negare e quindi «Fin negans wake» è una veglia, o un risveglio, che nega la fine.
Il fatto è che Joyce era rimasto impressionato, letterariamente se non filosoficamente, dalla Scienza Nuova di Giovan Battista Vico, con la dottrina dei corsi e ricorsi e la sequenza delle ere degli Dèi, degli Eroi e degli Uomini.
Volle narrare un ciclo vitale ricorsivo incarnandolo però nella forma stessa del suo romanzo; non una quadratura del cerchio, ma una circolazione del quadrato, diceva: il quadrato sta per il susseguirsi di nascita, crescita, morte, rinascita.
A capirlo prima di tutti fu il giovane Samuel Beckett, che di Joyce era stato anche collaboratore stretto, e quando del Work in Progress non si conoscevano che pochi tratti ne parlò così: «Qui la forma è il contenuto, il contenuto è la forma. Si protesterà che questa roba non è scritta in inglese. Non è affatto scritta. Non è fatta per esser letta, o almeno non solo per essere letta. Bisogna guardarla e ascoltarla. La scrittura di Joyce non è su qualcosa: è quel qualcosa».
Nel contenuto e nelle forme espressive della narrazione fra l’ Ulysses e Finnegans Wake avviene il passaggio dal giorno alla notte. Là c’era una giornata nella vita di un everyman, Leopold Bloom; qui è il sogno di un altro uomo, l’oste H. C. Earwicker.
Nelle forme di un’allegoria letteraria l’Ulisse-Bloom aveva il suo Telemaco-Dedalus e la sua Penelope-Molly, e incontrava sirene, ninfe e tempeste; invece nel sogno di Earwicker le figure dei diversi livelli (narrativo, storico, geografico, mitologico) non scorrono più parallele al testo ma si fondono fra loro secondo le condensazioni tipiche del lavoro onirico.
Le iniziali di Earwicker, H. C. E., stanno anche per Here Comes Everybody (Qui arriva ognuno) e per molte altre soluzioni dell’acronimo; la moglie Anna Livia Plurabelle nel nome incarna il fiume dublinese Liffey; corrispondenze numerologiche trasfigurano i dodici clienti dell’osteria di H. C. E. negli apostoli o nelle ore dell’orologio... In un mondo di trasmutazioni della materia e delle identità (i sogni, del resto, sono fatti così), la lingua medesima diventa un dispositivo di condensazione, in cui radici, etimi, somiglianze, accezioni alternative convivono nella stessa parola.
Se l’ Ulysses rompeva la sintassi dell’inglese e la ristrutturava, il Finnegans Wake non è più scritto in inglese, ma è un vortice, una tromba d’aria poliglotta che devasta un territorio inglese.
Umberto Eco si è potuto divertire a immaginare il consulente che scrive alla casa editrice: «Per piacere, dite alla redazione di stare più attenta quando manda i libri in lettura. Io sono un lettore d’inglese e mi avete mandato un libro scritto in qualche diavolo di altra lingua. Restituisco il volume in pacco a parte».
Lo scrittore Michel Butor ha detto: «Se noi vogliamo leggere una pagina di Finnegans Wake dobbiamo prendere molte parole in modo diverso da quello in cui sono scritte, abbandonare una parte delle loro lettere e dei loro significati possibili».
Ogni lettore fa scelte proprie e costruisce un proprio ritratto tramite il testo: «Finnegans Wake è così per ciascuno uno strumento di conoscenza intima». Here Comes Everybody, appunto. Forse è significativo che tra i primi joyciani a occuparsi a fondo di Finnegans Wake si siano annoverati Marshall McLuhan e Umberto Eco.
L’Everybody dublinese, dall’alto del suo estremo gioco letterario, affascina gli studiosi di mass-media. Nella sua osteria allora convergono la storia, l’ostilità, l’ospitalità, l’isteria di tutti. Se fra vent’anni decideremo che si trattò di follia, già oggi sappiamo che lì c’era del mitico.
Stefano Bartezzaghi
FU JOYCE A PROPORRE ALL’AMICO NINO FRANK DI TRADURRE IN ITALIANO L ’ ULTIMO CAPITOLO DEL FINNEGANS WAKE: «PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI », SPIEGÒ . « FINCHÉ CI SONO ANCORA I0 A CAPIRE COSA HO SCRITTO».
FRANK PROTESTAVA : L’ITALIANO NON È UNA LINGUA ADATTA Al GIOCHI DI PAROLE E QUEL CAPITOLO È INTRADUCIBILE . « NON ESISTE NULLA CHE NON POSSA ESSERE TRADOTTO», RIBATTEVA JOYCE . COSÌ I DUE PRESERO A INCONTRARSI DUE VOLTE A SETTIMANA PER TRE MESI. E, COME RACCONTA RICHARD ELLMANN , BIOGRAFO DELLO SCRITTORE, ERA LUI A SPIEGARE L’AMBIGUITÀ DELLE PROPRIE INVENZIONI , SOTTOLINEANDONE LA MUSICALITÀ . MENTRE IL SIGNIFICATO DEL TESTO GLI ERA PIUTTOSTO INDIFFERENTE.
NONOSTANTE QUESTO ESORDIO D’AUTORE - E BENCHÉ JOYCE ABBIA VISSUTO IN ITALIA PIÙ DI DIECI ANNI, PARLANDO LA NOSTRA LINGUA CON MOGLIE E FIGLI - NON ESISTE ANCORA UNA VERSIONE ITALIANA COMPLETA DEL ROMANZO, CHE PURE È STATO PUBBLICATO IN FRANCESE, TEDESCO , OLANDESE, PORTOGHESE , TURCO E PERFINO IN CINESE, GIAPPONE- SE E COREANO. MA LA LACUNA STA PER ESSERE COLMATA: ENRICO TERRINONI E FABIO PEDONE , CHE ORA ESCONO CON LA PENULTIMA TRANCHE DELL’OPERA ( PROSEGUENDO IL LAVORO DI CHI TRADUSSE I PRIMI DUE TERZI ), Si SONO IMPEGNATI ANCHE AD ARRIVARE ALLA FINE. ENTRO IL 4 MAGGIO 2019 , OTTANTESIMO ANNIVERSARIO DELLA PUBBLICAZIONE DEL ROMANZO , IL FINNEGANS WAKE SARÀ TUTTO IN ITALIANO. «CI SONO VOLUTI QUASI TRE ANNI, CINQUE ORE AL GIORNO , PER TRADURRE 70 PAGINE CHE, Si FOSSE TRATTATO DI UN TESTO QUALUNQUE , AVREBBERO RICHIESTO SETTE GIORNI DI LAVORO », SPIEGA TERRINONI, ORDINARIO DI LETTERATURA INGLESE ALL’UNIVERSITÀ PER STRANIERI DI PERUGIA.
«DOPO AVER AFFRONTATO SEPARATAMENTE OGNI BRANO ED ESSERCI POI REVISIONATI A VICENDA, ABBIAMO INIZIATO UN LUNGO PING-PONG DI IDEE, PROPOSTE, COMPROMESSI: LA VERSIONE FINALE HA CONTINUATO A CAMBIARE FINO ALL’ULTIMO . PERCHÉ TRADURRE VUOL DIRE PROVARE E FALLIRE, DICEVA BECKETT , RIPROVARE E FALLIRE SEMPRE MEGLIO . ED È IMPOSSIBILE METTERE LA PAROLA FINE A UN TESTO CHE IN OGNI PAROLA CONDENSA PIÙ SIGNIFICATI , IRRADIA ALLUSIONI SORPRENDENTI , REINVENTA LA LINGUA. UN TESTO CHE OFFRE UNA SCONFINATA LIBERTÀ INTERPRETATIVA.
PER MESI ABBIAMO TENUTO UNA RUBRICA SUL SETTIMANALE PAGINA 99, CHIEDENDO Al LETTORI DI PROPORRE LA LORO VERSIONE ITALIANA DI ALCUNE FRASI : SONO EMERSE SOLUZIONI INASPETTATE E SPESSO MOLTO VALIDE . NON SOLO , TRADUZIONI IN LINGUE DIFFERENTI ASSUMONO SIGNIFICATI DIVERSI TRA LORO : OGNI CULTURA COGLIE CIÒ CHE LE È AFFINE. ANCHE PERCHÉ JOYCE SCRIVE IL FINNEGANS WAKE IN UN IMPASTO DI ALMENO UNA CINQUANTINA DI LINGUE. E IL FATTO DI UTILIZZARE UN INGLESE COLONIZZATO DA TANTI ALTRI IDIOMI È LA SUA GENIALE VENDETTA CONTRO LA LINGUA IMPOSTA ALL’IRLANDA DAI COLONIZZATORI BRITANNICI».
UN IBRIDISMO CULTURALE CHE È ALLA BASE DI TANTI DOPPI SENSI, COME SPIEGA FABIO PEDONE , CRITICO LETTERARIO . SEE CAPEL AND THEN FLY, SCRIVE JOYCE . E SICCOME CAPEL STREET È UNA VIA DI DUBLINO, LA TRADUZIONE PIÙ OVVIA -V ISTO L’ABBANDONO DELL ’ IRLANDA DA PARTE DELLO SCRITTORE - SAREBBE " VEDI CAPEL E POI SCAPPA". MA LA FRASE RICHIAMA ANCHE L’ESPRESSIO- NE "VEDI NAPOLI E POI MUORI", CHE SOLO UN ITALIANO PUÒ COGLIERE . L’ABBIAMO QUINDI TRADOTTA " VEDI DÀBOLI E POI FUORI": SINTESI TRA DUBLINO E NAPOLI , TRA FUGGI E MUORI .
ESULE A TRIESTE, JOYCE ASSORBÌ IL PARLOTTIO DI QUELLA SOCIETÀ POLIGLOTTA CON L ’ INCERTEZZA ACUSTICA DI CHI È CONFUSO TRA LE VARIE LINGUE E LE ASCOLTA - E FRAINTENDE - COME FOSSE IN UN DORMIVEGLIA . PERCEZIONI APPROSSIMATIVE, AMBIGUE , DI CUI Si COGLIE SOPRATTUTTO LA SONORITÀ . LA PIÙ DIFFICILE DA RENDERE IN TRADUZIONE: IL LIBRO È SCRITTO COME UNA PARTITURA MUSICALE . E ANDREBBE LETTO A VOCE ALTA». « DUE RIGHE AL GIORNO», AGGIUNGE TERRINONI, «PER TUTTA LA VITA».
(ANTONELLA BARINA)
"Il Venerdì di Repubblica", 13.01.2017
I filologi e le “fake news”
Uno studioso di filologia spiega perché con la "post verità" c’entri la crisi della materia, a partire da Rignano sul Membro
di Claudio Lagomarsini *
Da qualche settimana, a proposito del dibattito su fake news e post-truth politics, mi gira in testa una domanda, che si è quasi trasformata in una tesi: c’è un legame fra la trascuratezza con cui si affronta l’”accertamento dei testi” e la crisi che le discipline filologiche hanno conosciuto in Occidente negli ultimi ottant’anni? Nei seguenti paragrafi 1-3 cerco di articolare questo punto. Chi non è interessato allo spiegone teorico può saltare al paragrafo 4, dove analizzo la diffusione di una bufala online.
La crisi della filologia
1. Quando Roland Barthes celebra la «morte dell’autore» (1967), di fatto mette in discussione il senso stesso della filologia, intesa come disciplina che si dà come ultimo scopo l’accertamento del testo originale, cioè di una forma del testo il più possibile «vicina all’ultima volontà dell’autore» (come recitano i manuali universitari). Comunque la si pensi, bisogna prendere atto che rinunciare a un approccio filologico significa prescindere da una serie di problemi primitivi ma non secondari circa il testo che stiamo leggendo: com’è giunto fino a noi? Che cosa è attribuibile a uno stadio più antico ed eventualmente “originario” (che possiamo riferire o meno a un’entità chiamata “autore”) e che cosa invece è stato modificato progressivamente dai copisti e dagli scoliasti (oppure dagli stampatori, dai ghost writers, dagli editor)? Soprattutto, rinunciare alla filologia significa mettere da parte un assunto fondamentale, che è un modo di vedere le cose: il testo che ci viene trasmesso non è un dato ma un processo.
Ovviamente i filologi hanno una parte di responsabilità nella crisi della disciplina, che oggi appare a molti come un insieme di saperi assurdi e autoreferenziali (a volte autoreferenziali anche all’interno di un mondo già estremamente specialistico com’è quello della filologia). In effetti temo che, anche occupandosi del medesimo testo, uno studioso inglese d’ispirazione gender e un filologo italiano “tradizionale” − se chiusi insieme in una stanza per un crudele esperimento − potrebbero ispirare una sceneggiatura à la Antonioni. Per quanto mi riguarda, confesso che, con un dottorato in filologia romanza, spesso ho difficoltà a seguire, anche solo nell’esoterismo del linguaggio, molti articoli di colleghi italiani che si occupano di poesia provenzale. A questo ripiegamento interno corrisponde, all’esterno, una ritirata pressoché totale dei filologi dal dibattito culturale contemporaneo (Filologia e libertà di Luciano Canfora [2008] è stato un tentativo isolato, e non ha lasciato il segno).
Le notizie false
2. Il problema dell’accertamento dei testi è sempre stato centrale nell’attività giornalistica, dove il fact-checking è una delle basi del mestiere. Ma qui ci poniamo già alla fine della catena. L’utente medio che si informa su Facebook non fa nessuna distinzione tra la pagina online de «La Repubblica» e quella di «Repubblica24» (un sito cialtronesco che crea o rilancia bufale). Se manca una cultura dei testi, tutti i testi sono uguali. Purché una notizia sia pubblicata su un sito dal nome “giornalistico”, scritta in prosa, senza errori marchiani almeno nel titolo, allora diventa per molti una notizia fededegna.
Le bufale usate come strumento di propaganda non sono una scoperta dello spin doctor di Trump. Forme di post-truth politics esistono fin dall’antichità (a ben vedere il termine è improprio: non c’è nessun post, non essendo mai esistita un’epoca di truth politics). Anche tra bufale e filologia esiste, del resto, un legame di lunga data: una delle prime prove moderne di metodo critico applicato all’accertamento dei testi è la confutazione con cui l’umanista Lorenzo Valla dimostrò la falsità di un documento alto-medievale che riconosceva al papato una serie di privilegi: la cosiddetta “Donazione di Costantino”.
Cosa c’entra la filologia
3. All’indomani dell’elezione di Trump, con il dibattito sulle bufale che ne è seguìto, Mark Zuckerberg ha dichiarato che sono allo studio alcune misure per combattere la diffusione di fake news su Facebook, la piattaforma che insieme a Google ha avuto il ruolo principale nella diffusione dei falsi. Ma il problema delle bufale esisteva prima di Facebook. e, se non lo si affronta alle radici, continuerà a esistere anche dopo (o accanto a) questo importante canale di diffusione. È il principio del ritorno del rimosso: what you resist persists.
Sono convinto che per affrontare davvero il problema non sia sufficiente combattere il “sintomo” che ci si sta presentando in questi mesi. Ciò che, a livello di cultura condivisa, va ricostruito dalle fondamenta è un modo di pensare adatto a ogni canale di trasmissione e a ogni tipo di testo. Questo genere di educazione e sensibilizzazione si fa prima di tutto nelle scuole. Penso alla tradizionale lettura di giornali in classe, che il prima possibile dovrebbe essere integrata con l’analisi di giornali online, e poi con l’esame di pagine Facebook e con la discussione di alcune bufale (e anche di bufale con evidente intento satirico, come quelle, divertentissime, di Lercio.it). Ci vorranno anni, e prima degli studenti bisognerà formare i docenti.
Insegnando in modo avventuroso (cioè senza un posto) filologia romanza, mi capita di discutere con gli studenti circa i problemi testuali posti da internet e dai social, spazi che fanno e faranno parte delle loro vite. In questo cerco di tenere presente che un giorno gli studenti di Lettere saranno insegnanti, giornalisti, editor, copywriter. Oppure svolgeranno altre professioni che non esistono ancora, ma che avranno a che vedere con i testi e con internet.
Il caso Rignano sul Membro
4. Quello che segue è un esempio di problema filologico nell’era di internet che un insegnante potrebbe voler discutere con la propria classe. Il punto di metodo che dovrebbe passare è semplice ma non banale: i testi hanno una dimensione temporale, anche in Rete. Esaminiamo un caso concreto. Come si è scritto, la notizia più diffusa sui social nei giorni prima del referendum costituzionale era una bufala. Il testo è stato pubblicato online il 22.11.2016 dal «Fatto Quotidaino» (sic; d’ora in avanti “Fq”), un sito border line di satira e bufale. La primissima versione diceva che a «Rignano sull’Arno» (cioè nel paese d’origine di Matteo Renzi) erano state ritrovate 500.000 schede referendarie già segnate con il sì. La pagina è stata poi rimossa in seguito al clamore suscitato dalla bufala. Che la prima versione dicesse proprio «Rignano sull’Arno» è suggerito dall’anteprima visibile su «Un caffè al giorno» (che chiameremo “U”), una delle prime pagine Facebook che hanno condiviso la notizia (sempre il 22.11). -L’anteprima trova poi conferma nell’URL di Fq («rignano-sullarno-trovate-500-000-schede-gia-segnate-voto-si-shock»). Invece, le altre pagine in cui sopravvive la bufala, tutte datate dal 23.11 in poi, portano una variante sulla località, che diventa «Rignano sul Membro» (ovviamente inesistente). Se adesso si prova a condividere l’URL di Fq, l’anteprima non dà più «Arno» (come in U), ma «Membro».
Come spiegare questo caos? La lezione «Arno» dev’essere quella più antica, perché non se ne trova traccia dopo il 22.11. L’ipotesi che avevo in mente - poi confermata dai redattori di Fq, che hanno avuto la gentilezza di rispondere alle mie sollecitazioni − è che il testo originario, con la lezione «Arno» (Fq1), sia stato modificato poco dopo la pubblicazione e corretto in «Membro» (Fq2). Questo con l’intento di chiarire ulteriormente che si trattava di uno scherzo. E forse anche per evitare grane. Dal 23.11 in poi, dunque, si diffonde la variante «Rignano sul Membro». Andando a confrontare il testo della notizia in varie pagine di rilancio, si scoprono altre varianti: le più macroscopiche sono un’interpolazione (contenente alcune considerazioni sul numero delle schede in rapporto al corpo elettorale) e un’ulteriore variante sulla città, che diventa «Napoli» (qui con un altro intento ancora, quello di restituire un tocco di realismo a un’evidente panzana). In alcuni casi, i siti citano la propria fonte; altre volte bisogna accontentarsi della data e delle varianti testuali. Vediamo una tabella di confronto:
Fq = Il Fatto quotidaino: 22.11, R. sull’Arno (Fq1) → R. sul Membro (Fq2) (totale: 158.161 shares su Facebook)
U = Un caffè al giorno: 22.11, R. sull’Arno (1094 shares)
I = ItalianiInformati.com: 23.11, R. sul Membro [con interpolazione] (351.828 shares)
R = Repubblica24.com: 23.11, R. sul Membro (21 shares)
Ni = Notizie Incredibili: 23.11, R. sul Membro [fonte dichiarata: Fq] (121 shares)
M = Mafia Capitale.info: 23.11, R. sul Membro (761 shares)
Nw = Newsitalys: 24.11, R. sul Membro (44 shares)
S = Shock-News.it: 24.11, R. sul Membro [con interpol.; fonte dichiarata: I] (158 shares)
G = Giornale Informativo: 27.11, Napoli (shares: n.d.)
Non si possono dettagliare ulteriormente le relazioni tra i siti portatori della semplice variante «Membro», che può derivare direttamente da un copia-incolla di Fq2 oppure da altre pagine che hanno rilanciato la stessa bufala senza introdurre varianti. Sulla base dell’analisi, si può ricostruire questo schema di diffusione:
Avendo a che fare con testi e varianti, non credo che l’attuale tecnologia informatica possa produrre uno schema più preciso di questo. Non si tratta - è bene sottolinearlo - di condivisioni di pagine con un codice o una formattazione tracciabile, ma di copia-incolla parzialmente ri-editati, quindi usciti momentaneamente dalla Rete, modificati, e poi rientrati. Dai vari siti di pseudo-notizie − che non sono moltissimi − la bufala è stata poi condivisa centinaia di migliaia di volte sui social (la “vulgata” del testo). A questo punto l’informatica torna utile: applicazioni come BuzzSumo o SharedCount permettono di conteggiare il numero di condivisioni irradiate da ogni URL, dunque il “peso” di ogni fonte nella diffusione di una bufala sui social (nel nostro caso il sito I è il principale responsabile, seguito dalla fonte originale Fq).
E quindi?
5. Mentalità o cultura filologica sono cose diverse (più profonde) rispetto alla filologia, che per vocazione si occupa soprattutto di testi letterari. Il rapporto tra cultura dei testi e filologia è lo stesso che esiste tra cultura del cibo e alta cucina, tra cultura della salute e medicina. Se il secondo polo (quello della ricerca specialistica) viene meno, è difficile che il primo (quello della cultura condivisa) continui a prosperare da solo.
Le discipline filologiche non hanno rimedi immediati da offrire. Non basterà prendere un filologo, dargli una sedia girevole e metterlo in cattività nella redazione del «New York Times» per far evaporare le bufale dal web. Ma potrebbe essere utile continuare ad avere dei filologi che insegnano agli studenti di Lettere, alcuni dei quali insegneranno ai nostri figli, che poi faranno tanti mestieri diversi nella società.
Quello che deve preoccuparci non è l’Arno o il Membro, naturalmente, ma la voragine culturale che sta dietro alla proliferazione di fenomeni come quelli che stiamo osservando. Se la filologia può dare un contributo per affrontare le radici del problema (non l’epifenomeno contingente), allora è necessario un impegno concreto dei filologi, insieme a una riabilitazione della disciplina nel dibattito culturale.
In un famoso pamphlet anti-filologico, Bernard Cerquiglini ha scritto che la filologia, tutta presa com’è dall’ossessione di tracciare alberi genealogici dei manoscritti, «è una forma di pensiero borghese, paternalista e igienista sulla famiglia: ha cara la filiazione, perseguita l’adulterio, teme la contaminazione» (Éloge de la variante, 1989). Credo che Cerquiglini abbia torto e non abbia capito come funziona davvero la filologia.
Non vorrei però che avesse ragione sul fatto che i filologi sono effettivamente dei borghesi, cioè persone che preferiscono parlare difficile e leggere vecchi libri anziché confrontarsi con quello che succede a un metro dal loro salotto.
*
Claudio Lagomarsini insegna Filologia romanza all’Università degli Studi di Siena.
* IL POST, 04 GENNAIO 2017 (ripresa parziale - senza note).
Questo canone così tragico e mosso
«Umanisti italiani», Millennio per Einaudi. Da Petrarca a Valla, da Pico a Machiavelli, l’Umanesimo rivisitato in chiave contemporanea da Ebgi e Cacciari
di Massimo Natale (il manifesto, Alias, 11.12.2016)
Se torniamo a certe pagine di Eugenio Garin - per esempio quelle affidate a un agevole libello come La cultura del Rinascimento, uscite in prima battuta nella Propyläen-Weltgeschichte edita nel 1964 - vi leggiamo che una tale epoca è segnata anzitutto dalla «coscienza della nascita di un’età nuova, con caratteri opposti a quelli dell’età precedente», una «coscienza polemica» la cui cifra è la «volontà precisa di ribellione, un programma di distacco da un mondo vecchio per instaurare altre forme di educazione e di convivenza, un’altra società e diversi rapporti tra uomo e natura».
Lontanissimo da ogni presentimento di una «bella età de l’oro» e da ogni rappresentazione oleografica dei secoli della prima modernità, il mondo rinascimentale si presenta allora, per Garin, «più enigmatico e inquieto che limpido e armonioso», un cosmo nel quale «il senso tragico della vita e una religiosità scavata» si precepiscono anzitutto «nella grandezza delle forme michelangiolesche».
Virate o estese alla cultura propriamente umanistica fra Tre e Quattrocento - a ulteriore conferma della loro efficacia - queste parole potrebbero fare da ottimo viatico anche a chi sfogli Umanisti italiani Pensiero e destino, a cura di Raphael Ebgi, con un saggio di Massimo Cacciari (Einaudi «I millenni», pp. CVI-558, € 85,00).
Il volume è approntato in forma di antologia, disposta per temi fondamentali - otto sentieri, dal rapporto fra Vita activa e Vita contemplativa alla Metaphysica alla Teologia poetica - di volta in volta preparati da un cappello introduttivo, storico-interpretativo. Si compone così una sorta di breviario umanistico, che spazia da Machiavelli a Pico, da Bessarione a Giorgio di Trebisonda, da Landino a Poliziano, non avvalendosi peraltro soltanto di stralci di opere già a loro agio nel canone, ma anche di glosse, appunti o pagine di diario (con l’aggiunta preziosa di un paio di trouvailles inedite, fra cui un brano latino di Pico in calce a una lettera a Battista Guarini, ritrovato da Franco Bacchelli nel codice Capponiano della Biblioteca Apostolica Vaticana).
In partenza Garin e Vasoli
A orientare scelte e intenzioni ermenutiche è comunque, da subito, l’articolato studio di Cacciari - che prende non a caso le mosse proprio dal nome di Garin e da quello di Cesare Vasoli - con l’obiettivo di Ripensare l’umanesimo. A cominciare dalla necessità di limitare o sorpassare senz’altro le «riserve, diffidenze e incomprensioni, quando non aperte critiche», che la filosofia contemporanea ha riservato a questo periodo della storia europea.
L’intervento di Cacciari si potrebbe in effetti leggere in buona parte - libro dentro il libro - come il tentativo di ripercorrere la lunga parabola di una mislettura profonda, secondo la quale Umanesimo implicherebbe - essenzialmente ed erroneamente - uno «spirito conservatore», una «visione essenzialmente antitragica» dell’esistente e un ideale di «paideia totalizzante-armonica». Per capire quanto sia diverso, qui, lo sguardo gettato sui nostri umanisti, basterebbe considerare come venga servito fra gli altri, da Cacciari e Ebgi, un Petrarca. Immediatamente scelto per aprire il primo capitolo antologico - dal titolo molto eloquente di «Umanesimo tragico» - ecco il Petrarca di una lettera a Ludwig van Kempen, impegnato a riconoscere, con maturo disincanto, la potenza di Fortuna: «occorre lasciare che la fortuna faccia i suoi giochi (...). Per vincerla, nessun’arma è migliore della sopportazione (...). Nessuna speranza di quiete si trova in questo capo di fatiche, giacché la vita dell’uomo non è solo milizia, ma guerra, e chiunque viene in questo mondo, viene in un campo di battaglia».
Saremmo cioè, già con Petrarca, di fronte a uno fra i primi diagnosti della finitezza e debolezza dell’individuo (un Petrarca con il quale inizia peraltro, secondo Cacciari, il «canto-threnos di Europa: ed ecco allora il poeta dei Fragmenta, con il suo sguardo sul Passato, accostato nientemeno che allo Schicksalslied dell’Hyperion di Hölderlin).
Ciò che probabilmente più affascina, nell’ampia ricostruzione proposta, è la scelta di riavvicinarsi all’Umanesimo tenendo un punto di osservazione saldamente ‘contemporaneo’. Autori, opere e nodi non sono affrontati per medaglioni, quanto piuttosto per linee: non sono ritratti in istantanea, ma immagini in movimento. E infatti il risultato non è tanto un magari nuovo e però statico quadro della cultura umanistica, ma una vera e propria genealogia del moderno.
Lo si capisce bene se si guarda, anzitutto, alla questione del rapporto fra linguaggio e pensiero: «asse portante», annota Cacciari, «dei momenti più alti» della speculazione umanistica, nella prima e precoce coscienza che ogni argomentare e ogni teoresi è anche un problema di «prassi linguistica» (ben in anticipo su certe non distanti riflessioni, ormai novecentesche).
Il richiamo a Dante
Qui è un altro il padre di ogni discorso sull’Umanesimo italiano, ovvero il Dante del De vulgari eloquentia. Il quale - pur non presente nella scelta antologica del volume - è più volte richiamato nelle pagine introduttive, ed evocato anzi come il punto di partenza necessario per ogni ritorno agli umanisti (un punto di partenza anteriore, dunque, al più scontato ‘proto-umanesimo’ di Petrarca o Boccaccio e dintorni, e indispensabile tanto più se si osserva l’epoca dalla specola di una filosofia del linguaggio). Certo, il De vulgari eloquentia è un primo atlante di dialettologia volgare: ma è, anche più, la sanzione dell’uscita del linguaggio poetico dalla sua condizione limitante di cognitio minor, di pensiero imperfetto o favola falsa. Il moderno sta insomma imparando, già a quest’altezza, la «piena rilevanza cognitiva» di un pensiero diverso, poetico, per immagini.
Si intravede già, in fondo al percorso, Leopardi: un altro nome che Cacciari spende a più riprese, laddove vuole per esempio ricordarci come esperienza e immanenza siano alla radice del pensiero di un Guicciardini (ed ecco sfruttati i leopardiani Pensieri: lì Guicciardini «è forse il solo storico tra i moderni, che abbia conosciuto molto gli uomini, e filosofato attenendosi alla cognizione della natura umana).
Ma Leopardi è nome talmente consustanziale - e non da oggi - alla riflessione di Cacciari, che lo si può anche criptocitare nel definire la filosofia di Lorenzo Valla - certamente uno dei perni del volume - una «filosofia dolorosa, ma vera» (così il leopardiano Dialogo di Tristano e di un amico, nelle Operette); o si veda infine la suggestiva «amicizia stellare» che legherebbe insieme Leopardi e Alberti, all’insegna di un comune pessimismo per così dire agonista. Speziare l’Umanesimo col moderno si può, forse anzi si deve, se non si vuole perderne alcuni tratti fondamentali, mantenendolo - con Nietzsche: anche lui spesso chiamato in causa - sempre in bilico fra attuale e inattuale.
Galleria iconografica
E si potrebbero indicare molti altri annunci, presentimenti di futuro consegnatici dal pensiero umanista: limitiamoci a scomodare almeno il suo carattere sempre fortemente civile, nel suo porre costantemente al centro una comune educazione, un dialogo duraturo fra Filosofia, Filologia ed Ermete (e allora il nome da fare sarà, stavolta, quello di Aby Warburg, nel cui segno si pone la splendida galleria iconografica che arricchisce il volume, e che accompagna il lettore da Bosch a Benozzo Gozzoli, a Giorgione ecc., suggestivamente commentati). Oppure, a come già tra Ficino e Pico - con il supporto della Lettera ai Romani di San Paolo - tramonti ogni possibile teodicea, nell’eventuale annullamento del libero arbitrio umano da parte della volontà divina. O a come, in ultima analisi, tra Machiavelli e Valla ogni azione umana sembri rivelare il proprio vero fine nella più nostra, nella più moderna delle ragioni: la ricerca della felicità, ovvero il principio di piacere.
Nel 1725, Giambattista Vico spedisce a Newton la sua prima "Scienza Nuova".
A Napoli il sindaco accende ’Nalbero’
E’ alto 40 metri, realizzato sul lungomare con circa 35mila tubi
di Redazione ANSA NAPOLI *
Il sindaco di Napoli Luigi de Magistris ha acceso ’Nalbero’ l’attrazione del Natale 2016 realizzata alla Rotonda Diaz sul lungomare Caracciolo. L’accesso al pubblico comincerà la mattina di sabato 10 e non domani come inizialmente previsto perché alcuni lavori non sono ancora stati completati.
Nalbero, realizzato dalla Italstage di Pasquale Aumenta, è alto 40 metri, è innalzato su 35mila tubi di multirezionale Lahye, materiale arrivato dalla Germania, e alla base ci sono 150 tonnellate di zavorra per aumentare la stabilità e rispondere al vento del lungomare. La struttura è stata realizzata in 18 giorni e resterà ad affacciarsi sul Golfo per 90 giorni pronta ad accogliere napoletani e turisti.
"Nalbero - ha detto Pasquale Aumenta - è un’opera di ingegneria napoletana ed è la dimostrazione che anche a Napoli si possono fare cose belle. È espressione delle nostra capacità ed è un’opera fatta per la città". Secondo i dati riferiti, in media ogni giorno hanno lavorato alla struttura 80 persone con picchi di 250 negli ultimi giorni.
All’interno al piano terra ci sono la galleria commerciale e le esposizioni tra cui ’Vulcano con vista mare’ di Gennaro Regina.
Salendo al primo piano si trova l’area food con un ristorante da 180 posti aperto a pranzo e cena, un bar e un bistrot per soddisfare tutti i gusti e tutti i portafogli. Qui una grande terrazza che si estende su tutti i lati di Nalbero offre panorami mozzafiato del Golfo e della città.
A questi primi due livelli di Nalbero si accede gratuitamente mentre per salire alle sue terrazze panoramiche poste una a 18 metri di altezza e l’altra a 30 metri si dovrà pagare un biglietto.
Il ticket costa 8 euro per gli adulti e 5 euro per minori di 12 anni e over 65. Sono inoltre previste agevolazioni per le famiglie, mentre i bambini al di sotto di un metro di altezza accedono gratuitamente e i disabili con accompagnatore pagano un solo biglietto.
Nalbero nella sua permanenza a Napoli sarà anche un contenitore interattivo con attività laboratoriali, esposizioni e forme di intrattenimento per tutti i gusti. Sinergie, solo per citarne alcune, sono state strette con il Santobono-Pausillipon, con Città della Scienza, con Emergency e la Croce Rossa Italiana.
Nalbero ospiterà anche l’incursione artistica del collettivo Scu8. Inoltre con l’acquisto di un biglietto a prezzo pieno sarà possibile l’accesso a scelta tra il complesso monumentale di San Lorenzo Maggiore, la Galleria Borbonica, le Catacombe di San Gennaro e viceversa. Ad accompagnare i visitatori ci sarà la musica di radio Kiss Kiss
Nel 1725, Giambattista Vico (Napoli, 23 giugno 1668 - Napoli, 23 gennaio 1744) spedisce a Newton la sua prima "Scienza Nuova".
Il miracolo in un’ampolla
di Sergio Luzzatto (Il Sole-24 Ore, Domenica, 23 ottobre 2016)
Scappava, Pietro Giannone. Scappava a gambe levate. Via da Napoli, verso la natia Capitanata e le coste del Gargano. Verso l’Adriatico, e una qualche nave diretta al nord. Verso Vienna, la nuova capitale. Per lui, per l’incauto autore della Istoria civile del Regno di Napoli, pareva non esistere altro rimedio che la fuga, in quel disgraziato mese d’aprile del 1723. Da quando si era diffusa la voce che, nella Istoria civile fresca di stampa, Giannone avesse negato la natura miracolosa della liquefazione del sangue di san Gennaro, ecclesiastici di ogni specie e di ogni rango si erano fatti in quattro per scatenare la macchina del fango. Presuli dalle anticamere, frati dai chiostri, sacerdoti dai pulpiti, gesuiti dai torchi, avevano mobilitato contro lo scrittore anticuriale le «vili feminette», la «gente semplice e plebea». «Questa machina appunto adoperarono contro di me cotesti uomini pii, e religiosi. Si declamava per ogni angolo, ch’io negassi un sì evidente miracolo».
L’accusa suonava tanto più grave in quanto di lì a poco - il 1° maggio - doveva rinnovarsi il miracolo periodico della liquefazione. E in caso di mancato scioglimento del sangue, chi avrebbe protetto la città di Napoli dalle più varie calamità che regolarmente la minacciavano, le pestilenze, le guerre, le eruzioni del Vesuvio? Il 1° maggio, il martire cristiano avrebbe forse testimoniato del suo cruccio non solo contro il giurista miscredente, ma contro i napoletani tutti? Perciò Giannone scappava, scappava finché era in tempo. Perciò un suo fratello rimasto a Napoli aveva «tolto il migliore dalla casa», ritirandosi «in luogo ignoto e lontano dalla città». E poco importa se, nel giorno fatidico, il responso del sangue sarebbe riuscito ambiguo («si ritrovò parte liquefatto, e parte duro»). A Napoli, Pietro Giannone non avrebbe mai più rimesso piede, nell’agro quarto di secolo che pur gli restava da vivere.
Oggi - tre secoli più tardi - il sangue di san Gennaro ancora fa notizia, fin dentro le nostre cronache più recenti. Rinnovando l’attualità di una storia, quella del rapporto fra il sangue del santo e la città di Napoli, inaugurata oltre tre secoli prima della disavventura editoriale di Giannone: nell’anno 1389, con il primo episodio attestato di liquefazione. Storia risalente, dunque, al tardo Medioevo. Cioè a una stagione particolarmente propizia per un vissuto del cristianesimo così materico da sembrare pulp, fatto di manne dal cielo, di ostie sanguinanti, di reliquie ematiche del Golgota, come pure di stigmate di san Francesco, e di sacre sindoni.
Con un libro impeccabile nel metodo e impressionante nell’erudizione, Francesco Paolo de Ceglia ha ricostruito adesso i sette secoli o quasi di questa storia: la suggestiva vicenda (secondo il titolo) del «segreto» di san Gennaro, ovvero (nel sottotitolo) la «storia naturale di un miracolo napoletano». Non già - evidentemente - per determinare se miracolo ci sia davvero o non ci sia per nulla, ma piuttosto per ricostruire l’universo materiale e mentale di chi, da sette secoli in qua, quel miracolo ha riconosciuto come vero, consolante, salvifico; oltre all’universo di chi, da tre o quattro secoli a questa parte, nel miracolo ha intravisto il trucco.
Se le prime attestazioni risalgono alla fine del Trecento, la costruzione compiuta del miracolo napoletano va registrata intorno alla metà del Quattrocento. Allora si fissa il rituale per cui il tabernacolo contenente la doppia ampolla con il sangue di san Gennaro viene avvicinato dall’officiante al cranio del santo stesso, conservato in Duomo entro un reliquario antropomorfo: e per cui soltanto l’interazione fra le due reliquie - accompagnata da uno scuotimento del tabernacolo - provoca lo sciogliersi di un liquido che si presenta, altrimenti, allo stato normale di sangue rappreso. Seguono, nel corso del Cinquecento, le teorizzazioni più o meno eloquenti di tale organica «simpatia». Fino al trionfo seicentesco del culto in quello scrigno architettonico partenopeo che è la Cappella del Tesoro, dove magnificamente si dispiega l’arte pittorica del Domenichino.
Non per caso, nel pennacchio della volta, La Vergine intercede per Napoli raffigura l’intervento ematico di san Gennaro come un momento decisivo nella guerra scatenata dalla Chiesa di Roma contro l’eresia di Lutero e di Calvino: perché sin dagli esordi della Riforma protestante, e poi sempre più durante le guerre di religione, era stato dal Nord Europa che avevano risuonato le critiche più severe (oltreché le più sarcastiche) contro il preteso miracolo della liquefazione. Nella doppia ampolla napoletana non si poteva forse immettere una buona dose di calce viva che, eccitando il liquido rappreso, lo rendesse «spumante» come lo volevano i devoti? Questa l’ipotesi del teologo ugonotto Pierre du Moulin, cui si sarebbero aggiunte - dal Seicento al Novecento - innumerevoli altre proposte di decifrazione del segreto e di denuncia dell’impostura.
Il sangue di san Gennaro interrato in una ghiacciaia, «congelato nel modo in cui costoro [i napoletani] fanno i sorbetti». Il sangue di san Gennaro quale composto altrettanto astuto che truffaldino, un amalgama d’oro e di solfuro di mercurio. Il sangue di san Gennaro abilmente dissimulato in due tabernacoli identici, l’uno contenente liquido e l’altro contenente gel. Il sangue di san Gennaro prodotto da «sanguisughe ingozzate, con la bocca delicatamente sigillata». Il sangue di san Gennaro replicato e replicabile, in laboratorio, aggiungendo solfato di sodio a sangue di bue, ecc. ecc. «E voi, vi lascierete trovare ancora coll’umiliante composizione chimica che gl’impostori vi spacciano come sangue di san Gennaro, e con cui si beffano di voi da tanti anni? Non sarà bene di frangere per sempre quell’ampolla contenente il veleno?»: così, nel 1869, un mangiapreti che di nome faceva Giuseppe Garibaldi.
Ma la lunga storia non è finita lì, durante la breve parentesi di storia nazionale che è stata quella di un’Italia laica. Né è finita quando, corrente l’anno 1991, tre scienziati italiani hanno pubblicato su «Nature» un intervento che riduceva lo straordinario miracolo di san Gennaro a ordinario fenomeno di tissotropia. Stante «la proprietà di alcuni gel di liquefare quando mescolati o sottoposti a vibrazioni, e di solidificare di nuovo quando lasciati stare», si poteva ben ritenere che il liquido della doppia ampolla avesse poco di diverso da una banale miscela di cloruro ferrico, carbonato di calcio, acqua, e un pizzico di sale da cucina... A questi tre autorevoli scienziati, uno scienziato altrettanto autorevole - cui la curia di Napoli aveva permesso di compiere, dal 1979 al 1983, studi ravvicinati sull’ampolla - ha risposto negando, rilevazioni alla mano, che il comportamento della reliquia avesse «nulla a che vedere con la tissotropia».
Sì, la storia continua. Anche perché, notoriamente, chi ha bisogno di miracoli non cerca prove, ma segni. Non vuole ragionarci, vuole crederci. A tutt’oggi - con buona pace del generale Garibaldi - l’ampolla non è stata franta.
Un sangue sensibile alla cornice del senso
Credenze. Possente e minuziosa, la ricerca dello storico della scienza Francesco P. De Ceglia su «Il segreto di San Gennaro» (Einaudi) indaga i mutevoli concetti elaborati per spiegare il fenomeno
di Francesco Benigno (il manifesto, Alias, 11.12.2016)
Napoli, 4 maggio 1799. La cattedrale era gremitissima e la folla, che attendeva spasmodica di vedere la miracolosa liquefazione del sangue raccolto in un’ampolla rituale, appariva impaziente: il sangue non si scioglieva. Pochi mesi prima, a gennaio, all’arrivo del generale Championnet e dei suoi soldati, la liquefazione era avvenuta regolarmente, sia pure in cerimonia privata, e da quel momento San Gennaro era stato accusato pubblicamente di essersi fatto «giacobino». Ma ora la situazione era cambiata: le truppe inglesi e l’armata dei lazzaroni sanfedisti del cardinale Ruffo si stavano pericolosamente avvicinando a Napoli e i francesi, temendo un’insurrezione, presidiavano i punti nevralgici della città.
A voler credere a un testimone oculare, il diarista e ufficiale Paul Thiébault, il Presidente del governo napoletano, posto di fronte alla pericolosa impasse, avrebbe allora tentato una mossa estrema: si sarebbe avvicinato all’Arcivescovo di Napoli e - facendogli intravedere una pistola nascosta nel gilet - gli avrebbe sussurrato: «Se il miracolo non si compie in fretta voi siete morto». Detto fatto, il sangue si sciolse.
È solo uno tra i tanti episodi, favolosi e stranianti, raccontati da Francesco Paolo De Ceglia in Il segreto di San Gennaro Storia naturale di un miracolo napoletano (Einaudi, pp. XVI-416,euro 32, 00) una ricerca possente e minuziosa, condotta con garbo e grandi mezzi culturali, e soprattutto scritta benissimo, con uno stile incisivo e per quanto possibile - data la complessità dei temi trattati - chiaro. Perché sebbene il sottotitolo ammiccante reciti «storia naturale», la sua più giusta definizione avrebbe dovuto essere «storia intellettuale».
Il centro del libro non è costituito, infatti, dalle pratiche di devozione e dalla dimensione sociale della ritualità sacrale di una città sovrabbondante di «miracoli», bensì dai mutevoli quadri concettuali volta a volta elaborati per «spiegare» il fenomeno e, in sostanza, la cultura che lo ha identificato come tale. Un percorso affascinante, intessuto di ragionamenti sui confini tra la natura e la fede, tra la vita e la morte, tra ciò che può essere conosciuto e quanto resterà assolutamente ignoto.
La storia ha inizio il 17 agosto 1389 quando durante una processione delle reliquie di San Gennaro, martirizzato agli inizi del IV secolo, si verificò per la prima volta il fenomeno della liquefazione del suo sangue raccolto in una ampolla. Non era un caso del tutto eccezionale, a quel tempo. L’Europa pullulava di reliquie ematiche di vari santi nonché del sangue di Gesù Cristo, e alle reliquie erano variamente connessi miracoli disparati: a Bari, ad esempio, le ossa di San Nicola trasudavano manna. Ciò che c’era di particolare nel «miracolo» di San Gennaro, era la sua incostanza: normalmente solido e di colore bruno, il suo sangue talvolta si scioglieva guadagnando un colore rosso brillante. Era insomma instabile, incostante, mutevole in modo inquietante.
Cominciarono allora due processi importanti, mirati entrambi a rendere il miracolo gestibile e perciò a «regolarlo». Da una parte lo si inscrisse in un cerimoniale in grado di esaltarne la fruibilità collettiva, magari mitigandone la imprevedibilità; dall’altra lo si spiegò, in modo da rendere conto, pur nel quadro di un fenomeno soprannaturale, della ragione del periodico scioglimento. De Ceglia mette in luce molto bene come questi due processi siano interrelati e, oltretutto, promossi dagli stessi individui.
Ne viene, da un canto la fissazione di un calendario cerimoniale che prevedeva una liquefazione periodica, a giorni fissi; dall’altro la teoria secondo la quale il ribollire del sangue sarebbe procurato dall’avvicinamento delle altre reliquie del Santo, e segnatamente del capo, conservato in un ricco reliquario antropomorfo. Il cambiamento di fase del sangue dipenderebbe così dall’interazione tra le due reliquie. Il corpo del Martire, una volta avvicinatesi due sue componenti fondamentali, il capo e il sangue, riprenderebbe «a vivere»: «il sangue prezioso che si vede duro come un sasso, tosto che scuopre il suo venerando capo si vede liquido e spiumante come s’hallora uscito fuse dalle sacre vene: miracolo veramente stupendissimo, ch’eccede ogni altro miracolo».
Naturalmente, con la riforma, queste credenze subirono attacchi feroci da parte protestante, attacchi che cercarono di naturalizzare il fenomeno facendo leva sulla credenza, assai diffusa nei paesi nordici, della «cruentazione»; e cioè la convinzione che i cadaveri di individui deceduti di morte violenta siano in grado di reagire alla presenza dei propri uccisori emettendo sostanze organiche. Si avanzò così l’ipotesi che il cranio non fosse quello del Santo ma quello del suo carnefice. Come mostra bene De Ceglia, qui il contrasto non è dunque tra la superstizione meridionale cattolica e la razionalità settentrionale protestante, ma tra due diversi «stili di credenza». Uno, quello cattolico, orientato al soprannaturale, l’altro, quello protestante, più propenso alla dimensione magico-naturalistica.
Diverso ancora il panorama intellettuale settecentesco, dominato dalla logica dell’esperimento e dall’idea di replicare il fenomeno mediante pozioni di derivati di ferro e altre sostanze capaci di reagire, sciogliendosi, al calore o allo scuotimento. Ancora una volta, però, questa diversa dimensione, diciamo così sperimentale, non contrappone un nord scientista a un sud oscurantista, se è vero che a un Caspar Neumann, capace di intrattenere la corte di Berlino nel 1734 con un esperimento volto a svelare il «trucco» del sangue di San Gennaro, faceva eco a Napoli la costruzione, da parte del principe «illuminato» Raimondo di Sangro, di una macchina capace di riprodurre la liquefazione del sangue.
Le diatribe sono continuate fino a oggi e hanno coinvolto spiritisti e socialisti, gesuiti e massoni, maghi e sacerdoti, antropologi e mangiapreti, chimici e scienziati di diverso orientamento: la Chiesa infatti, pur proteggendo il culto, non ha mai dichiarato il fenomeno come miracoloso, sicché la fedeltà al cattolicesimo non ha implicato, di necessità, la credenza nella liquefazione miracolosa. Se un giorno tutto questo finirà, scrive saggiamente De Ceglia, non sarà perché qualcuno svelerà il «trucco» di San Gennaro ma perché cambierà la sensibilità verso queste forme di devozione.
Giusto, ma resta un rimpianto. Se nella sua fantastica traversata dei secoli De Ceglia avesse applicato lo stesso criterio, avremmo avuto una storia anche «sociale» e non solo intellettuale del «miracolo» di san Gennaro. E questa ci avrebbe fatto meglio capire, accanto agli aspetti della religiosità napoletana, dagli ex voto alle preghiere di intercessione, anche vicende che restano un po’ all’ombra di questo saggio: per esempio, il tentativo da parte popolare di appropriarsi della processione, il sostegno assicurato dai Gesuiti al suo culto, la protezione miracolosa accordata dal Santo alla città in occasione dell’eruzione del 1631, la competizione con gli altri Santi patroni di Napoli e quella, tutta politica, con Sant’Antonio di Padova. Durante la Restaurazione, infatti San Gennaro subì una sorta di ostracismo e pare che gli imbrattatele della rua catalana esponessero un quadro in cui Sant’Antonio armato di verghe sferzava san Gennaro che scappava. L’ostracismo sarebbe finito solo con l’arrivo solitario di Garibaldi in città nel 1860: e davanti all’Eroe dei due mondi, come (quasi) sempre, San Gennaro «fece» il miracolo.
GREGORIO MESSERE *:
Gregorio Messere, indicato anche come Missere o Messerio (Torre Santa Susanna, 15 novembre 1636 - Napoli, 19 febbraio 1708), è stato un filosofo, poeta, filologo e grecista italiano.(...)
L’aver ripristinato l’insegnamento della lingua greca in Napoli valse al Messere non solo il titolo di “ristoratore della greca erudizione”, ma contribuì alla ripresa dello studio di Omero, influenzandone il pensiero poetico e filosofico del tempo. Notevole fu l’influenza che egli ebbe sulla formazione del pensiero del Gravina.
Essenziale nella vita culturale di Gregorio Messere fu anche l’amicizia con Giuseppe Valletta, suo allievo. La conoscenza che Gregorio Messere aveva della filosofia fu ugualmente vasta tanto che gli valse l’appellativo di “novello Socrate” e quando si riferivano a lui veniva anche chiamato il “Socrate dei nostri tempi”.
La grande conoscenza della lingua greca gli conferì grande notorietà nonché una cattedra di Lett[erat]ura Greca, che mantenne fino all’anno della morte, presso l’Università degli studi di Napoli.
Tale cattedra, soppressa probabilmente nel 1627, era stata nuovamente istituita nel 1681 a spese di Giuseppe Valletta, filosofo, letterato e giureconsulto dell’epoca ed amico del Messere. Valletta aveva una profonda stima per il Messere, il quale fu assiduo frequentatore della sua casa non solo quale insegnante dei suoi figli e nipoti, ma anche perché divenuta luogo di riunioni dei più eruditi intellettuali del tempo.
Fra i suoi molti allievi che assistevano alle sue lezioni, ne ebbe alcuni divenuti celebri, si annoverano Gennaro d’Andrea, Antonio Barra, Gregorio Caloprese, Gianvincenzo Gravina, lo stesso Giuseppe Valletta, Niccolò Capasso, Andrea Mazzarella da Cerreto, Matteo Egizio, Tommaso Donzelli ed altri.
Morì nel 1708, ai suoi funerali parteciparono tutti i professori dell’Università e altri illustri personaggi; fu sepolto nella cappella dove riposano le ceneri del letterato Giovanni Pontano. Giambattista Vico, noto filosofo suo amico, gli dedicò un breve madrigale dal titolo Ghirlanda di timo per Argeo Caraconasio (...).
Il mondo culturale napoletano della seconda metà del ’600 fu caratterizzato da importanti innovazioni a livello filosofico, scientifico, civile e politico. Tale fervore culturale aprì la strada alla nascita di un numero notevole di accademie, che divennero luoghi di discussione aperta e di diffusione di nuove idee filosofiche e scientifiche.
A Napoli le principali accademie del tempo furono soprattutto quella degli Investiganti e quella di Medinaceli. Che il Messere sia stato membro autorevole di entrambe le accademie e frequentatore di circoli e salotti letterari napoletani è testimoniato da non pochi documenti, tra cui manoscritti e altri a stampa conservati nella Biblioteca Nazionale di Napoli; le sue lezioni ebbero un così folto seguito di giovani tanto da far suscitare invidie fra i letterati fanatici dell’erudizione i quali, a furia di schernirlo per la sua ellenofilia, diffusero in Napoli addirittura la moda letteraria della macchietta dello pseudogrecista, satireggiata pure dal Vico nella terza Orazione inaugurale.
Fu anche tra i primi membri dell’Arcadia fondata dal Crescimbeni e dal Gravina, ove gli fu attribuito il nome pastorale greco di Argeo Coraconasio, “dalle campagne dell’isola Coraconaso”. Nel 1703 fu fondata a Napoli la Colonia “Sebezia” dell’Arcadia e anche qui il Messere fu tra i primi iscritti.
* Wikipedia. (ripresa parziale - senza note).
MATERIALI DELLA "FONDAZIONE TERRA D’OTRANTO":
"La famiglia di Giambattista Vico" *
Aggiungere un ulteriore e fondamentale tassello alla conoscenza della biografia di Giambattista Vico, in particolare della sua famiglia, come fa in questo volume Antonio Illibato, può essere considerato un piccolo tributo reso a tale grande pensatore napoletano purtroppo non valutato adeguatamente alla sua epoca.
E’ ben nota, infatti, la vicenda personale di Vico, il quale, pubblicata per la prima volta la sua opera più importante, la Scienza Nuova, ebbe la netta impressione di averlo fatto non in una grande città, bensì in un deserto, come scrisse in una lettera a un amico nel 1725.
Coloro ai quali aveva inviato l’opera, come egli stesso riferisce, incontrandolo facevano finta di niente, non accennavano minimamente al fatto di averla ricevuta e non gli dicevano nemmeno una parola su di essa.
Una sorta di ‘congiura del silenzio’. In realtà, tutti avevano letto e compreso la sua posizione controcorrente: aver rivalutato la storia come scienza, anzi come ‘scienza nuova’, in polemica con Cartesio per il quale essa era una pseudoscienza.
Vico apriva gli occhi dei suoi contemporanei, saldamente ancorati alla filosofia cartesiana, un non allineato alla mentalità dominante, secondo la quale la vera conoscenza era di carattere fisico-matematico.
Il mondo, ossia la res extensa, quale obiectum dell’attività conoscitiva della res cogitans, può essere investigato con l’unico linguaggio, quello della matematica, che possiede caratteristiche tali da non essere soggetto alla dimensione qualitativa, bensì esclusivamente a quella quantitativa.
Non per nulla il filosofo francese, partendo dal cogito e non fidandosi dei sensi perché ritenuti fallaci, deve dimostrare che esiste la res extensa, la quale, in quanto tale, è puramente quantitativa.
Nel secolo dei Lumi la reazione di Vico non poteva trovare plauso, giacchè egli ebbe l’ardire di sostenere che non la storia, ma il mondo fisico non può essere conosciuto dall’uomo.
La storia, infatti, è costruita dall’umanità, mentre del mondo fisico è creatore Dio, il quale è l’unico che ne possiede la perfetta cognizione. Non poteva esserci antitesi più evidente al pensiero cartesiano.
* Antonio Illibato, Nuovo Monitore Napoletano, 10 Novembre 2016, PDF.
RIVOLUZIONE SCIENTIFICA E RIVOLUZIONE COPERNICANA IN FILOSOFIA ....
La domanda filosofica più importante
Dov’è l’origine della modernità?
A Boston se ne discute a partire da due figure cruciali nella storia dell’umanità: Galileo e Machiavelli
di Mario De Caro (Il Sole-24 oRE, Domenica, 06.11.2016)
«Cos’è la realtà?», «Cos’è giusto e cos’è ingiusto?», «Cosa possiamo conoscere?», «Qual è la forma migliore di convivenza umana?», «Chi sono io?», e così via. Come ognun sa (o dovrebbe sapere), le domande filosoficamente più profonde non trovano mai risposte del tutto convincenti. Una volta venute alla luce, infatti, esse non cessano mai di ripresentarsi, in forme solo parzialmente diverse di epoca in epoca, e continuano così a sfidare la capacità di comprensione degli esseri umani. Così, se qualche sapientone vi venisse a dire che la risposta a qualcuna di quelle domande è ovvia, potete stare certi che o bluffa oppure non sa di cosa parla.
È però legittimo chiedersi se tra queste domande ce ne sia una più importante delle altre. Uno dei maggiori filosofi viventi, John Searle, in proposito non ha dubbi. A suo giudizio, la domanda più importante che la filosofia contemporanea si trova davanti è: «Come si può conciliare la concezione di noi stessi in quanto agenti creatori di significati, liberi, razionali e così via con un universo che consiste interamente di brute particelle fisiche, sprovviste di mente, significato, libertà e razionalità?». Dalla risposta che diamo a questa domanda, discendono tutte le altre.
Nella sostanza, molti filosofi contemporanei la pensano come Searle, anche se non tutti si esprimerebbero in modo tanto crudo. Il punto è che, in sostanza, la domanda di Searle ne generalizza un’altra, che fu posta nientemeno che da Immanuel Kant nella terza antinomia della Critica della Ragione Pura. In quell’opera il grande filosofo di Königsberg si chiedeva come fosse possibile conciliare due affermazioni che singolarmente prese ci paiono certe, ma che tra loro sembrano contraddittorie. La prima affermazione (la «tesi» della terza antinomia) è che noi possiamo agire esercitando il libero arbitrio e quando lo facciamo siamo responsabili per l’azione che compiamo. La seconda idea (l’«antitesi»dell’antinomia) è che la facoltà del libero arbitrio è incompatibile con il carattere deterministico delle ineludibili leggi naturali scoperte da Newton.
Il problema di Kant è generalizzato da Searle, perché oltre al libero arbitrio, anche le altre prerogative fondamentali che ci autoattribuiamo (la coscienza, la moralità, la razionalità, la capacità di dare significato alle azioni e alle cose) sembrano incompatibili con il mondo naturale, così come esso ci viene presentato dalla scienza. In effetti, al di là della sicumera di Searle, è innegabile che il problema generale della collocazione del mondo umano nel contesto del mondo naturale sia centrale per la filosofia contemporanea - almeno nel caso in cui non si prendano facili scorciatoie, come quella di chi nega legittimità alla visione scientifica del mondo o quella di chi, a contrario, sostiene che questo problema è illusorio perché la scienza, e solo la scienza, spiega tutto ciò che c’è da spiegare.
Come gli altri genuini problemi filosofici, anche il problema di Searle ha una lunga storia, che risale a ben prima di Kant. Secondo qualcuno, il suo termine a quo è rappresentato dalla filosofia di Descartes che rispondeva al problema del posto dell’umano nel mondo naturale con il suo rigido dualismo: la mente, con tutte le sue prerogative, prima tra tutte la libertà, si colloca, secondo Descartes, in un mondo ontologicamente irrelato al mondo della materia. Una soluzione molto drastica, che però si rivelò subito insoddisfacente, perché è evidente che le due presunte sostanze (il pensiero e la materia), lungi dall’essere irrelate, interagiscono causalmente l’una con l’altra. Sarebbe però errato iniziare la genealogia della frattura tra l’immagine umana e l’immagine scientifica del mondo con la filosofia cartesiana. L’origine di questa scissione, infatti, si ritrova nel grande pensiero italiano del Rinascimento e della prima età moderna, e in particolare nei suoi due maggiori protagonisti: Niccolò Machiavelli e Galileo Galilei.
Il Segretario fiorentino fu il primo a offrire, a inizio Cinquecento, una compiuta visione secolarizzata, in cui l’agire umano si emancipava dai vincoli di un’etica religiosamente informata e, più in generale, da un quadro metafisico in cui tutto era tenuto assieme dalla provvidenza divina. Nella visione machiavelliana si saldavano in modo originale temi aristotelici (la rilevanza delle idee di virtù e di autonomia, l’eternità del mondo, il valore dell’astrologia) ed epicurei (il ruolo della contingenza nell’esercizio della virtù politica, la prossimità tra esseri umani e animali). E in questo modo Machiavelli plasmava un’antropologia naturalistica che avrebbe avuto grande influenza nei secoli successivi. In quell’antropologia, però, la razionalità (nella sua accezione politica) e la normatività (nel suo senso metastorico) continuavano a giocare un ruolo cruciale.
Quando, però, un secolo dopo, Galileo comprese che le categorie matematiche con cui si studiavano i moti celesti erano applicabili anche sulla Terra, e in questo modo fondava la fisica moderna, la dimensione del reale si restrinse alle cosiddette «qualità primarie» dei corpi, quelle quantitative e relazionali, mentre le «qualità secondarie» (qualitative e modali), e con esse le categorie modali e normative, venivano cancellate dal mondo reale. Come Husserl scrisse in Krisis, capolavoro della sua maturità, con Galileo iniziava la separazione tra il mondo della percezione e quello della scienza. Una separazione che avrebbe portato alla terza antinomia di Kant e alla questione prioritaria della filosofia contemporanea di cui parla Searle.
Machiavelli fondò dunque la moderna concezione dell’umano, Galileo la moderna concezione della natura: la modernità, con la sua costitutiva scissione tra mondo umano e natura, ha le proprie radici saldamente piantate in Italia. Di questo, e degli sviluppi che ne seguirono, discuteranno tra pochi giorni, in un grande convegno che si terrà a Boston presso le università di Harvard e di Tufts, alcuni dei massimi esperti mondiali.
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Boston, 10 e 11 novembre 2016, Harvard University e Tufts University, con la collaborazione dell’Università Roma Tre: convegno su The Italian Roots of Modernity: Machiavelli e Galileo. Tra i partecipanti Antonio Clericuzio, Mario De Caro, Ioannis Evrigenis, James Hankins, Harvey Mansfield, Gabriele Pedullà, Eileen Reeves, Mark J. Schiefsky, George Smith, Michelle Tolman-Clarke e Vickie Sullivan
La Bibbia si fa in quattro
La Sacra Scrittura in ebraico masoretico e l’antica versione greca dei Settanta, accompagnate dall’italiano
di Gianfranco Ravasi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 23.10.2016)
Forse esagerava ma non aveva del tutto torto Karl Kraus quando nei suoi Detti e contraddetti affermava che «il linguaggio è la madre, non l’ancella del pensiero». E continuava: «Il linguaggio dev’essere la bacchetta del rabdomante che scopre sorgenti di pensiero». Proprio per questo lo studio di una lingua permette di leggere un testo - anche (e soprattutto) sacro - nella sua matrice originaria tematica e culturale, impedendo che - attraverso la versione - accada quello che Cervantes segnalava per ogni traduzione: «è come contemplare un arazzo dal retro». Si spiega, così, il moltiplicarsi di strumenti che favoriscono l’approccio diretto al testo originale, anche attraverso i supporti informatici. Ad esempio, la società texana Silver Mountain Software già dal 1999 ha approntato le Bible Windows che si affacciano su tre orizzonti: l’analisi grammaticale dell’ebraico e del greco biblico; il dizionario ebraico-inglese e greco-inglese; la concordanza dei termini con un filtro grammaticale.
Se, invece, vogliamo fermarci alla carta stampata e a strumenti più “testuali” diretti, dobbiamo segnalare l’impresa messa in cantiere dalle edizioni Dehoniane di Bologna in una collana destinata a coprire tutti i 73 libri di cui si compone la Bibbia e intitolata suggestivamente “Doppio verso”, anche perché si hanno due copertine con testi rispettivamente capovolti. L’uno è riservato all’originale ebraico o greco di un libro biblico nel quale ogni parola ha la sua versione italiana interlineare quasi a ricalco letterale; l’altra sezione del volume offre, invece, una traduzione dello stesso libro biblico in modo continuo secondo la versione della Conferenza Episcopale Italiana (2008), accompagnata dall’apparato di introduzioni e di note desunte dalla ormai famosa “Bibbia di Gerusalemme”. Ad eseguire con pazienza certosina questa impresa è Roberto Reggi, un teologo che ha consacrato anni a questa operazione di fedeltà alla Parola sacra espressa nelle parole umane.
Ora, ha messo in cantiere un nuovo modulo analitico intitolato “La Bibbia quadriforme” e l’ha applicato a due libri biblici tra i più usati nella storia giudaica e cristiana, cioè la Genesi e i Salmi. La tetralogia che regge le doppie pagine di questa opera è facilmente comprensibile: al testo ebraico masoretico (cioè approntato dalla tradizione rabbinica con la vocalizzazione e altri segni di lettura), accompagnato sempre dall’interlineare italiano, si appaia l’antica versione greca detta dei “Settanta”, anch’essa sostenuta dall’interlineare italiano; infine, in calce si offrono la versione latina dei Salmi - secondo la cosiddetta Neovulgata, elaborata sulla base della celebre Vulgata di s. Girolamo, dopo il Concilio Vaticano II - e naturalmente la citata traduzione CEI.
In sintesi, nei bifogli vivono in armonia e, in alcuni casi in contrappunto, i testi ebraico, greco, latino, italiano. È questa una via per venir incontro al desiderio di molti di avere un approccio diretto alle Scritture, scoprendone le matrici primigenie in modo accurato e filologico, un desiderio - e lo affermo per esperienza personale - che sboccia anche in molti “laici” che, pur non considerando la Bibbia un testo “ispirato” da Dio, sono consapevoli della sua realtà di “grande codice” della cultura occidentale.
Ovviamente questi sussidi linguistici sono fondamentali per la teologia e, attraverso essi, si spera di superare quel vuoto indotto da una scuola superiore sempre più incline a soffocare le radici umanistiche classiche, un vuoto che, conseguentemente, si ripercuote sulle stesse scuole teologiche i cui alunni sono spesso estranei al contatto coi testi originali sacri ed ecclesiali. La giovanissima carmelitana s. Teresa di Lisieux (1873-97), in un’epoca in cui gli studi teologici erano preclusi al mondo femminile, confessava: «Se io fossi stata prete, avrei studiato a fondo l’ebraico e il greco così da conoscere il pensiero divino come Dio si degnò di esprimerlo nel nostro linguaggio umano».
Per fortuna ora c’è un manipolo molto fitto e qualificato di teologhe ed esegete che possono, ad esempio, elaborare quel commentario ai quattro Vangeli pubblicato dall’editrice Ancora di Milano lo scorso anno (del quale abbiamo dato conto su queste pagine), accompagnandolo con la battuta “Le donne prendono la Parola” con evidente doppio senso... Inoltre si deve segnalare che paradossalmente questa fedeltà paziente e amorosa alla lettera è un antidoto al fondamentalismo letteralista, quello che san Paolo bollava con la frase lapidaria: «La lettera uccide, lo Spirito invece dà vita» (2 Corinzi 3,6).
Infatti, l’accurata definizione delle singole parole svela non solo la necessità di coordinarle in un contesto, ma ne mostra anche la molteplicità delle iridescenze semantiche che le versioni cercano di recuperare e, quindi, suggeriscono la necessità dell’interpretazione. Questo processo è ignorato dai movimenti fondamentalistici di ogni religione che usano le parole sacre come pietre avulse dal contesto e dalla loro complessità strutturale e le scagliano come aeroliti sacrali contro gli altri (talora anche in senso fisico e non solo metaforico).
Proprio per questo la collana “Doppio verso”, dopo aver puntato l’obiettivo sulle singole parole vedendole come cellule viventi di un textus, cioè di un tessuto di significati specifici che si aprono a un significato globale, propone la versione unitaria commentata, cioè interpretata nella sua totalità. Aveva ragione Victor Hugo quando dichiarava che le mot est un être vivant, una realtà vivente che non può essere scarnificata dal corpo in cui è inserita e non può essere isolata dalla vitalità che sparge attorno a sé. Infine, per stare ancora nell’orizzonte della letteratura francese, dobbiamo riconoscere che on a boulversé la terre avec des mots, come scriveva Alfred de Musset. Sì, attraverso le parole è stata ed è spesso sconvolta la terra e insanguinata la storia, come purtroppo sperimentiamo nella cronaca odierna; ma con la potenza delle parole si è anche trasformata, fecondata, trasfigurata la vicenda di tanti uomini, donne e popoli.
UN CONTRIBUTO DI APPROFONDIMENTO ALLA NOTA DI ARMANDO POLITO
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A RICORDARE quanto siano importanti i "CRUCIVERBA" (rileggere la discussione avvenuta in merito, in coda all’art. : http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/04/serpente-presente/) e a rendere - ripeto - omaggio "al wikipediano ante litteram e al wikipediano post litteram" (cfr.: "immediata simpatia" - sono amici per la pelle:!!!), convinto che il richiamo all’USSARO non è affatto una COINCIDENZA, faccio "presente", notare, che "il timore delle rappresaglie" contro chi osava denunciare gli IPOCRITI e addirittura descriverne l’ANATOMIA era nell’ARIA DEL TEMPO!!!
TENIAMO PRESENTE che l’opera è pubblicata - nel 1699 - NON nel Regno di NAPOLI (negli anni 1688-1692, c’è il processo contro gli "ateisti" e GIAMBATTISTA VICO, per evitare guai grossi, accetta di trasferirsi in LUCANIA, a Vatolla, ai margini della "grande selva": http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5634 ), ma a VENEZIA (a due passi dall’Austria e dalla Boemia di HUS, oltre che dall’Ungheria e dagli altri Paesi dell’Europa con la presenza degli USSARI).
LA PUBBLICAZIONE DEL 1709, A GENOVA, CON IL NOME VERO E L’ANAGRAMMA ribadisce certissima-mente "la fedeltà al suo coraggioso pensiero", ma dice anche quanto sia stata grande LA PAURA di incarnare davvero la figura di HUS, "CANDIDO MALASORTE USSARO"!!! E come si sia salvato grazie alla pazienza e alla sapienza di GIOBBE. E abbia potuto, FINALMENTE, dire NOME, COGNOME, e tutta la verità - GALATTICA-MENTE!!! Il tempo degli Ussari era finito!
GALATTICA-MENTE: DALLA "MALASORTE", NE è venuto fuori, BIANCO, LATTEO, CANDIDO, "POLITO", E LO HA GRIDATO AL MONDO - ANZI ALLA INTERA "GALASSIA"!!!
SONO ALESSANDRO TOMMASO ARCUDI, NATO A S. PIETRO IN GALATINA (non in GELATINA)!!! Tenetene conto per l’eternità: "CRUCI-VERBA!!!!
Federico La Sala
TEORIA E STORIA DELLA STORIOGRAFIA. IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO E IL PROBLEMA DELLA COSTITUZIONE:
Perché Croce piace all’estero ma non è profeta in patria
A Napoli un convegno sulla sua grande fortuna internazionale conferma la necessità di riscoprirne il valore anche qui in Italia
di Roberto Esposito (la Repubblica, 22.09.2016)
La figura di Benedetto Croce ha spesso diviso i pareri, ponendo più di un interrogativo sul suo posto all’interno della filosofia moderna. Qualcuno, con qualche eccesso, si è spinto a parlare di un mistero di nome Croce. Come conciliare, ci si chiede, un profilo teoretico non troppo netto, più da grande intellettuale che da filosofo vero e proprio, con il suo crescente successo internazionale? Perché su quest’ultimo non vi sono dubbi. Basta scorrere il programma del Convegno di Napoli in programma oggi e domani presso l’Istituto di studi storici - organizzato dalla Fondazione che porta il suo nome, inaugurato questa mattina dal presidente Sergio Mattarella, e intitolato appunto La diffusione internazionale dell’opera di Benedetto Croce - per averne conferma.
Dall’Inghilterra alla Germania, dagli Usa al Canada, dalla Cina al Giappone, l’opera di Croce è oggetto di un interesse che non ha uguali, forse con l’eccezione di Gramsci, nel panorama italiano del ’900. Né si tratta di una scoperta recente. Il suo Breviario di estetica elabora una serie di lezioni tenute nel 1912 al Rice Institute di Huston. Come Aesthetica in nuce è lo sviluppo della voce Estetica scritta per l’Encyclopaedia Britannica, con Bohr e Einstein.
A cosa addebitare tale travolgente successo per un autore così lontano dai canoni della filosofia contemporanea - per intenderci, da Husserl e Heidegger, Wittgenstein e Bergson, Sartre e Adorno?
La risposta va cercata in una duplice direzione, come dimostrano due vaste sillogi appena pubblicate, Croce e Gentile. La cultura italiana e l’Europa, a cura di Michele Ciliberto per l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, e Lessico crociano. Un breviario filosofico- politico per il futuro, a cura di Rosalia Peluso per La Scuola di Pitagora.
Intanto Croce strinse una serie di relazioni con i maggiori intellettuali del tempo, da Sorel a Vossler, a Collingwood, che diffusero la sua opera in Europa. Stimata da personaggi del calibro di Weber, Meinecke, Dewey, Ortega e Zambrano.
Già al centro del dibattito europeo sul marxismo e la sua crisi, la sua figura crebbe durante la prima guerra mondiale, quando rifiutò ogni atteggiamento grettamente nazionalistico. E poi, ancora di più, quando assunse il ruolo di capo dell’opposizione morale al fascismo. Ma anche dopo la seconda guerra, egli si situa allo stesso livello di grandi autori liberali quali Aron, Popper, Berlin, come ricorda Corrado Ocone nel recente Il liberalismo del ‘ 900. Da Croce a Berlin (Rubettino).
E allora? Da dove nasce quest’aria di sufficienza nei suoi confronti? Da un lato dal rovesciamento speculare del provincialismo patriottico che certamente ha caratterizzato il Ventennio italiano in una sorta di pregiudizio antitaliano che ha portato alla liquidazione della nostra cultura filosofica primonovecentesca, catalogata come neo-idealismo. Dall’altro dalla marcata eterogeneità del lessico concettuale crociano rispetto alle scuole filosofiche più in voga - fenomenologica, esistenzialista, analitica. Alcuni dei problemi sono comuni, ma il linguaggio, la prospettiva, la tonalità di Croce sono molto diversi.
Ma - ecco il punto - è sicuro che tale diversità spinga il filosofo italiano all’indietro? Dipende naturalmente da cosa s’intende per filosofia. Se le si assegna una connotazione logica, analitica o metafisica, con un alto tasso di gergo specialistico. O se la si considera affacciata sul “fuori”, a contatto con la politica, la storia, la vita - come è del resto tipico dell’intero pensiero italiano.
Quando Croce scrive, in polemica con “i filosofi puri” che «la filosofia ha sempre l’origine sua nel moto della vita» e che essa «non può risolvere che i problemi che la vita le propone», intende rompere lo steccato che spesso rinchiude il sapere filosofico entro confini autoreferenziali.
Certo, Croce non avvertì che l’epoca moderna volgeva rapidamente al tramonto. Cercò ancora in essa le chiavi per arrestarne la deriva. E questo non può che allontanarlo da noi, ormai irrimediabilmente postmoderni. Ma, ben lontano dall’abito distaccato e curiale che gli è stato cucito addosso, egli colse con intensità, e talvolta disperazione, i drammi del proprio tempo, cercando, fino all’ultimo, di fronteggiarli.
Benedetto Croce «globale»: un convegno a Napoli poi il seminario in Giappone *
Dopo il convegno che si tiene oggi e domani a Napoli presso l’Istituto italiano per gli studi storici, sarà ancora più difficile bollare l’idealismo di Benedetto Croce (1866-1952) come un pensiero provinciale. L’incontro, organizzato dalla Fondazione Biblioteca Benedetto Croce a 150 anni dalla nascita del filosofo, riguarda la diffusione internazionale della sua opera e vi partecipano relatori da tutto il mondo: Paesi anglosassoni, Francia, Europa orientale, America Latina, Cina, Giap-pone.
«Croce - osserva Piero Craveri, presidente della Fondazione - aveva intessuto una fitta rete europea di rapporti, i cui riflessi si avvertivano anche in Asia: la prima traduzione in cinese della sua Estetica è del 1937». E ora a Pechino l’interesse è rifiorito: dal 2000 in poi sono state pubblicate sette opere di Croce.
Il convegno di Napoli, che si apre oggi alla presenza del capo dello Stato Sergio Mattarella con una relazione di Giuseppe Galasso, è stato preceduto in maggio da un appuntamento tenuto a Mosca e sarà seguito (il 10 ottobre) da un incontro a Kyoto . «Tanta attenzione - commenta Craveri - deriva dal fatto che Croce è un antidoto alla barbarie. Dinanzi a fondamentalismi, nazionalismi, populismi, c’è bisogno di riscoprire la sua religione della libertà».
* Corriere della Sera, 22.09.2016
di Alessandra Pigliaru *
Ragionatrice sottile e maestra d’eloquenza, sono alcune delle espressioni che si ritrovano nel Menesseno di Platone e nel quarto libro degli Stromati di Clemente Alessandrino riferibili ad Aspasia di Mileto che insegnò retorica a Pericle e filosofia a Socrate.
Ciò nonostante, simili appellativi venivano assai raramente utilizzati per il suo sesso; così segnala Gilles Ménage in un libro piccolo quanto fondamentale dal titolo Mulierum philosopharum historia, scritto in prima istanza nel 1690 e ampliato due anni dopo.
Arrivato in Italia solo 11 anni fa grazie alla traduzione e cura di Alessia Parolotto per le edizioni ombre corte, Storia delle donne filosofe (pp. 115, euro 9) viene ora rieditato per essere letto, studiato e sgranato con curiosità.
L’introduzione di Chiara Zamboni colloca acutamente la figura di Ménage, l’abate francese che oltre a essere stato un grande latinista e grammatico fu precettore di madame de Sévigné e madame de Lafayette.
Le sue relazioni in quegli anni straordinari, dai salotti delle Preziose all’immersione in quella che Benedetta Craveri ha poi chiamato e descritto nel suo La civiltà della conversazione, possono essere lette come il frutto di un’attenzione rara nei confronti di 70 pensatrici dell’antichità classica.
L’esercizio di Ménage, senza precedenti, rimane un isolato e pur tuttavia importante censimento filosofico, esito di una erudizione raffinata e rigorosa che fa avere fiducia sullo stato dei documenti consultati - seppure non tutti di immediato reperimento. Setacciare trattati, lessici, opere filosofiche è servito così a imbastire un ritratto a più voci.
Le fonti di riferimento utilizzate da Ménage sono quasi tutte maschili e, come sottolinea Zamboni nella introduzione, l’insistenza sul legame tra biografia e pensiero era in linea con la tradizione del suo tempo.
Accanto alle più note Ipazia e Diotima, maestre di eccellenza e amore per la sapienza, altre si fanno avanti e vengono per la prima volta suddivise per appartenenza di scuola - là dove se ne possa avere in qualche modo conferma. Di scuola incerta infatti restano ancora tante che vanno a comporre la prima parte del volumetto di Ménage.
Così accanto al nome di Aspasia risuonano quello di Cleobulina, Panfila, Giulia Domna, Eudocia, Novella e altre. E poi Temistoclea (nella Suda - lessico enciclopedico compilato intorno al 1000 - viene chiamata Teoclea), sorella di Pitagora a cui già Diogene Laerzio attribuisce la maggior parte dei precetti morali del più noto filosofo. Insieme alle pitagoriche, che sono anche le più numerose, sono presenti Epicuree, Ciniche, Stoiche, Accademiche, Peripatetiche, Platoniche, Cirenaiche.
E seppure di tutte le filosofe non resti quasi niente in termini di scritti, il lavoro di Gilles Ménage non si riduce a un contributo elenchico criticamente muto; bensì concorre a delineare una fisionomia storico-filosofica che anni dopo verrà decostruita e fatta definitivamente saltare dal femminismo.
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Alessandra Pigliaru
* http://pigiotto.blog.tiscali.it/2016/08/19/storia-delle-donne-filosofe/?doing_wp_cron - Venerdì, 19 Agosto 2016
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITà. --- ’Histoire des femmes philosophes’. Se ci si chiede chi sia l’autore, Gilles Ménage, si scopre che viveva nel diciassettesimo secolo, era un latinista precettore di Madame de Sévigné e di Madame de Lafayette e il suo libro, apparso nel 1690, s’intitolava ’Mulierum philosopharum historia’ (di Umberto Eco - Filosofare al femminile).
I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!!
ANTROPOLOGIA come ANTROPOLOGIA o come "ANDROPOLOGIA" E "ANDRAGATIA". L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE (E DEL FIGLIO), DI "MAMMASANTISSIMA":
Miti d’oggi
Insegnare l’antropologia nelle scuole, arma contro fondamentalismo e razzismo
di Marino Niola (la Repubblica, Venerdì, 12.07.2016)
Insegnare l’antropologia culturale nelle scuole per sconfiggere integralismo, radicalismo e razzismo. Lo hanno chiesto alle Istituzioni della Ue i rappresentanti delle associazioni antropologiche europee che si sono riuniti nei giorni scorsi a Milano rispondendo all’appello delle due sigle italiane, Anuac e Aisea. È singolare che in un mondo sempre più globalizzato e multiculturale, dove forme di vita, tradizioni, identità e religioni diverse convivono gomito a gomito, manchi totalmente nelle nostre scuole una qualsiasi educazione alla differenza. Che sarebbe invece il presupposto indispensabile per costruire un dialogo interculturale pacifico.
Insomma conoscenza contro diffidenza. E contro violenza. Che spesso nascono dall’ignoranza reciproca. E dalla paura dell’altro. È paradossale, secondo Cristina Papa, presidente dell’Anuac, che in uno scenario del genere la scuola, che avrebbe il compito di formare i cittadini di domani, non preveda l’insegnamento dell’antropologia, l’unica scienza che studia proprio le differenze, ma anche le compatibilità tra culture, modi di vita, usi e costumi dei diversi popoli. E che oggi sarebbe fondamentale sia per i ragazzi europei sia per i migranti di seconda e terza generazione che, sempre più spesso, reagiscono negativamente all’impatto con il paese ospitante. Col risultato, che è sotto i nostri occhi, di rinchiudersi nella propria apartheid identitaria. E di radicalizzare la propria origine, o la propria religione, trasformandole in un’arma a disposizione del fondamentalismo. È indispensabile che la scuola e l’università colmino questo anacronistico ritardo formativo. E facciano della competenza antropologica la chiave di volta di un nuovo umanesimo.
PAESTUM, GIAMBATTISTA VICO, E L’EGITTO. LA "CITAZIONE" DI GABRIEL ZUCHTRIEGEL:
"Paestum e l’Egitto":
(Museo Egizio di Torino, “Il Nilo a Pompei. Visioni d’Egitto nel mondo romano”)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO. CROCE IN INGHILTERRA E SHAFTESBURY IN ITALIA. La punta di un iceberg.
VICO CON NEWTON: "NON INVENTO IPOTESI"! E CON SHAFTESBURY, CON LA "TAVOLA DELLE COSE CIVILI"!
VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Note per una rilettura
«ELENA» DI EURIPIDE: AL VELIATEATRO 2016 L’ALTRA VERSIONE DEL MITO DELLA GUERRA DI TROIA
LA XIX EDIZIONE DEL FESTIVAL È DEDICATA ALLA MEMORIA DEL GRANDE FILOLOGO E GRECISTA MARIO UNTERSTEINER
Comunicato Stampa *
Una delle figure più intriganti della mitologia greca, Elena, vista attraverso l’occhio del più grande tragediografo antico. Sul palco di VeliaTeatro 2016, sabato 6 agosto (ore 21), nella serata inaugurale della XIX edizione del festival di teatro antico sull’acropoli dell’antica Elea-Velia, debutta «Elena» di Euripide. La tragedia è rappresentata da «Kerkís. Teatro Antico In Scena», in collaborazione con il Corso di Alta Formazione Teatro Antico in Scena dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, con la direzione artistica di Antonio Calenda. La regia è di Christian Poggioni, la direzione drammaturgica è di Elisabetta Matelli, docente di Storia del teatro greco e latino all’Università Cattolica di Milano e presidente dell’associazione «Kerkís. Teatro Antico In Scena», che introduce l’allestimento con una breve presentazione.
Lo spettacolo affronta un filone alternativo del mito della guerra di Troia, che Euripide riprese nella tragedia andata in scena nelle Grandi Dionisie del 412 a.C. La vera Elena, la seduttrice fatale che nel racconto omerico fu causa del rovinoso ed epico conflitto, non è mai fuggita con il principe Paride. È invece condotta dalla dea Era in Egitto presso il re Proteo e al suo posto va a Troia una «nuvola», una sua immagine (eidolon). Il dramma si apre nel momento in cui, morto Proteo, suo figlio Teoclimeno diventa re e pretende di sposare Elena.
Contemporaneamente, Menelao naufraga proprio in Egitto, convinto di aver trascinato sua moglie via da Troia, ma trovandosi davanti un’altra a lei del tutto simile.
L’intrigo che ne deriva si risolve con il lieto fine di una rocambolesca fuga dei due sposi, dopo una rincorsa di situazioni, in cui agli elementi tragici si aggiungono effetti comici. Euripide fa emergere l’ambigua confusione tra apparenza e realtà. Anticipando temi contemporanei, come la possibilità di scambiare tragicamente il virtuale con il reale, il poeta muove anche una scaltra accusa alla guerra in generale, negli anni in cui Atene paga il suo tributo di vittime nello scontro con Sparta: se Greci e Troiani soffrirono innumerevoli pene fu solo «per una nuvola», per cause inconsistenti e inutili.
Le musiche sono a cura di Adriano Sangineto, le scenografie di Dino Serra, i costumi di Salvatore Averzano ed Elena Adamou, assistente alla regia è Ermelinda Çakalli. Gli interpreti sono: Giulia Quercioli, Federico Salvi, Stefano Rovelli, Livia Ceccarelli, Federica Scazzarriello, Federica Gurrieri, Simone Mauri, Stefano Begalli, Vito Marco Sisto, Vincenzo Politano, Marta Banfi, Federica Dagonese, Annachiara Fanelli, Eleonora Fedeli, Susanna Folegatti. Tutti attori di «Kerkís. Teatro Antico In Scena», associazione fondata da docenti, studenti ed ex studenti dell’Università Cattolica di Milano, per dare impulso alla messinscena di teatro classico greco e latino, contemperando la ricerca e la competenza artistica.
La XIX edizione di VeliaTeatro è dedicata alla memoria di Mario Untersteiner (1899-1981), insigne filologo e studioso della filosofia eleatica e del teatro antico. Il ricordo dell’illustre antichista e la riscoperta della sua opera, sono celebrati, in accordo con il Laboratorio Dionysos dell’Università di Trento, diretto dal professore Giorgio Ieranò, con il Comune e la Biblioteca Civica “Girolamo Tartarotti” di Rovereto, dove Untersteiner nacque, e con l’Università Statale di Milano e il Liceo Classico “Giovanni Berchet” di Milano, in cui lo stesso insegnò.
Nel corso della serata, a 35 anni esatti dalla scomparsa dello studioso, la sua opera, in particolare in relazione ai due temi che più lo avvicinano a VeliaTeatro, ovvero gli studi sulla filosofia eleatica e quelli sulla tragedia, viene brevemente illustrata da Alice Bonandini, ricercatrice dell’Università di Trento e curatrice del Progetto “Il Fondo Untersteiner” presso la Biblioteca Civica “Girolamo Tartarotti” di Rovereto.
Tra le iniziative volte a evidenziare l’importanza di un personaggio di grande rilievo per la cultura classica in Italia e in Europa, la proposta di valorizzare il cospicuo materiale del Fondo Untersteiner, donato alla Biblioteca Civica “Girolamo Tartarotti” di Rovereto e comprendente la preziosa biblioteca, i manoscritti inediti e l’epistolario dello studioso.
Agli spettatori della prima serata è distribuita in omaggio una raffinata pubblicazione, contenente la presentazione dell’opera e della figura di Mario Untersteiner, i contributi di personaggi delle istituzioni e il programma di sala di VeliaTeatro 2016, con le schede degli spettacoli in cartellone e gli interventi di importanti studiosi. A corredo del volume, anche alcune pregevoli foto di scena firmate da Michele Calocero per VeliaTeatro.
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INFO: veliateatro.it
Il caso Cesare Beccaria
di Vincenzo Ferrone (Il Sole-24 ore, Domenica, 24 luglio 2016)
Cesare Beccaria ha certamente cambiato il nostro modo di pensare il diritto di punire, la stessa idea di giustizia, ponendo al centro della sua riflessione la difesa dell’uomo dall’uomo, in particolare dal cosiddetto homo necans, l’uomo che uccide per un ideale superiore. Risulta impressionante constatare il numero dei convegni che si sono svolti in Italia e all’estero in occasione dei 250 anni dalla pubblicazione del Dei delitti e delle pene. Perché tanto clamore e coinvolgimento emotivo? Perché quelle pagine così ricche e appassionate si rivelano ancora moderne ed efficaci nella loro requisitoria contro la pena di morte, ma anche capaci di irritare tanti lettori nel mondo dei giuristi? Quanto conta l’estraneità di Beccaria a quel mondo, storicamente incline a concepirsi più o meno consapevolmente come corporazione, sensibile a una concezione del diritto come scienza ontologicamente autonoma, talvolta persino tempio dei sacerdotes juris e dei loro impenetrabili arcana?
Il fatto è che ancora troppi dei nostri studenti di giurisprudenza e più in generale tanti operatori di giustizia ignorano le pagine del Dei delitti e delle pene, o il più delle volte ne commentano con sufficienza le tesi, in parte a causa di una storiografia giuridica antilluminista che resta egemone nelle università italiane.
«Beccaria non è un vero giurista!» Quante volte questa frase perentoria ha concluso ogni discussione sul contenuto autentico di quel volumetto? Dopo la sua condanna all’oblio sancita dalla Restaurazione accadde che, nei primi decenni del Novecento, studiosi autorevoli come Arturo Rocco e Vincenzo Manzini ne certificassero l’estraneità alla corrente dei fautori dell’indirizzo tecnico-giuridico e della purezza scientifica del diritto positivo. Tale pregiudizio, legato a un’idea tutta formalistica di diritto, permane inossidabile.
Il vero punto dolente resta però soprattutto la poca simpatia che continua a correre tra l’illuminista milanese, considerato una sorta di padre spirituale dei cosiddetti garantisti, e il mondo dei giudici. Il contrasto, che nacque già all’indomani della pubblicazione del volume, non pare destinato ad attenuarsi. Al centro del contenzioso resta il problema interpretativo della norma. Il contenuto del celebre paragrafo IV, Interpretazione della legge, scritto nel nome dei diritti della persona e del principio di legalità e contro l’arbitrio e il dispotismo di settori della magistratura, continua infatti a essere decontestualizzato.
L’obiettivo è sempre quello di far apparire Beccaria un ingenuo e astratto incompetente che non conosceva il difficile mestiere del giudice, cui da sempre è connaturata una qualche forma di interpretatio. E invece quel capitolo va letto per intero, storicizzato senza anacronismi e semplificazioni, in quanto esso disegna un modello limite, un orizzonte di riferimento, e soprattutto pone per la prima volta un grande problema storico e giuridico, un problema cruciale con cui continuiamo e continueremo a fare i conti in futuro.
Quel paragrafo apriva infatti una stagione nuova nella storia del diritto in Occidente, allorché l’antica figura del giudice era chiamata a mutare mentalità e profilo professionale, a confrontarsi con un’idea di legge conseguente al declino del cosiddetto «governo degli uomini» e alla nascita del moderno «governo delle leggi», del nuovo spirito repubblicano e democratico-rappresentativo voluto dagli illuministi.
«Chi sarà dunque il legittimo interprete della legge? - si chiedeva Beccaria - Il sovrano, cioè il depositario delle attuali volontà di tutti o il giudice, il cui ufficio è solo l’esaminare se il tal uomo abbia fatto o no un’azione contraria alle leggi?». La secca risposta a favore del legislatore andrebbe valutata nel suo significato autentico, che prevedeva la presa di distanza dall’antica concezione del diritto elaborata dal medioevo, dalla visione sacrale di un magistrato ermeneuta e di una legge, estranea alla volontà umana, da riconoscere nel fluire della realtà storica secondo un’antica modalità che dava di fatto un potere enorme ai sacerdotes juris.
Chi ha compreso con acutezza la vera posta in gioco in quel testo è stato Paolo Grossi, maestro della storiografia giuridica italiana. Non a caso egli ha fatto delle pagine scritte da Beccaria sul tema fondamentale dell’interpretazione un punto decisivo della sua implacabile requisitoria contro le «mitologie giuridiche della modernità», e in particolare contro la «legolatria illuministica», colpevole di aver liquidato l’antica dimensione sapienziale del diritto maturata nel medioevo. Una perdita che «non vuol dire soltanto la sottrazione del diritto a un ceto di competenti, i giuristi, siano essi maestri teorici o giudici applicatori, ma la perdita del suo carattere òntico, del diritto come fisiologia della società, da scoprire e leggere nella realtà cosmica e sociale e tradurre in regole».
L’Illuminismo e la sua politica del diritto centrata sul governo della legge rappresentano dunque per Grossi il momento di rottura che porta verso la così poco amata modernità giuridica, ossia l’approdo di un lungo processo di trasformazione del diritto come fatto sociale avviato nel Trecento con l’emergere dell’individualismo moderno contro il comunitarismo e il corporativismo medievale. Ecco che con i Lumi arriva la vittoria della sovranità del principe e dello Stato assoluto, decisi a ridurre il diritto alla sola legge imposta autoritariamente dall’alto grazie all’influenza di miti come lo stato di natura, la geometrica eguaglianza degli individui, il contratto sociale.
Va detto con chiarezza che - al di là dei giudizi di valore che si possono esprimere a favore o contro la modernità giuridica - la serrata ricostruzione storica di Grossi circa la genesi di quel nuovo modo di pensare il diritto è per larghi tratti condivisibile. E tuttavia è difficile non individuare punti critici nella sua caratterizzazione della cultura giuridica dell’Illuminismo quale premessa del moderno positivismo giuridico kelseniano.
Allo stato attuale della ricerca storiografica, ad esempio, il persistente riferimento a una «mistica della legge» imposta come una sorta di filo rosso alla modernità giuridica da parte degli illuministi non regge alla prova dei fatti. A ben vedere, quella tesi che ha fatto di questi ultimi i veri ispiratori dell’ossessiva codificazione ottocentesca non tiene nel debito conto la discontinuità profonda di opere come quella di Beccaria.
Si dimentica l’apporto originale e fecondo della cultura illuministica alla storia del moderno costituzionalismo, alla fondazione dei presupposti giuridici e politici dello Stato costituzionale in cui viviamo: tematiche queste ormai da anni al centro del dibattito internazionale ma ancora poco frequentate dalla storiografia giuridica italiana.
Oggi sappiamo che il costituzionalismo illuministico, con il suo repubblicanesimo, con la sua difesa della costituzione scritta, con la centralità dei diritti dell’uomo, era cosa ben diversa sia dal costituzionalismo d’Antico regime, consuetudinario - che nella concezione di Montesquieu opponeva potere a potere, i corpi intermedi al re -, sia dal costituzionalismo rivoluzionario, dominato dalla volontà generale, dal primato del legislativo e dall’idea della sovranità nazionale che faceva comunque premio sui diritti dell’individuo posti dagli illuministi al di sopra di ogni cosa. Per sincerarsene basta ripercorre le pagine scritte da Condorcet e da Paine, alle prese con il dibattito costituzionale americano prima del 1789, o quelle straordinarie di Gaetano Filangieri e di Francesco Mario Pagano decisi a creare una nuova Scienza della legislazione capace di produrre un ordinamento giuridico costruito sulla base di principi, valori e diritti dell’uomo.
Contro l’assolutismo essi prefigurarono le fondamenta di un moderno Stato costituzionale. Uno Stato in cui dovevano operare due piani di legalità: un piano codicistico e legislativo e un piano costituzionale di verifica dei valori illuministici maturati consacrati nel principio dell’eguaglianza dei diritti dell’uomo.
Cesare Beccaria fu certamente tra coloro che in Italia e in Europa ispirarono direttamente la nascita del moderno e cosmopolita «costituzionalismo illuministico» destinato a essere travolto dalla Rivoluzione francese e dalla costruzione degli Stati nazionali nel corso dell’Ottocento. Nel suo interrogarsi sulla presenza di Beccaria nella costituzione repubblicana sorta dalla Resistenza non a caso fu proprio Piero Calamandrei a fornire suggestioni in questa direzione indicandolo tra i fautori liberali di una dottrina del potere pubblico limitato.
L’opera di Beccaria continua insomma a interrogarci e a rivelarsi ricca di suggestioni e insegnamenti. E ciò perché le ragioni profonde del suo perentorio imporsi restano universali e perenni in quanto elaborate con passione civile a difesa dell’uomo e dei suoi diritti.
Intervista a Giuseppe Galasso
di ANTONIO GNOLI *
Tra un impegno politico e una lezione universitaria, fra un congresso scientifico e una seduta parlamentare, Giuseppe Galasso trova il tempo di parlarci di Napoli. E’ un argomento che ama. Lui parla, e l’ idea che ci facciamo è quella di essere di fronte a una grande scatola che si riempie di protagonisti, storie, colori. E’ la Napoli del Settecento che Galasso predilige. Miserie e nobiltà; ma anche qualcosa di meno ovvio. Una città che, nelle parole di Galasso, prende quota, si arricchisce di sfumature culturali, di sottigliezze storiografiche. Napoli, che sul finire del Settecento, diviene improvvisamente un laboratorio teorico politico, cioè qualcosa che potrebbe modificare il corso della storia del Mezzogiorno, se non proprio dell’ Italia intera e che invece non produrrà, se non in ritardo, certi frutti sperati. Ma i Lumi qui, a differenza che in Francia, generano altre storie, altri protagonisti: più inclini al fallimento.
Che cosa è la Napoli del diciottesimo secolo? La risposta più fedele si può ricavare dai viaggiatori d’ epoca. Vedono cose sorprendenti nel bene e nel male. Sono impressionati dal numero spropositato degli abitanti, colpiti dalla loro vivacità, addolorati dalla miseria, dall’ accattonaggio, dalle forme di degradazione sociale. E’ il lato eterno di Napoli. Però è solo un lato. Perché qui si svolge anche una vita culturale straordinaria.
E’ la città, ricorda Galasso, dalla quale Ferdinando Galiani entra in corrispondenza con mezza Europa. E’ la città nella quale si pubblicano libri che vengono recensiti sulle maggiori riviste europee. E’ un centro delle arti, specialmente della musica, che con l’ opera buffa segna uno dei vertici del tempo. E’ la città nella quale Goethe va a far visita a Filangieri...
Da Gaetano Filangieri, Galasso ha preso una celebre espressione La filosofia in soccorso de’ governi e l’ ha messa come titolo a una sua raccolta di saggi che la casa editrice Guida ha pubblicato in questi giorni. Un libro ricco di intuizioni e di straripante erudizione, profondo ed esteso.
Professor Galasso torniamo a questa Napoli settecentesca. Lei ha parlato di vivacità della vita culturale. Era così anche la vita sociale?
Quest’ ultima è meno ricca e interessante di quella di altre città. C’ è ancora una certa ristrettezza provinciale nella vita mondana e non si può dire che i salotti di Napoli abbiano il tono di quelli di Parigi. E neppure che l’ intensità delle relazioni sociali, della vita mondana sia paragonabile a quella, non dico di Parigi, ma per esempio di Venezia.
A Parigi ci sono donne che svolgono un ruolo preminente nella vita culturale e sociale. E a Napoli?
Per una situazione di complessiva arretratezza del paese, la donna intellettuale del Settecento, protagonista in Francia, da noi non esiste. E’ completamente tagliata fuori dalla cultura.
In che cosa si manifesta la cultura settecentesca napoletana?
Innanzitutto in una intensa riflessione sulla vita civile. Essa riguarda tutto l’ ambiente culturale della città. Appartiene ai pensatori che possono sembrare più teorici, mettiamo un Vico. Ma coinvolge anche studiosi che appaiono concentrati su questioni ideologiche, come Giannone a proposito dei rapporti fra Stato e Chiesa. Si estende, in pari tempo, a coloro che appaiono più propensi alla discussione di problemi concreti, di riforme, di trasformazione della realtà meridionale, come Genovesi, Galanti o Galiani. Suggestiona, infine, pensatori che hanno un’ impostazione più sistematica, come Filangieri, e persino utopisti come Vincenzio Russo.
Questa attenzione alla vita civile, suppongo fosse il risultato dell’ influenza determinata da alcuni grandi scrittori europei.
Le influenze ci sono. C’ è, in parte almeno, la partecipazione a una caratteristica generale della cultura europea di questo periodo che nelle sue forme più varie, secondo le fasi e i paesi nutre lo stesso interesse. Non ci dimentichiamo che il Seicento e il Settecento sono i secoli della fondazione teorica del liberalismo e della democrazia moderna. Sono i secoli di Locke e di Montesquieu, di Rousseau e dei grandi utopisti. Ma poi c’ è anche l’ esperienza storica specificamente napoletana, nella quale la problematica dello Stato, rapporti tra Stato e società, tra Stato e cultura prendono gradatamente quota.
Lei insomma sostiene che l’ attenzione per la vita civile nasce anche dalla particolare condizione storica di Napoli.
Nasce dall’ esperienza in uno Stato che nominalmente era un feudo della Chiesa e in cui la Chiesa aveva una posizione privilegiata. Ne derivavano problemi di rapporto fra Stato e Chiesa di un’ intensità tale che è difficile trovarne di uguali in altri paesi cattolici d’ Europa. Era un paese in cui il feudalesimo aveva una incidenza nella vita sociale molto forte.
Sulla questione del feudalesimo non c’ è molto accordo fra voi storici. Alcuni continuano ad applicare al Mezzogiorno il criterio secondo il quale il feudalesimo nel diciottesimo secolo era solo un elenco di nomi e di titoli e in realtà il baronaggio si identificava con un ceto più o meno borghese.
Io credo che questo giudizio storiografico, che viene applicato anche ad altri paesi europei, non sia corretto. Soprattutto non è corretto per Napoli, dove invece il feudalesimo aveva una struttura forte e reale, ed esercitava nella vita politica e sociale un peso di primaria importanza. Non desta quindi stupore che il problema feudale fosse tra le maggiori preoccupazioni del pensiero napoletano.
Come si esercitava, in concreto, questo potere feudale?
Con il baronaggio. Attraverso di esso la feudalità godeva ancora di ampi poteri giurisdizionali ed esercitava poteri giudiziari che mettevano praticamente la popolazione alla mercé dei feudi. Dal punto di vista economico, poi, il peso della rendita feudale sulle condizioni di vita delle classi contadine si manteneva altissimo. Dal punto di vista giuridico si verifica anche a Napoli ciò che è stato constatato ad esempio per la Francia: l’ accesso alla proprietà è largamente bloccato dalla struttura feudale. Questo spiega, tra parentesi, sia tanti atteggiamenti del mondo rurale francese nella rivoluzione del 1789, che quelli delle classi civili, diciamo così, del Mezzogiorno d’ Italia.
E così comincia a farsi strada il sentimento che dal punto di vista economico sia diventato il Mezzogiorno la periferia d’ Europa...
A metà del Settecento Genovesi dirà che se gli inglesi non avessero portato nel Mezzogiorno gli aghi, non si sarebbe potuto neppure cucire. E lo stesso Genovesi farà un’ altra riflessione sullo stato di estrema miseria e di arretratezza delle campagne napoletane. Lui e altri scrittori parleranno degli ottentotti, selvaggi allo stato puro, che vivevano alle porte delle ville borghesi e nobiliari. C’ è quindi effettivamente una profonda coscienza dell’ arretratezza del Mezzogiorno rispetto all’ Europa. Miseria, arretratezza, oppressione. Ecco i tre termini del problema.
Questa situazione di arretratezza si può legare al discorso meridionalistico che si è fatto dopo l’ Unità d’ Italia?
No. Il termine di confronto meridionale, in quel periodo, è l’ Europa; non è il dualismo italiano.
Nel suo libro, La filosofia in soccorso de’ governi lei parla, riferendosi a Napoli, di una sorta di partito degli intellettuali. E’ un partito influente?
L’ espressione è molto approssimativa. L’ ho usata per dire semplicemente che gli intellettuali costituiscono, in questo periodo, una forza politica e sociale come non erano mai stati prima. Adesso essi fanno opinione e determinano l’ orientamento, prima della corte, poi del paese.
Quindi lavorano, almeno in una prima fase, per la monarchia. Qual è in genere la loro estrazione?
Molto varia. C’ è un aristocratico come Filangieri. C’ è Genovesi, figlio di una modesta famiglia di un paese del salernitano. C’è una persona agiata e di civilissima condizione, come Galiani, e c’ è un avvocato di provincia inurbatosi a Napoli, come Giannone.
Questo fronte favorevole alla monarchia, diciamo meglio al riformismo borbonico, viene frantumato dalla rivoluzione francese. Si rompe il rapporto fra la corte e gli intellettuali. Questi sostengono l’ esperienza rivoluzionaria degli anni successivi all’ 89. Ma è un’ esperienza che finisce malissimo. Come mai? Come mai la rivoluzione giacobina a Napoli fallì?
Finì male perché gli intellettuali si ritrovarono isolati. E qui nasce un grosso problema: quello appunto del rapporto fra gli intellettuali e il paese, che è un po’ il problema anche del rapporto fra Napoli e le province del Regno. Napoli non riesce ad esercitare, rispetto alle province del Regno, la funzione che Parigi esercita rispetto al resto della Francia durante l’ esperienza rivoluzionaria. E così gli intellettuali napoletani non trovano quelle espressioni politiche che in Francia si concretano nella straordinaria ampiezza del movimento rivoluzionario, nel carattere diciamo pure definitivo dell’ esperienza rivoluzionaria per tanti aspetti, nella storia francese ed europea.
Questo confronto fra Parigi e Napoli fa pensare anche a un’ altra cosa. Al fatto che i nostri Lumi non produssero pensatori del calibro di quelli francesi...
Ma i Voltaire e i Rousseau li ha prodotti solo la Francia. Non li ha prodotti nemmeno Firenze, neppure Lipsia o Amsterdam. Io non imposterei il problema così: Francia e Inghilterra soprattutto erano allora i centri principali, i centri-guida della vita culturale europea. Ma non solo della vita culturale, bensì anche della vita politica, della vita diplomatica. Facevano scuola da tutti i punti di vista. Rispetto al centro della vita europea, Napoli era un paese periferico. Vale piuttosto la pena di notare che questa periferia è riuscita a contare anche presso il centro, perché, ad esempio, Filangieri ebbe una fama europea credibile, figurando come uno degli esponenti più rappresentativi del movimento intellettuale del suo tempo, grazie alla sua appartenenza alla massoneria. I libri di Genovesi furono tradotti in molti paesi europei. Lo stesso per i libri di Giannone.
Lei accenna all’ importanza della massoneria. Questo consente di vedere l’ illuminismo non più come un blocco razionalistico compatto, ma come qualcosa attraversato, al suo interno, da conflitti, crisi...
Il razionalismo illuministico, che è certamente un valore centrale nell’ orientamento intellettualistico del secolo, è ricco di motivi, un mare in cui convergono tendenze diverse. La massoneria appartiene agli altri Lumi, come ha scritto qualcuno. Gli altri Lumi che non sono quelli della ragione convenzionalmente definita come astratto e trionfale procedere matematico e deduttivo. Costituiscono invece un illuminismo pregno di tensione etica, di tensione psicologica, di ansia religiosa e anche di qualche forma di vitalità. Non a caso quel secolo, il Settecento, fu definito anche un secolo di avventurieri.
La Napoli del Settecento, la Napoli illuminista, è anche superstiziosa?
La superstizione, l’ irrazionale, il vitalismo in forme diverse sono presenti in tutta l’ Europa. Sono aspetti che si riscontrano non solo a livello di devozione popolare, ma anche nello sforzo che la cultura del tempo fa di razionalizzare, di capire queste forme di superstizione. Il Settecento per esempio, vede gli studi sul tarantolismo che Ernesto De Martino poi ricostruirà in un libro di grandissimo interesse. Nello stesso secolo si assiste a un mutamento della concezione della iettatura che passa da fenomeno magico, nella interpretazione degli scrittori di quel tempo, a fenomeno prodotto oggettivamente da forze naturali.
Si può dire che questi temi siano più forti a Napoli che altrove?
Sì. Per ragioni di arretratezza, a Napoli e nel Mezzogiorno le credenze assumeranno forme più spettacolari, più colorite, più intense.
L’ordine collettivo nasce dalla pulsioni
Antropologia filosofica. Mentre ci introduce alle istituzioni primitive, dal matrimonio all’arte, dall’ordinamento statale all’amicizia, Arnold Gehlen spiega la genesi stessa della natura umana: "L’uomo delle origini e la tarda cultura"
di Luca Corti (il manifesto, Alias, 26.06.2016)
Charles Taylor, il grande filosofo canadese, diceva che l’uomo è l’animale che interpreta se stesso. Eppure la domanda sull’uomo non ha riscosso un interesse costante nel tempo. L’antropologia, specialmente in alcune sue forme, passa non di rado per essere una «disciplina di crisi». Come quei personaggi dei romanzi che entrano in scena nelle situazioni di stallo, anch’essa sembra farsi avanti con più forza in quei momenti storici in cui alcune visioni del mondo tradizionali vacillano, alcune costellazioni istituzionali e campi di certezze crollano, portando l’uomo a sentirsi un problema del quale egli stesso deve fornire una spiegazione. E questo non vale solo per gli esordi della antropologia, quando sotto i colpi della rivoluzione scientifica e delle nuove scoperte geografiche, la fiducia in una natura umana uguale per tutti venne minata alle fondamenta, ma anche per epoche più recenti, quando - per esempio - cominciò a prendere piede la tradizione della antropologia filosofica.
Negli anni venti del Novecento, in Germania, lo sviluppo delle scienze cambiò profondamente la visione dell’uomo: una biologia e una psicologia rampanti (si pensi all’influenza di Darwin e all’impatto di Freud, ma non solo), assieme alla nascente etologia (l’esempio di Lorenz valga su tutti), tentarono di mettere a nudo il lato naturale dell’essere umano. L’epoca, d’altro canto, era percorsa dalle tensioni scaturite dall’esperienza della prima guerra mondiale, che offrivano pane ai denti di una giovane sociologia.
La questione dell’uomo tornò così a esercitare una certa urgenza, e il bisogno di dare una risposta globale, unitaria e comprensiva alla domanda sull’essere umano si fece sentire più forte. «Siamo la prima epoca in cui l’uomo è divenuto completamente e interamente ‘problematico’ per se stesso - scrive Max Scheler - egli non sa più che cosa è, ma al contempo sa anche di non saperlo».
Insieme a Scheler e a Helmuth Plessner, il più giovane Arnold Gehlen entrò nel triumvirato che avrebbe posto le basi della antropologia filosofica. Una buona occasione per tornare su alcune delle questioni più importanti sollevate da questa disciplina ci viene ora dalla ristampa presso Mimesis, dopo ventisei anni dall’edizione del Saggiatore, di un libro del 1956 L’uomo delle origini e la tarda cultura (a cura di Vallori Rasini, traduzione di Elisa Tetamo, pp. 326, euro 25,00), in cui Gehlen riprende e sviluppa le tesi del suo saggio più celebre, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, scritto nel 1940.
Come ricorda Vallori Rasini nella sua introduzione, Gehlen aderì al partito nazionalsocialista, con conseguenze innegabilmente positive anche per la sua carriera. Sebbene non abbia costituito un «caso» analogo a quello di Heidegger, e malgrado abbia preso parzialmente le distanze dal nazismo, nella sua opera resta tuttavia evidente una componente conservatrice, che al tempo stesso non va misconosciuta né deve squalificare le sue idee, di grande importanza, delle quali va saggiata, innanzi tutto, la tenuta teoretica.
I capisaldi del progetto di Gehlen appaiono al lettore fin dalle prime pagine, a cominciare dal tentativo di mettere in piedi una filosofia basata sui risultati delle scienze dell’epoca: l’antropologia, la biologia umana e in particolate l’etologia, ma anche la archeologia e la sociologia entrano negli interessi del filosofo, che nutre su di esse competenze da esperto. Allo stesso tempo, Gehlen ne utilizza i risultati per andare alla ricerca di quelle che chiama le «categorie» fondamentali o le «qualità essenziali» dell’uomo. Il modo in cui combina l’anima empirista delle sue analisi con l’indagine sulla natura umana è tanto interessante quanto oggetto di controversie.
In primo luogo, Gehlen non condivide le idee di Darwin, o almeno non del tutto: fa leva su alcune critiche al darwinismo presenti nella biologia a lui contemporanea, critiche provenienti da scienziati cari all’antropologia filosofica come Adolf Portmann e Jacob von Uexküll - ai quali peraltro anche filosofi come Heidegger e Deleuze si rifanno di frequente.
Gehlen ne utilizza le teorie per attaccare la derivazione diretta dell’essere umano dalla scimmia. L’uomo - sostiene - non è una scimmia particolarmente evoluta, bensì discende da un ramo indipendente dell’evoluzione, che lo rende unico già dal punto di vista biologico, prima ancora che metafisico o teologico.
Ma in cosa consiste questa specificità biologica? È qui che Gehlen ci fornisce l’immagine dell’uomo che lo ha reso celebre: l’uomo - scrive facendo eco al filosofo settecentesco Johann G. Herder - è un essere per natura determinato da una serie di «carenze», l’unico privo di strumenti «naturali» che lo mettano in grado di assicurarsi la sopravvivenza. È privo di rivestimento pilifero, ad esempio, che lo protegga dalle intemperie, ma anche di organi difensivi naturali, così come di una struttura morfologica che gli permetta la fuga. Inoltre «difetta di istinti autentici», grazie ai quali tutti gli altri animali selezionano i segnali biologicamente vantaggiosi nell’ambiente e da questi si fanno guidare in maniera quasi «automatica».
L’uomo invece non ha neppure una nicchia ambientale, un habitat a lui specifico. Da qui il modo peculiare in cui il bipede implume si aggira, disorientato, nel mondo: le sue percezioni non sono selettive, ma rispondono a un caotico profluvio di stimoli; le sue azioni sono indeterminate, perché altrettanto disorganizzate e plastiche sono le sue pulsioni.
Nella Genealogia della morale, Friedrich Nietzsche aveva detto che «l’uomo è l’animale non ancora stabilmente determinato», coniando un’immagine che Gehlen fa sua in maniera originale. L’uomo, che è animale manchevole, deve determinarsi: in altre parole, deve farsi uomo, prendendo posizione rispetto al mondo, a se stesso e agli altri.
Ora, se non dalla natura, da dove proviene l’ordine che è tuttavia presente nell’agire umano? La risposta di Gehlen è chiara e costituisce il motivo centrale del suo testo: la fonte va cercata nel costituirsi di quelle che egli chiama le istituzioni, vere protagoniste della riflessione condotta nel 1956.
Dal matrimonio alla rappresentazione artistica, dall’ordinamento statale all’amicizia, la maggior parte delle forme umane di comportamento ordinato (se non tutte) sono per Gehlen fissate in istituzioni, ovvero in modi di agire e di organizzare il proprio comportamento collettivo: modi stabili e controllati. Le istituzioni regolano, incanalano, imbrigliano e ordinano le pulsioni, che di per sé sarebbero magmatiche (non è difficile rintracciare qui l’influsso di una certa psicologia del profondo).
Ma sarebbe sbagliato considerare le istituzioni solo come briglie tramite le quali l’uomo tiene a freno le sue pulsioni. Gehlen lo scrive chiaramente: le istituzioni nascono sì da plessi istintuali (fame, sete, istinto di riproduzione e conservazione), ma allo stesso tempo li plasmano e li orientano in vari modi, rivestendoli di nuovi significati, talvolta fino a renderli del tutto irriconoscibili.
Parafrasando Kant - di cui Gehlen ricoprì per qualche anno la cattedra all’Università di Königsberg - potremmo dire che le pulsioni senza le istituzioni sono cieche, le istituzioni senza le pulsioni sono vuote.
«Quali sono le vie attraverso le quali l’uomo arcaico compie esperienza di sé e intrepreta se stesso?». Gehlen formula esplicitamente questa domanda verso la metà del suo libro, mentre guida il lettore attraverso un percorso in varie tappe, dove si assiste al costituirsi delle prime forme istituzionali. Dicendoci che noi siamo animali profondamente istituzionali, e introducendoci al percorso di formazione delle istituzioni primitive, Gehlen intende spiegare la genesi stessa della natura umana. E va incontro, così, all’interrogativo che Charles Taylor riteneva costitutivo per l’essere umano.
Muovendosi su un territorio di confine, in equilibrio tra scienza e filosofia, la professione di «filosofia empirica» di Gehlen costituisce un’arma a doppio taglio. Da una parte il costante richiamo alle teorie scientifiche vuol essere un punto di forza nella sua argomentazione; dall’altra, egli stesso riconosce che qualsiasi teoria scientifica fornisce risultati provvisori e rivedibili; e infatti oggi, anche alcune delle sue tesi rischiano di apparire meno convincenti.
La biologia teoretica di von Uexküll, ad esempio, così influente su molti filosofi e importante per storia della antropologia filosofica, può essere affiancata da teorie concorrenti e più classiche sull’evoluzione, in cui la distanza tra capacità animali e capacità umane risulta assai ridotta, mentre l’idea di una origine filogenetica arcaica e peculiare dall’uomo, da cui deriverebbero le sue «manchevolezze» (idea che Gehlen deriva dal biologo olandese Luois Bolk), se non falsa, risulta oggi quantomeno controversa e minoritaria.
Stephen Gould, celebre biologo di Harvard e famoso divulgatore, la definì ad esempio «datata e un po’ pazza, ma ragionevole all’epoca e supportata in maniera cogente». Dal portamento eretto, alla «nudità», fino alle dimensioni del cervello, le caratteristiche umane sembrano oggi assai più specifiche e funzionali di quanto Gehlen pensasse, e risultano anch’esse da concepire come il frutto di un graduale processo di adattamento.
Ma l’altra grande anima dell’impresa di Gehlen, ovvero la sua ricerca di quali siano le «qualità essenziali» dell’essere umano, sembra potersi separare da questa tendenza scientifico-naturalista: è qui che risiede il potenziale maggiore del suo pensiero per le ricerche odierne.
L’immagine che Gehlen ci fornisce della costituzione dell’umano, la sua prospettiva sull’istituzione e sui motivi che animano le dinamiche della vita associata - motivi che non appartengono né possono appartenere al discorso scientifico-naturale - sono ancora oggi assai interessanti e potenti.
In fondo, nonostante i suoi proclami, Gehlen non è così «empirista» quanto crede (o vuole far credere), anche se non manca un certo bipolarismo nel suo argomentare, e malgrado la stessa letteratura critica fatichi a capire in che misura egli sia vittima di un autofraintendimento «naturalista». Se di autofraintendimento si tratta, gli va riconosciuto comunque quell’alto alto tasso di creatività che è intrinseco, di per sé, a tutto il pensiero della antropologia filosofica.
"VIAGGIO IN ITALIA" (BICENTENARIO DELLA PUBBLICAZIONE DEL PRIMO VOLUME -1816/2016). *
Il 5 marzo 1787, Johann W. Goethe è a Napoli:
"Debbo darvi qualche breve ragguaglio di carattere generale circa un uomo egregio che ho conosciuto in questi giorni: il cavalier Filangieri, noto per il suo libro sulle legislazioni. Dal suo contegno traspare il decoro del soldato, del cavaliere e dell’uomo di mondo, temperato però dall’espressione d’un delicato senso morale diffuso in tutto il suo essere e che emana bellamente dalla parola e dal gesto (...). Egli non tardò a intrattenermi su uno scrittore d’altri tempi, nella cui insondabile profondità questi moderni italiani, amici delle leggi, trovano edificazione e conforto; il suo nome è Giovan Battista Vico, e lo tengono per superiore a Montesquieu. Da una rapida scorsa al suo libro, che mi fu consegnato come una reliquia, ho avuto l’impressione che vi siano esposti sibillini presagi del bene e del giusto, il cui avvento è previsto o prevedibile, sulla base di severe meditazioni intorno a ciò che ci è stato tramandato e a ciò che vive. E’ molto bello per un popolo possedere un tal patriarca; un giorno i tedeschi avranno in Hamann un breviario non dissimile".
Pochi giorni dopo, il 23 marzo 1787, insieme con C. H. Kniepp, un valente disegnatore, è a Paestum. Il nuovo direttore degli scavi, Gabriel Zuchtriegel, con l’iniziativa “Goethe nel tempio”, riannoda i fili della storia e rilancia la necessità di portare avanti i lavori e salvaguardare l’intera Città.
*
NEL BICENTENARIO DELLA PUBBLICAZIONE DEL PRIMO VOLUME DEL “VIAGGIO IN ITALIA” (1816) DEL FIGLIO, Johann Wolfang Goethe, UNA OTTIMA PRECISAZIONE (NON SOLO PER CASTELLANETA, PENSO) SUL “VIAGGIO IN ITALIA” (1740) DEL PADRE, Johann Kaspar Goethe, E SULL’IMPORTANTE RUOLO GIOCATO NELLA VICENDA (SIA SUL LATO DEL PADRE SIA SUL LATO DEL FIGLIO) DALLA FIGURA DELLO STUDIOSO PUGLIESE, DOMENICO ANTONIO GIOVINAZZI:
"Un italiano avanti negli anni e simpatico, maestro di lingua, di nome Giovinazzi, lo aiutava in questo lavoro [la stesura del Viaggio in Italia]. Inoltre il vecchio cantava discretamente e mia madre aveva preso l’abitudine di accompagnarsi ogni giorno con lui al pianoforte, sicché ben presto io venni a conoscere l’esistenza di Solitario bosco ombroso, e lo imparai a memoria prima ancora di capirne il significato" (Johann W. Goethe, Dichtung und Wahrheit, parte I, cap. I).
Giambattista Vico
Il poeta del mondo civile
Perché è attuale l’autore della «Scienza nuova» oggi molto più considerato e studiato all’estero che nel nostro Paese
l filosofo napoletano seppe andare oltre la modernità opponendosi all’avvento del dominio tecnologico
E mise al centro della sua visione lo spirito creativo
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 19.06.2016)
Le sue opere sono studiate all’università di Atlanta, negli Stati Uniti, e a quella di Siviglia, in Spagna, all’università di Tel Aviv, in Israele, e a quella di Buenos Aires, in Argentina. La Scienza nuova è tradotta in tedesco, francese, inglese, spagnolo, cinese, giapponese, turco, bulgaro, ebraico. Il genio di Vico è ormai riconosciuto ovunque e il suo nome è uno dei fari della cultura italiana all’estero. Ma può succedere di passare tra i pittoreschi edifici di via San Biagio dei Librai, a Napoli, dove campeggiano gli altarini dedicati al culto di Maradona, senza alzare gli occhi verso la lapide, ingrigita e pericolante, in cui è scritto: «In questa cameretta nacque il 23 giugno 1668 Giambattista Vico. Qui dimorò fino ai diciassette anni e nella sottoposta piccola bottega del padre libraio usò passare le notti nello studio. Vigilia giovanile della sua opera sublime. La città di Napoli pose». Come se quella lapide malferma, inaugurata solo nel bicentenario della nascita, omaggio postumo e tardivo, rappresenti il simbolo del rapporto ambivalente che l’Italia ha con il suo più grande filosofo. Un’ambivalenza, sofferta e lacerante, della cultura italiana con se stessa e con la propria tradizione.
D’altronde, al contrario di Kant o di Hegel, Vico morì quasi del tutto sconosciuto, dopo aver faticato anni e anni, come lui stesso racconta nella sua Autobiografia , sia per trovare una collocazione accademica, sia per ottenere il riconoscimento che il suo pensiero meritava. Per intrighi universitari non ebbe mai la «cattedra primaria mattutina di leggi», cioè di Diritto romano, e dovette invece accontentarsi di quella di retorica, disperando «per l’avvenire aver più mai degno luogo nella sua patria». Che dire, poi, dell’anello che fu costretto a vendere per poter pubblicare la Scienza nuova?
Un ebreo di Livorno, Giuseppe Athias, fece circolare in Europa quell’opera singolare, così vistosamente barocca e così dichiaratamente ipermoderna, da proiettarsi già oltre la modernità. Suscitò presto ammirazione l’energia visionaria di quell’eccentrico antiquario che resisteva alla modernità. Nessuno avrebbe potuto immaginarselo, se non nella sua Napoli, città intellettualmente vivacissima; eppure lui era in grado da lì di rivolgere un richiamo al mondo, per riconsiderare l’umanità e la sua storia.
Foscolo e Manzoni, Goethe e Marx, Joyce e Beckett furono attratti dal tono profetico di quel pensatore che si volgeva a indagare le sterminate antichità del passato per scrutare nel futuro più lontano. Non è un caso che sia stato il Novecento a fare di Vico un indispensabile interlocutore filosofico. Merito, certo, della «riscoperta» compiuta da Croce già nel 1911. Ma la dirompente inattualità di Vico è tale da attraversare i decenni e giungere al XXI secolo nella pienezza della sua sfida. L’effervescenza del dibattito odierno, quale si svolge più nel contesto americano che non in quello europeo, mostra che Vico è per noi ben più che un precursore.
Perché, dunque, leggiamo le sue opere? Perché, oggi più che mai, non possiamo fare a meno della Scienza nuova? La risposta sta nel progetto eroico di Vico. Straniero persino nella sua Napoli, dove già molti si erano arresi alle mode, diventando cartesiani, Vico accetta la marginalità, si situa sulla soglia della storia, convinto che gli itinerari della memoria siano le vie per l’avvenire e che il tempo nuovo non possa essere che un futuro del passato. Traccia per la prima volta una storia dell’umanità; inaugura la filosofia della storia.
Ma c’è di più. La sua storia del genere umano, che ne mette in rilievo la humanitas, non è solo il discorso in cui culmina la tradizione dell’umanesimo italiano, ma è insieme anche un controdiscorso, un appello, un ricorso contro la modernità. Vico è l’unico filosofo a intuire l’attacco che le nuove scienze stanno per sferrare. Il dominio scientifico-tecnologico è ormai alle porte. E dalla sua ha nomi di spicco, quelli dei fondatori della modernità: Cartesio, Galileo, Bacone, Hobbes. Anche se in forme diverse, esaltano tutti il presente, come se la storia iniziasse con loro, celebrano le scienze empiriche, vedono il mondo solo attraverso il prisma dell’ordine naturale, considerano anacronistica la sapienza antica, giudicano inutili le lingue, le lettere, le arti, e aggravano così la crisi epocale.
Pur sentendosi profondamente solo, Vico non si piega. Resiste - senza cedere alla nostalgia, né arroccarsi nell’interesse erudito per il passato. Lì, sulla soglia, dentro e fuori il suo tempo, dove l’inattualità diventa la prospettiva per denunciare i limiti dell’epoca moderna, controbatte difendendo la storia, presidiando l’immaginazione, richiamandosi al linguaggio, anzi alla poesia. Così si lascia via via alle spalle la metafisica, per raccogliere letteratura e retorica, religione e diritto, mito e filosofia, tutte le discipline umane, in un disegno inedito e unitario, capace di superare la frammentazione, di rispondere alla minaccia delle scienze positive, ma soprattutto di offrire una nuova visione politica dell’umanità. Tutto questo è la Scienza nuova.
Contro la boria dei moderni, e la tracotanza delle scienze, Vico delinea la mappa del «mondo civile». L’importanza di questa espressione non deve sfuggire; la si incontra - oggi - sempre più di frequente nei libri in tedesco o in inglese. Anche perché civile è un termine così profondamente radicato nella tradizione latina, e poi italiana, da risultare difficilmente traducibile. Che cos’è, dunque, il «mondo civile», e perché è all’ordine del giorno nel dibattito filosofico?
In un famoso passo della Scienza nuova Vico rinvia alla «densa notte di tenebre» che copre la nostra antichità. Tuttavia un «lume» la rischiara, un «lume» che può dischiudere anche la via per inoltrarsi in quel tempo remoto. Questo «nostro mondo civile» è creazione umana, è «stato fatto dagli uomini», così come il «mondo naturale» è opera di Dio. È bizzarro che i filosofi si ostinino a voler avere scienza del mondo naturale, piuttosto che volgersi a quello civile. L’ostinatezza si rivela presto presunzione e boria. Come si può pretendere di conoscere ciò che non si è capaci di fare? Sono forse gli uomini in grado di fare alberi e piante, pietre e rocce, astri e pianeti?
Già in precedenza Vico aveva formulato uno dei principi della sua filosofia: «Il criterio per avere scienza di una cosa è di mandarla ad effetto». Solo chi sa come una cosa è nata, chi ne conosce la genesi e le cause, chi insomma sa farla, ha scienza. Vero e fatto coincidono - sostiene Vico attribuendo un valore pratico alla conoscenza e inaugurando una nuova riflessione critica sulla verità. Si può indagare il mondo della natura, ma lì il vero resta nel complesso irraggiungibile. Al contrario, il mondo civile, quello che la «scienza nuova» narra e indaga, è il mondo della storia e delle istituzioni umane, quello di cui si può avere scienza, perché qui il vero coincide con il fatto. Comprendiamo quello che altri prima di noi hanno fatto e, per l’affinità umana che ci lega, potremmo, dunque, rifarlo.
La «gran selva antica della terra» è stata umanizzata grazie alla parola - non una parola qualsiasi, ma la parola poetica. Ecco la «discoverta» che, nonostante tutte le amarezze, costituì per Vico motivo di «eterna, immensa gioia»: i popoli della «prima gentilità» furono tutti necessariamente «poeti» che - scrive nel passo forse più celebre della Scienza nuova - in greco suona come «criatori». Poesia rinvia etimologicamente a poiesis , creatività, e a poieo che significa «fare». Prima ancora di Hamann e di Heidegger, la poesia viene indicata da Vico come la lingua originaria, la prima forma del conoscere, l’indispensabile attività creativa che articola e istituisce il mondo. Di qui l’alleanza tra poesia e filosofia. Anzi la poesia è la «chiave maestra» della Scienza nuova . Dal suo «sublime lavoro» viene emergendo la civiltà.
Vico non avrebbe potuto essere più radicale. Ma non si ferma qui. Come nella storia delle parole si rintraccia quella delle cose, così dal tronco della sapienza poetica si diramano la logica, la morale, l’economia, la politica. Già gli umanisti - ad esempio Salutati - avevano scorto il nesso tra poesia e politica. Vico lo consolida e lo legge filosoficamente. Il «mondo civile» è quello della politeia, del governo della città, è il mondo - secondo un’etimologia inventata da Vico - politus, «nettato e mondo». Può corrompersi, e si corrompe, proprio perché è stato nettato, umanizzato dalla poesia. Non serve consegnarlo alla costruzione razionale e scientifica. È all’attività poietica dei cittadini che deve piuttosto essere affidato, pur con tutti i rischi - che Napoli e le città italiane allora ben mostravano - se deve essere difesa, custodita, ulteriormente articolata l’umanità.
Sulla soglia del tempo nuovo ci attende Vico, il pensatore-poeta, per dirci che l’archivio del futuro sta nei profondi mari della memoria, negli enigmi della sapienza antica, che la poesia è la via maestra per pensare la politica.
Università in festa: la Federico II compie 792 anni
di Mariagiovanna Capone *
Settecentonovantadue anni e non sentirli affatto. L’Università Federico II festeggia il suo genetliaco con modernità strizzando l’occhio al passato e puntando lo sguardo con ottimismo verso il futuro. Il 5 giugno 1224 fu fondato dall’Imperatore Federico II il più grande Ateneo del meridione e da allora i successi sono stati straordinari. Per il secondo anno, il rettore Gaetano Manfredi e il prorettore Arturo De Vivo hanno messo a punto un cartellone di eventi per dare il «Buon Compleanno Federico II» e aprendo gli spazi solitamente dedicati allo studio e alla ricerca, alla cittadinanza. Saranno aperti e accessibili gratuitamente (dalle 9 alle 13.30) l’Orto Botanico e il centro Musei delle Scienze Naturali e Fisiche (4 giugno), il real Museo Mineralogico (6 giugno), il Museo di Antropologia (7 giugno), il Museo Zoologico (8 giugno) e il Museo di Paleontologia (10 giugno).
I festeggiamenti principali per il 792esimo compleanno dell’Ateneo sono slittati al 10 giugno per via delle elezioni amministrative e si concentreranno tra l’Aula Pessina (ore 15) dove saranno premiati gli studenti meritevoli dell’anno accademico in corso, «un modo per regalargli la giusta gratificazione per l’impegno profuso, che sia anche di buon auspicio per il loro futuro professionale», spiega Manfredi. Con rettore e prorettore anche i presidenti dei vari istituti federiciani da cui provengono i vincitori: Luigi Califano della Scuola di Medicina e Chirurgia, Lucio De Giovanni della Scuola delle Scienze Umane e Sociali, Piero Salatino della Scuola Politecnica e delle Scienze di Base, Matteo Lorito della Scuola di Agraria e Medicina Veterinaria.
Alle 16.30 ci si sposterà nell’Aula Magna Storica per premiare stavolta i laureati illustri, coloro che hanno contribuito con le loro capacità e talenti a migliorare il Paese. Il geniale e poliedrico Renzo Arbore laureato alla Federico II in Giurisprudenza, il talentuoso drammaturgo Enzo Moscato laureato in Filosofia, e poi la storica dell’arte Paola D’Agostino da circa un anno direttrice del Museo nazionale del Bargello di Firenze, Riccardo Monti attuale presidente dell’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane laureato in Economia e Commercio, il procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli che sta provando a salvare la biblioteca dei Girolamini, e il Paolo Sassone Corsi che attualmente dirige il Centro per l’Epigenetica e il Metabolismo della University of California da dove sta contribuendo a studi sulla lotta al cancro.
Dopo la premiazione dei laureati illustri ci si sposterà sullo scalone della Minerva per un intervento musicale del Coro Polifonico Universitario Federico II e in piazza del Gesù per la festa vera e propria con cui l’Ateneo risentirà il calore e l’affetto della cittadinanza dopo il successo dello scorso anno. Ad aprire la serata sarà Mariano Rigillo cui è affidata la lettura di un monologo inedito di Maurizio De Giovanni sul fondatore dell’Università. In occasione dei 40 anni della Gatta Cenerentola, Peppe Barra si esibirà in concerto insieme alla sua band, anticipato dalla lettura di un messaggio del maestro Roberto De Simone. In chiusura di serata Francesco Di Bella in concerto.
Ricche proposte culturali e artistiche, a cominciare dal Fru16, decima edizione del Festival delle Radio Universitarie Italiane ospitato nel Complesso dei Santi Marcellino e Festo che farà da preludio dal 3 al 5 giugno alla giornata clou. Il Festival porterà a Napoli rappresentanti delle comunità studentesche di quasi tutti gli Atenei italiani che hanno una radio e sono previsti oltre 200 partecipanti di almeno 26 radio.
* Il Mattino, Mercoledì 1 Giugno 2016
La Federico II compie 792 anni: la storia della prima Università pubblica al mondo
di Luca Tesone *
Fondata il 5 giugno del 1224, l’Università Federico II si appresta a compiere ben 792 anni! Una vera e propria festa è stata organizzata dal rettore Gaetano Manfredi, e dal prorettore Arturo De Vivo. Per tutti i cittadini sarà possibile infatti visitare gratuitamente (dalle 9 alle 13.30) l’Orto Botanico e il centro Musei delle Scienze Naturali e Fisiche (4 giugno), il real Museo Mineralogico (6 giugno), il Museo di Antropologia (7 giugno), il Museo Zoologico (8 giugno) e il Museo di Paleontologia (10 giugno). Festeggiamenti che poi proseguiranno il 10 giugno, a causa delle imminenti elezioni comunali.
La storia di questa importantissima università ha inizio con quella del suo fondatore, Federico II appunto. L’imperatore che, nelle sue mani, deteneva i poteri del Regno di Sicilia e dell’Impero germanico. Una personalità spiccatamente mecenatesca come la sua non poteva che fondare la prima università laica e statale degli studi del mondo Occidentale. La scelta cadde su Napoli e non su Palermo (che era la capitale del regno) perché era più facile da raggiungere, sia via terra che via mare. Inoltre, essendo una delle città più ricche e grandi del regno, poteva più facilmente offrire alloggi agli studenti.
In oltre 700 anni di storia, la Federico II ha avuto molti alti e bassi. In particolare, nel Seicento si registra il periodo di maggior decadenza dell’istituto. Solo a partite dal secolo successivo, con l’intervento delle dinastie degli Asburgo prima, e dei Borbone poi, l’ateneo riuscì a riprendersi: creazione nel 1735 della prima cattedra in Astronomia in Italia e nel 1754 della prima cattedra di Economia. Senza dimenticare la presenza di personalità che hanno fatto la storia, e che hanno insegnato proprio alla Federico II, come il filosofo Giambattista Vico.
In seguito al ventennio fascista, la Federico II divenne il secondo ateneo più importante d’Italia per numero di iscritti, dopo la Sapienza di Roma. In questi anni, vissuti anch’essi tra alti e bassi, non sono mancati importanti riconoscimenti. La facoltà di Ingegneria, ad esempio, è stata riconosciuta come la migliore d’Italia. Importanti traguardi raggiunti anche nell’ambito della ricerca scientifica, come la cura per la schizofrenia. Più recente, invece, la costruzione della prima trave al mondo attraverso l’uso della stampante 3D. Un traguardo raggiunto anche grazie al lavoro dei ricercatori del Dipartimento di Strutture per l’Ingegneria e l’Architettura della Federico II.
Insomma, una storia densissima di traguardi e primati, che rendono la Federico II la più importante università d’Italia ed una delle più importanti al mondo. Non resta quindi che augurarle, anche noi, buon compleanno!
* Vesuvio-on-line, 01 giugno 2016 (ripresa parziale).
Documenti vichiani nell’Archivio Storico Diocesano di Napoli
di Antonio Illibato *
Una fortunata e imprevista circostanza ha fatto ritornare nella sua sede il fondo Processetti Matrimoniali dell’Archivio Storico Diocesano di Napoli, l’incartamento della promessa di matrimonio di Gambattista Vico con Teresa Destito.
Il decreto Tametsi, approvato l’11 novembre 1563 dall’assemblea conciliare riunita a Trento, dettò precise disposizioni per la celebrazione del matrimonio. Per accertare l’eventuale esistenza di impedimenti dirimenti e mettere fine ai matrimoni clandestini fu deciso che prima della celebrazione del matrimonio dovessero essere effettuate in Ecclesia tre pubblicazioni in giorni festivi durante la messa solenne e che l’avvenuta celebrazione fosse certificata in un apposito registro parrocchiale.
I contraenti dovevano esprimere il loro consenso alla presenza del parroco o di un sacerdote da lui debitamente delegato e di almeno due testimoni. La coppia, inoltre,per essere autorizzata a sposarsi, era tenuta a scambiarsi formale promessa di matrimonio davanti al vicario generale o un notaio della Curia diocesana e a due testimoni. Fu riconfermato, infine, l’antico divieto di nozze nei tempi di Avvento e di Quaresima.
Queste disposizioni, anche se ebbero pieno adempimento solo alcuni decenni dopo, furono all’origine della ricca serie Processetti Matrimoniali dell’Archivio Storico Diocesano di Napoli, che raccoglie la documentazione richiesta agli sposi dalle autorità ecclesiastiche per la concessione del permesso della celebrazione del matrimonio. Essa inizia dall’ultimo ventennio del Cinquecento, in modo piuttosto frammentario; dal Seicento in poi comincia ad essere sempre più completa, arrivando fino ai nostri giorni.
Ogni fascicolo contiene le fedi di battesimo degli sposi, gli attestati delle avvenute pubblicazioni nelle parrocchie del loro domicilio, le deposizioni rese dai contraenti e dai testimoni in forma di risposta alle domande del notaio di Curia e successivamente dal parroco, secondo uno schema quasi sempre fisso, e l’autorizzazione del vicario generale a contrarre matrimonio. Le informazioni riguardano il luogo di origine e il domicilio dei nubendi e dei testimoni, la parrocchia dei fidanzati e la loro paternità, la professione dei testimoni e degli sposi, abitualmente dei soli uomini. Ovviamente tutto debitamente firmato. Se non sapevano scrivere sottoscrivevano al deposizione con un segno di croce.
La serie dei Processetti Matrimoniali dell’archivio Storico Diocesano di Napoli, la cui consistenza si aggira attorno ad oltre un milione di fascicoli, offre al ricercatore una dovizia di informazioni di prima mano, difficilmente ricavabili da altre fonti, per lo studio dell’alfabetizzazione, delle professioni, della topografia e della toponomastica storica, degli immigrati forestieri e stranieri e, fino a tutto il primo decennio dell’Ottocento, dei proprietari di case e palazzi della città e dei casali: Senza dire dei fascicoli matrimoniali di uomini di governo, intellettuali e artisti, come svela il caso di Giambattista Vico.
Il fascicolo di nostro interesse, di mm.270x205, si compone di 8 cc.nn., di cui le prime tre scritte sul solo recto. Purtroppo è da considerarsi definitivamente perduta una nona carta, asportata con un colpo di forbici: quella su cui abitualmente un addetto di Curia annotava le generalità degli sposi e dei testimoni ed eventuali dispense ottenute. La perdita del foglio, comunque, nulla toglie all’integrità del contenuto del documento che si faceva desiderare da oltre un quarantennio.
Il fascicolo, agli inizi degli anni ’30 del secolo scorso, fu consultato da Fausto Nicolini, che ebbe sotto gli occhi anche quelli riguardanti il primo del il secondo matrimonio di Antonio Vico e i registri dei battezzati e dei matrimoni delle parrocchie di S. Gennaro all’Olmo, di S. Angelo a Segno e del Duomo.
Tuttavia, nonostante l’ampia ricerca esperita, quanto scritto dallo studioso non è esente da imprecisioni, ragione per la quale, adesso, si è preferito dare alle stampe il documento nella sua interezza, anche a scanso di ulteriori infortuni, dando notizia nello stesso tempo, di altri recenti ritrovamenti, che integrano opportunamente quanto detto dai biografi di Giambattista Vico.
Il padre di quest’ultimo, Antonio Vico, era nato a Maddaloni quasi certamente nel 1636. Nel maggio 1658, quando impalmò la napoletana Candida Tipaldo, nata il 12 gennaio 1639 nel popolare quartiere Mercato, suo padre Aniello era già scomparso; da circa dieci anni abitava "a S.Biase alli librari in domibus Santcti Ligorii" vale a dire del monastero di S. Gregorio Armeno o Santo Liguoro, come popolarmente soprannominato dai napoletani.
Via S. Biagio dei Librai, nel cuore della Napoli antica, rientrava nella giurisdizione della parrocchia di S. Gennaro o "Iennarello all’Olmo, che precedentemente aveva avuto sede nell’attigua chiesetta di S. Biagio, dal quale prendeva il nome".
Il 6 maggio 1659 Candida Tripaldo, munita di "tutti li Sacramenti" pose fine prematuramente alla sua non lunga giornata terrena, trovando sepoltura nella chiesa parrocchiale di S. Maria dei Vergini.
Antonio Vico, al quale la defunta non aveva lasciato prole, due mesi dopo passò a nuove nozze con la napoletana Candida Masullo, nata il 12 luglio del 1633.
Dopo il matrimonio, i due fissarono la loro residenza nelle stessa casa in cui il "libraro" Antonio era vissuto con la Tripaldo. Qui, come si evince dal volume VIII dei battezzati di S. Gennaro all’Olmo, nacquero i figlio della coppia.
A integrazione e rettifica di quanto scritto da Nicolini a proposito dei figli di Antonio Vico e Candida Masullo, va detto che Nicola Onofrio Maria Vico, nato il 4 agosto 1666, intraprese la carriera delle armi. Come egli stesso ebbe a dichiarare al notaio di Curia in occasione del suo matrimonio, era "sargente della Compagnia del Capitano D. Michele Ceva Grimaldi" e abitava "in Regio Arsenali", nella parrocchia "del Castello Nuovo". Pur se non sapeva scrivere, come si evince dagli atti preparatori del suo matrimonio con Domenica Libertella, Nicola non era però "un buono a nulla" come asserito da Fausto Nicolini.
Il 5 gennaio del 1699 Giambattista Vico potette finalmente sedere sulla cattedra di retorica dello Studio napoletano. La raggiunta sicurezza economica gli permise di prendere in fitto una casa "al vico delli Giganti", nelle circoscrizione parrocchiale "dell’Arcivescovato", dove si trasferì con tutta la famiglia.
L’abitazione, già di proprietà di Gennaro Caracciolo ed ora dei Padri Oratoriani napoletani, si componeva di una "sala tre Camere Cucina Loggia sopra la Cappella di S. Anna ed altre comodità come rimessa e cantina" e un giardino. Il fidanzamento con la ventunenne Teresa Destito avvenne poco tempo dopo. Già da parecchi anni Giambattista Vico frequentava la sua casa. Il padre Antonio, nella deposizione resa al notaio delle Curia, affermò di aver conosciuto la futura nuora "con l’occasione che continuamente c’avemo abitato vicino et tenuto et tenemo amicitia e corrispondenza insieme".
Il primo dicembre 1699, effettuate le pubblicazioni, gli sposi e due testimoni si recarono nelal Curia arcivescovile per deporre alla presenza del canonico Antonio Cicatelli.
La fede di battesimo del Vico, inserita nel fascicolo, reca la data del 23 aprile 1687 e la firma di don Francesco Antonio Crata, parroco di S.Gennaro all’Olmo di quel tempo.
Teresa Caterina Destito dimorava "alla porta del Battitore di S. Paulo" ora vico S. Paolo, nella parrocchia di S. Angelo a Segno, la stessa in cui era stata battezzata il 26 novembre 1678. Non sapendo scrivere, firmò apponendo in calce alla deposizione il segno della croce. La condizione di analfabetismo di Teresa Caterina non sorprende, se si pensa che prima il governo vicereale e poi quello borbonico, fino all’ultimo trentennio del ‘700, non annoverarono mai tra i doveri dello Stato quello dell’istruzione dei cittadini. D’altro canto, anche nei ceti sociali più elevati, non pochi pregiudizi si nutrivano nei confronti dell’istruzione, soprattutto di quella femminile. Le poche donne che sapevano leggere e scrivere, quasi sempre, erano oggetto della meraviglia diffidente dei più o della gelosa sorveglianza dei mariti, dei padri e dei fratelli. Un’indagine condotta nel fondo Processetti Matrimoniali ha messo in luce che nel 1685 sapevano firmare solo il 3.5% delle spose e l’8,5% nel 1775.
Il 2 dicembre 1699 il vicario generale Giovanni Andrea Siliquino concesse il permesso di celebrare il matrimonio tra Giambattista Vico e Teresa Caterina Destito, benché fosse <
Nella casa di "vico delli Giganti" nacque Luisa Gaetana, che vide la luce il 17 settembre 1700, alla quale tenne dietro Carmelina Nicoletta, venuta al mondo il 17 luglio 1703 e deceduto il 27 dello stesso mese.
Il 4 maggio 1704 i Vico lasciarono al casa di vico Giganti, trasferendosi nel "Palazzo fuori la porta grande de’ Gerolamini" da quanto risulta nei libri dello Stato delle Anime. Nella stessa casa dimoravano la madre di lui, la sorella minore ed il fratello Giuseppe con la moglie.
Come in tutte le case, anche in quella di Giambattista Vico e di Teresa Caterina Destito si alternarono gioie e dolori. Di otto figli ne sopravvissero cinque. Nel 1706 Antonio Vico, padre, morì all’età di 70 anni, Candida Masullo nel 1715, all’età di 85 anni
Luisa Gaetana Vico, figlia prediletta del filosofo, si unì in matrimonio con Antonio Servilli il 6 dicembre del 1696.
Gli studiosi di questioni vichiane hanno sottolineato concordemente le strettezze finanziarie di Antonio Vico e del suo illustre rampollo, inquilino sempre moroso dei Padri Oratiani, che con grande signorilità non lo molestarono mai per i fitti non pagati e decisero addirittura di condonargli il debito, calcolando con larghezza il compenso del lavoro da lui sostenuto per l’acquisto della biblioteca di Giuseppe Valletta.
Benedetto Croce scrisse che il filosofo era notoriamente "assai povero", mentre Nicolini ha parlato di "somma povertà" del modesto rivenditore di libri di S. Biagio dei Librai.
Ma, stando a quanto è lecito desumente dalla documentazione presa in esame, non pare ch ela povertà di Antonio Vico sia stata veramente "somma", dal momento che riuscì, seppur con sacrifici, a far studiare i figli Giambattista e Giuseppe e a dare la possibilità al figliuolo Nicola di intraprendere la carriera militare. Ciò dovette facilitare anche il matrimonio del dottor Vico con Teresa Caterina Destito, i cui fratelli Nicola e Francesco, l’uno "scrivano" della Gran Corte della Vicaria e l’altro avvocato, come i figli di Antonio Vico, erano nel novero di quelle categorie sociali che esercitavano professioni liberali:
Discorso analogo fa fatto per il suo celebrato rampollo. Dei cinque figli sopravvissuti di Giambattista Vico, 3 maschi e due femmine, Luisa e Angela ebbero la sorte di incontrare uomini in buone condizioni finanziarie, mentre Gennaro occupò la cattedra universitaria. Vero è che il figlio Ignazio diede dispiaceri al padre per non aver voluto studiare e per il suo matrimonio con Caterina Tomaselli, mal visto dai coniugi Vico- Destito per via dei non illibati costumi della Tomaselli. Dall’infelice unione nacque un bambino che, dopo la prematura scomparsa di Ignazio Vico, i nonni paterni accolsero nella loro casa.
Ma va anche detto che il filosofo, oltre a percepire lo stipendio universitario di cento ducati annui e a ricavare un altro centinaio dalla cosiddette "fedi di retorica", ossia dal modesto diritto fisso che gli studenti erano tenuti a versare per essere ammessi al preliminare esame di baccalaureato, traeva guadagni anche dallo studio privato, che egli aprì nel 1699 nella sua casa.
Nonostante l’usura del tempo, gli scritti di Benedetto Croce, Giovanni Gentile e Fausto Nicolini sono tuttora fondamentali per una conoscenza di Giambattista Vico immune da apriorismi e da sentito dire. Ma i risultati della ricerca storica, come si sa, non sono mai definitivi: sono sempre possibili nuovi ritrovamenti d’archivio, che obbligano ad integrare, correggere o addirittura rovesciare “certezze”, che pur sembravano incontrovertibili. Ciò ovviamente vale anche per la presente ricerca, che gli specialisti di studi vichiani, particolarmente quelli interessati alla ricerca delle fonti biografiche dell’autore della Scienza Nuova, potranno pertanto utilmente approfondire e forse anche emendare.
«L’Eucaristia è il centro e la forma della vita della Chiesa» Papa Francesco:
PIAZZA ENZO PACI.
Discorso per l’inaugurazione e altri materiali
MICHEL SERRES "DENUNCIA" CARTESIO: "PARANOICO, QUESTO IO-SOLE!". E FA "UNA CONFESSIONE". "Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere"(M. Serres, Distacco, 1986):
Federico La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 138-189 (capp. II e III):
CHI SIAMO NOI, IN REALTA’?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTA’: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Tradurre per capire
di Remo Bodei (Il Sole-24 Ore, Domenica, 08.05.2016)
«Tutto è destinato a perire, castelli e città, re e papi, solo i libri hanno il privilegium perennitatis: Saturno divora i propri figli, le civiltà sarebbero perdute, se Dio non avesse dato agli uomini i librorum remedia». Così sosteneva Riccardo di Bury, cancelliere di Edoardo III d’Inghilterra negli anni Trenta e Quaranta del Trecento. E John Florio, autore del primo dizionario Italiano-Inglese e traduttore dei Saggi di Montaigne, ricorda di aver sentito dire da Giordano Bruno che ogni scienza ha origine dalle traduzioni.
Di questi episodi e di sobrie riflessioni è costellato il breve e affascinante libro di Tullio Gregory, che, con la consueta competenza (esercitata anche nei decenni in cui è stato direttore del Lessico intellettuale europeo) mostra come la translatio linguarum, il vertere, il transferre e l’interpretari siano alla base di ogni civiltà e, specificamente della nostra, quella mediterranea, «fatta di innesti continui, di matrimoni esogamici, di un assiduo intrecciarsi e scambio di esperienze, modelli e valori fra civiltà diverse, ove ogni cultura nasce sull’eredità di altre culture, fatte proprie, trascritte, tradotte, interpretate in nuovi contesti e linguaggi».
Da questo punto di vista, fenomeni epocali, quali il sorgere o il diffondersi dell’ebraismo o del cristianesimo sarebbero impensabili senza la traduzione in greco della Bibbia da parte dei Settanta nell’Alessandria del III secolo a.C. e le stesse parole di Gesù, pronunciate in aramaico, non si sarebbero diffuse nel mondo se non fossero state rese in greco e in latino: «È la traduzione che prolunga nel tempo e nello spazio la vitalità di un testo, assicura e rinnova una tradizione». Ed è la traduzione che sostanzia la translatio studiorum, per cui ogni versione di un’opera dall’originale a un’altra lingua contribuisce al «passaggio di civiltà e cultura da uno ad altro contesto politico, geografico e linguistico, per salvare eredità che si sarebbero altrimenti perdute».
Conosciamo tutti, per sommi capi, la trafila degli eventi che dalle rive del Nilo e dalle coste della Fenicia porta alla migrazione della scrittura, delle scienze, della sapienza e delle tecniche dapprima in Grecia e a Roma. Allo stesso modo ci è noto come il salvataggio della cultura antica passi attraverso gli scriptoria medioevali, dove gli amanuensi ricopiavano i libri. Sono state anche ricostruite le complesse vicende che hanno portato le opere filosofiche, matematiche, mediche e fisiche dal mondo greco a quello arabo.
Fu l’imperatore Giustiniano, istigato dai cristiani e dalla moglie Teodora, a decretare nel 529 la chiusura delle scuole di Atene, costringendo un consistente gruppo di filosofi a trasferirsi nell’Impero persiano presso il re Cosroè III. Quando, poi, la Persia venne conquistata dagli arabi, i discepoli dei filosofi che erano fuggiti assieme ai loro volumi iniziarono - dall’815 stabilmente nella «Casa della sapienza» di Baghdad - a tradurre in arabo dal greco e dal siriaco queste opere, che fecondarono il pensiero di Al-Kindî, Al Farabî, Averroè e Avicenna per poi, attraverso un’altra grande operazione di traduzione collettiva a Toledo e altrove, dare luogo alle ritraduzioni latine (si pensi che di Platone si conosceva in precedenza solo un brano del Timeo e di Aristotele, sostanzialmente, solo le Categorie e il De interpretatione).
La filosofia moderna si fonda linguisticamente sulla continua translatio dei termini forgiati in questo periodo e sulla ripresa e innovazione dei loro significati. Di tutte queste metamorfosi il volume di Gregory offre il necessario inquadramento.Spesso dimentichiamo che il destino dei libri che giungono fino a noi - oltre che di chi li pubblicava, li distribuiva e li leggeva - è soggetto a una selezione dovuta al caso, all’intenzione o ai ritrovamenti insperati (quale il codice del De rerum natura di Lucrezio che Poggio Bracciolini rinvenne nel 1417 in un monastero tedesco).
È, tuttavia, la volontà censoria a incidere maggiormente sulla loro conservazione e trasmissione, decretandone la sorte di «sommersi e salvati». Il fanatismo, l’Index librorum prohibitorum (formalmente abolito dalla Chiesa cattolica solo nel 1966), e i roghi, anche di intere biblioteche, hanno segnato la storia umana e non solo quella dell’Occidente: si comincia, a quanto ci consta, da quelli avvenuti nella Cina di Qin Shi Huan, il 212 a.C., fino alla Bücherverbrennung nazista del maggio del 1933 a Berlino. Per fortuna, i libri sfuggono talvolta a questa sorte, come accadde con «l’avventuroso trasferimento della biblioteca dell’Istituto Warburg da Amburgo a Londra con due battelli che approdarono nel dicembre 1933 sulle rive del Tamigi».
Se dunque la translatio linguarum ha nell’ambito delle civiltà della specie il ruolo dominante qui descritto, allora la risposta di Gregory al mito della Torre di Babele non può essere che un’orgogliosa rivendicazione della nostra condotta: «Se la condanna alla pluralità delle lingue è una conseguenza del tentativo degli uomini, dopo il diluvio, di costruire una loro città con una torre che raggiungesse il cielo, la traduzione - ove manchi il miracolo della Pentecoste - è la risposta umana alla condanna di Yahvè».
Sfatato il mito della presa
Il cavallo di Troia? Era una nave fenicia: la scoperta di un archeologo
Era già stato letto da alcuni studiosi come una nave sacra. Il bresciano Francesco Tiboni l’ha identificata nella Hippos. Dopo la storica presa, il vascello dopo cadde in disuso
di Thomas Bendinelli (Corriere della Sera/Brescia, 28.04.2016)
Il cavallo di Troia? Una nave fenicia dal nome Hippos. Sembra semplice, quasi l’uovo di Colombo, eppure la scoperta dell’arcano è merito di Francesco Tiboni, archeologo subacqueo 39enne nato e cresciuto a Vobarno, provincia di Brescia da tre anni ricercatore all’università di Aix en Provence. La tesi del cavallo che in realtà è una nave, frutto di quasi due anni di studi e dopo essere passata sotto la scure dei comitati di valutatori, verrà illustrata in modo divulgativo sul prossimo numero di «Archeologia Viva» e in modo scientifico e dettagliato nell’edizione estiva di «Archaeologia maritima mediterranea. An International Journal of Nautical Archeology».
Da Omero a Tiboni: «Nessun cavallo per la presa di Troia»
Il guizzo geniale nasce una sera a casa, in famiglia. Francesco Tiboni si sta dilettando con un testo di Pausania, scrittore greco del II secolo dopo Cristo e incappa in questa frase: «Che quello realizzato da Epeo fosse un marchingegno per abbattere le mura e non un cavallo, lo sa bene chiunque non voglia attribuire ai Frigi un’assoluta dabbenaggine. Tuttavia, la leggenda ci dice che è un cavallo». Il tarlo del dubbio si insinua nella mente del ricercatore. Manifesta il suo pensiero alla moglie Laura. Che lo guarda come un pazzo ma poi lo aiuta e contribuisce con entusiasmo alla ricerca. Tiboni si occupa di archeologia marina, conosce le navi antiche come le tabelline, e si chiede: «Stai a vedere che il cavallo è un Hippos, una nave fenicia». L’idea non è del tutto originale o, meglio, già nell’Ottocento alcuni studiosi avevano decifrato il cavallo omerico come una nave sacra. Tiboni fa un passo in più e non solo dà un nome alla nave, Hippos appunto, ma dimostra anche che Omero in realtà non aveva mai parlato di cavalli. Un inciso, a proposito: Omero non cita l’episodio del Cavallo nell’Iliade e lo fa solo marginalmente nell’Odissea. Chi si dilunga nei dettagli è invece Virgilio nell’Eneide. In mezzo c’è qualche secolo.
«Diffidenza tra i giovani ricercatori e più apertura tra i vecchi»
Tiboni non entra nel merito nella questione omerica o nella giungla delle verità o meno degli episodi narrati da Omero, si sofferma sul cavallo. Fa analisi del testo, intreccia le parole omeriche e di Virgilio con quelle di tecnologia navale. La pancia del cavalo diventa una stiva, le ruote e le lunghe funi con i quali il cavallo fu trasportato sotto le mura di Troia assomigliano al modo in cui, secondo le più recenti ricerche, le navi mercantili venivano tirate con forza. Il cavallo prende forma, si deforma, e si trasforma in nave, in un Hippos. «Una nave che cadde in disuso nei secoli successivi - spiega Tiboni - e chi tradusse in seguito non ne era proprio a conoscenza dell’esistenza. Ma Omero, nei suoi versi, è invece preciso nel suo linguaggio marinaresco». Il lavoro di Tiboni inizia a girare per mesi tra alcuni addetti ai lavori. C’è incredulità, talvolta scetticismo, alla fine convincimento. «Ho trovato più diffidenza tra i giovani ricercatori - osserva -, mentre ho raccolto più attenzione e sostegno tra gli studiosi della vecchia scuola».
I soldati? «Erano nella stiva della nave, non nella pancia dell’equino»
Lo studio, una volta pubblicato sulla rivista di Archeologia marina, diventerà di dominio pubblico. Non cambierà le sorti della guerra di Troia ma un bel dibattito si aprirà, partendo però dal presupposto che i soldati si nascondono meglio dentro una grande nave che non nella pancia di un equino di legno. Si continuerà a dire Cavallo di Troia? «Immagino di sì - sorride Tiboni - ma è anche giusto che la scienza faccia il suo percorso e che, in questo caso, l’archeologia navale possa sanare l’equivoco plurisecolare». La vera storia del Cavallo di Troia diventerà anche un libro, questo almeno è l’intento di Tiboni. Il quale, fosse anche solo per competenza di studi, nulla dirà invece per smentire la leggenda sull’uovo di Colombo .
JOYCE, la lingua del sogno
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 30 marzo 2016)
E’ quasi un atto dovuto: si comincia con Finnegans Wake, il “libro impossibile” che James Joyce concepisce nella primavera del 1923, e subito ci si ritrova a parlare di altri libri. Composto in una lingua che è la somma - o forse la differenza, il resto - di tutte le altre lingue, l’estremo capolavoro del grande irlandese ha fama di testo intraducibile, nonostante Joyce stesso ne abbia tempestivamente rielaborato in italiano alcuni brani. E italiana è la versione parziale realizzata da Luigi Schenoni per Mondadori tra il 1982 e il 2011, e che ora verrà completata da Enrico Terrinoni e Fabio Pedone attraverso un progetto innovativo, nel quale saranno coinvolti anche gli utenti dei social network. Nel frattempo, a Macerata, la raffinatissima Giometti & Antonello ripropone i frammenti dello stesso Finnegans Wake volti in italiano da J. Rodolfo Wilcock nel lontano 1961 (pagine 142, euro 16).
Allestita dallo specialista Edoardo Camurri, la pubblicazione è completata da alcuni rari scritti joyciani dell’italo-argentino Wilcock e da un caposaldo della critica su Finnegans Wake, il saggio “Dante ... Bruno. Vico ... Joyce” nel quale, già nel 1929, Samuel Beckett metteva in guardia il lettore: «Qui la forma è il contenuto, il contenuto è la forma. Si protesterà che questa roba non è scritta in inglese. Non è affatto scritta. Non è fatta per essere letta, o almeno non solo per essere letta. Bisogna guardarla e ascoltarla. La scrittura di Joyce non è su qualcosa: è quel qualcosa».
Oscuro? Eppure, grazie alla scelta operata dall’italo-argentino Wilcock, l’impalcatura di quello che Joyce definiva work in progress, “lavoro in corso”, appare chiara, chiarissima. «La veglia di Finnegan è il sogno dell’umanità, presente e passata - spiega Wilcock -. Tutto ciò che in essa si legge è un sogno: i personaggi, i vocaboli, che somigliano a quelli del linguaggio corrente soltanto nel senso, e spesso sono parole deformate, di doppio o triplice significato».
Come quelle che una madre inventa per il suo bambino in fasce, insomma. E che la Mutter-Sprache, la “lingua della madre”, sia anzitutto lingua del sogno, dalla quale affiorano «le immagini riflesse di una spiritualità rivolta decisamente alla metafisica», è la conclusione consegnata dal grande linguista viennese Leo Spitzer al delizioso e profondissimo Piccolo Puxi, curato e tradotto da Anna Maria Babbi e Massimo Salgaro per il Saggiatore (pagine XVIII+96, euro 16).
Si tratta di un saggio apparso originariamente nel 1927, mentre Joyce è affaccendato nella sua Veglia. Studioso di Rabelais oltre che dell’italiano colloquiale, Spitzer (di cui lo stesso Saggiatore riporta ora in libreria il classico Lettere di prigionieri di guerra italiani. 1915-1918, a cura di Lorenzo Renzi, pagine 482, euro 30) riordina gli appunti presi a partire dalla nascita del figlio Wolfgang, al quale la madre e tutta la cerchia domestica attribuiscono presto l’appellativo di Puxi, a sua volta deformazione dello shakespeariano Puck. La ridda di invenzioni e variazioni di cui il volumetto dà conto non è diversa, in sostanza, da quella che si può riscontrare in ogni casa, solo che questa volta il pater familias ha le competenze giuste per rintracciare genealogie e prospettare ipotesi.
La principale delle quali è, appunto, quella per cui la lingua è un organismo vivo e affettivo, che non smette di svilupparsi e appassionarsi neppure nel sonno. E non è casuale che a Joyce e al suo maestro riconosciuto, il Dante della Commediae prima ancora del De vulgari eloquentia, faccia spesso riferimento Luca Salza nel suo Il vortice dei linguaggi (Mesogea, pagine 160, euro 12). Meticcia fin dalle premesse, condotta com’è da uno studioso italiano attivo in Francia, questa riflessione su “letteratura e migrazione infinita” ha, tra gli altri, il merito di far reagire l’opera di autori come Vico e Gadda con le istanze tipiche della nostra contemporaneità: la dimensione multiculturale, la necessità e i limiti dell’accoglienza, la ricomposizione di un “Tutto-Mondo” - è la felice espressione del franco-martinicano Édouard Glissant - comunque incommensurabile rispetto al mondo che abbiamo finora conosciuto.
Salza torna a ragionare di lingua materna e di lingua bambina, facendo propria l’affermazione per cui Finnegans Wake ha il potere di trasformare qualunque lettore in un “straniero”. Sarà per questo, osserva, che a Parigi il Jardin James Joyce sta a due passi dalla Biblioteca nazionale ed è molto frequentato dagli immigrati. Che è un modo elegante per ricordarci come, se si vogliono comprendere le avanguardie del Tutto-Mondo, occorra guardare alla letteratura d’avanguardia.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VICO CON NEWTON: "NON INVENTO IPOTESI"! E CON SHAFTESBURY, CON LA "TAVOLA DELLE COSE CIVILI"!
VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Note per una rilettura
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI. Note per una rilettura del "De vulgari eloquentia" e della "Monarchia"
Per fare l’Europa non basta l’euro
Bisogna tornare all’umanesimo
In mostra a Roma le opere fondamentali della cultura «comunitaria»: 186 manoscritti e stampe della Biblioteca Corsiniana, da altre biblioteche pubbliche e dalla Vaticana
di Paolo Di Stefano (Corriere della Sera, 30.03.16)
Non è mai troppo tardi per interrogarsi sull’identità culturale europea: e anzi diventa urgente in un’epoca in cui le migrazioni mettono in gioco idee di chiusura che si scontrano con prospettive più aperte, in una fase di crisi economica, in un momento di tragedie e di odi primitivi. Sono passati quasi quindici anni, ma fatto l’euro bisognerà prima o poi fare l’Europa, meglio: gli europei. I libri che hanno fatto l’Europa è una mostra che parte da questo presupposto: interrogarsi sulle sue numerose radici e ramificazioni, rappresentando materialmente, attraverso una ricca serie di opere fondamentali, il percorso storico-culturale che si è sviluppato da Carlo Magno alla rivoluzione gutenberghiana, gli oltre sei secoli che hanno portato dalla cultura e letteratura classico-cristiana e mediolatina a quella romanza e moderna. Va da sé che un tale cammino si può illustrare solo attraverso l’evoluzione della forma-libro, l’oggetto principe in cui si conserva la memoria culturale europea.
Dunque, la mostra di Palazzo Corsini presenta 186 manoscritti e stampe, in gran parte della Biblioteca Corsiniana, ma anche provenienti dalle altre biblioteche pubbliche romane (Angelica, Casanatense, Nazionale, Vallicelliana), oltre che dalla Vaticana.
«Dalla consapevolezza che l’euro non basta - dice il filologo Roberto Antonelli, accademico dei Lincei cui si deve il progetto - abbiamo avviato da tempo, alla Sapienza, varie ricerche sull’importanza di coltivare una coscienza europea, di riconoscere l’importanza di valori comuni».
Antonelli, che insegna Filologia romanza all’Università di Roma, parla della necessità di unificare il canone letterario europeo nella formazione scolastica, così come si è fatto per avvalorare l’unità italiana: «È necessario l’insegnamento di una “letteratura europea”, tale da fornire un minimo comun denominatore ai vari Paesi dell’Ue per la formazione letteraria dei giovani: questo problema è stato da noi analizzato e collegato, in una ricerca che ha coinvolto cinque grandi Paesi europei (Portogallo, Spagna, Germania, Romania e Italia), anche al rapporto tra emozioni e letteratura nei giovani».
Intanto, la mostra dei Lincei, che non riguarda solo la letteratura, parte dalla tradizione classico-cristiana, risultato della convergenza tra patrimonio greco-latino e insegnamento soprattutto della Bibbia: padri fondatori Sant’Agostino e San Girolamo; mezzi di trasmissione i codici attraverso la fitta rete dei monasteri. Viene rappresentato il sistema scolastico medievale, che si basa sul ciclo delle sette arti liberali: da una parte il Trivio dedicato alla parola, dall’altra il Quadrivio consacrato alle capacità di «conto», «calcolo» e «misura». Il canone degli autori latini (Virgilio, Orazio, Ovidio...) è il fondamento dell’insegnamento linguistico che si prolunga fino all’Umanesimo e oltre e che, come la Bibbia, si presta a una lettura allegorica in chiave di exemplum e di insegnamento morale. Due culture, quella pagana e quella cristiana, diverse e opposte, che si fondono in una «gigantesca trasmissione e consegna di valori e di testi, sia scritti che orali, formando, di generazione in generazione, una tradizione (da tradere, tramandare, consegnare) che diviene nel tempo una vera e propria forma mentale».
Nella prima sezione, le Bibbie miniate e istoriate (la cosiddetta «atlantica», di enormi dimensioni, proviene dalla Nazionale) si accompagnano con i trattati di retorica (la diffusissima Rethorica ad Herennium in volgare) e, tra gli altri, con quelli di aritmetica. Continuità della tradizione è un concetto chiave: si vedano, per esempio, gli approfondimenti delle Confessioni di Agostino (modello per Petrarca) e della Consolatio Philosophiae di Boezio. Le enciclopedie medievali, che con le immagini dello speculum e del thesaurus rielaborano concetti greci, avranno in Vincenzo di Beauvais e in Brunetto Latini (il maestro di Dante) i loro interpreti più illustri in senso moderno, mentre la compilazione etimologica di Isidoro da Siviglia puntava su un presunto statuto originario del linguaggio.
Si diceva che la continuità è tutto e che non si può parlare di cultura europea prescindendo dalla tradizione: da Plinio discende un filone di trattatistica scientifica che si coniuga con il lascito della medicina greca e araba (Ippocrate, Galeno, Avicenna). La Corsiniana conserva un trattato arabo di oftalmologia che contiene la prima rappresentazione occidentale dell’occhio.
Nel cuore della cultura europea del Basso Medioevo si colloca il sapere giuridico, che si estende, anche in chiave «politica», nell’ambito universitario in concorrenza con la teologia fin lì dominante. Ma un’altra grande svolta per la cultura europea è rappresentata dall’aristotelismo che, entrato nell’Occidente latino con le traduzioni arabe nel XII secolo e quasi integralmente tradotto nel Duecento, va a impattare con l’idealismo cristiano, «permettendo di inserire il sapere in una sintesi razionale», come osservano le schede della mostra che compongono una profonda e insieme agile sintesi di storia della cultura europea: dal filosofo islamico Averroè si va alla Summa di Tommaso d’Aquino e al suo sforzo di «trovare un accordo tra filosofia aristotelica e rivelazione cristiana, innestando le strutture metafisiche, logiche e fisiche desunte da Aristotele nella teologia».
Agiografia, letteratura didattica, storiografia, epica e romanzo. Sono voci di una rassegna che reca titoli illustri: a cominciare dalla Legenda aurea di Iacopo da Varazze e dai Fioretti di San Francesco , passando per il Roman de la Rose e per i vari libri di moralità laica, fino alle tipologie testuali, spesso contaminate, che ci portano verso la modernità. Il filone della chanson de geste si apre con la Chanson de Roland per arrivare fino all’Ariosto, mentre il romanzo (termine che deriva da romanz, che significa parlare in volgare) avrà lunga vita nelle sue molteplici declinazioni, a partire dall’invenzione del triangolo amoroso di Tristano e Isotta o dalle avventure cavalleresche di Chrétien de Troyes con la ricerca del Graal, archetipo vitale fino ai colossal hollywoodiani e alle fiction televisive.
Ed eccoci alla lirica, che nasce dai trovatori ma troverà un punto di passaggio cruciale nella riflessione dantesca (il prezioso codice Vaticano Chigiano, con la Vita nuova, è visibile in mostra). L’Italia darà il suo massimo contributo alla letteratura europea con il primo canone di lunghissima durata: il padre Dante («e l’invenzione dell’io», ricorda Antonelli), la lirica petrarchesca, la narrativa di Boccaccio. La coscienza della nostra dimensione europea passa anche (o soprattutto) da lì. Chi volesse rinfrescarsi la memoria faccia un viaggio a Palazzo Corsini.
Perché la crisi di inizio Millennio si sconfigge col pensiero critico. Il nuovo libro di Roberto Esposito
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 24.03.2016)
Il nuovo libro di Roberto Esposito (che esce dall’editore Einaudi) ha come oggetto l’Europa: com’era e com’è. Già il titolo “Da fuori” sembra richiamare forze sociali e culturali imprevedibili che stanno trasformando l’immagine del vecchio continente. Oggi in crisi, come lo fu negli anni Venti e Trenta dello scorso secolo. “Da fuori” ha un sottotitolo: “Una filosofia per l’Europa”.
Ma può l’Europa essere salvata dalla filosofia? Non c’è riuscita la politica; e neppure l’economia; perché mai il sapere che fu di Platone e Aristotele dovrebbe avere qualche chance di successo? Perché una disciplina instabile, contraddittoria, a volte rissosa, dovrebbe partorire dal suo ventre le giuste risposte? «Forse perché - risponde Esposito - è proprio l’inquietudine della filosofia, la sua mobilità, a consentirle di seguire e talvolta di anticipare le trasformazioni repentine del mondo contemporaneo meglio di saperi più statici e piantati sulle loro radici».
La filosofia già in passato, con Husserl e Heidegger, in particolare, aveva affrontato la crisi europea riconducendola al grande tema del nichilismo: «Con l’espressione nichilismo, quei pensatori intendevano dirci che la civiltà occidentale era esausta e che il solo modo di ritrovare l’egemonia perduta era risalire alle radici greche. Il riferimento costante dell’Europa di Heidegger e di Husserl - malgrado la loro diversità profonda - è tornare al proprio “centro”, ossia all’origine».
Nel mondo greco, sostenevano i nostri autorevoli filosofi, c’erano le risposte giuste. Bastava cercarle. Bastava calarsi nel grande pozzo che nel frattempo l’Occidente aveva scavato e riemergerne con la verità tra le mani. «Fu un terribile fraintendimento, pensare che la crisi dell’identità europea fosse risolvibile con l’appello ai presocratici e ai valori della Grecia antica. La filosofia era troppo concentrata su di sé, troppo autoreferenziale perché potesse davvero cogliere quello che avveniva al suo esterno. La sua miopia fu, in altri termini, non essersi accorta che lì, in quella manciata di anni aveva inizio la fine irrimediabile della centralità dell’Europa».
Non solo Heidegger e Husserl, ma anche Valéry, Benda e Ortega sostarono sui bordi di quella crisi immaginando che la soluzione fosse tutta interna al pensiero e che bastasse l’appello allo spirito greco e ai suoi valori per poter ridare smalto al vecchio continente. «Ma la partita giocata tutta dentro il linguaggio filosofico non era sufficiente. Già per Hegel l’oggetto della filosofia non era la propria storia interna, ma il mondo con le sue contraddizioni. E quanto sta accadendo in questi anni recenti lo dimostra con assoluta evidenza. Nella nostra epoca di globalizzazione, non esiste più un luogo che non sia penetrato e modificato dal suo “fuori”».
Nella nuova consapevolezza che l’attuale scenario ha creato viene a maturazione un fatto di cui già un poeta della statura di Hölderlin ebbe modo di accertare, ossia che lo spirito dei greci non era imitabile. «Lo stesso Nietzsche, dice Esposito, aveva acutamente visto che quello che per Hölderlin era una frattura aperta tra modernità e classicità, diventava in lui un abisso senza fondo in cui precipitavano tutti i valori europei».
L’idea della “morte di Dio” tra le tante possibili declinazioni indicava per Nietzsche l’impossibilità di tornare a una origine autentica, di cui la metafisica fosse la garante assoluta. È di questo che le filosofie della fine del Ventesimo secolo si rendono conto? Da Foucault a Derrida, da Adorno a Habermas - in tempi differenti e con problematiche diverse - si prende atto che il compito della filosofia non è più eseguibile all’interno del proprio sapere.
Il richiamo alla biopolitica (Foucault), alla scrittura e violenza (Derrida), alla dialettica negativa (Adorno), al patriottismo costituzionale (Habermas), non è altro che il modo con cui, osserva Esposito, «il reale gioca la sua nuova partita con il pensiero, includendo così ciò che sta fuori dei suoi confini».
La parola confine sembra quella oggi più confusa e inadatta a garantire un certo tasso di sovranità: «Temo che il confine oggi svolga una funzione drammaticamente biopolitica. Ciò significa che il rapporto tra potere e vita si svolge sempre più lungo e dentro faglie territoriali, sociali e mentali che separano piuttosto che unire». Come dovremmo comportarci davanti alle scene che ogni giorno reportage di immagini ci sbattono sotto gli occhi? «Io credo che il confine resti una linea da cui bisogna passare. Non possiamo abolirlo, ma non possiamo neppure concepirlo come luoghi di operazioni poliziesche. Occorre ripensarlo come spazio politico».
La filosofia può aiutare in questo compito che oggi ci appare difficilissimo? «Il problema è che il confine non può essere solo una soglia di esclusione, ma ciò che articola e integra esperienze, culture, mondi diversi. Sono sempre più gli esseri umani che vivono, lavorano, soffrono ai confini di città e paesi».
Tutto quanto sta accadendo oggi era impensabile fino a una quindicina di anni fa. Il risveglio dei nazionalismi da un lato e del populismo dall’altro hanno scosso l’idea stessa di Europa e messo in crisi la categoria di sovranità. Costruire un mondo nuovo con dei “pezzi importanti” del mondo lasciato in frantumi non è semplice. Non lo è soprattutto se si pensa al dilagare di un neo-localismo volto a proteggere con miopia le proprie ragioni nazionali. Occorrerebbe che la filosofia, osserva Esposito, si traducesse in “grande politica”. Ma come? «Comprendendo anzitutto che nel mondo contemporaneo non è più possibile conservare gli attuali rapporti di forza tra paesi ricchi e paesi poverissimi. Si tratta di un equilibrio che ormai non tiene più e rischia di saltare tragicamente».
La partita filosofica secondo Esposito si gioca oggi nel lasciare aperto il discorso sulla civiltà senza tuttavia rinunciare alla forza. Secondo l’esempio di Machiavelli e Vico, si tratta di trovare un equilibrio tra le due componenti, evitando che una prenda il sopravvento sull’altra.
Ci si può chiedere in conclusione se l’idea d’Europa che avevano sognato i nostri padri abbia ancora un senso o non sia piuttosto tramontata. È probabile che quel nobile progetto oggi sia inadatto a risolvere le attuali contraddizioni. Forse un popolo europeo potrà nascere non in virtù dei trattati e delle convenzioni, ma da spinte che provengono dal basso: «Da questo sostrato salgono a volte umori e impulsi dissolutivi. Ma lì, io credo, è depositata anche l’energia costituente, senza la quale le élites rischiano di perdere i contatti con la vita reale. Il destino del nostro continente è sospeso a tale consapevolezza e alla risolutezza con cui saprà darle espressione».
FILOSOFIA
Un nuovo pensiero per l’Europa
«Da Fuori» (Einaudi), il nuovo libro di Roberto Esposito. Il vecchio continente vive una fase di smarrimento, per capirlo serve un’altra prospettiva filosofica. Meglio se italiana.
di DONATELLA DI CESARE (Corriere della Sera, 10.04.2016)
La filosofia italiana non ha nei media e nel dibattito pubblico del nostro Paese lo spazio che meriterebbe. Eppure, basta varcare le frontiere per constatare ovunque, non solo in Europa, ma anche altrove, il riconoscimento tributato al pensiero italiano. Si vorrebbe dire nemo propheta in patria. Ma qui agiscono motivi ulteriori e più profondi: l’atavico complesso di inferiorità di una cultura scaduta per anni nel provincialismo, insieme alla incapacità di valutare degnamente la propria tradizione, a cominciare da quella umanistica, e di farsi dunque carico di un lascito imponente.
Sceglie l’inglese Roberto Esposito per indicare, nel suo ultimo libro, le tre grandi linee della filosofia europea, cioè la German Philosophy, la French Theory e l’Italian Thought (la filosofia tedesca, la teoria francese, il pensiero italiano). L’inglese rinvia all’angolo di visuale che assume scrivendo e che si compendia nel titolo Da fuori (Einaudi). Perché - dice più volte Esposito - «è sempre l’esterno a illuminare l’interno».
Guardare l’Europa, nel suo smarrimento attuale, da fuori, è possibile anzitutto ripercorrendo il cammino della filosofia europea. Già nel Novecento appare chiaro che il malessere è il nichilismo. L’Europa, terra di nascita della filosofia, diviene allora consapevole di non poter perdere il suo nesso vitale con il pensiero, ciò che la contraddistingue. Rischierebbe altrimenti di perdere se stessa.
Ma le risposte al «dispositivo della crisi» sono diverse. Alla corrente eurocentrica, quella di Husserl, di Valéry, soprattutto di Heidegger, che reagisce arretrando, nella vana ricerca dell’origine greca, Esposito oppone una corrente che fugge invece dal centro, che contesta la radice, che considera la cultura greca inimitabile, perché già sempre eterogenea e alterata. Ai nomi di Hölderlin e Nietzsche affianca quello di Patocka, il filosofo, morto a Praga nel 1977 per le violenze subite, che nei suoi Saggi eretici aveva delineato una visione del «dopo» - l’Europa dopo e oltre la cortina, finalmente riunificata.
Costante è la presenza di Carl Schmitt nell’opera di Esposito. Anche in questo libro il suo ruolo è rilevante. Merito del giurista tedesco è di aver mutato la prospettiva sull’erosione dell’Europa: dalla terra al mare. Se Heidegger insiste sul radicamento nella terra, Schmitt accoglie la sfida del mare. D’altronde, non è forse nel mare che si costituisce l’Occidente? Come dimenticare la battaglia di Salamina, e quella di Lepanto? Schmitt rinuncia alla europeizzazione del mondo per volgersi alla mondializzazione dell’Europa.
Ecco allora il Vecchio continente visto «dall’altra sponda», con gli occhi di quegli ebrei tedeschi costretti a cercare rifugio oltre Atlantico. Fuori dall’Europa, ma estranei, malgrado tutto, anche all’America. Il «fascino intellettuale che promana dalla Scuola di Francoforte - scrive Esposito - risiede in questa duplice esteriorità». Pagine importanti vengono dedicate alla Dialettica dell’illuminismo e al modo in cui Adorno in particolare decostruisce ogni mitologia dell’origine e ogni «gergo dell’autenticità», scorgendo qui la regressione in cui è caduta l’Europa degli anni Trenta. Sarebbe però un errore credere che i Lumi della modernità possano far uscire dalla crisi, dato che Auschwitz è inscritto nella civiltà europea.
German Philosophy è la filosofia tedesca del dopoguerra, che dovrebbe prendere in carico l’eredità della Scuola di Francoforte e di quegli emigranti che fanno persino ritorno, forse anche per assecondare quel lascito. No, il passaggio di consegne non riesce - ha ragione Esposito. La carica critica si affievolisce nel neoilluminismo di Habermas, convinto che la modernità non si sia ancora compiuta. Serve ancora la Ragione universale - anche per l’Europa e per i suoi conflitti. Habermas diventa capostipite di una filosofia sempre più normativa, affannata a cercare rimedi costituzionalistici, incapace, anche nei suoi epigoni, di dare voce alla società civile.
L’eredità della Scuola di Francoforte viene reclamata, però, dall’altra parte del Reno. A cominciare da Lyotard, i francesi pensano che il progetto di emancipazione, fondato sulla ragione, si sia concluso. Conservatori non sono i postmoderni, ma quelli che cercano nel moderno le chiavi per interpretare una realtà che ne ha varcato i confini. La French Theory segna una nuova deterritorializzazione della filosofia europea. I filosofi francesi diventano egemoni nelle università americane. Ma la decostruzione di Derrida rischia, per Esposito, di esaurirsi nell’impolitico, mentre il futuro dell’Europa è cercato in una identità, talmente differenziata, da diventare evanescente.
L’Italian Thought si candida allora a essere il pensiero per un’Europa ferita, umiliata, irriconoscibile. Si candida ed è candidato - basta osservarne la risonanza mondiale degli ultimi anni. Erede della crisi interna alla filosofia francese, divisa tra Derrida e Foucault, il pensiero italiano riprende però anche la filosofia tedesca, da Heidegger a Schmitt, a Benjamin. Eccentrico per storia e vocazione, al contempo più arretrato e più giovane, esce da una lunga e traumatica fase di elaborazione negli anni Sessanta e Settanta, si sviluppa intorno alla biopolitica, trova il suo «fuori» nel politico. E riesce a volgerlo in un «contro». Ma non si crogiola nella negazione - è «affermativo». Lontano dall’autonomia della filosofia e dalla neutralità della teoria, è «pensiero» perché nasce dalla prassi. Mostra la sua fedeltà alla tradizione che da Machiavelli giunge fino a Gramsci, si richiama alla parola «civile» che Vico nella Scienza nuova ha elevato a categoria filosofica. Non dovrebbe l’Europa dei popoli aspirare ad essere «potenza civile»?
Italiano nello stile, non per aderenza territoriale, l’Italian Thought prova ad assumere la prospettiva del mondo per guardare all’Europa. Esposito lo descrive magistralmente dilatando il più possibile la nozione di biopolitica, consapevole che i suoi esponenti, da Tronti a Cacciari, da Agamben a Marramao, da Bodei a Vattimo, fino ai più giovani, pur accomunati da analoghe preoccupazioni - andare, ad esempio, oltre la metafisica, oltre la teologia politica - non sono riconducibili a un profilo unitario. Perciò l’Italian Thought ha il fascino di un progetto incompiuto, di un viaggio appena intrapreso.
Croce e il suo amico Einstein
Divisi su concetti e pseudoconcetti ma uniti sui temi politici: entrambi erano preoccupati dalle sorti dell’Europa
di Vincenzo Barone (Il Sole-24 Ore, Domenica, 28.02.2016)
«La gente si lamenta che la nostra generazione non abbia filosofi. Non è assolutamente vero: solo che i filosofi, oggi, stanno in un’altra Facoltà, e si chiamano Planck e Einstein». Così si esprimeva nel 1911 un illustre intellettuale tedesco, il teologo e storico Adolf von Harnack, nel suo discorso di insediamento alla presidenza della Società Kaiser Wilhelm.
Il dominus del pensiero nostrano, Benedetto Croce, era di parere opposto: riteneva che gli scienziati dovessero fare il loro mestiere - cioè «maneggiare e classificare» -, senza intromettersi in faccende riguardanti la filosofia e il «vero». In quello stesso 1911, il matematico Federigo Enriques organizzò a Bologna il IV Congresso Internazionale di Filosofia. Chiamò a parteciparvi i più importanti filosofi dell’epoca, ma anche grandi scienziati come Peano, Poincaré, Langevin (quest’ultimo, dovendo parlare di relatività a una platea di umanisti, introdusse proprio in quell’occasione il cosiddetto «paradosso dei gemelli»).
Croce presenziò con un certo fastidio alle sessioni del congresso. Durante il viaggio di ritorno, rilasciò una famosa intervista in cui, senza mezzi termini, accusava Enriques di incompetenza e di dilettantismo filosofico. «Si addossa le fatiche dei congressi dei filosofi, meritorie quanto sarebbero meritorie e disinteressate le mie, se organizzassi congressi di matematici», disse. Enriques, però, era uno storico e filosofo della scienza di prim’ordine, mentre la matematica di Croce non andava oltre le quattro operazioni. Né il pensatore napoletano riteneva opportuno approfondire le scienze astratte ed empiriche, alle quali non attribuiva valore conoscitivo.
Ancora nel 1951 (quando ormai la rilevanza concettuale delle scoperte scientifiche del Novecento era incontestabile), parlava di una «tranquilla rivoluzione filosofica» compiutasi nella prima metà del secolo, che sarebbe consistita nel fatto che «le scienze naturali e le discipline matematiche, di buona grazia hanno ceduto alla filosofia il privilegio della verità ed esse rassegnatamente, o addirittura sorridendo, confessano che i loro concetti sono concetti di comodo e di pratica utilità, che non hanno niente a che vedere con la meditazione del vero».
Com’era scontato, Croce non avvertì il bisogno di esprimere un’opinione sulla teoria della relatività, neanche quando, nei primi anni Venti, in occasione della venuta in Italia di Einstein (su invito proprio di Enriques), molti altri filosofi italiani (per esempio, Antonio Aliotta, Annibale Pastore, Francesco Orestano) ritennero di pronunciarsi. Ruppe parzialmente il silenzio solo nel 1929, in un breve scritto di commento a un libro dello studioso tedesco Alexander Maria Fraenkel, Le scienze naturali nella filosofia di Benedetto Croce (tradotto per Laterza solo nel 1952).
Convinto dell’impossibilità di principio di una filosofia della natura, Croce si diceva scettico riguardo al tentativo, attuato da Fraenkel, «di dimostrare che il progresso della scienza, che sarebbe rappresentato soprattutto dalla dottrina della Relatività, ha importanza filosofica e trasforma profondamente la vecchia scienza fisica e naturale, rendendo possibile per la prima volta in questo campo, non il semplice ordinamento classificatorio dell’esperienza, ma il giudizio dell’individuale, affatto analogo al giudizio storico a cui mette capo la Filosofia dello spirito». «Non oso decidere - aggiungeva retoricamente - se abbia ragione esso [Fraenkel] o l’Einstein con gli altri matematici e fisici della nuova scuola; esso che chiama filosofiche le loro scoperte e filosofi quegli scienziati; quelli che protestano contro l’interpretazione filosofica delle loro escogitazioni».
Croce era nel giusto quando respingeva come priva di senso l’interpretazione soggettivistica della relatività, ma lo faceva solo per difendere la purezza dell’idealismo, visto che considerava i concetti della teoria einsteiniana, come tutti i concetti scientifici, nient’altro che «pseudogiudizi riferiti a una fictio». Del tutto infondato, poi, era l’agnosticismo filosofico che pretendeva di attribuire al padre della relatività: con buona pace di tutti gli idealisti, era stato Einstein - assieme ad altri fisici come Schrödinger, Heisenberg, Dirac - a compiere la vera (e non così tranquilla) rivoluzione filosofica del Novecento.
Croce e Einstein non potevano evidentemente incontrarsi sul terreno della scienza e della filosofia, ma trovarono elementi di intesa e di stima reciproca nel campo della politica e degli ideali civili. I due si conobbero a Berlino nel 1931, scoprendo di condividere lo stesso sentimento di preoccupazione per le sorti dell’Europa. Anni dopo, nel 1940, quando la tragedia della guerra si stava già consumando, contribuirono entrambi a un volume sulla libertà (Freedom: its meaning), edito a New York, che raccoglieva gli interventi di molti altri grandi intellettuali dell’epoca.
Nel 1944, all’indomani della liberazione di Roma, Einstein inviò a Croce una lettera di stima e di incoraggiamento per l’importante ruolo che il filosofo stava svolgendo nella ricostruzione della democrazia italiana (la lettera, assieme alla risposta di Croce, fu pubblicata dapprima in opuscolo e poi nella raccolta crociana Pagine Politiche, Laterza, 1945). «Mi consolo - scriveva il grande fisico - nel pensiero che Ella è ora presa da occupazioni e sentimenti incomparabilmente più importanti, e particolarmente dalla speranza che la sua bella patria sia presto liberata dai malvagi oppressori di fuori e di dentro». E proseguiva: «La filosofia e la ragione medesima sono ben lungi, per un tempo prevedibile, dal diventare guide degli uomini, ed esse resteranno il più bel rifugio degli spiriti eletti; l’unica vera aristocrazia, che non opprime nessuno e in nessuno muove invidia, e di cui anzi quelli che non vi appartengono non riescono neppure a riconoscere l’esistenza».
Croce rispose cordialmente, dicendo di aver dovuto prendere temporaneo commiato da quel mondo spirituale di cui parlava Einstein, per partecipare direttamente alla vita politica e allo sforzo collettivo per la rinascita del paese. La filosofia, osservava, «è un’azione mentale, che apre la via, ma non si arroga di sostituirsi all’azione pratica e morale, che essa può soltanto sollecitare». Alla fine della lettera, si scusava con l’illustre amico per essersi dilungato in ragionamenti: «Naturam expelles furca, tamen usque recurret» («Potrai scacciare la natura con la forca, ma essa ritornerà sempre»), scriveva, citando Orazio e riferendosi alla natura del filosofo, «che distingue e teorizza». La stessa massima, ironicamente, potrebbe applicarsi al suo spiritualismo: scacciata dalla forca del Filosofo, la Natura finisce sempre per tornare.
Cacciari: "Sul concetto di fedeltà, dibattito fra ubriachi"
Il filosofo: "Una piccola grande vergogna, una scelta che fa vomitare. Qualsiasi relazione, una coppia di qualsiasi genere che decide di sposarsi, accede a un rito che ha i suoi valori simbolici e che esiste da decine di migliaia di anni. Non è una questione che si possa liquidare come ha fatto il Parlamento"
di ANNALISA CUZZOCREA (la Repubblica, 25 febbraio 2016)
ROMA - «Una piccola grande vergogna». Questo pensa, Massimo Cacciari, del modo in cui il concetto di fedeltà è finito nel dibattito sulle unioni civili. Svilito del suo significato più profondo. Usato come un dispetto della politica da coloro che hanno voluto sottrarre l’obbligo di fedeltà ai gay che decidono di sposarsi. E come una ripicca insensata da chi ora propone di levarlo anche al matrimonio, ritenendolo desueto e ancorato a un passato che non c’è più. «È la vergogna di un istituto da cui traspare lo spirito del mondo in cui stiamo vivendo. Uno spirito misero, che mi fa orrore», dice il filosofo.
Professor Cacciari, ha senso consentire le unioni gay eliminando l’obbligo di fedeltà?
«È allucinante che si parli di queste cose con tale leggerezza. La fedeltà è un argomento serissimo di cui queste persone neanche capiscono il significato, il termine, l’etimo. Questa cosa che venga considerata un elemento di sacralizzazione del matrimonio per gli eterosessuali e - al contrario - un optional per gli omosessuali che decidono di costituire una famiglia, fa vomitare».
Alcuni parlamentari del Pd propongono che l’obbligo sia tolto anche dalle norme che regolano il matrimonio. Che ne pensa?
«Va bene. Di fronte a puttanate si risponde con battute. Come tra ubriachi. Questo mi sono sembrati i dibattiti di questi giorni al Senato: discussioni tra ubriachi».
Ma non crede che l’obbligo di fedeltà possa essere considerato il retaggio di una mentalità superata, di un mondo diverso da quello di oggi?
«Sono questioni che non riguardano solo le leggi. Quando quelle norme sono state scritte penso che i politici si rendessero conto del significato del termine fedeltà. Qualsiasi relazione, una coppia di qualsiasi genere che decide di sposarsi, accede a un rito che ha i suoi valori simbolici e che esiste da decine di migliaia di anni. Questo è un fatto molto importante che impegna, che responsabilizza. Un Parlamento che si mette a giudicare queste cose con siffatta faciloneria è incomprensibile. Potrei parlare a lungo del significato e del valore della fedeltà, ma avrei bisogno di 50 pagine. Non è un tema che possa essere trattato in questo modo».
Perché non ho votato una legge monca
di Luigi Manconi (il manifesto, 26.02.2016)
Non ho partecipato al voto sulla questione di fiducia, posta dal governo sul disegno di legge Cirinnà. Questo è il motivo. Un provvedimento che aveva come motivo ispiratore il principio di non discriminazione rischia di introdurre, con lo stralcio della norma sulle adozioni, un’illegittima disparità di trattamento. Non tanto e non solo tra coppie eterosessuali e coppie omosessuali, quanto tra figli adottandi di coppie eterosessuali e di coppie omosessuali.
Ritengo, cioè, che dallo stralcio della norma sulle adozioni derivi una legge monca, tale da neutralizzare il valore profondo dell’unione civile e ridurla a mero sistema di garanzie economiche e sociali: un contratto privato. E ciò in cambio della rinuncia al suo riconoscimento giuridico-morale. Il che risulta confermato dalla cancellazione, nel testo approvato, del «dovere di fedeltà», quasi che venisse esclusa la dimensione affettiva del rapporto.
Una disciplina che riconosca le unioni civili tra persone dello stesso sesso avrebbe dovuto rispondere, appunto, al principio di non discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale, come chiarito anche dalla Corte europea dei diritti umani. Questo vincolo impone, tra l’altro, di applicare la disciplina prevista per l’adozione del figlio del partner a prescindere dall’orientamento sessuale di quest’ultimo, valutandone esclusivamente l’idoneità a svolgere la funzione genitoriale e la qualità del legame stabilito con il bambino, a tutela del superiore interesse di quest’ultimo. E’ quanto ha riconosciuto la giurisprudenza, negando che il carattere omosessuale della coppia possa di per sé determinare alcun pregiudizio alla qualità delle relazioni instaurate con il minore e, quindi, rappresentare un elemento ostativo all’applicazione della disciplina generale. Chi abbia instaurato con il minore un legame importante, in virtù della convivenza con l’altro genitore, non può essere considerato, insomma, al pari di qualunque altro estraneo, solo perché omosessuale. La norma stralciata del disegno di legge si limitava a rendere diritto positivo quanto la giurisprudenza prevalente ha già riconosciuto. Espungerla dal testo ha significato demandare ancora una volta alla mutevolezza degli orientamenti giurisprudenziali il riconoscimento del diritto del minore a veder legittimato un rapporto essenziale per la sua crescita, sottraendolo al limbo giuridico che altrimenti lo caratterizzerebbe.
Si è trattato, in altre parole, di una scelta conservatrice, che ha subordinato il superiore interesse del bambino a una presunzione, indimostrata e discriminatoria, di inidoneità della persona omosessuale a crescere un figlio. E non è nemmeno ragionevole ipotizzare che, negando l’adozione coparentale, si ottenga il risultato non voluto di disincentivare la surrogazione per altri. Anche a non distinguere i casi, tutti particolari, della surrogazione per mera gestazione (in cui gli ovuli della madre sono impiantati nell’utero altrui, così da mantenere il legame genetico) e della surrogazione altruistica (che esclude ogni possibile sfruttamento della gestante), si può davvero negare al bimbo già nato da gestazione per altri il diritto al riconoscimento del rapporto con il genitore “sociale”?
Queste alcune delle questioni che la normativa approvata ignora o liquida sbrigativamente e negativamente. Ed è la ragione per la quale che non ho sostenuto il disegno di legge Cirinnà nella sua nuova versione e non ho votato la fiducia. Si aggiunga ciò che in apparenza può sembrare un dettaglio: dal testo, come ho anticipato, è stato espunto il riferimento all’«obbligo di fedeltà» perché, si è detto, assimilerebbe le unioni civili all’istituto del matrimonio.
Qui davvero lo spirito vacilla. È chiaro che emerge un rimosso particolarmente cupo e ingombrante. Un conto sarebbe stato eliminare l’obbligo di fedeltà per qualunque vincolo di coppia, un conto ben diverso è cancellarlo per le sole coppie omosessuali. Comunque la si metta, e qualunque affinità col matrimonio possa paventarsi, dietro c’è un pregiudizio grande come una casa: l’omosessuale è considerato, per natura e vocazione, persona dissoluta («tan’è vero che è omosessuale»), incapace di impegno reciproco, monogamia e, dunque, fedeltà. Un porcellone, insomma (due o più porcelloni) cui attribuire alcune garanzie economiche e sociali, ma non certamente il riconoscimento giuridico-morale di un’unione civile, dotata di pienezza di diritti e di pari dignità.
Non si avverte, in ciò, l’eco di una irriducibile omofobia?
I 2400 anni del filosofo
Aristotele uomo dell’anno
di Dorella Cianci (Il Sole-24 Ore, Domenica, 14.02.2016)
Il 2016 per l’Unesco è l’anno di Aristotele e già si annunciano iniziative nel mondo, fra cui spicca quella dell’Università di Salonicco, che terrà un grande convegno in Maggio. Com’è noto Aristotele è stato ed è un pilastro della cultura occidentale che si è consolidato lungo il Medioevo,soprattutto per l’aspetto etico e religioso, ma anche per tutto il Rinascimento, divenendo un autore canonico nella formazione pedagogica. Nonostante il ritorno di Platone nel Quattrocento, lo Stagirita non perse mai, per i giovani di diverse epoche, il ruolo di richiamo alla scienza, ma anche alle possibilità dell’uomo, poiché aveva inquadrato il suo punto di vista sulla terra, togliendolo esclusivamente a una dimensione celeste.
A differenza di Platone, Aristotele aveva compreso che l’educabilità dell’uomo sente spesso l’esigenza di confrontarsi con il tribunale della realtà, senza dover necessariamente delegare tutto al cielo ed è qui che nasce il concetto del “guardando s’impara” teorizzato nella Poetica, perché - per il filosofo - più degli insegnamenti è opportuno affidarsi alla consuetudine.
Nel volume Aristotele fatto volgare, a cura di David Lines (University of Warwick) e Eugenio Refini (John Hopkins University), pubblicato nella collana diretta da Claudio Ciociola e scaturito da un convegno tenutosi nella Normale di Pisa, è riportato un passo della Prefazione dell’Etica Nicomachea nella tradizione latina medievale di Concetto Marchesi dove si comprende la centralità di Aristotele per la storia: «La storia dell’aristotelismo è ancora da farsi: e sarà una storia grandiosa. Ricercare le vie per cui il pensiero umano si lasciò condurre nella successione di molti secoli è rivelare la genesi, lo sviluppo, la lotta giovanile e il trionfo finale di una civiltà nova che procede alla conquiste del vero» (1904).
Magistrali si rivelano, anche oggi, le parole di Garin sul ritorno dei filosofi antichi inteso come il ritorno di un mondo mai scomparso e resistente ai soprassalti del tempo, allora come oggi. Il ritorno dell’antico non è una curiosità da musealizzare, non è un surplus del sapere da utilizzare a effetto, ma è un corredo genetico che di autore in autore porta alla riconquista delle origini.
Veniamo dunque alla peculiarità di Aristotele, tanto da dover pensare di dedicare proprio a lui l’anno in corso, nonostante i trend interpretativi della società contemporanea ci appaiano molto diversi. Già nel nono, nel dodicesimo e nel tredicesimo secolo, le traduzioni si occuparono sempre più di Aristotele, non di Platone e, pian piano, dall’Aristotele “morale”si passò all’Aristotele “logico” della Poetica, figlio dei tempi moderni, maestro nel vero, inventore di ogni riflessioni scientifica sul teatro teorico di ogni produzione artistica.
L’anno di Aristotele ci invita ad alcune riflessioni incardinate sull’importanza delle azioni più che dei tipi umani (i caratteri). Aristotele è stato il primo a teorizzare l’ineluttabilità: ciò che accade deve accadere. Quando si parla del dolore però per l’uomo, nella tragedia come nella vita, è consigliabile mettersi a guardare, imparando dal dolore (proprio e altrui), ma di certo l’azione non si può bloccare, né si può intervenire sull’evento.
L’ineluttabilità tuttavia non vuol dire lasciarsi trasportare senza agire. L’agire umano è sorretto dal volere, poiché, nella tragedia e nella vita, i personaggi assumono dignità più dell’autore. L’autore lentamente scompare e l’azione dei personaggi è protagonista sulla scena, senza il bisogno di scusarsi delle nefandezze compiute, poiché Aristotele ci insegna che l’uomo può scegliere di compiere azioni terribili, anche quando è stato educato al bene. Come ha affermato Taplin nel 1996 le azioni tragiche non hanno bisogno della «parabasi», come accade nella commedia, cioè le azioni terribili non hanno bisogno di un’apologia, poiché è nella natura umana l’ineluttabilità del eventi peggiori. Siamo personaggi in cerca di autore? No. Siamo personaggi il cui autore è un doppiatore, dove il venticello dell’ineluttabilità ci passa accanto, ma l’azione ha il centro della scena.
Aristotele è il maestro di Pirandello e anche di Borges nelle sue riflessioni sull’autore-doppiatore. Non è un caso che maschera e volto, nel mondo greco, siano la stessa parola, poiché entrambi costituiscono ciò che “offriamo agli altri” tramite la vista. Siamo maschere non “addomesticate” dall’autore, né lo cerchiamo; sappiamo che egli esiste e doppia le nostre stesse azioni. Per capire questo è interessante una miniatura di un codice Vaticano Urbinate 355 dell’Hercules furens di Seneca,conservato nella Biblioteca Vaticana, dove ci sono sopra i personaggi, sotto il coro e in un cantuccio l’autore che legge, anzi doppia ciò che accade in un modo senza «parabasi», in un mondo senza giustificazioni.
Estetica ed economia in Croce
di PAOLO D’ANGELO*
Che cosa mai potranno avere in comune Estetica ed Economia? La scienza che studia «il lato più bello della storia del mondo» (Hegel dixit) e la dismal science? Quella che si occupa della più disinteressata tra le attività umane e quella che ha che fare con i bisogni? Quella che si confronta con la dura necessità e quella che si dedica al superfluo? Nulla o ben poco, vien da pensare. Esse sembrano legate piuttosto, come è stato detto, da «un’ostilità strutturale e reciproca», che le costituisce «l’una come negazione dell’altra», la prima consacrata all’inutile, la seconda al suo opposto[i].
Benedetto Croce non la pensava così. Egli ha infatti apparentato queste due scienze in un saggio un tempo famoso, oggi ben poco conosciuto, mettendone in luce le analogie e scoprendo in esse un «fondo» comune. Lo scritto crociano fu composto nel 1931; apparve in volume, per la prima volta, negli Ultimi saggi del 1935, e successivamente è stato ristampato anche in appendice alla edizione laterziana del Breviario di estetica in collana economica, e si intitola Le due scienze mondane. L’Estetica e l’Economica[ii].
Ma cosa unisce secondo Croce due discipline a tutta prima tanto distanti? In primo luogo si tratta, agli occhi di Croce, di due scienze eminentemente moderne. L’antichità e il Medioevo non le conobbero, o ne conobbero solo accenni, incunaboli, precorrimenti. Come scienze vere e proprie, esse sorsero unicamente nel Settecento, che non è solo il secolo che vide il battesimo e il rigoglio dell’estetica, a partire da Baumgarten (seppure Croce, in proposito, avrebbe citato [dovuto citare, fls] piuttosto Vico), ma anche quello in cui l’economia politica assurse a dignità scientifica, e apparve il primo capolavoro sistematico di teoria economica, la Ricchezza delle nazioni di Adam Smith.
Prima di allora, naturalmente, non è che vita economica, politica e artistica non vi fosse, e neppure che mancasse qualsiasi riflessione sui fenomeni che la caratterizzano. Croce sapeva bene che l’antichità aveva dato importanti trattati di poetica, e qualche accenno di teoria economica e politica; egli era ben consapevole, inoltre, che l’estetica non sorge nel Settecento ex abrupto, ma si costruisce sull’ampia messe di trattati sulla poesia e le arti figurative composti a partire dal Cinquecento, così come l’economia e soprattutto la politica (vedremo che le due attività sono in Croce ricomprese sotto la categoria più generale dell’economico) avevano cominciato a guadagnare attenzione autonoma più o meno nello stesso periodo. Resta il fatto che la costituzione delle due discipline, e soprattutto il riconoscimento filosofico della loro autonoma dignità, è per Croce un acquisto imperituro del secolo dei Lumi.
A unire estetica ed economia è dunque, in prima istanza, un dato negativo, un’assenza: l’assenza di una scienza economica e di una scienza estetica nel mondo antico e in quello medioevale, epoche, scrive Croce nel saggio Inizio, periodi e caratteri della storia dell’estetica, caratterizzate «dal disinteresse verso quelle forme dello spirito che più fortemente si attenevano al mondo, al sensibile, al passionale: ossia, nella sfera pratica, verso la teoria delle vita politica ed economica, e, nella sfera teoretica, appunto verso la teoria della conoscenza sensibile o estetica»[iii].
Certo, Croce sapeva bene che nihil sequitur ex mere negativis, che da due determinazioni negative non può seguire nessuna affermazione, e infatti il saggio del 1931 non conclude affatto circa un carattere comune all’estetica e all’economia a partire dalla loro sostanziale assenza prima del Settecento. Piuttosto - correttamente da un punto di vista logico - vede la modernità delle due scienze come conseguenza di un carattere positivo condiviso da entrambe.
Questo carattere è quello sottolineato e annunciato fin dal titolo: estetica ed economia sono due scienze mondane. E «mondano», vale qui nel senso in cui si parlava un tempo di «sapienza mondana» in opposizione al sapere teologico: significa antitrascendente, antiascetico, profano. Estetica ed economia sono due scienze che mirano, in modo diverso ma in certo senso complementare, alla legittimazione del senso, della sensibilità, del desiderio e, al limite, del piacere.
Lasciamo che sia Croce a spiegare che cosa intende quando afferma che sono entrambe scienze del senso: «Che cosa, in ultima analisi, fanno queste due scienze? Per dirla in breve, esse intendono a giustificare teoricamente, ossia a definire e sistemare dandogli dignità di forma positiva e creativa dello spirito, quel che si chiama il “senso”, e che, oggetto di diffidenza o addirittura di negazione e di esorcismi nel Medioevo, l’età moderna, nella sua opera effettuale, veniva rivendicando. E poiché il “senso” aveva due congiunti ma distinti significati, e designava, da una parte, quel che nel conoscere non è logico e raziocinativo ma sensibile e intuitivo, e, dall’altra, quel che nella pratica non è per sé morale e dettato dal dovere ma semplicemente voluto perché amato, desiderato, utile o piacevole, la giustificazione dottrinale metteva capo, da una parte, alla logica dei sensi o logica poetica, scienza del puro conoscere intuitivo o estetica, e, dall’altra, alla edonistica, alla logica dell’utile, all’Economica nella sua più larga comprensione: che era né più né meno che la teoretica e filosofica “redenzione della carne” come si suol chiamarla, cioè della vita in quanto vita, dell’amore terreno in tutte le sue guise»[iv].
Almeno per quanto riguarda l’estetica, la determinazione di «scienza del senso» appare largamente giustificata, anche solo dal nome della disciplina, che nasce appunto come scientia cognitionis sensitivae. È vero però che questa accezione dell’estetica, oggi tornata ampiamente in auge, può in qualche modo sorprendere in Croce, che di solito viene interpretato come una fautore di un’estetica identificata con la filosofia dell’arte. Qui Croce sembra invece aderire appieno ad un’idea baumgarteniana di estetica come scienza della sensibilità, un’idea che, pur presente nella prima formulazione dell’estetica crociana (quella delle Tesi di estetica del 1900 e poi della grande Estetica del 1902), si era andata poi attenuando negli sviluppi successivi, più marcatamente idealistici, della sua filosofia.
Non per nulla, infatti, nella seconda parte dello scritto del 1931, intitolata Spirto e natura (mentre la prima parte, ricordiamolo, si intitola Spirito e senso) Croce svolge alcune osservazioni che, pur andando nella stessa direzione delle affermazioni appena riportate, si presentano più in linea con la prospettiva filosofica del Croce maturo. Le due scienze mondane, l’estetica e l’economica, precisa qui Croce, aiutano la filosofia nel suo complesso a superare il dualismo corrente tra realtà materiale o naturale e realtà spirituale. Lo fanno in quanto mostrano che ciò che chiamiamo «natura» è anch’essa un’attività spirituale: è la vita passionale, la vita degli impulsi e degli stimoli, che viene elaborata da un lato nella forma espressiva, artistica, dall’altro offre la base su ci viene a esercitarsi la vita morale. «Le due scienze filosofiche, che abbiamo dette precipuamente moderne e che si riferiscono l’una alla praxis nella sua vita dinamica e passionale, e l’altra alle figurazioni della fantasia, apprestano i dati necessari alla soluzione del problema, svelandoci l’oggetto per nient’altro che quella vita passionale, quegli stimoli, quegli impulsi, quel piacere e dolore, quella varia e molteplice commozione, che è ciò che si fa materia della intuizione e della fantasia e, attraverso di essa, della riflessione e del pensiero. La verità, in conseguenza di questa concezione, non sarà, dunque, da definire, come nella scolastica, adaequatio rei et intellectus, giacché la res come res non esiste, ma piuttosto (prendendo, beninteso, in modo metaforico il concetto dell’adeguazione), adaequatio praxeos et intellectus»[v].
Si tratta di un brano ricco di tensioni: per un verso è ancora la concezione famosa, anzi famigerata, della «natura» come costruzione pratico-economica, operata schematizzando l’infinita diversità del reale attraverso i concetti empirici o pseudo-concetti; per un altro, siamo già prossimi a qualcosa che avrà molto peso nell’ultimo Croce, ossia la concezione del «vitale» come fondo da cui si origina tutta la vita spirituale. Ci torneremo alla fine di questo saggio. [...]
*
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Spiace che neanche la sinistra misuri la democrazia con la libertà delle donne
di Susanna Camusso (The Huffington Post, 12/01/2016)
Ho una convinzione irremovibile: la libertà delle donne è metro di misura della democrazia. Non da oggi, non dalla notte di Capodanno, ma da quando ho preso coscienza penso che la libertà non sia uguale a quella degli uomini se le donne sono considerate un corpo di proprietà altrui, sganciato dalla loro testa che... Non esiste.
Convinzione che si rafforza quando nei conflitti, anche in quelli più recenti, ho visto, sentito, capito che si ripetevano azioni di guerra condotte sui corpi delle donne; quando ho seguito con ammirazione le donne di Kobane; quando mi sono indignata perché siamo pronti a onorare le vittime del terrorismo in tutto il mondo, ma poi dimentichiamo le ragazze rapite, convertite a forza, stuprate e uccise da Boko Haram, come fossero altro, diverse dagli altri morti.
La libertà delle donne è metro di misura della democrazia, ha la stessa forza degli altri fondamenti democratici? No, né per la destra, né, spiace dirlo, per la sinistra. Ricordo ancora il dibattito sulla rivoluzione iraniana, quando il ritorno al velo, i limiti all’istruzione, i guardiani o la Shari’a erano considerati conseguenze secondarie ed ininfluenti. Sbagliavamo. Per questo "Colonia", al di là delle ricostruzioni, mi chiama in causa perché di aggressione alla libertà delle donne si tratta. La sostanza non cambia se si è trattato di aggressione organizzata, collettiva, preparata o meno. L’aggressione alle donne è aggressione alla libertà delle donne.
Certo si sprecano in queste ore le classificazioni, atto di guerra, scontro di civiltà, terrorismo e per ognuna possiamo trovare motivazioni per negarle prima di tutto perché ciascuna di quelle pone la l’interpretazione e la giustificazione fuori di noi, della cultura europea. Sottintende che solo ad "altri", di una differente cultura o ancor di più di religione diversa, la libertà delle donne fa orrore e mette paura. Come dire che in Europa le donne sono considerate sempre inviolabili. Purtroppo, milioni di statistiche, fatti, evidenze, racconti, spiegano l’opposto.
Per questo è odioso, strumentale e anche insopportabile che si leghi quanto avvenuto a Colonia direttamente all’immigrazione o ai rifugiati. È salvifico per gli uomini, per l’intera cultura europea, per la finzione di non sapere cosa succede, con infinita frequenza, tra le mura delle nostre case. Anche non ritrovandomi in quelle definizioni penso comunque che sia indispensabile approfondire la riflessione. Lo scopo evidente è la proprietà e la trasformazione in oggetti dei corpi delle donne diffondendo paura. La paura è lo scopo precipuo del terrorismo. Cambia i comportamenti, genera richiesta di sicurezza, protezione e favorisce l’idea che per difendersi si possa limitare la libertà. Paura e modifica dei comportamenti mettono in forse la civiltà, come noi la intendiamo, fondata sulla libertà, esercitabile perché sancita dai principi democratici.
Fu faticoso alzare la voce sugli stupri di piazza Tahrir. Fu difficile perché per molti, troppi, veniva prima l’importanza di una lotta per la democrazia che la libertà e la sicurezza delle donne, senza neppure domandarsi che democrazia possa essere quella che può fare a meno della libertà di metà del mondo Molte domande suscita "Colonia" e molto ancora c’è da riflettere, non nel silenzio ma provando ad aprire un dibattito pubblico sul che fare, su cosa chiediamo a noi stesse e a noi stessi per affermare la piena libertà delle donne e, certo, anche sull’integrazione e sui modelli di accoglienza, su ciò che chiediamo a chi arriva per avere asilo e futuro. Dobbiamo riflettere su come rendere esplicita e inviolabile la libertà delle donne, senza dare per scontato, perché non lo è, che il nostro modo di essere sia rispettoso della loro libertà, della loro autodeterminazione, della loro libertà di scelta. Poi, dobbiamo porci la domanda, non ultima, se la religione, sfera privata per eccellenza, sia parte di questo ragionamento.
Penso che per troppo tempo abbiamo finto che non lo sia, che non ci sia relazione tra laicità dello Stato e libertà delle persone. L’Islam che si fa Stato, che applica la Shari’a (e non mi riferisco solo a Daesh), che vuole determinare la proprietà e la sottomissione delle donne a un uomo, non può più essere un problema di altre, delle donne musulmane prime vittime di questa radicale confessionalizzazione della politica e del governare. Mondi paralleli non esistono, nonostante le politiche d’integrazione siano state spesso questo. È una condizione che riguarda tutti e tutte perché se condividi spazio e tempo non possono esistere isole separate e intangibili.
La lunga strada della laicizzazione e della della secolarizzazione dello Stato e dei governi è un patrimonio - ancora incompiuto - della cultura europea e non solo. Che sia Colonia, Delhi o Raqqa è al centro di un conflitto e di uno scontro che è tuttora in corso e che coinvolge il mondo intero.
Fillide, la donna che volle cavalcare Aristotele
di Donatella Cianci (Il Sole-24 Ore, Domenica, 21/07/2013)
Aristotele ha parlato dell’akrasia, della debolezza della volontà rispetto alla virtù rafforzata dall’etica e probabilmente ne aveva fatto esperienza nella sua quotidianità con le donne. Una leggenda poco nota, forse la più stravagante di tutta l’iconografia aristotelica, lo raffigura anziano e piegato, mentre si fa cavalcare sulle sue spalle da una giovane donna.
La ragazza probabilmente era Fillide, “primadonna” esempio della debolezza filosofica, come ricorda lo studioso Infurna in un volumetto pubblicato per i tipi di Carocci, il quale sottolinea che i primi a parlare di questa vicenda, in Occidente, son stati Jacques de Vitry e Henri d’Andeli, quest’ultimo in un poemetto dei primi del Duecento, nel quale si dice: «Quella donna è bella davvero. Mi piacerebbe vedere come sta addosso. Rendimi questo servizio! Se presto arriverò alla fonte, volentieri ti concederò di baciare all’istante la mia bocca». La donna desiderava “cavalcare” uno dei più importanti filosofi dell’Occidente e ci sarebbe riuscita, probabilmente mentre il giovane Alessandro (poi divenuto Magno) se la spassava a guardare quanto l’anziano maestro avesse perso il senno per quella sua follia d’amore.
Un prezioso e originale volumetto a cura di Marco Infurna (Henri d’Andeli, Il Lai di Aristotele, Carocci, 2005) ricostruiva le origini di questa storiella, forse di origine orientale, poi approdata in area francese. In Italia l’episodio è ricordato da Brunetto Latini nei Livres dou tresor, da Paolo Zoppo e da Enea Silvio Piccolomini, fonti che raramente si menzionano. Nel XIV secolo la leggenda è invece citata da Francesco da Barberino nel suo trattato Del reggimento e dei costumi delle donne.
In ambito iconografico, come mostra un’ampia ricerca non ancora pubblicata, le raffigurazioni sono centinaia, una molto nota è quella che si vede a San Gimignano.
Ma come mai l’episodio ha avuto una tale ricezione? Certamente l’eccitazione e la passione amorosa del severo filosofo colpì i più curiosi, tanto che Bedier, nel 1926, pensò che Aristotele fosse impazzito a causa del suo intenso lavoro. Invece, come ricordato anche ne Il lancio del nano da Armando Massarenti (Come smettere di fumare, Aristotele vs Platone), Aristotele era conscio e tollerante verso la debolezza umana, verso la passione, concetto ribadito in studi degli anni ’90 di ambito anglosassone, che evidenziano una discrepanza fra il livello normativo e l’effettivo agire.
Infurna non fa riferimento alle fonti greche, ma è interessante notare come nella biografia aristotelica spunti il nome di una certa “Erpillide”, che fosse proprio Fillide? Il retore Alcifrone scrisse che lo Stagirita si stava facendo dilapidare il patrimonio da quella ragazzina: «Sei diventato matto Eutidemo, non sai dunque chi è in realtà quel saggio dall’aria così arcigna, che vi espone tutti quei discorsi elevati, ma quanto tempo credi che sia passato da quando mi ha dato il tormento perché vuole uscire con me? Tra l’altro, si fa consumare il patrimonio da Erpillide, la sua favorita di Megara». Dalla donna probabilmente Aristotele ebbe anche un figlio. Il nome torna anche in Eusebio, nel lessico Suda e persino nel biografo dei filosofi, Diogene Laerzio.
Per saperne di più:
Henri d’Andeli, Il Lai di Aristotele, a cura di Marco Infurna, Firenze, Carocci, 2005;
Raffaele di Cesare, Di nuovo sulla leggenda di Aristotele cavalcato: in margine ad una recente edizione del Lai d’Aristote di Henri de Andeli, Milano, Vita e Pensiero, 1956;
Id., Due recenti studi sulla leggenda di Aristotele cavalcato, Milano, Università Cattolica del S. Cuore, 1957;
Laura Dal Prà, Roberto Perini, Artigianelli, Il ciclo pittorico di Castel Pietra al tramonto dell’età cortese, Trento, Castello del Buonconsiglio. Monumenti e collezioni provinciali, 1992;
Le vie del gotico: il Trentino fra Trecento e Quattrocento, a cura di Laura Dal Prà, Ezio Chini, Marina Botteri, Provincia autonoma di Trento, Servizio beni culturali, Ufficio beni storico-artistici, 2002.
di Umberto Curi (Corriere della Sera, 06.11.2015)
Con il titolo Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, nel 1907, compariva presso la casa editrice Laterza un’opera destinata a costituirsi come punto di riferimento obbligato. Autore era Benedetto Croce. La formula impiegata dal pensatore idealista - «ciò che è vivo e ciò che è morto» - era destinata ad essere imitata o parafrasata più volte, perché configurava un «metodo» di analisi estremamente incisivo.
Nella lettura critica di qualunque filosofo (e dunque non solo di Hegel), non si trattava di limitarsi a ricostruirne l’articolazione concettuale. Ciò di cui si sottolineava l’esigenza era la formulazione di un giudizio, teso a cogliere quanto vi fosse ancora di attuale e intramontabile, e quanto vi fosse, invece, di irrimediabilmente caduco. Un vaglio severo ed esigente, quindi, lontano da ogni atteggiamento diplomatico e da ogni servilismo accademico.
Si potrebbe impiegare la stessa fortunata formula per compendiare in estrema sintesi il «taglio» della monumentale opera di Giuseppe Galasso, La memoria, la vita, i valori. Itinerari crociani (a cura di Emma Giammattei, Istituto italiano per gli studi storici, Il Mulino, pp. 551, e 60).
A Croce, nel corso degli ultimi cinquant’anni, Galasso aveva già dedicato un gran numero di saggi. Ma nel testo ora pubblicato, pur essendo programmaticamente escluso ogni intento di delineazione complessiva e unitaria della filosofia crociana, Galasso sembra essere attratto dalla prospettiva di individuare, una volta per tutte, «ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Croce», procedendo dunque anche oltre gli importanti risultati raggiunti mediante i lavori precedenti.
Attraverso le tre parole indicate nel titolo, vengono raccolti e ordinati contributi originariamente comparsi in sedi e anni diversi, ricondotti dall’intelligente lavoro della curatrice ad alcuni assi tematici fondamentali, dalla storiografia alla politica, dall’etica all’estetica. Ne risulta un quadro generale mosso e variegato, dal quale balza fuori una figura irriducibile agli schemi tuttora prevalenti.
A Croce è infatti accaduto qualcosa di simile - fatte le debite differenze - alla sorte toccata a un autore da lui assai valorizzato, Karl Marx. Dopo aver dominato in maniera incontrastata la cultura italiana (e non solo filosofica) per oltre mezzo secolo, ed essere stato il «maestro», sia pure in forma indiretta, di legioni di intellettuali, come il pensatore di Treviri, travolto dal crollo del comunismo, così Croce nel secondo Dopoguerra è stato frettolosamente archiviato, liquidando la dialettica dei distinti, originale riformulazione della dialettica hegeliana, con l’etichetta sarcastica della «filosofia delle quattro parolette».
Nella grande maggioranza dei casi, questo passaggio non ha corrisposto a un capovolgimento dell’impostazione critica, ma semplicemente a una sua riconferma: dalla dogmatica soggezione all’autorità di un protagonista inattaccabile, si è transitati a una liquidazione sommaria, non meno aprioristica del consenso precedentemente espresso. Mentre ciò che ancora è utile e per certi aspetti necessario fare è instaurare un atteggiamento opposto, quale è quello che ci pare di cogliere nell’opera di Galasso: ritornare sulle pagine crociane restando al di fuori di ogni prospettiva apologetica, come di ogni attitudine unilateralmente demolitrice.
Cercando, insomma, con obbiettività e rigore, di individuare davvero quel non poco e non marginale che è ancora «vivo», senza avere ritegno a denunciare insieme ciò che appare irrimediabilmente «morto». Dobbiamo essere grati a Galasso per averci offerto una guida preziosa per inoltrarci in un’esplorazione che si preannuncia potenzialmente ricca di importanti scoperte.
Carlo di Borbone, il re che fece di Napoli una grandissima capitale europea
di Francesco Pipitone (VESUVIO-Live, 04 novembre 2015)
Il 10 Maggio 1734 un appena diciottenne Carlo, figlio di Filippo V di Spagna, entrò trionfante nella città di Napoli rendendola capitale di uno Stato tornato ad essere sovrano e indipendente, che sarà prosperoso e regalerà al mondo intero grandissimi capolavori. Riuscì a conquistare il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia, togliendoli agli austriaci, approfittando di un grosso conflitto europeo, la guerra di successione polacca. Sua madre era Elisabetta Farnese, ragion per cui divenne Duca di Parma e Piacenza ereditando la celebre e ricchissima Collezione Farnese, adesso conservata a Napoli, città alla quale è stata legittimamente donata.
A Palermo fu incoronato come Carlo III di Sicilia, a Napoli avrebbe dovuto essere re con l’appellativo di Carlo VII di Napoli, tuttavia egli rifiutò quella numerazione optando per un semplice “Carlo” senza alcuna numerazione, per sottolineare il fatto di essere re di uno stato indipendente, mentre coi precedenti sovrani non poteva dirsi altrettanto. A causa della giovane età, nei primi anni di regno fu consigliato nelle scelte di governo soprattutto dalla madre, una donna molto forte, istruita, saggia, come d’altra parte era naturale vista l’illustre famiglia alla quale apparteneva, tanto che influenzava persino le decisioni del marito, sovrano di Spagna.
Carlo di Borbone fu un perfetto esempio di quello che si suole definire un “sovrano illuminato”, ossia un monarca che si circondava di intellettuali, artisti e uomini politici che portavano avanti le idee dell’Illuminismo che nel ‘700, detto appunto secolo dei lumi, si diffusero in tutta Europa ponendo in primo piano assoluto l’intelletto umano, contro l’ignoranza e la superstizione.
D’altra parte Napoli era riuscita ad anticipare importanti temi dell’Illuminismo - la cui affermazione è data intorno al 1750 - si pensi ad esempio a Giambattista Vico e a Pietro Giannone, morti rispettivamente nel 1744 e nel 1748, e insieme a Parigi fu la città che più contribuì alla corrente, non limitandosi ad assorbirla come accaduto invece nel resto d’Europa. Gli intellettuali napoletani svolsero dunque un ruolo sociale, oltre che culturale - tra questi, oltre ai già citati, è bene ricordare, tra gli altri, Antonio Genovesi (fondatore della prima cattedra al mondo di Economia Politica), Ferdinando Galiani, Gaetano Filangieri, Antonio Broggia, Francescantonio Grimaldi, Francesco Mario Pagano e altri.
Tra i primi atti di governo di Carlo abbiamo la tassazione dei beni ecclesiastici, i quali, poiché erano numerosissimi grazie a speciali privilegi del passato, permisero di triplicare le entrate del Regno. Grazie al suo passaggio in Toscana mentre si dirigeva nel Mezzogiorno, poté affiancarsi Bernardo Tanucci, che ricoprì vari ruoli fino a divenire primo ministro ed acquistare il titolo nobiliare di marchese. Vero e proprio uomo di fiducia del re, intraprese un programma riformatore amministrativo e finanziario, togliendo poteri e privilegi a nuclei particolari che sfruttavano risorse senza recare un tangibile beneficio allo stato. Fu artefice del Concordato con la Chiesa Cattolica del 1741, in cui si sanciva la supremazia dello stato, e la politica finanziaria ispirata ai più moderni principi apportò grandi risultati all’economia del Regno.
È però di natura artistica, architettonica e archeologica il più grosso segno che Carlo ha lasciato a Napoli e dintorni: a lui si deve l’apertura sistematica degli scavi di Ercolano, Pompei e Stabia; la realizzazione del Real Teatro di San Carlo, che sostituì il San Bartolomeo e fu inaugurato il 4 Novembre, giorno dell’onomastico del re; la Reggia di Portici, la Reggia di Capodimonte e la maestosa Reggia di Caserta, affidata a Luigi Vanvitelli per rivaleggiare con quella di Versailles, e il contestuale Acquedotto Carolino; il Foro Carolino (oggi Piazza Dante) sempre ad opera del Vanvitelli e che vanta alcune sculture di Giuseppe Sanmartino, l’artista del Cristo Velato; il gigantesco Real Albergo dei Poveri dell’architetto Ferdinando Fuga; il rinnovamento e ampliamento di Palazzo Reale; la fondazione della Real Fabbrica di Capodimonte per la produzione della porcellana; la fondazione dell’Accademia di Belle Arti. Grazie a tutto ciò, Napoli divenne una grandissima capitale europea, sicuramente e di gran lunga la più importante città in Italia, ambitissima meta del Gran Tour capace di stregare Goethe e Stendhal.
Carlo si innamorò a prima vista della sua capitale e del suo popolo, che ricambiava quell’amore, tanto che imparò la Lingua Napoletana per diventare egli stesso napoletano, comprendere ed essere vicino alla sua gente. Nel 1759 il trono di Spagna rimase vuoto e proprio Carlo dovette occuparlo, a malincuore e controvoglia. Secondo una leggenda che pare abbia, comunque, un fondamento di verità, al momento di lasciare il suo Regno si tolse dal dito un anello che portava sempre, rinvenuto a Pompei, poiché apparteneva ai napoletani, non a lui.
Ma il mondo non l’ abbiamo inventato noi
di BENIAMINO PLACIDO *
Mettiamoci nei panni di un professore che si trovi proprio all’ inizio dell’ anno scolastico. E’ trepidante. Ne ha più di un motivo. Vorrebbe interessare i suoi studenti anche allo studio di cose antiche, remote. E’ pagato (pochino, in verità) per questo. Ma come forzare la resistenza sempre crescente per tutto ciò che non è nuovo, non è "moderno"? Mi immagino che il trepidante nostro insegnante farà così. Siccome conosce l’ interesse dei ragazzi (anche delle ragazze, ormai) per il gioco del calcio, la prenderà alla lontana.
Comincerà ricordando e raccontando la clamorosa finale del primo campionato mondiale di calcio del dopoguerra. Si disputò al Maracanà di Rio de Janeiro il 16 luglio del 1950. Vide di fronte, dinanzi a duecentomila persone, Uruguay e Brasile. Doveva vincere il Brasile. Certo che doveva. Nessuno ne dubitava. Erano più forti di tutti, i brasiliani. Avevano strapazzato tutte le squadre incontrate. Giocolieri strepitosi, erano capaci di portare avanti la palla anche tenendola sulla punta del naso. Può accadere però che il naso te lo devi soffiare. Il pallone allora casca per terra, gli avversari in agguato se ne impadroniscono e lo sbattono nella tua porta: una, due volte. Risultato finale: Uruguay batte Brasile 2-1.
Il Sudamerica ne fu sconvolto. L’ Europa, stupefatta. Il nostro Gianni Brera scrisse una frase memorabile. Che suonava pressappoco così: "Questi (questi giocatori-giocolieri brasiliani) finché rimarranno convinti di averlo inventato loro, il gioco del calcio, non vinceranno mai un campionato del mondo". I brasiliani, mortificati (quando non si erano suicidati) cominciarono a pensarci. Si convinsero che il gioco del calcio era stato inventato e praticato prima di loro anche da altri - inglesi, austriaci, ungheresi - che avevano messo a punto tecniche e tattiche redditizie. Presero ad imitarli. Presero a vincerli anche loro - una, due, tre volte - i loro mondiali di calcio.
Adesso che ha conquistato l’ interesse della classe, il nostro professore può continuare. Dite la verità, cari ragazzi: sarà perché siamo così moderni, e postmoderni, ma anche noi a volte ingenuamente crediamo di averlo inventato noi, il mondo. Non è esatto. Il mondo, con quello che ha per noi di più interessante: le sue coordinate mentali, è stato inventato "anche" da altri, molto tempo fa.
Per esempio: René Descartes, detto Cartesio. Passa per essere il fondatore del pensiero "moderno". Con il suo "cogito" di cui tutti - non è vero? - abbiamo sentito parlare. Io, povero ometto, non sono sicuro di niente. Nemmeno di me stesso, nemmeno della realtà che mi circonda. Potrebbe essere tutta una illusione. Che disperazione. Di una cosa però sono certo: che sto pensando. E se penso, esisto: "Cogito, ergo sum".
Quale rassicurante, meravigliosa scoperta. Ma non è una scoperta tutta sua, di Cartesio. Prima di lui l’ aveva elaborata e messa in scena il commediografo romano Plauto, vissuto almeno diciotto secoli prima. Un commediografo romano, possibile? Ma i romani non erano quei prosaici soldatacci, buoni soltanto a conquistare il mondo, per riempirlo di acquedotti? Sì, ma anche a porsi il problema esistenziale dell’ identità personale. Chi sono io? Ed esisto per davvero?
Come accade a Sosia, protagonista della commedia plautina Anfitrione. Che è uno schiavo. Torna a casa dalla guerra e davanti alla porta di casa sua gli viene incontro (incredibile! mostruoso!) un essere assolutamente identico a lui. Che pretende per di più di esser lui il vero Sosia (si tratta in realtà del dio Mercurio che staziona da quelle parti per tener mano ad una marachella extraconiugale di Giove). Il povero schiavo Sosia è dapprima perplesso. Poi sconcertato. Poi sconvolto: allora, io non esisto, io non sono. Finché non interviene il pensiero risolutore "Sed quom cogito, equidem certo idem sum qui semper fui". Ma quanto più ci penso, davvero io sono lo stesso che sono sempre stato. Lo so per certo: a questo punto il nostro professore tirerà fuori dalla cartella un libro: Descartes y Plauto di Benjamin Garcia - Hernandez, che è riuscito a far acquistare (ma quanta fatica!) dalla biblioteca della scuola. Un libro spagnolo, recentissimo, dove in 338 pagine si "dimostra" la discendenza dell’ intero sistema filosofico cartesiano dall’ Amphitruo di Tito Maccio Plauto.
Vero è che qualcuno se n’ era già accorto. Se n’ era accorto, e l’ aveva ai suoi tempi segnalato, il nostro Giambattista Vico. Dopo di lui, anche altri. Tra gli altri, il classicista Maurizio Bettini. Il quale, nell’ introduzione all’ Anfitrione (testo latino e traduzione a fronte) pubblicato da Marsilio nel 1991 affronta con rara perizia il personaggio Sosia. Rammenta che ci troviamo di fronte al primo modello di quel "Doppio" che torna poi ininterrottamente nella letteratura europea: in Molière, in Kleist, in Dostoevskij, in Hoffmann, in Stevenson. Persino in un "lied" di Schubert (Der Doppelganger).
Poi, per evitarci di commettere il solito simmetrico errore, di pensare che le cose stanno sempre allo stesso modo, da Romolo e Remo ad oggi, ci mostra anche - con precisione - dove scattano le differenze fra lo schiavo plautino Sosia (in quella situazione sociale, in quella situazione culturale) e le sue reincarnazioni successive. Una cosa comunque è certa. Che il mondo non l’ abbiamo inventato noi. E’ lì da gran tempo. Aspetta solo che ci decidiamo ad osservarlo, con attenzione.
Il Rinascimento perduto, ma non solo
di Mauro Bonazzi, (Il Mulino, 29 luglio 2015) *
Ci sono libri che offrono molto più di quanto il titolo prometta. Così, il lettore che aprisse lo studio di Celenza (Il Rinascimento perduto. La letteratura latina nella cultura italiana del Quattrocento, Carocci, 2014) potrebbe attendersi una dotta disquisizione sulla produzione letteraria in lingua latina tra Quattro e Cinquecento. Che è ovviamente quello che troverebbe. Ma insieme troverà altro ed è questo che fa la differenza: una riflessione complessiva su cosa sono Umanesimo e Rinascimento e su cosa essi significano per noi - o meglio una discussione sulle ragioni del crescente oblio che sta avvolgendo quel periodo della nostra storia, e una spiegazione dei rischi che questo comporta.
Nessuno lo nega: Umanesimo e Rinascimento costituiscono per tutti una pagina gloriosa della storia umana, una vetta dello spirito, che ha prodotto opere meravigliose. Ma una pagina gloriosa di cui, una volta che gli si è tributato l’omaggio di convenienza, ci si dimentica in fretta, presi come si è da problemi più seri. Si potrebbe pensare che questo sia il destino inevitabile che attende tutte le epoche del passato; e magari è così. Ma almeno dovrebbe essere chiaro che questo avviene non per ineluttabili leggi naturali, bensì in conseguenza di decisioni umane, decisioni su cui è giusto riflettere, almeno per chi resista alla mistica dell’hegelismo, per cui quello che accade è giusto per il semplice fatto che accade. Di queste decisioni tratta il libro di Celenza.
Una prima questione riguarda le politiche accademiche. Sintetizzando al massimo, il problema del Rinascimento è in effetti semplice e concreto: questo periodo non ha uno spazio disciplinare ben definito e questo significa che chi ad esso si dedica ha sempre meno possibilità di trovare un posto in università. Il che innesca un circolo vizioso deleterio, dalle conseguenze facilmente prevedibili. Celenza parla del sistema americano, ma le cose da noi non vanno troppo diversamente. Data l’importanza di questo periodo per la nostra storia, quello che sta succedendo dovrebbe dunque suggerire qualche riflessione. Si arriva così al punto più importante.
Il problema saliente non è infatti la denuncia accorata dei rischi a cui va incontro una disciplina accademica. Quello su cui è interessante riflettere sono le ragioni teoriche che stanno alla base di questa tendenza. Il Rinascimento è ormai associato alla storia dell’arte (e ci mancherebbe!), a qualche capolavoro letterario e allo studio di argomenti sempre suggestivi come ad esempio la magia. Ma tutti questi fenomeni, per quanto importanti, erano visti dai contemporanei come sviluppi di un problema più sostanziale. Un problema sostanziale che è la filosofia. Per i contemporanei, la novità del Rinascimento è una novità che ha a che fare con una nuova concezione della filosofia, intesa come un sapere eminentemente pratico e politico, che si contrappone al sapere speculativo della scolastica medievale. Chi, ai giorni nostri, sarebbe d’accordo con questa idea di un Rinascimento eminentemente filosofico? Ma il punto è proprio questo: il problema del Rinascimento è un problema filosofico.
La marginalizzazione dello studio del Rinascimento è infatti il risultato di una storia di lungo corso: dipende da una concezione della filosofia che si è progressivamente imposta nel sistema universitario tedesco nell’Ottocento e che da lì si è diffusa negli altri Paesi.
Naturalmente, i motivi che hanno prodotto un simile risultato sono molteplici, e non vanno sottovalutati. L’importanza che nell’Ottocento veniva accordata alle lingue nazionali cospirava contro il modello rinascimentale che si fondava su una lingua franca come il latino: per chi era convinto che la lingua esprimesse «il genio di un popolo», è evidente che la scelta di scrivere in una lingua estranea aveva di fatto impedito lo sviluppo di una cultura autonoma e capace di parlare dei problemi reali; il mondo degli umanisti è eine Welt des Scheines, aveva scritto il filologo Georg Voigt, «un mondo di apparenze», in cui gli umanisti si muovevano come «meri sofisti, persuasi che il mondo che avevano fondato con il linguaggio fosse il proprio mondo reale» (p. 34). Più in generale, non bisogna poi dimenticare, sottotraccia, il ruolo non indifferente giocato dalla graecomania tipica del mondo tedesco e protestante; anche questo ha giocato contro una valutazione equilibrata della cultura umanistica latina.
Ma la vera ragione della marginalizzazione di Umanesimo e Rinascimento come campo disciplinare autonomo ha a che fare in ultima istanza con la filosofia. L’appiattimento progressivo dei saperi umani sul modello dei saperi scientifici ha imposto con forza crescente una nozione di filosofia intesa come "scienza rigorosa" e teoretica, con la conseguente esclusione di autori e periodi che in questo schema non potevano rientrare. Ecco spiegato il problema del Rinascimento - lo sfasamento di prospettiva tra come noi valutiamo quel periodo e come esso fosse valutato dai suoi protagonisti.
Naturalmente, l’obiettivo di Celenza non è quello di preconizzare un improbabile ritorno ai bei tempi che furono. Piuttosto si tratta di prendere coscienza del fatto che il sapere umano segue un percorso meno lineare, e dunque molto più interessante, di cui vale la pena essere consapevoli. Tra Quattro e Cinquecento la filosofia è esperienza di vita più che sistema dottrinale; s’interessa più alle tecniche argomentative, alla retorica, che ai problemi epistemologici; ha una dimensione pratica, etica e politica, dominante, che la conduce al continuo confronto con lo studio della storia (cfr., ad esempio, pp. 83 e 117).
A partire dall’età moderna a contare sempre di più sarà invece la philosophia naturalis, vale a dire il confronto con la scienza: è una lunga ondata che ancora produce i suoi effetti e che oggi, di fronte ai progressi immensi della ricerca scientifica, rischia di togliere tutto il terreno sotto i piedi della filosofia. Negare l’importanza, storica e teorica, del confronto con le scienze sarebbe ridicolo; ma non meno ridicolo è dimenticarsi che la filosofia non è necessariamente solo questo. L’interesse della polemica di Celenza è in fondo tutta qui: in questo invito a ricordarci che la filosofia è una disciplina più ricca, più ambigua, più complicata, di come spesso si tende a credere. E questo suggerisce qualche considerazione su di noi.
Il contributo che lo studio del pensiero rinascimentale può offrire a una concezione più ricca della filosofia diventa infatti particolarmente significativo proprio se consideriamo il caso italiano. In fondo, se si accetta una nozione teoretica e sistematizzante della filosofia, è forte la tentazione di concludere che non ha molto senso parlare di una filosofia italiana, così come invece si parla di filosofia tedesca, francese, inglese o americana.
Ma non si tratterebbe di un giudizio affrettato? Un giudizio che riflette inconsapevolmente una nozione parziale, troppo ristretta, della filosofia, di cui sarebbe ormai ora di liberarsi? Che la tradizione dell’Italian thought offra strumenti interessanti per pensare la complessità del mondo contemporaneo, proprio in virtù della sua vocazione non sistematica e pratico-politica, è opinione sempre più condivisa, confermata dal successo di numerosi autori italiani all’estero. Quello che vale la pena di ricordare in questa occasione è che è proprio sulla radice rinascimentale che si sono sviluppati questi rampolli moderni.
È una convinzione espressa con chiarezza negli studi recenti di Roberto Esposito, in particolare in Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana del 2010, che trova ora una conferma, dotta e ben articolata, in uno studio recentemente pubblicato in America. In The Other Renaissance. Italian Humanism between Hegel and Heidegger (University of Chiacago Press, 2014) Rocco Rubini (assistant professor all’Università di Chicago) ricostruisce il dibatitto sul Rinascimento che si sviluppò intorno agli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, mostrandone la rilevanza filosofica: non si trattava semplicemente di dibattiti storiografici, ma della rinnovata difesa di una concezione del sapere capace di conseguenze pratiche.
In questo contesto un ruolo di primo piano spetta senza ombra di dubbio a L’umanesimo italiano di Eugenio Garin, inizialmente pubblicato in tedesco nel 1947 presso l’editore Francke di Berna in una collana curata da Ernesto Grassi, insieme - come a farne da contrappunto - alla Lettera sull’umanesimo di Martin Heidegger.
Non si potrebbe dare dimostrazione più plastica di due modi diversi, probabilmente incompatibili, ma entrambi legittimi e interessanti, di intendere la filosofia (e non si potrebbe trovare un esempio più illuminante dell’opposizione culturale tra la Germania “grecomane” e l’Italia rinascimentale e latina).
E se la tradizione metafisica di cui Heidegger, volente o nolente, fa parte è nota, non sarebbe ora di tornare a occuparci anche della tradizione alternativa, secondo cui la filosofia non è più ricerca di verità assolute e intemporali, ma anche «tempo e memoria, e senso della creazione umana e dell’opera terrena e della responsabilità», come scriveva Garin? Integrare Heidegger (ma anche i metafisici analitici contemporanei) con Coluccio Salutati e Leonardo Bruni, i due cancellieri che nella filosofia di Platone e Aristotele avevano trovato un pensiero capace di guidarli nell’amministrazione di Firenze? Perché no, perché non interessarsi anche a una concezione "romana" della filosofia, in una linea di pensiero che dall’umanesimo ci condurrebbe ad esempio all’illuminismo?
* http://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:2919
Isaiah Berlin il filosofo del legno storto
L’archeologo Andrea Carandini dedica un saggio allo studioso liberale seguace di Kant e avversario di certo illuminismo
di Giancarlo Boisetti (la Repubblica, 10.06.2015)
ARCHEOLOGO consacrato dagli scavi e dall’accademia, con una vastissima bibliografia alle spalle, Andrea Carandini si è imbattuto, «tardivamente» - confessa con qualche rimpianto - nel pensiero di Isaiah Berlin, il grande autore russo, di Riga, ebreo, poi inglese, scomparso nel 1997. Il ritardo ha reso l’impatto più forte e forse anche più efficace, come un inatteso giacimento di resti antichi che costringe a ridisegnare le mappe conosciute. Ne è nato un seducente Paesaggio di idee. Tre anni con Isaiah Berlin ( Rubbettino), che è insieme racconto di una scoperta e guida sapiente a un liberalismo aggiornato alle tempeste culturali del nostro tempo.
L’incontro con questo straordinario storico delle idee e con il suo «pluralismo dei valori» costringe chiunque, presto o tardi, a fare e rifare i conti con la propria visione del mondo, specialmente quando si affronta il Berlin di Controcorrente, l’«anti-illuminista», quello che generalmente la cultura liberal, progressista, italiana (e non solo) ha faticato a comprendere a causa dello sconcerto in cui Sir Isaiah amava gettare i cultori dei Lumi, i devoti di Voltaire e Condorcet. Perché proprio lui, nemico dell’utopia sociale perfezionista, kantiano fino in fondo e tenacemente affezionato all’idea kantiana del «legno storto» (del quale l’umanità è fatta, per cui non se ne caverà «mai niente di interamente diritto»), proponeva poi quasi come un suo eroe Johann Georg Hamann, il concittadino di Koenigsberg, che di Kant fu un accanito avversario filosofico? Perché tanto interesse e tanta curiosità per i nemici del razionalismo e per i precursori dello storicismo come Vico, Herder e tutto lo Sturm und Drang?
La verità è che quell’aggettivo, «anti- illuminista», che Berlin indossava con divertimento, va messo tra molte virgolette perché alla fine si rivelerà proprio sbagliato, ovvero una sottile astuzia da scrittore, un artificio narrativo per smascherare il «monismo» degli illuministi, e cioè la convinzione che a tante domande di verità, di giustizia, di bene vi sia poi sempre una unica risposta; la certezza, sottintesa, che il tracciato della ricerca di questa verità, non importa quanto lunga (è la philosophia perennis), sia poi destinata ad avvicinarsi a un unico approdo: una la verità, molti gli errori.
Al contrario con il Machiavelli di Berlin, con il suo Vico e il suo Herder, la scoperta spaesante è quella che diverse sono le verità, in cui diverse culture si imbattono, e sempre uno solo l’errore di considerare la propria un valore esclusivo, «superiore ». Diverse sono le virtù e le idee di bene che diversi popoli e diverse epoche tengono in alta considerazione. E così il conflitto che troviamo dietro ogni angolo non è tra il bene e il male, ma tra diverse interpretazioni, diverse preferenze per i beni, i valori, le virtù più alte.
Carandini ha percorso tutto il cammino che conduce alla scoperta della funzione critica che Berlin attribuisce al Romanticismo e gli ha dedicato tre anni di intenso approfondimento. La professione di «dilettantismo » che l’autore esibisce va presa dunque decisamente come la civetteria di un professionista del lavoro intellettuale, storico oltre che archeologo. Del resto anche Berlin, che nella sua vita si impegnò in varie discipline - critica letteraria, filosofia politica, storia e storia delle idee, per non dire del suo lavoro per l’intelligence britannica nel tempo di guerra - si definiva un dilettante, anche se lasciava spesso un segno più forte di tanti specialisti in varie discipline.
Il fatto è questo volume si offre ora come una lettura ricca e completa del nucleo più caldo del pluralismo culturale berliniano e dei suoi maggiori interpreti (belle pagine sul rapporto Bobbio-Berlin, splendida la stroncatura della polemica anti-Berlin di Zeev Sternhell) ed apre lo sguardo verso gli sviluppi possibili di un liberalismo pluralista e agonistico, riallineato ai tempi e non viziato dal «monismo», eurocentrico, delle sue versioni convenzionali. Il libro orienta anche il lettore tra gli sviluppi del liberalismo post-Berlin di Joseph Raz e John Gray, ma soprattutto ha il merito di incorporare e far sua la narrativa travolgente con cui Berlin «sceneggiava » le sue scoperte, nel paesaggio delle idee, con tutte le conseguenze che esse avevano e avranno.
FILOSOFIE. Che ci tocchi attribuire un significato all’universo è la grande intuizione della scuola di pensiero dell’antica Grecia. Una lezione che torna utile anche oggi, quando dimentichiamo che non bisogna dividere i buoni dai cattivi ma risolvere problemi.
Il linguaggio, la politica e noi.
I sofisti hanno ragione
Il mondo senza un senso assoluto, la verità è frutto di un negoziato
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, La Lettura, 24.05.2015)
I sofisti sono i perdenti della storia. Ne fa fede il termine stesso, «sofista»: da esperto del sapere (sophistes è imparentato con sophia , «sapienza») a poco più che ciarlatano. Sofista, oggi come ieri, è chi gioca con le parole, chi imbastisce ragionamenti capziosi al solo fine di prevalere in una discussione. Il giudizio di Aristotele è tombale: il sapere dei sofisti è un sapere delle apparenze e dunque un’apparenza di sapere. Un sapere illusorio, fatto di parole brillanti ma vuote: fossero vissuti oggi, i sofisti imperverserebbero negli studi televisivi, pronti a sostenere non importa quale tesi, capaci delle più imprevedibili giravolte. Oppure, ma in fondo è la stessa cosa, li troveremmo nelle stanze segrete della politica, impegnati ad ammantare di belle parole i propositi non sempre nobili dei loro capi. Gli altri, le persone per bene e i filosofi, fanno altro, si occupano di problemi seri, e di cose reali.
La questione è però che anche i sofisti, spregiudicati e cialtroni quanto si voglia, si occupano di cose reali. Si occupano delle parole, che sono come un pharmakon , diceva il sofista Gorgia, come una medicina o una droga, sostanze che possono salvare ma anche uccidere. A chi li frequentava i sofisti promettevano che avrebbe imparato a padroneggiare il linguaggio per affermarsi in tutte le situazioni - perché in una società complessa non si prevale con la forza, ma con le parole.
All’inizio degli anni Novanta, sfumate le illusioni del comunismo, da destra a sinistra tutti si dicevano liberali e tutti parlavano di libertà, termini di per sé opachi, aperti a molteplici interpretazioni. Alla fine, di queste parole si è appropriato Silvio Berlusconi: ha impresso loro la rotazione che gli serviva e ha governato vent’anni. Le parole contano e andare a lezione dai sofisti a volte conviene. Ma la lezione dei sofisti non si esaurisce in questa dimensione pratica, per cui importa solo il controllo concreto delle parole. Più interessante è la riflessione sottotraccia.
Detto in sintesi, la filosofia è il grandioso tentativo di trovare il senso della realtà. Ci siamo noi e c’è il mondo: il compito della filosofia è scoprire il senso del mondo, mostrarne la razionalità e offrirci una guida per le nostre azioni. Per i sofisti è tutto più complicato: ci siamo noi e c’è il mondo, certo. Ma è sicuro che ci sia un legame tra noi e il mondo? L’intuizione dei sofisti è tutta qui: è la presa d’atto del rapporto problematico che separa noi e la realtà, i soggetti e gli oggetti. La realtà che ci circonda è sfuggente, non è dotata di senso univoco e tanto meno di un valore assoluto. Non si tratta dunque di estrarre un senso dalla realtà; al contrario si tratta di darle un significato e un valore - un significato e un valore umano. In questo i sofisti fanno propria un’idea di fondo dei greci (ma non dei filosofi greci): che il mondo non è qui per noi, ma che siamo noi a doverci adattare ad esso. E per fare questo lo strumento di cui disponiamo è il logos: i pensieri, i ragionamenti, le parole e i discorsi.
Questo strumento che è il linguaggio può però essere usato bene o male, e in entrambi i casi i sofisti hanno qualcosa da dire. Il linguaggio è usato male quando viene sfruttato per giustificare abitudini e pregiudizi, o ancora peggio rapporti di forza. È la legge delle tre «n»: normale, naturale, normativo. Se fino a qui è stato normale fare così, vuol dire che era naturale fare così; e se era naturale vuol dire che era giusto: normale, dunque naturale, dunque normativo... Da che mondo è mondo, le donne stanno a casa; e se così accade è perché è naturale che sia così. E dunque è giusto che sia così. Ma perché poi? Si noti: i sofisti non hanno tesi da sostenere, ma pregiudizi da smascherare. Magari è giusto che le donne stiano a casa. Ma bisogna dimostrarlo.
L’effetto dirompente di un simile atteggiamento si manifesta soprattutto nel campo della politica. Negli stessi anni dei sofisti, ad Atene aveva trionfato una tragedia di Sofocle, che celebrava il nobile sacrificio di Antigone, disposta a morire pur di rispettare i suoi ideali di giustizia. Ma Antigone, per i sofisti, aveva sbagliato tutto, perché aveva presupposto l’esistenza - ma perché poi? - di una giustizia divina e assoluta, sulla cui base aveva regolato le proprie azioni. La giustizia però non è una divinità: è quanto di più umano vi possa essere, è il risultato di accordi e decisioni umane e fin troppo umane. Peggio: la giustizia è l’utile del più forte, come Trasimaco spiega a Socrate nella Repubblica di Platone. Questa è la realtà dei fatti: la giustizia è il valore che regola i rapporti all’interno di una comunità. Ma essa non è assoluta (vale a dire indipendente dagli e superiore agli uomini) o neutra (vale a dire distaccata e imparziale): è piuttosto il risultato dei rapporti di forza che attraversano una data società. La giustizia è il sistema di regole che chi detiene il potere impone agli altri per tutelare il proprio interesse.
Si pensi al grande scontro ideologico che ha dominato il secolo scorso, quello tra comunismo e liberalismo. Per i comunisti giustizia era un’equa ripartizione dei beni; per i liberali era il trionfo della libertà. Ma perché poi, si chiede il sofista? Non è che i comunisti sostenevano la loro idea perché adottavano il punto di vista del popolo, desideroso di entrare in possesso dei beni dei possidenti? E i liberali non peroravano forse la causa della libertà proprio per tutelare le proprietà di quei possidenti? «A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca», verrebbe voglia di chiosare con un noto politico italiano, che dei sofisti era evidentemente buon lettore.
Questo atteggiamento disincantato potrà spiacere per il suo cinismo ostentato. Il mondo visto con le lenti dei sofisti è in effetti un mondo ambiguo, faticoso, dove tutti hanno qualche ragione da far valere e qualche interesse da difendere.
Potrà non piacere, ma l’esperienza internazionale insegna che conviene tenerne conto: troppo spesso quando scoppiano rivolte o conflitti, in Siria, in Libia, in Ucraina, ci si preoccupa di distinguere tra buoni e cattivi, senza pensare alle conseguenze di quello che si sta facendo, agli interessi e ai rapporti di forza in gioco. In certi casi almeno, i buoni e i cattivi ci sono anche: ma il problema della politica è dividere il mondo tra buoni e cattivi o risolvere i conflitti?
L’intuizione dei sofisti è insomma la presa d’atto della relazione costitutiva tra il linguaggio e la politica. L’uomo è un animale politico e la politica si fa prima di tutto con le parole: il linguaggio è un fatto politico. E questo apre anche a una dimensione più positiva. La lezione dei sofisti è anche un invito a farsi carico delle proprie scelte in modo consapevole, a costruire insieme un mondo in cui ci si possa ritrovare, uscendo dalla logica della forza.
Rinunciare alla pretesa di essere detentori di una verità assoluta non vuol dire essere completamente privi della verità, come se non esistesse. Vuol dire prendere atto che i punti di vista sono tanti e tutti meritano di essere tenuti in considerazione. Quando il sofista Protagora proclamava che «l’uomo è misura di tutte le cose», questo voleva intendere: che ognuno di noi (l’uomo come individuo) ha delle ragioni da far valere e che tutti insieme (l’uomo come umanità) possiamo e dobbiamo trovare un accordo.
Bisogna insomma vigilare affinché le parole rimangano patrimonio condiviso. Non sembra un problema centrale, e invece è fondamentale. Allievo dei sofisti, lo storico Tucidide ha colto meglio di tanti altri che la comunità umana poggia su basi fragili. Sul finire del V secolo avanti Cristo la Grecia fu devastata dalle guerre civili: si assistette a padri che uccidevano i figli e a figli che uccidevano i padri, a supplici che venivano sterminati nei templi in cui si erano rifugiati, al sovvertimento di qualunque regola morale e civile. Ma davvero sconvolgente, riferisce Tucidide, è quello che era successo alle parole: avevano perso un significato condiviso, venivano usate per fini privati, per giustificare non importa quali azioni. La guerra civile, la riduzione degli uomini a uno stato bestiale, passa anche per la manipolazione delle parole.
Sono episodi lontani, che difficilmente si ripeteranno? Eppure Victor Klemperer, un filologo tedesco, ha osservato che proprio l’appropriazione delle parole aveva spianato il cammino di Adolf Hitler: «Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico».
Ancora più eloquenti sono le parole di una rifugiata del Ruanda: «Devo precisare un’osservazione importante: il genocidio ha cambiato certe parole nella lingua dei rifugiati, e ha decisamente fatto sparire il senso di altre parole, e colui che ascolta deve essere attento a queste perturbazioni di senso».
In Italia, fortunatamente, siamo lontani da queste aberrazioni. Ma il rischio che le parole si consumino, che perdano un significato condiviso non è per niente remoto: cosa significa oggi «democrazia»? E «giustizia» o «libertà»? Si badi: le parole sono sempre instabili e i significati sono sempre il risultato di una negoziazione. Il problema è quando si perde coscienza di questa instabilità. Rileggere quei cattivi maestri che sono stati i sofisti potrà forse servire a evitare di ricadere in questo errore.
Primo Levi
«Se io fossi Dio» ad Auschwitz
Jean-Claude Milner analizza le tredici righe di «Se questo è un uomo» sulla preghiera di Kuhn, l’ebreo devoto: e le cartesiane ragioni per cui il chimico rigettò quella preghiera
di Sergio Luzzatto (Il Sole-24 Ore - Domenica, 25.1.15)
Tutti i lettori dell’opera di Primo Levi sanno quanto lo scrittore torinese fosse capace di cogliere la potenza del dettaglio. Quanto fosse abile nel riconoscere e nel soppesare anche la più piccola dose di umana o disumana materia dissolta nella massa molare del mondo. Era questa un’arte che il giovane chimico aveva applicato già negli inferi di Auschwitz, e di cui aveva fatto immediato tesoro di ritorno fra i vivi. L’esperienza restituita in Se questo è un uomo va considerata anche un «esperimento mentale» (come lo ha definito Massimo Bucciantini) volto all’identificazione e alla pesatura degli ingredienti costitutivi del campo di sterminio. La narrazione di Se questo è un uomo potrebbe essere letta, al limite, come niente più che un’implacata e implacabile collezione di dettagli antropologici.
Così, giunge opportuna l’inclusione di Levi nel libro che un linguista e filosofo francese, Jean-Claude Milner, ha titolato La puissance du détail. Un intero capitolo del volume è dedicato a un singolo passo di Se questo è un uomo: la mezza pagina di chiusura del capitolo dove si racconta di una «selezione» ad Auschwitz-Monowitz. Le tredici righe di «Ottobre 1944» in cui Levi introduce e congeda - fra gli scampati della sua baracca alla selezione per le camere a gas - la figura di Kuhn.
Secondo Milner queste tredici righe contengono, nella forma breve tipica di Se questo è un uomo, l’alfa e l’omega del giudizio di Primo Levi sulla metafisica dopo Auschwitz. E li contengono a partire da una riflessione che risulta modellata sulle Meditazioni di Cartesio: una meditazione di fine giornata, nel silenzio propizio alla contemplazione di Dio, con il carattere di un ragionamento sillogistico, e con l’assunzione di responsabilità consistente nel ragionare di cose ultime dicendo «io». Senonché l’esito della meditazione di Levi è un Cogito rovesciato. Ha la forza (forza folle, tiene a precisare Milner) di uno sputo metafisico.
Occorrerà - prima o poi - rileggere tutto Primo Levi alla luce dei suoi pronomi personali: cercare un qualche sistema periodico nell’uso leviano dell’«io», del «tu», del «noi», del «voi»... E chi si metterà all’opera dovrà fare i conti, giocoforza, con la mezza pagina sul vecchio Kuhn e con quel periodo ipotetico, «Se io fossi Dio»: con l’impressionante occorrenza di un io che, da Dio consapevole della Soluzione finale, sputa a terra la preghiera dell’ebreo salvato. Per il momento, bisogna contentarsi di seguire Jean-Claude Milner, la sua lettura di tredici righe fra le più impegnative che Levi abbia mai scritto.
Il Dio verso il quale Kuhn eleva dondolante la sua preghiera, per averlo salvato dalla selezione e magari perché torni a salvarlo una prossima volta, corrisponde al prototipo stesso del genio maligno di Cartesio. Il campo di sterminio esclude infatti, ipso facto, un cartesiano «dubbio radicale». Al di qua di ogni possibile dubbio filosofico, Auschwitz esiste. E siccome Auschwitz esiste, il Dio d’Israele non può esistere altro che come grande ingannatore. Kuhn è pazzo a pregare un Dio simile. E Kuhn è cieco a non vedere Beppo il greco. Il quale, nell’interpretazione di Milner, non corrisponde soltanto al prototipo del «sommerso»: l’uomo in dissolvimento, il «mussulmano» che attende inerte di andare in gas. Beppo il greco vale almeno altrettanto da incarnazione stoica, ventenne figura della saggezza.
Nessuno più lontano di Beppo dagli altri greci deportati ad Auschwitz che l’autore di Se questo è un uomo ha evocato, in un capitolo precedente, con toni da epopea: «Ammirevoli e terribili ebrei Saloniki tenaci, ladri, saggi, feroci e solidali, così determinati a vivere e così spietati avversari nella lotta per la vita». Nella sua immobilità di morituro, Beppo ha la capacità di sopportazione e di astensione di Epitteto. E oltreché una figura stoica, Milner riconosce in lui una figura platonica. Coricato, muto, lo sguardo fisso, Beppo è il Socrate del Fedone. Ma con una differenza decisiva. Ad Atene, la morte di Socrate realizza il compimento della filosofia. Ad Auschwitz, la morte di Beppo nulla garantisce in materia di immortalità dell’anima. «Beppo figura la saggezza amputata del logos».
L’animata preghiera di Kuhn rimanda a una fede ormai possibile unicamente come fede cieca e ipocrita, farisaica: mentre la rassegnata inerzia di Beppo, la sua saggezza ormai priva di pensiero e di linguaggio, conserva almeno la dignità della ragione classica. E anche perciò Levi scrive Se questo è un uomo, non Se questo è un ebreo: perché «lo sterminio colpisce l’umanità attraverso gli ebrei; ma il punto d’umanità che lo sterminio raggiunge attraverso gli ebrei e negli ebrei prende immediatamente il nome di un greco». Insomma: il poco o nulla che resta della ragione di Atene rivela a Levi, nella baracca di Monowitz, tutta la follia di Gerusalemme. Kuhn è pazzo non perché prega, ma perché prega da ebreo. Beppo è saggio non perché attende la morte, ma perché la attende da greco.
Altrettante impressioni e conclusioni - queste di Jean-Claude Milner - che meriteranno di essere attentamente valutate, ed eventualmente criticate da lettori e cultori di Primo Levi. Qui resta da sottolineare l’interesse di una lettura “cartesiana” dell’episodio di Kuhn alla luce di un passo che Milner curiosamente rinuncia a citare, mentre dall’edizione del 1958 se ne sta lì, bene in vista se non ben chiaro, nella primissima pagina di testo di Se questo è un uomo: la descrizione che Levi ha proposto del suo mondo mentale di prima della deportazione, un mondo «popolato da civili fantasmi cartesiani».
Nel 1976, Levi avrebbe spiegato come i suoi fantasmi cartesiani d’ante-Auschwitz andassero intesi quali «sogni e propositi forse mal realizzabili, ma non confusi, bensì razionali e logici». È una definizione che perfettamente si attaglia - in fondo - anche al suo Cogito rovesciato di Monowitz. Al vertiginoso suo periodo ipotetico, «Se io fossi Dio», e al salivare suo rigetto della preghiera di Kuhn.
CARLO LEVI: UN ECCEZIONALE INTERPRETE DI G. B. VICO. Una nota
ALLA LUCE del nostro tempestoso presente storico (e della "barbarie ritornata"), non è male (mia opinione e mio invito) rileggere il ricco e complesso lavoro sociologico-politico (altro che "romanzo"!) di Carlo Levi, “Cristo si è fermato ad Eboli”, e soffermarsi - in particolare - sul passaggio relativo alla “Ditta Renzi - Torino”, alle tasse, e alle capre (pp. 40-42, Einaudi, Torino 2010 - in rete).
Il ’passaggio’ offre un ‘cortocircuito’ tra ieri (1935) e oggi (2014), una sintesi eccezionale della "cecità" di lunga durata delle classi "dirigenti" del nostro Paese, e ricorda a tutti e a tutte come e quanto, ieri come oggi, ” (...) quello che noi chiamiamo questione meridionale non è altro che il problema dello Stato (...) (p. 220, cit.). E non solo: "È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010)!
Il discorso è di lunga durata e investe le strutture stesse dellla cultura europea e planetaria: nel Cristo si è fermato a Eboli, c’è "la scoperta prima di un mondo nascente e delle sue dimensioni, e del rapporto di amore che solo rende possibile la conoscenza" (C. Levi, Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia, "Introduzione" [1955], Einaudi, Torino 1978).
A mio parere, il lavoro (non solo questo! Si veda almeno anche "Paura della libertà", scritto in Francia nel 1939 - dopo il confino in Basilicata - e pubblicato nel 1946, dopo la scrittura nel 1942-1943 e la pubblicazione nel 1945 del suo capolavoro) di Carlo Levi, è ancora tutto da leggere e da rimeditare - assolutamente; è nell’ottica di una visione inaudita e inedita della storia, per molti versi (per intendersi e orientarsi) vicina a Giambattista Vico* e a Walter Benjamin*.
Al di là dei vari storicismi idealistici o materialistici, con grande consapevolezza filosofica e teologico-politica, in un passaggio sul nodo della civiltà contadina e delle sue guerre ("le sue guerre nazionali") e della storia "di quello che non si svolge nel tempo: la sola storia di quello che è eterno e immutabile, una mitologia", così scrive, contro lo Stato Etico degli hegeliani di Napoli (come di Torino):
"La prima di esse [delle guerre nazionali] è quella di Enea. Una storia mitologica deve avere delle fonti mitologiche; e in questo senso, Virgilio è un grande storico. I conquistatori fenici, che venivano da Troia, portavano con sé tutti i valori opposti a quelli della antica civiltà contadina. Portavano la religione e lo Stato, la religione dello Stato. (...) Poi venne Roma, e perfezionò la teocrazia statale e militare dei suoi fondatori troiani, che, vincitori, avevano però dovuto accogliere la lingua e il costume dei vinti. E Roma si urtò anch’essa nella difesa contadina, e la lunga serie delle guerre italiche fu il più duro ostacolo al suo cammino"; e, ancora, fino ad illuminare il suo presente storico, scrive con lucidità e spirito critico: "(...) La quarta guerra nazionale dei contadini è il brigantaggio. Anche qui, l’umile Italia storicamente aveva torto, e doveva perdere. Non aveva armi forgiate da Vulcano, né cannoni, come l’altra Italia. E non aveva dèi: che cosa poteva fare una povera Madonna dal viso nero contro lo Stato Etico degli hegeliani di Napoli" (C. Levi, Cristo..., cit., pp. 123-125).
Detto diversamente, egli ha ben compreso - come scrive all’editore Einaudi nel 1963 - non solo "la Lucania che è in ciascuno di noi", ma anche "tutte le Lucanie di ogni angolo della terra". Nato a Torino (29 novembre 1902) e morto a Roma (4 gennaio 1975), ora riposa nel cimitero di Aliano, nella sua Terra. A suo onore e memoria, possono valere (in un senso molto prossimo) le stesse parole del "Finnegans Wake" di Joyce, riferite a Giambattista Vico (che pure aveva vissuto molti anni, a Vatolla, ai margini della grande foresta lucana, dell’"ingens sylva"): "Prima che vi fosse un uomo in Irlanda, c’era un lord in Lucania".
Come Vico e con Vico, Carlo Levi aveva capito da dove ripartire, per affrontare da esseri umani la "Paura della libertà" (cfr. Carlo Levi, Scritti politici, cit., pp. 132-209) . Una lettura meditata e criticamente assimilata della vichiana "Scienza Nuova" (a partire da quella del 1725, "che tutta incominciammo - come scrive lo stesso Vico - da quel motto: A Iove principium musae, ed ora la chiudiamo con l’altra parte: Iovis omnia plena") è alla base di questo suo primo lavoro (ripetiamo: scritto dopo il confino a Grassano e ad Aliano, e prima della scrittura - cinque anni dopo - di "Cristo si è fermato ad Eboli").
Il suo omaggio a Vico non si riduce e non è riducibile solo alle allusioni già evidenti nei titoli dei capitoli (Ab Jove principium, Sacrificio, Amor sacro e profano, Schiavitù, Le muse, Sangue, Massa, Storia sacra):
"Ab Jove principium. E anche noi dovremmo cominciare di là, da quel punto inesistente d cui nasce ogni cosa: ma il nostro Giove non dovremo cercarlo nei cieli, ma là dove sta, nei luoghi più terrestri e oscuri, negli abissi umidi e materni. Esso assomiglia assai più a un verme che a un’aquila; ma troverà ben presto le sue aquile araldiche, e le predilegerà su ogni altro balcone o insegna, perché questo gli consentirà di non essere divorato, una volta per sempre, dalle aquile vere.
Fuor di metafora, non potremo intendere nulla di umano se non partiremo dal senso del sacro: il più ambiguo e profondo e doppio e vermaquilino dei sensi, l’oscura continua negazione della libertà e dell’arte, e, insieme, per contrasto, il generatore continuo della libertà e dell’arte. Né potremo intendere nulla di sociale se non partiremo dal senso del religioso, questo figlio poco rispettoso del sacro" (C. Levi, Scritti politici, cit., p. 132);
Come vincere la paura della libertà, come convivere con la ingens sylva? L’incredibile è che, nel 1939, quando "un vento di morte e di oscura religione sconvolgeva gli antichi stati d’Europa" e "la bandiera tedesca fu alzata sulla torre Eiffel", Giambattista Vico è a fianco di Carlo Levi, come nel 1944, nel Lager di Wietzendorf, è a fianco di Enzo Paci - e ha aiutato entrambi a non perdere la strada e a riprendere il cammino della giustizia e della libertà.
Nel gennaio 1946, nella "Prefazione alla prima edizione" di Paura della libertà, Carlo Levi così parla della sua "confessione" (definita poi "breve poema", nel 1964, e "poema filosofico" nel 1971): "Quello che avevo scritto era all’incirca la parte introduttiva dell’opera progettata, la prefazione: ma tutti gli svolgimenti particolari che avevo avuto in animo di fare vi erano impliciti (...) mi parve che il libro contenesse già tutto quello che intendevo dire, e che non occorresse più squadernarlo esplicitamente. C’era una teoria del nazismo, anche se il nazismo non è una sola volta chiamato per nome; c’era una teoria dello Stato e della libertà; c’era una estetica, una teoria della religione e del peccato, ecc. Il libro rimase qual era, senza seguito. Lo portai con me nel ’41, di nascosto in Italia; e molti amici mi consigliarono di stamparlo subito (...) non ho cambiato neppure una parola della stesura primitiva (...) mi è parso che convenisse lasciare a questo piccolo libro (Così diverso dal mio Cristo si è fermato a Eboli, scritto cinque anni dopo) il suo tempo, che è forse il suo valore di espressione" (C. Levi, Scritti politici, cit ., pp. 218-219).
Federico La Sala
Giambattista Vico/1
Storia dei fatti umani
Un nuovo volume con tutte le edizioni della «Scienza nuova» opera a cui il filosofo napoletano lavorò per tutta la sua vita
di Maria Bettetini (Il Sole Domenica, 14.09.2014)
Con un curriculum vitae così, Giambattista Vico non potrebbe certo oggi aspirare alla carica di Ministro o Rettore, forse nemmeno Preside. Nato a Napoli in via San Biagio dei Librai il 23 giugno del 1668, figlio appunto di un libraio, quest’uomo di genio, oggetto negli ultimi tempi di attenzioni interdisciplinari, a sette anni cadde e si fratturò il cranio. Le previsioni mediche lo volevano morto o stolido, ma riuscì a seguire la scuola di grammatica dei Gesuiti. Presto però la abbandonò, cercò di studiare da solo, sconfitto tornò dai Gesuiti, che di nuovo lasciò annoiato per studiare Suarez per conto suo. Inutile dire che si iscrisse all’università da privatista e si laureò in giurisprudenza, pur nutrendo interessi soprattutto filosofici. Il giovane Vico si dedicò a studi sempre privati, per vivere insegnò, tentò senza riuscire di avere un posto come segretario in Municipio, si ammalò di tisi, ottenne per un pelo una cattedra di retorica, ma perse il concorso per quella di diritto, a cui teneva tanto.
Gianbattista Vico deve mantenere padre e fratelli, ai quali dal 1699 si aggiungono la moglie Caterina e via via otto figlioli. Scrive su commissione, insegna, pubblica. Alcuni suoi testi vanno perduti, altri sono di tono celebrativo, ma la mole di opere scientifiche a noi giunte è davvero imponente. Fisica, metafisica, filosofia del diritto, i suoi autori di riferimento sono Platone (e i Neoplatonici), Tacito, Bacone, Grozio (da lui chiamato «Ugon capo»), è evidente l’attenzione per il rapporto tra civiltà e presenza divina, vita sociale e valore della storia.
Dopo l’ennesimo concorso universitario andato male, nel 1723, sorpreso e amareggiato, Vico dedica alla scrittura tutte le energie che il mantenimento della famiglia gli lascia. Esce così nel 1725 la prima versione dei Principj di una Scienza Nuova intorno alla natura delle nazioni o più brevemente la Scienza nuova. A quest’era Vico lavorò per tutto il corso della vita, con un’edizione del 1730 integralmente riscritta, anche a seguito di critiche ricevute, e infine quella postuma, rivista del tutto se pur senza grandi modifiche, pubblicata nel 1744, a pochi mesi dalla sua morte, dal figlio Gennaro cui aveva già lasciato il posto di insegnante di retorica. Anche questa sorta di cattedra in eredità fa comprendere come fino all’ultimo Vico dovette occuparsi della famiglia, colpita tra l’altro negli anni da malattie e disgrazie.
Ora le tre edizioni della Scienza nuova sono disponibili grazie a quella che oggi si definisce sezione napoletana dell’Istituto per la storia del pensiero filosofico e scientifico moderno, già Centro di studi vichiani. Fu Pietro Piovani, illustre storico della filosofia, a incoraggiare un’edizione critica delle opere di Vico, e in trent’anni sono stati pubblicati, da suoi allievi e da allievi loro, nove volumi del Vico italiano e latino, tra i quali le edizioni della Scienza Nuova: quella del 1730, a cura di Fulvio Tessitore e Manuela Sanna e quella del 1744 a cura di Paolo Cristofolini e sempre Manuela Sanna. Non c’è ancora una edizione critica della Scienza del 1725 e finché non sarà pronta si propone ancora quella di Fausto Nicolini, del quale si conoscono i tentativi di normalizzazione, e quindi di mancato rispetto, del testo vichiano.
Nel frattempo i curatori hanno presentato una doppia uscita editoriale, per Bompiani le tre edizioni in un unico volume, con in nota solo le citazioni delle fonti dirette, introdotte da un saggio di carattere teoretico di Vincenzo Vitiello.
In volumi unici, invece, le singole edizioni della Scienza, ultima quella del 1744 per le Edizioni di Storia e Letteratura, con commenti e apparati più specialistici. Insomma, un librone con i tre testi alla portata del pubblico colto, i volumi separati per i professionisti della storia della filosofia. Tutti comunque, anche i non specialisti, concorderanno nel trovare la prosa di Vico piana e comprensibile, penalizzata da quelli che a noi suonano arcaismi, ma invece erano parte del parlare quotidiano in lingua volgare. Spesso oggi si utilizzano invece gli arcaismi per vezzo, come fiori che dovrebbero innalzare il tono di discorsi già complessi.
Veniamo dunque alla Scienza di Vico, definita anche storia ideale eterna o storia delle umane idee o filosofia dell’autorità: perché «nuova»? Perché, contrapponendosi a Cartesio, Spinoza, Leibniz, Vico intende come principio della conoscenze non il lavoro di un intelletto astratto e purificato, ma i fatti così come si presentano a noi nel presente e nel passato. Il primo «fatto» che appare a ogni umano è il desiderio di vivere eternamente, che rinvia a una forza superiore alla natura, quel Dio che non occorre porre altrimenti in discussione. La religione non è dunque campo della fede, ma principio di spiegazione razionale dell’inizio della storia.
Una storia che inizia dal «sapere volgare» e non dalle pensate filosofiche, «la sapienza volgare del genere umano, la quale cominciò dalle religioni e dalle leggi, e si perfezionò e si compiè con le scienze con le discipline e con le arti». Sintetizzerà Foscolo qualche decennio più tardi: «Dal dì che nozze e tribunali ed are / Dier alle umane belve esser pietose / Di sè stesse e d’altrui, toglieano i vivi / All’etere maligno».
Quel giorno per Vico è l’inizio della Storia, che viene poi raccontata nei libri seguenti come un indistinto procedere di fatti e di pensieri, di miti, di arti. Come in una seconda Città di Dio, gli eventi storici sono ricollocati secondo un ordine biblico e filologico, a partire dal Diluvio Universale, scanditi nelle tre età, degli dei, degli eroi, degli uomini. Si affidano agli dei (plurale) gli uomini che non sanno ancora usare della ragione e ascoltano i sensi, onorano eroi gli uomini che imparano a usare della forza, sanno agire per ragion di Stato, usano della fantasia come di una forza conoscitiva e credono per certo il vero perché dotati di quel «senso comune» che permette di trovare gli stessi desideri, vizi e virtù in ogni umano. Gli uomini entrano poi nell’età degli uomini quando infine sanno darsi delle leggi e dei tribunali, e sanno indagare il vero con la ragione.
I filosofi? Non sempre utili, per esempio Talete, il primo, «cominciò da un principio troppo sciapito - dall’acqua - forse perché aveva osservato con l’acqua crescer le zucche». Che insolente questo Vico. I posteri l’avranno anche riconosciuto, ma con questo atteggiamento e questo cv, lo dicevamo, oggi come allora sarebbe bocciato ai concorsi.
Giambattista Vico/2
È la legge che ci rende civili
Nella concezione vichiana il legislatore deve riflettere il retroterra culturale di un popolo, difendere gli interessi comunitari e l’utilità sociale
di Gennaro Sangiuliano (Il Sole Domenica, 14.09.14)
Per Giambattista Vico, la legge, o meglio l’ordinamento giuridico, che presiede uno Stato e un popolo, è il metro capace di misurare l’avanzamento della civiltà umana. Lo dimostra chiaramente nella sua opera fondamentale La Scienza Nuova laddove ripercorre gli snodi di alcune legislazioni fondamentali dell’antichità attraverso le quali è possibile operare una hermeneutica historiae. La Legge Publilia, ad esempio, «un punto massimo d’istoria romana» segnò il passaggio dalla repubblica aristocratica a quella popolare.
Laureato in legge, profondo conoscitore dei giuristi francesi e olandesi, con una breve esperienza nell’avvocatura, Vico, indaga a fondo sul rapporto fra legge e cultura, perché la legislazione non è altro che l’organizzazione normativa di una comunità e ne riflette il sentire comune, il retroterra culturale. Tema decisivo, non privo di implicazioni delicate se si pensa ai pericoli di una cultura egemone che vuole imporre i suoi postulati attraverso la legge.
Argomento rimasto intatto nel suo valore del quale si occupano i Saggi scelti - Giambattista Vico a Vatolla (Edizioni Palazzo Vargas, pagg. 144, € 10,00) curati e introdotti da Gianpiero Paolo Cirillo che affronta il rapporto fra politica, governo e amministrazione nella formazione dello Stato moderno. Il tema del delicato rapporto fra cultura e diritto, e quindi delle relazioni fra diritto e filosofia, trova in Vico una soluzione che influenzerà a lungo tutto il pensiero a lui successivo.
L’originalità è nell’aver affermato la storicità del diritto, nell’inquadrare il fatto come accadimento storico che diventa fatto normativo. Gli istituti giuridici devono corrispondere agli interessi comunitari che li hanno espressi e mantenere l’utilità sociale.
Il giurista nella concezione di Vico deve elaborare una dimensione assiologica tenendo presente il trascendentale storico di una comunità, individuare «l’intelligenza dei valori» di un popolo, impostazione poi rimarcata da Giovanni Gentile nei suoi studi vichiani. «Quando il giurista si accosta al tema della cultura, lo fa con una sorta di complesso di inferiorità, che forse gli deriva dalla consapevolezza che, anche nell’ipotesi in cui egli crei una teoria giuridica del tutto nuova e appagante, non ci si trovi di fronte ad un atto creativo in senso proprio», avverte Cirillo, che chiarisce come il «rapporto tra il giurista e l’uomo di cultura è un rapporto servente». Ma il giurista può essere esso stesso persona colta capace di ricercare quel «senso comune delle Nazioni», la «primitiva sapienza dei popoli», elementi che Vico ritiene punto di partenza dell’attività del legislatore e di quella interpretativa. Nell’opera De uno universi juris principio et fine uno ricorda, quindi, come la conoscenza della storia sia fondamentale per la produzione della legge.
Del resto, la Scienza Nuova è "nuova" perché apre al riconoscimento della storia delle idee, dei costumi e degli usi dei popoli puntando ad armonizzare senso e ragione. Il sorgere della legge, disegnato dal diritto dei filosofi, è il rinvenimento di questo ordine che ha tratti metafisici capaci di coniugarsi con la verità del fatto.
L’attualità di Vico è anche nella determinazione del delicato rapporto fra ordinamenti nazionali e organismi sovranazionali diventati, in alcuni casi invadenti. «Il problema da affrontare oggi - scrive Cirillo - è quello di individuare degli strumenti con cui i governi e le burocrazie interne possano fronteggiare lo strapotere che le comunità internazionali esercitano attraverso la tecnicizzazione delle norme».
In una lettera scritta nel 1787 da Napoli Wolfgang Goethe definì Giambattista Vico l’Altvater della sapienza, intuendo il debito che la cultura germanica avrebbe contratto con la filosofia vichiana.
Prima ancora che un grande filosofo, l’autore della Scienza Nuova fu un giurista a tutto tondo, un teorico del diritto che rifiuta una legge universale ed astratta in nome di una legge profondamente ancorata alla cultura di un popolo.
L’amara riflessione di un fisico teorico sulla scuola e sui saperi in Italia
Sui gravi deficit accumulati. E sul fatto che le discipline umanistiche prevalgano sulle altre
di Carlo Rovelli (la Repubblica, 09.07.2014)
PENSO che la scuola italiana sia fra le migliori del mondo. Paradossalmente, penso lo sia soprattutto per chi vuole dedicarsi alla scienza, come ho fatto io. Non per caso giovani italiani brillano in tutti i migliori centri di ricerca del mondo. Hanno qualcosa che altri paesi fanno fatica a offrire: non solo fantasia e creatività, ma soprattutto un’ampia, solida e profonda cultura. Sono convinto che studiare Alceo, Kant e Michelangelo offra a uno scienziato strumenti di pensiero più acuminati che non passare ore a calcolare integrali, come fanno i ragazzi delle scuole d’élite di Parigi.
Sapere, conoscenza, intelligenza, formano un vasto complesso dove ogni parte si nutre di ogni altra. La nostra intelligenza del mondo si basa su tutto ciò insieme. Questo insieme è la cultura. Non voglio dire che per fare buona scienza sia strettamente necessario avere tradotto versi di Omero dal greco, o leggere Shakespeare, però penso che aiuti molto. Mi sono trovato spesso a lavorare con colleghi di formazione assai diversa.
Uno dei miei collaboratori (e amici) più stretti ha studiato nei college libertari dove si fuma marijuana e poi nelle top università degli Stati Uniti: non sa chi è Virgilio, ma ha una capacità di pensiero critico che io non ho. Un altro viene dal quell’amalgama di civiltà asiatica antica ed educazione inglese che è la scuola indiana, e ha una sottigliezza di pensiero analitico che io non avrò mai. Ma la capacità di guardare lontano e individuare i problemi chiave è venuta alla nostra collaborazione dalla scuola italiana, dall’ampiezza della sua prospettiva storica e culturale.
Questo la nostra scuola sa offrirlo. Al contrario, è la scienza che manca nella scuola, anzi, manca drammaticamente nella società italiana. L’Italia resta pericolosamente un paese di profonda incultura scientifica, sia confrontato con gli altri paesi europei, dove la scienza è rispettata profondamente, come non lo è da noi, sia forse ancor più confrontato con i paesi emergenti, che vedono nella cultura scientifica la chiave del loro sviluppo.
L’Italia è un paese di profonda incultura scientifica nella mancanza di scienza seria a scuola; nell’incapacità di avere discussioni dove si ascoltano con attenzione argomenti e contro-argomenti; nella diffusa ignoranza di scienza delle nostre élite, fin nel nostro parlamento, e peggio ancora nella stucchevole prosopopea di chi si fa vanto di non capire nulla di scienza.
In Italia, quando si dice “cultura” si pensa spesso, ahimè, a musei e opere liriche, quando non ai formaggi col miele delle valli. Cose preziose, per carità, ma non è qui la cultura. La cultura è la ricchezza e la complessità del nostro sapere, l’insieme degli strumenti concettuali di cui dispone una comunità per pensare a sé stessa e al mondo. Cultura classica e scientifica sono facce complementari di questo insieme, che si rafforzano l’una con l’altra.
La cultura del nostro paese è ricca, stratificata, e vivace. Se aziende italiane vendono dappertutto nel mondo, disegnatori italiani guidano lo stile del pianeta, se l’Italia è fra le dieci potenze economiche del mondo, è perché, nonostante la nostra caratteriale auto-disistima, siamo un popolo colto e intelligente. Ma l’incultura scientifica del paese è una nostra debolezza severa. I paesi più ricchi come i paesi emergenti sanno che senza cultura scientifica adeguata un paese oggi diventa rapidamente arretrato.
Il nostro paese arretra. Un paese lungimirante come la Cina oggi investe nella fondazione di università una fetta considerevole della sua ricchezza; giovani cinesi sono mandati in giro per il mondo, per raccogliere sapere e riportarlo a casa; nel mio piccolo gruppo di ricerca, a Marsiglia, ce ne sono quattro. Lo stesso stanno facendo i paesi arabi più lungimiranti. La stessa Africa sta costruendo centri di cultura e di educazione avanzata.
L’Italia le sue università le sta smantellando. La sfida per il futuro passa attraverso la cultura anche scientifica del paese. In America come in Canada come in Inghilterra le università sembrano alberghi di lusso o ville patrizie, e sono rispettate come templi del sapere; in Italia le migliori università sembrano caserme decrepite.
E pensare che la scienza moderna è stata inventata in Italia... L’Italia è innamorata del suo Rinascimento, come quegli uomini che per tutta la vita continuano a raccontare la loro giovinezza, ma si dimentica spesso del frutto forse più straordinario del maturo Rinascimento italiano: uomo di musica e di lettere, profondo conoscitore e amante dell’antichità classica, di Aristotele e Platone, uomo completo del Rinascimento.
Sto parlando di Galileo, l’iniziatore della scienza moderna, primo a capire come interrogare la Natura, primo a trovare una legge matematica che descrive il moto dei corpi sulla Terra, primo a guardare nel cielo cose che nessun umano aveva mai prima potuto immaginare.
Il sapere scientifico moderno, che ha cambiato il mondo, ci ha permesso di vivere come viviamo, ci ha dato la ricchezza fiammeggiante della conoscenza di oggi, ha visto nascere una parte importante di sé in Italia, raccontato in una limpida lingua italiana da uno fra i migliori scrittori che abbia avuto il nostro paese, sempre lui: Galileo. Mi piacerebbe che l’Italia fosse orgogliosa di Galileo, non solo di Raffaello.
Mi piacerebbe che l’Italia si allontanasse dall’idea che la cultura sia solo arte antica, o culto sterile del proprio passato; che l’Italia desse alla cultura e alla cultura scientifica in particolare la dignità che deve avere nella formazione di una persona.
Quando Spinoza sognava il modello di un’altra Europa
Un romanzo e una monografia dedicate al filosofo rilanciano l’idea della repubblica federale olandese
di Roberto Esposito (la Repubblica, 16.06.2014)
E se fosse Spinoza l’autore in cui cercare un punto di riferimento in una fase in cui è sempre più difficile orientarsi sul piano filosofico e soprattutto politico? E se perfino questa Europa, sospesa tra vecchi nazionalismi e nuovi populismi, prestasse qualche attenzione alla Repubblica delle Sette Province Unite olandesi in cui egli visse, godendo di insolita libertà intellettuale all’interno di un continente insanguinato da guerre ininterrotte?
Certo, quella sorta di zona franca, di felice anomalia, che furono i Paesi Bassi rispetto agli Stati assoluti, si chiuse presto, come la condanna e l’espulsione di Spinoza dalla comunità ebraica testimoniano. Eppure Il sogno di Spinoza - come s’intitola il romanzo di Goce Smilevski appena tradotto da Guanda - continua ad interpellarci non solo sul nostro passato, ma anche sul nostro futuro.
In verità esso non tratta di questioni politiche e considera solo di scorcio la prospettiva filosofica di Spinoza. Di cui delinea, però, con maestria, il mondo interiore - turbamenti, emozioni, ossessioni. La vita, in continuo transito tra Amsterdam, Rijnsburg e l’Aia; il mestiere, singolare per un filosofo, di tornitore di lenti; le amicizie, tra cui quella, forse sul punto di scivolare in passione, con la sua giovane maestra di latino Clara Maria Van den Enden, e l’altra con l’allievo, studioso di Cartesio, Joan Casearius.
Forse nulla più del libro di Robert Burton sulla malinconia, insieme al celebre dipinto di Rembrandt Lezione di anatomia del dottor Tulp, in cui lo scalpello del medico penetra nelle carni aperte di un cadavere, restituiscono il clima di quegli anni e anche qualcosa della psicologia di Spinoza - pensatore della vita perché perennemente ossessionato dalla caducità dell’esistenza. La sua stessa idea di una sostanza infinita ed eterna, in cui Dio coincide con la natura delle cose, può essere interpretata anche come il punto di resistenza nei confronti di qualcosa che ci viene sottratta in un modo inaccettabile e prepotente.
La resistenza all’oppressione e all’intolleranza è, d’altra parte, la cifra dell’intero pen- siero di Spinoza. In particolare di quel saggio contro ogni forma di teologia politica che curiosamente ha proprio il titolo di Trattato teologico-politico. «Un libro forgiato all’inferno», come fu definito dai nemici del filosofo e adottato come titolo della monografia spinoziana, adesso tradotta da Einaudi, di Steven Nadler. Autore già di un altro lavoro su Spinoza e l’Olanda del Seicento, nonché di un originale saggio su Descartes, dal titolo Il filosofo, il sacerdote e il pittore , entrambi editi da Einaudi, Nadler riesce nella difficile impresa di presentare il complesso pensiero di Spinoza ad un ampio pubblico senza tradirne i contenuti peculiari.
Ma che cosa c’è di tanto scandaloso nel suo Trattato? Cosa ne fa un libro maledetto destinato alla distruzione e all’oblio? Si tratta di una coraggiosa, almeno per allora, difesa dell’autonomia della filosofia, e anche della politica, dalla invadenza della religione. Rifiuto dei miracoli e del ruolo divino dei profeti, riduzione della provvidenza all’insieme delle leggi di natura, attribuzione della Bibbia all’opera dell’uomo sono i contenuti blasfemi in base ai quali Giordano Bruno era stato bruciato appena pochi decenni prima. Qualcosa di non meno pericoloso delle scoperte astronomiche che Galileo fu costretto ad abiurare.
Ma l’elemento forse più rilevante in termini politici sta nella maniera in cui la negazione del carattere trascendente ed onnipotente della Persona divina si traduce nel rifiuto di quella del monarca. Ecco ciò che differenzia Spinoza da Hobbes. Come questi, anch’egli è alla ricerca di una forma politica che metta fine al caos delle guerre di religione.
Ma anziché individuarla nello Stato Leviatano, vale a dire nel potere assoluto che condiziona la protezione dei sudditi alla loro obbedienza, lo individua in una forma di democrazia che, contro il modello monarchico e aristocratico, rispetta la libertà dei cittadini. Con ciò Spinoza non intende negare il principio di autorità politica, ma sottoporlo ad una legittimazione diffusa in base alla quale il diritto di definire quello che è nell’interesse di tutti spetta al popolo stesso.
Per certi versi Spinoza non fa che riprodurre in forma radicale il regime politico della Repubblica olandese della seconda metà del secolo, assediata dagli eserciti delle monarchie assolute. Essa era governata, in forma federale, dai rappresentanti delle Sette Province Unite, provenienti dal ceto mercantile delle città olandesi, gelose della propria indipendenza nei confronti sia della Chiesa che, almeno entro certi limiti, dello Stato centrale. Allorché Johan de Witt, deputato permanente di Dordrecht e punto di riferimento politico dei democratici radicali, fu assassinato, quel modello che rappresentava un’eccezione vistosa nell’Europa del tempo crollò, perdendo le sue connotazioni più peculiari.
La messa al bando dell’opera di Spinoza fu anche conseguenza di questa restaurazione. Ma tale esito non cancella, né sul piano filosofico né su quello politico, il significato di quello straordinario esperimento. Al suo centro era il progetto, fino allora inaudito, di una federazione costituzionale che escludeva ogni carica centralizzata e onnipotente. Ad ogni provincia era invece riconosciuto il diritto di avere i propri rappresentanti, senza per questo indebolire la loro unione, cui restavano le competenze della politica estera e finanziaria.
Quali suggestioni tale modello costituzionale possa contenere per un mondo, come il nostro, che ha conosciuto la crisi di tutti i Leviatani, non è difficile intuire. Persino l’Unione europea potrebbe riprodurne qualche tratto, nel difficile equilibrio tra unità e differenze nazionali.
Naturalmente senza omologare situazioni e problematiche separate da secoli di storia e di pensiero. Se però ricordiamo l’insistenza di Spinoza sulla necessità di contenere le inevitabili spinte passionali nei limiti della razionalità, possiamo ricavarne un’indicazione che muove in direzione contraria sia a un’idea di sovranità trascendente - al potere assoluto degli Stati sovrani - sia agli impulsi anarchici e irrazionali che alimentano la crescita dei nuovi populismi.
Thomasius
Il diritto naturale viene dalla ragione
di Armando Torno (Corriere della Sera, 09.06.2014)
Influenzato da Ugo Grozio e Samuel Pufendorf, anzi continuatore di quest’ultimo, il tedesco Christian Thomasius (1655-1728) è un pensatore non particolarmente di moda ma al quale la filosofia moderna deve la distinzione tra diritto e teologia morale. Egli testimonierà con la sua opera che il diritto naturale va considerato indipendente dalla volontà di Dio e si basa esclusivamente sulla ragione. Il suo principio supremo è evangelico: «Non fare agli altri quanto vuoi non sia fatto a te».
Ora, a cura di Gianluca Dioni (con una postfazione di Vanda Fiorillo), esce presso Franco Angeli la prima traduzione italiana de I Fondamenti del Diritto di Natura e delle Genti (pp. 256, e 32). Sono stati traslati il Caput Prooemiale e il primo libro, «perché essi rappresentano - nota il curatore - il cuore del “nuovo” giusnaturalismo thomasiano». È il pensiero della maturità: in quest’opera si deducono «dal senso comune» quei fondamenti del diritto di natura e delle genti e sono in essa distinti i principi dell’onesto, del giusto e del decoro; le pagine sono del 1718.
MESSAGGIO EVANGELICO E SANTO PADRE?!
PAPA FRANCESCO, LA GRAZIA, E I CARISMATICI:
ALL’OLANDA, AD AMSTERDAM, E A RENZO PIANO, UN OMAGGIO.
Una scheda dettagliata sul
Museo della scienza e della tecnica - Amsterdam
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Già Marx e Nietzsche avevano capito che il processo di unificazione economica doveva essere intrapreso
Il Vecchio Continente fantasma politico in cerca di un’identità
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 22.05.2014)
PIÙ appare inarrestabile la decadenza del ruolo politico e del peso economico dell’Europa nel mondo fattosi Globo ( The Globe è il simbolo, consacrato all’esposizione universale di Parigi del 1889), più sembra crescere il desiderio di definirne la figura, di disegnarne l’identità, di stabilirne l’idea. Ma quanto esso si fonda su una reale conoscenza della storia europea? Quanto esso corrisponde al “dèmone” che ne presiede le continue metamorfosi? E di che natura sono i progetti e i programmi che da esso possono prendere vita?
Infermissima, insecura è l’idea di uno spazio culturale europeo fin dal suo primo manifestarsi. Europa non ha mai indicato un luogo in contrapposizione ad altri, tantomeno un “centro sacrale”, come molti un tempo hanno preteso, ma un’energia irradiante in ogni direzione, una radicale insofferenza per ogni confine che non significasse somica. glia da trasgredire. Qui mai il dio Termine ha trovato dimora.
Questa energia ha assunto due volti, che nella loro inseparabilità hanno costituito la tragica grandezza d’Europa: un’inquietudine interiore, da cui nasce la “invenzione” di un movimento storico, che tutto relativizza e, alla fine, travolge; l’impossibilità di “lasciare in pace”, il non poter fare a meno di trascinare nel vortice di quel movimento ogni altra cultura, magari soltanto con la volontà di “scoprirla”. Fame di conoscenza e fame di conquista sono categorie rigorosamente scisse solo nella fantasia delle anime belle.
La “detronizzazione” d’Europa, seguita inesorabilmente alle guerre mondiali che essa ha scatenato, ha posto fine a ogni sua possibile “missione”? Il suicidio delle sue volontà egemoniche deve comportare l’impotenza a deciderne qualsiasi “compito”? È chiaro che a queste domande non si risponde con i “programmi” per il rafforzamento (o il salvataggio) della sua unità economica.
Ben prima infatti che quel suicidio si compisse, i grandi “profeti” dell’età che viviamo, da Tocqueville a Marx a Nietzsche, avevano compreso la necessità che il processo di unificazione economica venisse intrapreso. Gli staterelli europei (diceva Nietzsche nel 1885!) saranno costretti sotto la spinta dei commerci mondiali a stringersi insieme in un’unica potenza. Il solo denaro li obbligherà a questo tentativo, per l’impossibilità evidente di competere nell’economia globale da parte di qualsiasi antico ”staterello sovrano”.
Riconoscere ciò che è necessario fare per sopravvivere è certo buon segno di volontà di vita, ma non indica di per sé alcuna “missione”, non può assumere alcun significato per il destino degli altri spazi dell’unico Globo.
Altrettanto evidente è, però, che nessun compito futuro può essere “inventato”, che qualsiasi “progetto” dovrà rivivere in sé fattori essenziali del passato e la sua lingua sapersi esprimere nei linguaggi in cui storicamente l’Europa si è rappresentata, non nell’universale esperanto tecnico-formale che appartiene al “solo denaro”, per trasformarli, magari, proprio parlandoli. Ora, l’Europa insecura, operante proprio sempre in forza di tale insecuritas, questa Europa, che mai è sembrata avere sede certa, attorno a un linguaggio si è tuttavia costruita o, meglio, a un suo “originario fenomeno”. Possiamo chiamarlo “filosofia”.
Non si tratta di contenuti determinati, tantomeno di astratti sistemi, ma di un atteggiamento complessivo che informa di sé tutta la nostra immagine del mondo, che determina una idea di vita: la possibilità che, al limite , essa possa essere condotta sulla base di norme razionali; che, proprio a tal fine, cultura e scienza debbano poter procedere autonomamente, ovverosia incondizionatamente, per potersi così esprimere in tutta la loro intrinseca potenza; che la libertà che in questa attività si incarna sia possesso del soggetto che opera, e che operando fa la propria storia, di noi, i Soggetti.
Si potrebbe dimostrare come questa prospettiva si sia intrecciata con tutte le dimensioni dell’esperienza europea, ma la questione che urge non è storiografica. Può l’Europa avere altro compito che quello che il suo dèmone filosofico gli ha dettato? Programmi, certo, ne potrà elaborare comunque, come qualsiasi grande spazio del Globo, per salvaguardare la propria “competitività”.
Ma una “identità” diversa da quella che nel linguaggio della filosofia si è tracciata, dove potrebbe mai immaginarla? Poiché questo appunto è il problema: che quel linguaggio è apparso compiuto (e, per tanti versi, vittoriosamente compiuto) nel corso del tragico “secolo breve”, che esso, proprio con la “occidentalizzazione” dell’intero pianeta, sembra giunto al suo estremo. Che rimane all’Europa da fare dopo aver compreso ogni alterità nella forma trascendentale del Cogito e svelato ogni “ideale” o “valore” come proprie creazioni, che di volta in volta storicamente si realizzano?
Forse nient’altro che la critica de-costruttiva, la messa in dubbio radicale della fondatezza di quell’eroica istanza. Può il compito attuale d’Europa consistere nell’esercizio ironico- scettico rispetto ad ogni pretesa di riduzione del mondo a “sistema”? Un gesto di rinuncia ne caratterizzerebbe, allora, l’idea. Rinuncia a ogni volontà di possesso e afferramento del reale sul metro della propria storia, rinuncia a ogni forma di teleologia.
Rinuncia che non significhi pessimistico abbandono, ma capacità di accogliere in sé, attenzione e ascolto rivolti all’infinita differenza che ci separa dal prossimo, e insieme a lui ci accorda. Il tramonto destinato della potenza europea può trasformarsi in una volontà operante, capace di indicare una destinazione: un mondo in cui l’esperienza della coscienza, per dirla con Hegel, giunga a comprendere che la presenza dell’altro è condizione necessaria della ricerca della propria stessa identità.
“Costituzionalizzare” l’Europa per impedirne il tramonto, per arrestare la decadenza della sua volontà di potenza, rappresenta la prospettiva opposta. E nessun “potere che frena” basterebbe alla bisogna. Che il tramonto divenga un tramontare , questo occorre, che sia conflitto verso ogni forma di idolatria identitaria, che sia apertura all’imprevedibile e all’inaudito che ogni incontro con l’altro, ogni nuova aurora, porta con sé.
Il pane dell’umanità
Kant nominò Adamo primo curioso alimentare
Perché il mangiare rivela la personalità morale
Un filosofo e la mela biblica per spiegare l’evoluzione
di Carlo Sini (Corriere della Sera, 01.05.2004)
Che l’uomo è ciò che mangia è il detto famoso di Feuerbach: sembra fatto apposta per l’Expo 2015. Esso compare in uno scritto del 1862 e non va inteso in senso grettamente materialistico. L’uomo è innanzi tutto bisogno naturale e se questo tratto non viene soddisfatto, l’accesso ai valori dello spirito ne risulta inibito, come accade per un’umanità, abbrutita per generazioni, dalla fame e dalla miseria. Invece di tante prediche sulla virtù, sarebbe più efficace procurare loro di che sfamarsi.
Come si vede, l’intento di Feuerbach è politico e sociale. Invece, il fisiologo positivista Jacob Moleschott (che pure a Feuerbach intendeva ispirarsi) propose una Teoria dell’alimentazione (1850) che si muoveva in parallelo con la sua affermazione: «senza fosforo non esiste il pensiero». Moleschott insegnò anche a Torino e a Roma e il suo brutale materialismo suscitò la reazione indignata di Mazzini.
Il dibattito storico sul cibo ha in effetti una lunga storia, nella quale spicca il contributo di Kant. Nello scritto del 1786 (Congetture sull’origine della storia) Kant osò rileggere i capitoli 2-4 del primo libro della Genesi in una chiave razionalistica. L’uscita dell’uomo dal paradiso dell’istinto animale venne promossa dalla famosa scelta della mela, cioè dal desiderio di estendere la conoscenza degli alimenti.
Non è la mela in sé che è importante, ma quel primo emergere della coscienza di una vita retta, essenzialmente, non dall’istinto ma dalla ragione e dalla sua ansia di ricerca. Gli umani scoprirono così la capacità di andare oltre i limiti naturali, per inaugurare inediti sistemi di vita, sino a diventare «scopo a se stessi».
Cominciò allora propriamente la storia, sintetizzata in una frase straordinaria: «La ragione - scrive Kant -, spinse l’uomo a sopportare pazientemente la fatica, che egli odia, a perseguire ardentemente le piccole cose che egli disprezza e a obliare la morte stessa, davanti alla quale egli trema, per amore di queste inezie, la cui perdita lo atterrisce ancor più».
Questa faccenda di Adamo ridotto a un bestione tutto stupore e ferocia, e curiosità alimentare, non piacque alle autorità religiose prussiane e Kant passò i suoi guai, senza peraltro ritrattare ciò che aveva scritto. Egli aveva capovolto il senso del racconto biblico: non la caduta dell’uomo da una condizione di perfezione, ma l’inizio di un processo di incivilimento e di progresso morale e intellettuale: in quel processo anche il cibo aveva la sua parte.
I filosofi sono intuitivi e spesso anticipano gli scienziati, i quali oggi non hanno dubbi nell’indicare nel cibo uno dei parametri fondamentali per comprendere la nostra storia naturale e sociale: una storia assai più antica e complessa di come potessero immaginare Feuerbach o Kant, contrassegnata da una lunghissima incubazione nel cuore dell’Africa e poi da una diaspora di forse diecimila anni, che condusse l’homo sapiens a prendere progressivamente dimora in tutti i luoghi della terra e in quasi tutti i climi del pianeta.
Così gli archeologi e gli antropologi cercano negli scavi residui carbonizzati di cibo e studiano la condizione dei denti negli scheletri per farsi un’idea dell’alimentazione dell’umanità primitiva, traendone nel contempo informazioni essenziali per le strutture familiari e sociali e per l’evoluzione dell’intelligenza, quasi a ripetere, in modi documentati e argomentati, il motto di Feuerbach.
Il passaggio da un’economia della raccolta e della caccia all’allevamento e alla coltivazione, mostra da sé come il cammino delle abitudini alimentari e dei progressi tecnici e psicologici vadano di pari passo.
L’uomo è ciò che mangia, o meglio, è ciò che fa per procurarsi il cibo del corpo e la salute dell’anima. Come risolve questi problemi determina e rispecchia la sua personalità morale, sicché la differenza tra il cibo crudo e il cibo cotto è, per esempio, un parametro importante per comprendere il cammino stesso della civiltà.
Il cibo è in una relazione essenziale col lavoro sociale e questo è oggi un grande problema. -Come risolveremo i bisogni alimentari senza devastare il clima, senza distruggere le biodiversità, senza sottrarre alle popolazioni locali il diritto di scegliersi uno sviluppo autonomo, senza arrendersi all’avidità economica di pochi e all’egoismo dei più forti, senza continuare un cammino la cui follia potrebbe generare la rovina di tutti, queste sono le sfide che il tema del cibo riassume e concentra in sé. Insomma: dimmi come mangi e ti dirò chi sei.
Il vuoto oltre la religione
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 22.04.2014)
Caro Augias,
qualche giorno fa vi siete occupati del battesimo dei figli dei non credenti: “Due amiche alle prese con il battesimo dei figli». Secondo l’Istat in Italia nel 1964, quando mi sono sposato io, i matrimoni civili, erano l’1,2% del totale. Si sposavano in municipio solo i pochi valdesi o ebrei, qualche raro straniero e i pochi “matti” come me e mia moglie. Le coppie che convivevamo senza sposarsi erano “inesistenti” e “tutti” i bambini venivano battezzati.
Il vescovo di Belluno disse ai miei suoceri, che volevano battezzare di nascosto i miei figli, che non si poteva fare perché il battesimo dei neonati può essere dato solo con la certezza di un’educazione religiosa.
Sempre secondo l’Istat, nel 2012 i matrimoni civili in Italia sono saliti al 41%; i nati da coppie non sposate al 24,8%. Buona parte di quelli sposati in chiesa lo hanno fatto per non dispiacere ai parenti, per non perdere l’eredità, perché la cerimonia religiosa è più romantica, per conformismo. Il che comporta che tre quarti degli attuali giovani genitori sono persone poco o per nulla cattoliche per cui i figli cresceranno senza concreti riferimenti cattolici in famiglia. Giorgio Villella
Il signor Villella descrive, con le cifre, il fenomeno largamente noto che va sotto il nome di secolarizzazione, termine e concetto che risale addirittura al XVII secolo (Pace di Vestfalia) ma che ha assunto un tale rilievo negli ultimi decenni che nella chiesa cattolica esiste un arcivescovo preposto alla “nuova evangelizzazione”. Il fenomeno ha investito l’intero mondo occidentale e non poteva non arrivare in Italia anche se la storia del nostro paese anche da questo punto di vista è un po’ particolare.
In un’ottica laica la domanda è quali conseguenze possa avere il fenomeno. Le religioni hanno sempre avuto anche una funzione sociale. Il sofista greco Crizia sviluppò la teoria, divenuta celebre, secondo cui gli dèi furono inventati per costringere gli esseri umani a comportamenti morali, a non delinquere. Questa funzione “civile” della religione arriva fino a Rousseau.
Da noi la prevalente religione cattolica è stata un potente strumento per la diffusione e il mantenimento dei “buoni costumi” - fino a quando è durato.
Il grande storico Polibio convinto anche lui che gli dèi servissero a “tenere a freno le violente passioni delle masse” scriveva: «Sconsiderati i moderni che cercano di disperdere queste illusioni».
Quei moderni ormai dilagano dimostrando che Polibio aveva ragione. Perché quando le “illusioni” vengono meno e manca una sufficiente acculturazione media, le conseguenze sono quelle che vediamo. Quelle religioni che Marx definiva “oppio dei popoli” possono essere ancora considerate un utile rimedio, quando il resto manca.
Perché dobbiamo imparare dagli dei
Il politeismo di greci e romani tollerava le religioni degli altri
Così Marte e le divinità dell’Olimpo possono ancora darci lezioni
di Maurizio Bettini (la Repubblica, 02.04.2014)
Affermare che la religione dei Greci e dei Romani è superata corrisponde né più né meno a dichiarare che la poesia di Omero o quella di Virgilio sono superate. Affermazioni che potevano avere un senso al tempo della «querelle des anciens et des modernes», ma che difficilmente lo avrebbero oggi. In realtà, da molto si è compreso che i prodotti della cultura non si misurano sul parametro del tempo o dell’evoluzione, e questo vale anche per la religione. Sappiamo bene quanto colonialismo, quanto eurocentrismo si nascondeva dietro il paravento di certe gerarchie evolutive.
La religione greca e romana è semplicemente un’altra religione, o meglio una religione, tanto quanto lo sono lo shintoismo o l’islam. Eppure nella percezione comune essa non è affatto considerata tale. [...] Gli dei che furono venerati e onorati da due civiltà, e che sono stati al centro di organizzazioni sociali, culturali e intellettuali molto complesse, si sono infatti ridotti a personaggi di una generica «mitologia», semplici attori di racconti fantastici. Gli esiti di questa metamorfosi, realizzatasi molti secoli fa, sono peraltro ancora ben visibili nella cultura comune (per fare un esempio, alle voci «Minerva» e «Iuno» Wikipedia recita: «divinità della mitologia romana»).
Eppure già Leopardi aveva rilevato quanto vano fosse il ricorso a questa «mitologia » classica, «giacché non abbiamo noi colla letteratura ereditato eziandio la religione greca e latina ». Non diversamente, anche le antiche statue di culto si sono trasformate in generiche opere d’arte, quelle Afrodite o quei Dioniso di cui contempliamo la bellezza e talvolta ammiriamo gli autori, senza pensare però che tali immagini erano chiamate a rappresentare divinità, non personaggi del “mito”. Tutto il resto, ossia quel complesso sistema di relazioni che nel mondo greco e romano legava fra loro uomini e dei, ha assunto il ruolo di oggetto di studio - ma per la verità si è conquistato questo status faticosamente, e in modo del tutto autonomo solo a partire dal XIX secolo.
In conclusione potremmo dire con Heinrich Heine che gli dèi antichi sono stati «esiliati»: ma non «nell’oscurità di templi in rovina o nell’incanto dei boschi», come quelli evocati dal poeta tedesco, ma dentro le Università e negli Istituti di ricerca. [...] Ecco dunque, in breve sintesi, le ragioni per cui l’antico politeismo non è più una fonte di ispirazione viva per la cultura moderna e contemporanea, come invece continuano a esserlo la filosofia o il teatro dei Greci e dei Romani.
Con ciò non intendiamo affermare che siano mancati poeti, filosofi o scrittori moderni i quali, in qualche momento della loro vita, hanno propugnato i valori del politeismo. [...] In una lettera a Max Jacobi, Goethe dichiarava ad esempio che in quanto artista si sentiva “politeista” (così come in quanto scienziato naturale si sentiva “panteista” e in quanto persona morale “cristiano”). [...] La “religione sensibile” cui dovrebbe dare alimento questo programmatico “politeismo dell’immaginazione e dell’arte” altro non è, in definitiva, se non la poesia.
Ben diverso il caso di Friedrich Nietzsche, che nella sua polemica anticristiana si appellerà invece al politeismo come esercizio preliminare alla nascita dell’individualismo. «Un dio» scriveva «non era la negazione o la bestemmia di un altro dio! Qui per la prima volta furono permessi individui, qui per la prima volta si onorò il diritto degli individui. L’inventare dei, eroi, superuomini di ogni specie [...] costituì l’inestimabile propedeutica alla giustificazione e dell’egoismo e della sovranità del singolo». Il politeismo come incunabolo della morale, ovviamente nel senso in cui Nietzsche la intendeva.
Nel corso del Novecento il politeismo avrà invece una notevole vitalità in qualità di rappresentazione (o meglio, ancora una volta, in qualità di metafora) a carattere psicologico. Scriveva Carl Gustav Jung: «Ciò che noi abbiamo superato sono però soltanto i fantasmi delle parole, non i fatti psichici che furono responsabili della nascita delle divinità. Siamo ancora così posseduti dai nostri contenuti psichici autonomi come se essi fossero divinità. Ora li chiamiamo fobie, coazioni, e così via, in una parola, sintomi nevrotici. Le divinità sono diventate malattie, e Zeus non governa più l’Olimpo, ma il plesso solare». Sarà proprio da queste affermazioni di Jung (ma non forse dalla loro ironia) che prenderà dichiaratamente ispirazione il programma psicologico di James Hillman, inteso a riconoscere gli dei come essi stessi patologizzati [...].
Ricorrendo a esempi tratti perlopiù dalla religione romana, abbiamo dunque scelto di puntare su quegli aspetti del politeismo che, se trasferiti nelle nostre società, potrebbero contribuire a ridurre uno dei molti mali che continuano ad affliggerle: il conflitto religioso, e assieme ad esso quel variegato spettro di ostilità, riprovazione, indifferenza che tuttora avvolge agli occhi degli “uni” le divinità onorate dagli “altri”. [...]
Marte ad esempio, che tutti conosciamo come dio della guerra, può essere invocato anche per garantire la felice riuscita delle messi o la buona salute del bestiame. A prima vista queste diverse attribuzioni sconcertano - perché mischiare guerra, fertilità dei campi e salute dei buoi? Il fatto è che questi momenti sono accomunati da uno stesso tratto: il pericolo. Pericoli della guerra, quando si va in battaglia, pericoli delle calamità atmosferiche, quando le messi stanno crescendo, pericoli della selva, quando il bestiame va in pastura. Ecco che in tutti questi casi è chiamato a intervenire lo stesso dio, il bellicoso Marte.
Tornare a tessere questa antica rete, segmentando e ricomponendo la realtà secondo le linee indicate dalle religioni classiche, offre uno stimolo prezioso per chiunque abbia voglia di pensare il mondo in modo diverso da come normalmente ci viene presentato.
Dai suoi santuari, punti di sosta, si è ricostruito il tracciato della via di Ercole
IL DIO DEGLI ITALIANI di Franco Capone (ha collaborato Giacinto Mezzarobba)
2.500 anni fa l’eroe, figlio di un dio e venuto in terra a sacrificarsi per gli altri, era definito il Salvatore. E sulla via Heracleia, a lui dedicata, nessuno poteva subire minacce o ingiustizie. (Fonte: "Focus")
Altro che quote rosa, è democrazia paritaria
di Francesca Izzo (l’Unità, 18.03.2014)
È ACCADUTO CON LA PAROLA «FEMMINICIDIO»: AL PRINCIPIO C’ERA UNA RESISTENZA FORTISSIMA AD USARLA perché brutta e urticante, ma poi l’ha spuntata perché è l’unico termine appropriato per denotare l’uccisione di una donna solo perché è donna. Quando con una grande campagna di informazione si è chiarito che mariti, fidanzati, conoscenti le uccidono perché, aspettandosi acquiescenza e subordinazione, non riescono invece a tollerare la loro libertà e il loro rifiuto, allora il termine è diventato di uso corrente.
Ecco ora siamo alle prese con un’analoga situazione, forse ancora più difficile. L’espressione che deve entrare nell’uso comune è «democrazia paritaria» ma deve combattere per affermarsi contro quella semplice e diffusa di «quote rosa». In questi giorni di quote rose se ne è scritto e detto a destra e manca per raccontare dell’iniziativa di un consistente numero di deputate di inserire nella nuova legge elettorale il principio della parità. Chi si è dichiarato a favore chi contro, ma tranne pochissime eccezioni, tutti a parlare di quote rosa.
Appena qualche giorno fa, ad esempio, Gian Antonio Stella ne ha sostenuto la necessaria e temporanea introduzione per vincere uno storico gap. Invece una platea vasta, arringata a sorpresa ieri sera a Che tempo che fa da una Luciana Littizzetto antiquote, è duramente contraria perché respinge le tutele, vuole il merito e non i recinti protetti. Soprattutto le giovani donne si mostrano ostili: hanno misurato a scuola, negli studi, nei concorsi il loro valore e sanno di poter competere alla pari con i loro coetanei e quindi non vogliono essere ricacciate nel ghetto degli svantaggiati, di quote infatti si parla per chi ha degli handicap, per le minoranze ...
Hanno pienamente ragione: le donne non sono una minoranza e per giunta oggi le giovani donne sono forti, preparate e competitive, altro che svantaggiate. E allora? Il fatto è che le parole sono le cose e usare la parola quota per indicare qualcosa di diverso produce terribili fraintendimenti.
Democrazia paritaria è l’espressione adeguata. Adeguata ad indicare che la rappresentanza del popolo (quella che con il voto eleggiamo in Parlamento), per essere democratica e non «oligarchica», deve dare «rappresentazione» del dato basilare che il popolo è fatto per metà da uomini e per metà da donne e che quindi la composizione parlamentare deve essere paritaria. I criteri con i quali vengono scelti i rappresentanti, cioè i famosi merito, qualità e competenza dei candidati riguardano in egual misura sia gli uomini che le donne e prescindono dalla regola paritaria, a meno che non si pensi che merito, qualità e competenza abbondino tra gli uomini e scarseggino tanto drammaticamente tra le donne da dover ricorrere a sciocche incompetenti per rispettarla.
La democrazia paritaria non configura alcuna concessione, alcun regalo o tutela, è la semplice presa d’atto (frutto però di un’epocale rivoluzione culturale e politica) che il popolo sovrano è fatto di uomini e donne e non è una nozione neutra, indistinta. È stata quella nozione neutra a consentire, anche nella storia repubblicana, di considerare «normale» che la rappresentanza fosse monopolizzata dagli uomini e che la presenza delle donne fosse un’anomalia, un’eccezione da giustificare con meriti altrettanto eccezionali. Questa visione, diffusa ancora oggi, è l’eredità di un lungo passato che non vuole passare, nel quale la politica era per definizione cosa esclusivamente di uomini e alle donne era vietato, proibito di occuparsene e qualcuna, per sfidare il divieto, ci ha rimesso pure la testa.
La democrazia paritaria è il compimento della democrazia, perché porta a compimento l’inclusione delle donne nella polis. E fa anche un’altra cosa non meno rilevante: sottrae all’arbitrio o alla «generosità» degli uomini che ne detengono le chiavi una parte del potere di decidere, rendendo più libere le donne.
Non si chiedono meriti o medaglie speciali alle donne per entrare nella cittadella della rappresentanza, né ci aspettiamo azioni miracolistiche dalla loro presenza. Ma credo sia chiaro a tutti che una rappresentanza popolare composta per metà da donne, cambiamenti nella concezione e nella concreta azione politica li produce e sicuramente in meglio, vista la crisi drammatica di credibilità e di fiducia delle istituzioni rappresentative.
Un saggio di Luciano Canfora sul contenuto della commedia “Le donne all’assemblea”
La sfida di Aristofane a Platone sul campo di battaglia dell’utopia
Sarcasmo feroce contro l’ipotesi di profonde riforme sociali
di Umberto Curi (Corriere della Sera, 10.03.2014)
Il difetto principale dei filosofi - scriveva Giambattista Vico - è di non aver «accertato le loro ragioni con l’autorità dei filologi», mentre dall’altra parte è imputabile ai filologi il non essersi curati «d’avverare la loro autorità con la ragione dei filosofi». Per ovviare a queste opposte unilateralità, sarebbe necessario nutrire la «scienza del vero», in cui consiste la filosofia, con «la coscienza del certo», assicurata dalla filologia, sviluppando dunque fra l’una e l’altra un rapporto di complementarità.
Se ci si riferisce al panorama degli studi riguardanti in particolare il pensiero classico, non si può dire che l’appello vichiano sia stato effettivamente raccolto. In termini generali, si è da tempo cristallizzata una distinzione fra ricerche di carattere microfilologico, insensibili all’esigenza di «inverare il certo», e testi filosofici incapaci di «accertare il vero».
Il merito principale dell’opera di Luciano Canfora La crisi dell’utopia (Laterza) può essere indicato nel risoluto superamento di ogni sterile distinzione disciplinare, alla quale si sostituisce una ricostruzione accurata e rigorosa, finalizzata a fare emergere alcune importanti questioni propriamente filosofiche. Con un’aggiunta che rende ancor più prezioso, e per certi aspetti perfino «necessario», il contributo arrecato da questo libro, e cioè il fatto che la sinergia tra filologia e filosofia non si limita a gettare luce su alcune questioni circoscritte, relative al rapporto tra Aristofane e Platone, ma è invece messa al servizio di un interrogativo di persistente e anzi rinnovata attualità, quale è quello che riguarda il ruolo dell’utopia.
L’obbiettivo programmatico del testo è esplicitamente dichiarato fin dall’esordio. Si tratta di dimostrare che la commedia di Aristofane intitolata Le donne all’assemblea (Ecclesiazusai), colpisce con l’arma del sarcasmo quel progetto di riforma radicale della società che viene proposto da Platone, in particolare nei libri IV, V e VI del dialogo dedicato allo Stato.
Attorno a questo nucleo problematico si addensano poi una molteplicità di temi più specifici, ciascuno dei quali esigerebbe una adeguata valorizzazione: il carattere «scenico» dei dialoghi di Platone, opportunamente trattati alla stregua di vere e proprie drammaturgie; l’identificazione del misterioso Aristillo, personaggio che compare in due commedie aristofanee, con il filosofo, il cui vero nome era come è noto Aristocle; il perfino sorprendente parallelismo strutturale, analiticamente documentato, fra la Kallipolis descritta da Platone e il modello di società messo alla berlina nelle Ecclesiazusai; la ricognizione delle affinità e delle differenze fra alcune utopie, più o meno direttamente riconducibili a Platone, dal mito di Atlantide, fino alla Città del sole di Tommaso Campanella.
Se è vero che l’importanza di un libro si misura sul rilievo delle questioni che è in grado di suscitare, più ancora che sulle risposte specifiche in esso contenute, il testo di Canfora offre un contributo di primissimo ordine nella prospettiva ora accennata.
Per prima cosa, pur lavorando sul nucleo propriamente «utopistico» della teoria politica di Platone, l’autore offre argomenti idonei a ridimensionare energicamente la tradizionale interpretazione «idealistica» del filosofo, mostrando al contrario fino a che punto la stessa Kallipolis descritta nella Politeia non possa essere assimilata senza residui ad un modello astratto, non abbia affatto i contorni di quello «Stato perfetto» che si è soliti attribuire all’autore ateniese.
Con ciò, non importa se talora in maniera indiretta, Canfora aiuta a riconoscere un punto di fondo, abitualmente rinnegato dalla critica, vale a dire il fondamentale «realismo» dell’approccio platonico al problema dello Stato, e di conseguenza l’assunzione della politica come pharmakon, destinato a «curare» - ma insieme mai a «guarire» completamente - i mali che affliggono gli Stati.
Un secondo e decisivo ordine di considerazioni può essere proposto in relazione alla trattazione dei dialoghi platonici in termini di drammaturgie. Questo suggerimento, per lo più ignorato o sottovalutato dagli studiosi, andrebbe invece ulteriormente approfondito, cogliendo il drama non soltanto in alcuni aspetti attinenti alla struttura esterna dei dialoghi, o in alcune «citazioni» da coeve opere sceniche, ma nell’articolazione stessa dell’argomentazione filosofica. Nel Sofista , ad esempio (testo più volte citato dallo stesso Canfora), più ancora della «scena» d’esordio, che funge come mera «cornice» introduttiva, genuinamente drammatica è l’alternativa di fronte alla quale i due interlocutori vengono a trovarsi, stretti fra la necessità di ricorrere al parricidio e la rinuncia alla possibilità di usare il logos.
Come accade anche nel Teeteto (che costituisce notoriamente il preambolo narrativo del Sofista) la ricerca condotta assume i caratteri di una intensa drammaturgia, proprio perché in gioco è una questione letteralmente di vita o di morte, quale è quella connessa all’ipotesi di dover rinunciare a parlare e a pensare.
Un’ultima considerazione, apparentemente marginale, fra le molte a cui per brevità si è costretti a rinunciare. Secondo un uso da tempo tanto consolidato, in Italia e fuori, quanto totalmente immotivato, il titolo del dialogo platonico riguardante lo Stato - in greco: Politeia , che designa ciò che attiene allo «Stato», o la «Costituzione» - è tradotto con l’italiano Repubblica.
La giustificazione abituale per questo vero e proprio abuso linguistico è che i titoli italiani delle opere greche vanno tradotti attraverso la denominazione latina. Ma anche uno scolaro della prima liceo sa che l’espressione latina res publica , con la quale si traduce il greco politeia , indica lo Stato , e non una forma specifica di governo, quale è appunto la repubblica. Come peraltro confermano i titoli di altre opere coeve (si veda ad esempio l’Athenaion politeia, la Costituzione degli ateniesi di Aristotele, che a nessuno verrebbe in mente di tradurre con «la repubblica degli ateniesi»).
L’auspicio è allora che, giovandosi della sua indiscussa autorità di antichista, Canfora possa accreditare una dizione corretta del titolo di un testo così importante.
Il classico vicino a noi
La mitografia non passa mai di moda
Una mappatura dei miti greco-latini conterrebbe quasi 14mila nomi e vicende.
Un manuale per navigarci dentro
di Carlo Carena (Il Sole Domenica, 09.03.2014)
Una mappa completa del mito greco-latino, una genealogia che partendo dal regno di Saturno e dalla nascita di Zeus scendesse per li rami alle divinità olimpiche (Era, Apollo, Afrodite, Ermes, Pallade, Posidone, Ade...; e poi Demetra, Persefone, Dioniso...) e agli eroi (Prometeo, Eracle, greci e troiani...) e alle leggende più poetiche (Adone, Arianna, Dafne...) sarebbe impossibile per la sua vastità. Come attesta la Bibliotheca classica, ora Classical Dictionary del reverendo John Lamprière, apparso la prima volta a Londra nel 1738, ripetutamente e tuttora ristampato manuale di inesauribile vantaggio e attrattiva, utilizzato da secoli da studenti, studiosi, poeti: i biografi dicono che Keats lo conoscesse quasi a memoria e i critici ne hanno rilevato tracce quasi letterali nell’Ode su un’urna greca. Vi figurano circa 14.000 nomi propri, di cui forse la metà mitologici o comunque connessi con la mitologia.
È, se non altro, un segno della ricchezza, della penetrazione e dell’insediamento di quel deposito di favole e di verità, di cui era sgomentato anche Boccaccio. Nel Proemio delle Genealogie deorum Gentilium egli scrive di tremare al solo pensiero del soverchio peso di dover addentrarsi «tra gli aspri deserti dell’antichità» per «raccorre lo sbranato, minuzzato, consumato, e quasi in ceneri già ritornato gran corpo de’ Dei Gentili, e de’ famosi heroi». Per non accostarsi all’immenso «tronco metafisico poetico» di Giambattista Vico, attraverso il quale la sapienza poetica si dirama nella fisica, nella cosmografia, nell’astronomia, nella cronologia e nella geografia: prova della verità e risultati veritieri dei miti, non invenzioni oziose e oscene, o suggestive e arcane, ma storia vera espressa da un’età primitiva del mondo e imborghesita nei rifacimenti delle età "colte". «Non si può dare tradizione, quantunque favolosa - si legge nella Scienza nuova -, che non abbia da prima avuto alcun motivo di vero».
Ma proprio questa condizione attraeva poco altri in quello stesso giro di anni. I miti, racconta Fontenelle nella rapida Origine des fables (1724), sono sì espressione genuina e spontanea della fanciullezza dell’umanità, di quei poveri selvaggi che hanno abitato per primi il mondo; ma non per ciò o proprio per ciò meno confusi e menzogneri. Che amore era mai questo degli uomini per falsità manifeste e ridicole? I miti sono «uno dei prodotti più strani dello spirito umano», che vi mescola - miscela la più deliziosa - lo strano al meraviglioso, «filosofia veramente grossolana» di gente ignorante.
Basta e avanza richiamare solamente alcuni miti fondamentali ed esemplari per il loro valore e significato sia nelle religioni e letterature antiche, sia nelle riprese entro le letterature moderne. Queste, specialmente in certe epoche, in taluni generi letterari e in tematiche cruciali, sono state infatti dipendenti o hanno ripreso in vari modi, nel semplice modo poetico o nell’interpretazione e ricreazione letterario-filosofica, grandi e piccoli miti cantati dai poeti classici.
Il mito stabiliva un legame per i gruppi in cui veniva continuamente narrato, esprimeva e costituiva i valori e le istituzioni di quella società. L’aspetto religioso o d’intrattenimento è più accentuato negli uni o negli altri, nei miti cosmogonici e teogonici, eroici o genealogici, rituali o eziologici. Li cantava in epoca omerica l’aedo nel banchetto dei nobili, li ripetevano i cori nelle feste locali e panelleniche, li rappresentava il teatro nella città democratica.
Queste sono anche altrettante tappe e luoghi della sua evoluzione... I Greci cercarono di esorcizzare il mito tenebroso e fatale, di iniettargli una forma, che viene dall’intelligenza e dall’arte; di inserire divinità luminose e sane, belle e serene, la solarità senz’ombra, la luce senza tramonti, piuttosto l’umano, e quindi il possibile se non il vero, anche nella mitologia, anziché il mostruoso e l’assolutamente, inutilmente immaginario, come preferiva l’Egitto e preferirà il Medioevo nordico.
La decorazione scultorea del Partenone con la Centauromachia, l’Amazzonomachia e la Gigantomachia ricordava a tutti gli Ateniesi gli scontri millenari e immani da cui era nata la loro civiltà; la fatica e il rischio attraverso cui si civilizzano le nazioni e gli uomini. Perché un pensiero era insito sin dagli inizi in una simile immaginazione, e una simile mitologia era obbligata a procedere sino alla filosofia.
Il pensiero di Vico restituito dal manoscritto
di Armando Torno (Corriere della Sera, 07.02.2014)
La nuova edizione critica delle opere di Giambattista Vico era in corso dal 1982 presso Guida di Napoli. Da poco è passata alle Edizioni di Storia e Letteratura. Questa benemerita editrice ha riproposto i volumi già usciti e ha avviato la pubblicazione dei nuovi. A cura di Paolo Cristofolini e Manuela Sanna vede la luce La scienza nuova, 1744 (pp. 376, e 52; presentazione di Fulvio Tessitore).
Vico pubblicò la celebre opera in prima edizione nel 1725, ne seguì una seconda, rivista, nel 1730 (il testo critico di essa, con i medesimi curatori, uscì nel 2004 da Guida e ora è nelle Edizioni di Storia e Letteratura) e, infine, con ulteriori modifiche apparve l’ultima nel 1744. Quella che Cristofolini e Sanna definiscono «il momento culminante nell’attività di pensatore di Giambattista Vico». Il lavoro si può così riassumere: i curatori hanno collezionato il manoscritto autografo dell’opera (conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli) con l’editio princeps del 1744, uscita nella città partenopea dalla Stamperia Muziana «a spese di Gaetano e Steffano Elia».
La necessità di riprendere il manoscritto per qualche emendamento risale a Fausto Nicolini, che un secolo fa pubblicava nella compianta collana degli «Scrittori d’Italia» di Laterza un’edizione delle opere di Vico. Ma soprattutto, ricordano Cristofolini e Sanna, «sono già stati resi pubblici risultati di perizie ecdotiche più puntuali e circoscritte che dal testo fornito dal Nicolini hanno preso le distanze e hanno formulato nuove letture». D’altra parte, la stampa del 1744 offre qualche passo «di scarsa attendibilità».
I curatori dunque, partendo dal manoscritto considerato testimone fondamentale, hanno tenuto poi conto delle edizioni ottocentesche di Giuseppe Ferrari, di quella del Nicolini (che è stata la base per quasi tutte le novecentesche) nonché del lavoro di Andrea Battistini (curò una scelta di opere di Vico per i «Meridiani» Mondadori nel 1992).
Il risultato è questa nuova edizione con varianti a piè di pagina. Un testo più sicuro dei precedenti, che si avvale di oltre due secoli di ricerche e consente di ritrovare un’opera che Adorno consigliava di leggere e rileggere. In essa Vico espone una scienza umana a fondamento delle cui certezze pose la possibilità di considerare il «fatto», vale a dire quanto si compie o si produce, come «vero». Avviava in tal modo una polemica notevole con il razionalismo scientifico e metafisico di René Descartes. Filosofo che egli amava tradurre con la locuzione «Renato delle Carte»
SHAFTESBURY A NAPOLI (1711-1713) E CROCE A LONDRA (1923-1924). LA PUNTA DI UN ICEBERG.
Una nota *
Quale Cebete tebano fece delle morali, tale noi qui diamo a vedere una Tavola delle cose civili, la quale serva al Leggitore per concepire l’idea di quest’Opera avanti di leggerla, e per ridurla più facilmente a memoria, con tal aiuto che gli somministri la fantasia, dopo di averla letta. (G. B. Vico, “Spiegazione della dipintura...”, 1730, 1744)
Premessa. Il 26 agosto 1780, Pietro Verri, a cui Gaetano Filangieri da Napoli ha inviato la prima parte della “Scienza della Legislazione”, così risponde da Milano: “(...) alla pagina 59 del primo tomo ho ascoltata la voce di Ercole che ha rimbombato sul mio cuore, e ogni dubbio è svanito. A misura poi che mi sono avidamente inoltrato nella interessantissima lettura”. Il riconoscimento è grande: Filangieri ne è fiero e compiaciuto. Ma a cosa allude Verri, che Filangieri ben sa e bene accetta? Che cosa significa “la voce di Ercole”? A ben pensare, non ci sono dubbi: a cinquanta anni dalla pubblicazione della seconda “Scienza Nuova” (1730) e a trentasei anni dalla morte di Vico e dalla pubblicazione della sua terza “Scienza Nuova” (1744), è un omaggio dovuto e condiviso al lavoro di Chi in Ercole ha visto e teorizzato “il carattere degli eroi politici”, l’eroe fondatore di “ogni nazione gentile”:
“(...) questa Scienza, ne’ suoi Principii, - scrive Vico nella “Spiegazione della dipintura proposta al frontespizio, che serve per l’introduzione dell’opera” (1730 e 1744) - contempla primieramente Ercole (poiché si truova ogni nazione gentil’ antica narrarne uno, che la fondò); e ’1 contempla dalla maggior sua fatiga, che fa quella con la qual uccise il Lione, il quale, vomitando fiamme, incendiò la Selva Nemea, della cui spoglia adorno, Ercole fu innalzato alle stelle (il qual Lione qui si truova essere stata la gran Selva della Terra, a cui Ercole, il quale si truova essere stato il carattere degli Eroi Politici, i quali dovettero venire innanzi a quelli delle guerre, diede il fuoco e la ridusse alla coltura); - e per dar’ a intender’ altresì il Principio de’ tempi appo i Greci, da’ quali abbiamo tutto ciò, ch’abbiamo dell’Antichità gentilesche; i quali tempi incominciarono loro dalle Olimpiadi, co’ giuochi olimpici, de’ quali Ercole pur ci si narra, essere stato il Fondatore (...)” (“Scienza Nuova”, 1730).
LA PUNTA DI UN ICEBERG. Nel 1924, Croce è a Londra: alla “Modern Humanities Research Association” di Cambridge tiene la sua prolusione, è il suo “Presidential Address”, quale “presidente per l’anno 1923-1924”. Il titolo e il tema è “Shaftesbury in Italia”, vale a dire syl soggiorno di Lord Shaftesbury a Napoli dal 1711 al 1713, anni coincidenti con gli anni in cui Giambattista Vico era già un importante protagonista della vita culturale della Città. Il discorso è una brillante ricostruzione storiografica della figura di Shaftesbury, ma al contempo è anche una drammatica implicita confessione non solo del gran ritardo con cui egli ha messo a fuoco la presenza di Shaftesbury a Napoli ma anche - per contrasto - del limite della prospettiva con cui ha guardato al Vico filosofo, al Vico rappresentante di cultura, al Vico uomo (cfr. B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, 1911). Aveva ragione Nicola Abbagnano: “Attenzione a non valutare la biografia di un filosofo povera di eventi esterni”.
Benché Croce, già nel 1915, avesse cominciato a riflettere sul proprio percorso (cfr. Contributo alla critica di me stesso, Milano 1989), il suo orizzonte teoretico (gnoseologico-metafisico) è già chiuso e segnato: alle sue orecchie non è arrivata e non arriva alcuna “voce di Ercole”! Più tardi, come Gentile (e il Fascismo), farà il suo ‘concordato’ con la Chiesa cattolico-romana (cfr. B. Croce, Perché non possiamo non dirci cristiani, 1942) e continuerà a pensare nel solco di Hegel anziché di Vico: “la malattia morale” (1944) è superata, ma non risolta - l’Italia comincia a star meglio, ma non è affatto guarita! La “brutta dipintura” della “Scienza Nuova” del 1730, per quanto ignorata (e non ripresa nella “Scienza Nuova” del 1744, è un monito perenne - un invito a non lasciarsi sedurre dalla cattiva immaginazione e a percorrere “gli impervi sentieri delle Muse”, delle Grazie (“Charites”) e della Grazia (“Charis”).
ENZO PACI E VICO. Incredibilmente - poco dopo e negli stessi anni, nel 1944 (a duecento anni dalla morte di Vico e dalla pubblicazione della terza “Scienza Nuova”), a un militare italiano internato nel Lager di Wietzendorf capita di imbattersi in un libretto su La giovinezza di Vico (di Fausto Nicolini, Bari 1932) e di essere risvegliato dal suo sonno dogmatico dal rimbombo della voce di Ercole. Il militare intemato è Enzo Paci, che così poi ricorda e scrive da Milano: “Negli anni passati in Germania, in un campo di concentramento, la grande ombra di Vico venne a trovarmi e mi sembrò di sentire che tutta la sua opera era stata una lotta eroica contro la ingens sylva della barbarie (...)” (cfr.: Lettere di carteggio di Enzo Paci con B. Croce e F. Nicolini, a c. di A. Vigorelli, “Rivista di storia di filosofia”, I, 1986, p. 103). Egli, nel 1949, riprende il discorso su Vico (cfr. E. Paci, Ingens sylva, Bompiani. Milano 1994) e, nel 1954, dà vita alla rivista “Aut Aut”: nel nome, non solo il richiamo a Kierkegaard, ma anche il ricordo dell’‘incontro’ e della lezione dell’eroico Vico!
1.0 - SHAFTESBURY A NAPOLI. Ad ogni modo, la sorpresa di Croce, su quanto acquisito relativamente alla presenza di Lord Shaftesbury a Napoli, è grande: “La pubblicazione di lettere e frammenti inediti dello Shaftesbury, fatta dal Rand nei due volumi che s’intitolano The life, unpublished letters ad philosophical Regimen of Anthony, Earl of Shaftesbury (London, Sonnenschein, 1900), e Second Characters or the language of forms (Cambridge, University Press, 1914), mi ha messo innanzi molto materiale atto a illustrare il soggiorno dello Shaftesbury a Napoli; e questo materiale ho poi accresciuto con altre lettere e scritti di quelli che serbano ancora inediti nel Record Office, tra gli Shaftesbury Papers, da me consultati” (“La Critica”, 1925, 23, p. 2. Il rifermineto successivo del n. delle pagine, senza le note, è a questo n. della Rivista). E grande è anche la consapevolezza sul valore delle sue scoperte (per tutto ciò che riguarda Vico, evidentemente): l’anno successivo ripubblica il testo del suo discorso - già stampato in opuscolo a Cambridge - su “La Critica”, “pensando che possa riuscire di qualche interesse anche agli studiosi italiani” (p. 1). Ma i tempi sono quelli che sono: due anni dopo, nel 1927, “Shaftesbury in Italia” è ‘archiviato’ nei volumi di “Uomini e cose della vecchia Italia” (cfr. Laterza, Roma-Bari, 1956, vol. I, pp. 273-309).
1.1 - ROYAL SOCIETY, NEWTON, VALLETTA. Se Vico, nel 1725, invia a Newton una copia della sua prima “Scienza Nuova”, ha le sue buone ragioni: non è il gesto di un isolato dalla cultura europea del suo tempo! Una di queste ragioni è che egli, sin dagli anni degli studi universitari (1689-1693), era in relazione con Giuseppe Valletta. Ecco quanto Croce dice di lui nel suo discorso del 1924: a Napoli, “lo Shaftesbury entrò in relazione (...) con Giuseppe Valletta e col suo circolo (...) Valletta, già mercante e avvocato (...) conoscitore com’era, oltre che del latino e del greco, del francese, e dell’inglese, segnatamente verso l’Inghilterra tenne rivolto lo sguardo, e coi dotti e le società scientifiche inglesi coltivò corrispondenze. Di libri inglesi, scarsissimi allora in Italia, era assai ben provvista la sua libreria, e dall’ingese egli traduceva in italiano o in latino le notizie scientifiche, in specie quelle che la Società reale di Londra gl’inviava sulle esperienze che essa veniva compiendo. Il segretario di quella società, il Waller, gli richiese tra l’altro, nel 1712, una informazione - continua e precisa Croce - sull’eruzione del Vesuvio allora accaduta, e poi ancora sull’epidemia del bestiame che impersava in Italia, e le sue memorie su tali argomenti furono lette in quell’adunanza, presente e presidente il Newton. Così stimato era quei dotti - continua ancora Croce - che più volte gli fu offerta (narra un biografo) da milorfi e signori inglesi un luogo in quella Regia società: onore che egli modesto com’era, rifiutò” (pp. 5-6).
1.2 - VALLETTA, DORIA, E VICO. Premesso che Vico, negli anni della permanenza di Lord Shaftesbury a Napoli (1711-1713), è già tra i protagonisti della vita culturale della Città (nel 1708 tiene la settima orazione inaugurale “De nostri temporis studiorum ratione”, e nel 1710 pubblica il “De antiquissima Italorum sapientia”) , Croce così prosegue nel raccontare le sue acquisizioni e precisazioni progressive: “tra quegli amici del Valletta, frequentatori dello Shaftesbury, era Paolo Mattia Doria (...). Il Vico, che anche lo frequentava, lo dice “gran cavaliere e filosofo” (...). E’ possibile - continua Croce - che nel circolo del Valletta fosse già pervenuta o si sapesse qualcosa della prima edizione delle Characteristics, che è del 1711, e che si conoscesse alcuno dei giudizi che dei saggi dello Shaftesbury avevano dato i giornali letterari di Europa qui avidamente cercati e letti” (pp. 7-8).
1.3 - SHAFTESBURY, IL “GIUDIZIO DI ERCOLE”, E LA TAVOLA DI CEBETE. Nel 1712 il “famoso maestro” Paolo de Matteis, “il successore di Luca Giordano in Napoli” lavora per Lord Shaftesbury: “Il quadro che egli eseguì fu il Giudizio di Ercole o Ercole al bivio, secondo la favola di Prodico, per il quale il filosofo inglese gli fornì, in una speciale memoria stesa in francese, la più accurata analisi psicologica del soggetto, la determinazione del momento determinante da cui prescegliere, le fisionomia e gli atteggiamenti delle tre figure, di Ercole, la Virtù e la Voluttà. Preceduta, quella memoria scritta a uso del De Matteis, da una lettera sull’arte del disegno (A letter concerning the Art or Science of Design to Milord***) con la data di Napoli, 6 marzo 1712, e tradotta in inglese col titolo A notion of the Historical Draught or Tablation of the Judgement of Hercules according to Prodicus, fu divulgata sin d’alora e unita di poi alle edizioni e traduzioni delle Characteristics, portando sempre a capo, come pregio una piccola riproduzione del quadro del pittore napoletano” (pp. 12-13)”. Shaftesbury - continua Croce - “dopo aver scritto quella lettera [sul disegno] e la traccia del quadro di Ercole, e abbozzato una traduzione con commento della Tavola di Cebete, si veniva occupando nel mettere insieme gli appunti per un più ampio saggio da intitolare Plastics, or the original, progress and power of designatory Art: e di tutto questo pensava di fare un’opera da aggiungere alle prime Characteristics col titolo di Second Characters (“secondi parti nel dramma”) or the Language of Forms in four treatises). Sarebbe stata, questa, come la sua “Estetica”, da far sèguito alla “Filosofia morale” esposta nella prima opera” (pp. 17-18).
1.4 - PAOLO DE MATTEIS E DOMENCO ANTONIO VACCARO. Nell’illuminare meglio il rapporto di Paolo de Matteis con Shaftesbury, Croce racconta che ha anche avuto la fortuna di guardare “alcuni numeri superstiti di una Gazzetta di Napoli degli anni 1712 e 1713” (p. 11) e che nel numero del 2 aprile [1712] è scritto: “Domenica si aprì la prima volta la sagrestia di san Pietro a maiella dei padri celestini, dopo l’incendio del 1711, ed è riuscita assai vaga, sì per per la pittura del celebre Paolo de Matteis ed ornamento di Francesco saraceno, come ancora per il finissimo lavoro ad intaglio di noce, col pavimento di marmo mischio, l’uno e l’altro fattosi con l’assistenza dell’ingegnere Domenico Vaccaro” (p.12). La lingua batte dove il dente duole: la notizia illumina sì il rapporto del De Matteis con Shaftesbury, ma evidentemente ciò che colpisce Croce è la partecipazione ai lavori dell’ingegnere Domenico Antonio Vaccaro, il collaboratore di Vico, l’autore della “Dipintura” della Scienza Nuova del 1730 e del 1744. E questo a Croce, ovviamente, non sfugge e lo annota - per i posteri: chi ha orecchie per intendere intenda!
1.5 - LA SCELTA DI SHAFTESBURY: “PROMETEO”. Lontanamente dal pensare oggi che “l’idea (...) che è centrale per tutta la Scienza Nuova, è la stessa che sorregge la concezione che ha Shaftesbury della morale, della religione, e dei reciproci rapporti, la quale si può pensare che riguardi tanto il comportamento individuale quanto il corso storico dell’umanità (cfr. F. Crispini, L’etica dei moderni. Shaftesbury e le ragioni della virtù, Donzelli, Roma, 2001, p. 117), Croce dall’alto della sua conoscenza della storia dell’idealismo tedesco non si sbagliava del tutto nell’analisi delle tensioni dell’orizzonte teoretico di Shaftesbury: “Nell’estetica, del pari che nella filosofia morale, lo Shaftesbury non si pone il problema dialettico dello spirito e dei suoi momenti o forme, e dell’arte e della morale come momenti dialettici; non procede come, ai tempi suoi, e senza sua saputa, già faceva il Vico e, in certo senso anche il Baumgarten tentava; e, pur nondimeno - precisa Croce - egli reca un contributo di prim’ordine al chiarimento del vero concetto dell’arte. Quella sua Calogathia, quella sua sua concezione della moralità come bellezza e della bellezza come moralità (...) Si ricordi come egli parli, nelle Characteristics, del poeta, che non è per lui (come per i retori del suo e di tutti i tempi) il rimatore e il cadenzatore di periodi, ma “un altro creatore, un Prometeo, posto sotto Giove, e che simile a quest’artista sovrano o alla Natura plastica, forma un tutto legato e proporzionato in se stesso, con debita subordinazione delle parti costitutive, e segna i limiti delle passioni, conosce esattamente i loro toni e la loro misura, e perciò le rappresenta correttamente, mostra il sublime dei sentimenti e delle azioni, distingue il bello dal deforme, l’amabile dall’odioso, e in questo senso, e per questa necessità della rappresentazione vera, è un artista morale” (pp. 19-20). Croce, guardando dal punto di vista hegeliano ai segni del pensiero dello Shaftesbury in tutta la letteratura e la filosofia classica tedesca è impedito a comprendere che quelli “ritrovati e molteplici in Kant” hanno un valore tutto diverso, carichi come sono proprio della lezione di Shaftesbury “sull’entusiamo” e del suo lavoro critico sui sogni prometeici dei metafisici-visionari. Kant sapeva (grazie alle sollecitazioni di Shaftesbury, e a una immaginazione analoga a quella di Vico) - come scrive nel 1794 a Schiller- che “Solamente dopo aver domato dei mostri, Ercole diventa Musagete, ma davanti a tale fatica, queste buone sorelle, indietreggiano con terrore. Queste compagne di Venere-Urania sono sorelle cortigiane al seguito di Venere-Dionea, appena esse vogliono indicarne i moventi” (cfr. La religione entro i limiti della sola ragione, 1794- II ediz., Laterza, Bari 1980).
VICO E SHAFTESBURY. Lord Shaftesbury morì a Napoli il 15 febbraio 1713, a soli quarantuno anni. Nel 1730 Vico ha finito la sua seconda “Scienza Nuova”: se Shaftesbury fosse stato ancora vivo, egli sicuramente ne avrebbe spedito a Londra una copia! E questa volta la risposta certamente non sarebbe mancata: già solo a vedere la “dipintura” - la “Tavola delle cose civili”, Shaftesbury avrebbe accolto con socievole entusiamo l’omaggio e il lavoro del Filosofo conosciuto negli anni decisivi del suo soggiorno a Napoli.
* Federico La Sala (06.02.2014)
La lezione del mio maestro Enrico Guaraldo. Dopo, la letteratura non fu più la stessa
Immaginazione
La vera sapienza
Costruitevi un harem nella testa e affollatelo di sogni e fantasie Aiuta a vivere, ha ragione Flaubert
di Alessandro Piperno (Corriere della Sera/La Lettura, 19.01.2014)
Ero all’ultimo anno di università quando mi imbattei in quello che ben presto sarebbe diventato il mio maestro. Per quanto pomposo possa apparire è così che gli aspiranti accademici chiamano i propri mentori: maestro. Un po’ come in Guerre stellari fanno i giovani Padowan con gli Jedi.
Il mio maestro si chiamava Enrico Guaraldo. È morto l’anno scorso.
Quando lo incontrai, il mio disincanto per gli studi accademici aveva bucato il muro del suono dell’insostenibilità. Sebbene mi fosse stato inculcato un severo rispetto per le istituzioni, non ero riuscito ad accettare che una cosa splendida e scapestrata come la letteratura fosse trattata in modo così tedioso, supponente, pedestre e burocratico da individui privi di talento e fantasia. Frattanto gli ultimi fuochi dello strutturalismo avevano incenerito le ormai risicatissime foreste vergini del pensiero. Com’era possibile che i capolavori dell’umanità fossero commentati da saggisti il cui stile si riduceva al birignao torbido e oscuro di una losca tecnocrazia orwelliana?
Ecco lo stato del mio umore quando per la prima volta entrai nella classe in cui il professor Guaraldo teneva il suo corso sulla Bovary. Non era un uomo avvenente. Vestiva in modo lezioso (la lunghezza della cravatta superava disastrosamente le colonne d’Ercole della cintura di coccodrillo). Per timore dei germi, al posto del microfono messo a disposizione dalla facoltà, utilizzava un karaoke personale. Chiuse la porta a chiave. Per non dare adito a equivoci, ci spiegò che era permesso uscire dall’aula solo su una barella nel pieno di un attacco cardiaco. Poi lesse un pezzo di une delle lettere scritte dal giovane Flaubert a Luise Colet. Una specie di mantra ad uso di giovani scrittori. Da allora me lo sono ripetuto così tante volte che ho finito per impararlo a memoria: «Il faut se faire des harems dans la tête, des palais avec du style, et draper son âme dans la pourpre des grandes périodes». «Bisogna farsi degli harem nella testa, dei palazzi con lo stile, drappeggiare la propria anima della porpora dei grandi periodi».
Quando il mio futuro maestro prese a commentare queste strane parole, accadde qualcosa che ho seria difficoltà a descrivere. Fummo invasi da una specie di voluttà. Investiti da una freschezza balneare poco confacente a un’aula universitaria. Trascinati in un mondo diverso da quello in cui vivevamo, ma che, allo stesso tempo, in un bizzarro paradosso, sembrava scaturire dai luoghi più oscuri e misteriosi di noi stessi. L’ironia, l’arguzia, la competenza, l’erudizione, l’irriverenza, la spregiudicatezza, il gusto per l’analogia e per la divagazione, e una dose assolutamente irresistibile di piacioneria, tutto al servizio di una didattica impeccabile. Da allora le parole di Flaubert divennero il nostro grido di battaglia.
Gli harem nella testa
Bisogna farsi degli harem nella testa. È un’esortazione che Flaubert rivolge a se stesso. Che forse andrebbe allargata a chiunque. Bisogna riempirsi la testa di concubine o di gigolò. Bisogna abbandonarsi al fascino corrotto della molteplicità. Perché la mente è il solo luogo del nostro corpo in cui l’abbondanza non è insana; il solo angolo di mondo in cui l’omicidio non è punito, e l’incesto non giudicato; la sola alcova in cui accogliere la donna dell’amico senza per questo tradirlo.
Ciò di cui Flaubert sta parlando è l’immaginazione. L’unica cosa che conti realmente nella vita. Il guaio è che Flaubert non è Diderot. La folla che ingolfa la sua mente non è fatta di pensieri, ma di immagini. Di immagini lussuose e variopinte, di marmi, di palmeti marocchini, di donne e di uomini (già, pare che il Nostro avesse gusti anfibi). Immagini romantiche e truculente, gotiche e romantiche, talvolta persino stucchevoli e triviali, ma chi se ne importa... Un altro vantaggio della nostra mente è che là dentro è abolito il buon gusto.
I tempi lunghi della fantasia
Ecco uno dei consigli più preziosi che mi dava il mio Maestro: «Non legga avidamente. Legga con lentezza. E quando finalmente incontra una grande immagine, per carità di Dio, chiuda il libro. Non vada avanti. Se la goda un po’, quella immagine. Se la porti a letto, al bagno, al ristorante. Non se la lasci scappare. Ci giochi un po’. La stravolga se necessario. La modifichi a suo piacimento. Se ne appropri. A questo serve la letteratura».
Allora credevo che questo fosse il segreto di un vero lettore. Avrei imparato sul campo che questo è ancor più il segreto di chi scrive. Chiunque svolge questa professione sa che scrivere non è sempre una luna di miele. La paura di sbagliare, l’influenza mefitica di chi ti ha preceduto, l’orrore di te stesso, il senso di gratuità... Eppure ci sono momenti che qualsiasi imbrattacarte conosce, in cui improvvisamente sei visitato da un’immagine, una sola. Che ti sembra preziosa solo perché originale, solo perché non è corriva come tutte quelle che ti vengono in mente abitualmente. Ti senti felice, euforico. Per un momento ti sembra di capire ciò che intendevano i modernisti con il termine «epifania». È questa cosa qui. La gioia di un’immagine che ti si dona. Che ti gonfia il petto. Che un po’ ti fa ridere, un po’ ti commuove. Non è detto che sia un granché, ma almeno è tua come il tuo spelacchiato peluche. E allora che fai? Ti metti a scrivere? Ma sei matto? Vuoi rovinarti la festa? Neanche per sogno. Te la tieni per te. La smonti e la rimonti a piacimento. Usi parecchio il replay e il fermo immagine. I più spregiudicati ricorrono a una specie di photoshop interiore. Malgrado per me si tratti di un ricordo remoto, direi che gli amori dell’adolescenza (tanto meglio se non corrisposti) favoriscono certe euforiche fantasticherie. Trastullarsi con l’immagine di ciò che probabilmente non capiterà mai può regalare gioie insperate.
Ne Le botteghe color cannella - il più immaginifico memoir mai scritto - Bruno Schulz narra la strana avventura di suo padre. Un piccolo bottegaio askenazita che sceglie di staccarsi dalla realtà, per abbandonarsi sfrenatamente al suo mondo interiore fatto di immagini colorate, bizzarre e spaventose. Schulz racconta l’impazzimento paterno, l’irriducibile alienarsi dal mondo che coincide con il progressivo rimpicciolimento delle membra, degno di Alice nel paese delle meraviglie. Ma invece di condannarlo o assolverlo, Schulz lo glorifica, tributandogli retrospettivamente l’onore delle armi: «Soltanto oggi comprendo il solitario eroismo con cui egli, da solo, mosse guerra all’elemento sconfinato della noia che soffocava la città. Senza alcun appoggio, senza alcun riconoscimento da parte nostra, quell’uomo straordinario difese la causa persa della poesia».
Quindi, da una parte c’è la noia che soffoca la città, dall’altra la causa persa della poesia. E non è mica detto che per proteggersi dalla prima e per difendere la seconda uno debba per forza impazzire. Basta aprire l’album di fotografie interiori. Riesumare ricordi, talvolta persino inventarseli di sana pianta. Oppure prevedere il futuro, profetizzare. Che ne sarà dell’Imu nel 2530? E della Tares? E naturalmente ci sono sempre le stelle, gli alieni, altre civiltà del tutto inimmaginabili. Poi c’è l’arte, che resta pur sempre la vita interiore dell’umanità. Avete presente quando Woody Allen in Manhattan si mette lì a enumerare tutte le ragioni per cui vale la pena vivere? Ecco, una cosa del genere, ma con le immagini. Che so: Anna Karenina nello scompartimento del treno con un libro in mano mentre fuori imperversa una tempesta di neve. E, a proposito di bianco, il bicchiere di latte tracannato da Christoph Waltz in Inglorious Bastards. Gli occhi di Lucrezia Panciatichi dipinti da Bronzino. La Londra avvolta in una nebbia azzurrina delle prime indimenticabili pagine di Casa desolata. Il colpo di testa di Simeone contro la Juve che ci regalò lo scudetto. Una vacanza in Cornovaglia del 1984. Per non dire delle immagini lascive di cui è meglio tacere...
La regina delle facoltà
Del resto, enfatizzare l’aspetto ludico, per così dire disneyano, dell’immaginazione, è un modo fin troppo demagogico di porre la faccenda. Almeno per i miei gusti. L’immaginazione merita rispetto. Per questo è tempo di affidarsi a colui che ha scritto le pagine definitive sull’immaginazione. Sto parlando di Charles Baudelaire naturalmente, uno degli uomini più intelligenti del XIX secolo. Può esistere intelligenza senza ironia? Altroché se può! Baudelaire è la dimostrazione che forse l’intelligenza pura non conosce l’ironia. Lui non scherza mai. Lui si prende sempre dannatamente sul serio. Certe volte provo a immaginarmelo ridere a una barzelletta di un amico. Be’, non ci riesco. Baudelaire non ride. Baudelaire è sempre di una solennità insostenibile. Eppure non sbaglia un colpo. Ha una lucidità sovrannaturale. Soprattutto quando parla dell’immaginazione, che definisce la regina delle facoltà. «Tutto l’universo visibile non è che un deposito di immagini e di segni ai quali l’immaginazione deve attribuire un posto e un valore relativo: una sorta di nutrimento che l’immaginazione deve assimilare e trasformare. Tutte le facoltà dell’anima umana vanno subordinate all’immaginazione, la quale le requisisce tutte in una».
C’è chi ha amato vedere in questa idea baudelairiana una deriva fricchettona, una sorta di prefigurazione della famigerata «fantasia al potere».
Ora, basta conoscere Baudelaire per sapere che le cose non stanno così. Baudelaire detesta la democrazia non meno di quanto detesti la sovversione, in qualsiasi forma essa si manifesti.
Come dicevo, le sue idee non indulgono mai in alcun tipo di edonismo. Per lui l’immaginazione è davvero la cosa più seria di tutte. Come quando scrive: «L’immaginazione ha una parte decisiva anche nella morale; poiché, se mi è concesso di spingermi fino a questo punto, che cosa diviene la virtù senza immaginazione? È come dire la virtù senza pietà, la virtù senza il cielo; qualcosa di duro, di crudele, di sterile, che in certi luoghi si è risolta nella bigotteria, e in altri nel protestantesimo». Che idea magnifica! Pensate a quei censori, di cui oggigiorno il nostro Paese è pieno, sempre pronti a castigare i costumi altrui, a giudicarli. I professionisti dell’indignazione e del civismo. Cosa dire di questi inflessibili Robespierre, se non che sono uomini privi di immaginazione? Che cos’è l’empatia se non la forma più intima di immaginazione? Solo provando a immedesimarsi nelle debolezze degli altri si riesce a essere indulgenti e misericordiosi.
Allora forse Baudelaire ha ragione: l’immaginazione, a dispetto di quel che si potrebbe credere, è la sola vera sapienza. Semmai è la cosiddetta «realtà», ammesso che la si riesca a definire, a essere talmente pleonastica da risultare irrilevante e tediosa. «Trovo inutile e fastidioso - scrive ancora Baudelaire - rappresentare ciò che è, poiché niente di ciò che è mi appaga. La natura è laida, preferisco i mostri della mia fantasia alla volgarità del reale». Non mi sorprende che a un secolo di distanza, uno degli allievi più riottosi di Baudelaire, ossia Vladimir Nabokov, rincari la dose, anche se con toni più scanzonati: «La mente non afferra nulla senza l’aiuto della fantasia creativa, di quella goccia d’acqua che sul vetrino dà nitore e rilievo all’organismo osservato».
Dopo tutte queste elucubrazioni capisco perché fui tanto colpito dalla prima lezione sulla Bovary del mio Maestro. Quel modo fantasioso di insegnare e concepire la letteratura era davvero contagioso. Era aria di montagna per polmoni intossicati. «Non importa se un’idea è giusta e ragionevole» mi diceva sempre il mio Maestro. «L’importante è che non sia troppo noiosa». Chissà che, dopo tanto ciarlare, non serva a questo l’immaginazione? A non annoiarsi troppo.
Alessandro Piperno
La sapienza antica di Newton
Con il medesimo rigore con cui scoprì la gravitazione universale e il calcolo infinitesimale si applicò alla teologia e alla «prisca sapientia»
Voleva dimostrare che la civiltà ebraica è più antica di quella egizia
di Franco Giudice (Il Sole 24 Ore/Domenicam 19.01.2014)
A un osservatore sagace come Voltaire non era di certo sfuggita l’ostentata devozione con cui gli inglesi avevano dato l’ultimo saluto a Isaac Newton, «la gloria della nazione britannica», come lo definì una gazzetta nell’annunciarne la morte il 20 marzo 1727.
Nell’abbazia di Westminster, dove otto giorni dopo furono celebrati i funerali, il philosophe vide sfilare davanti ai suoi occhi il Lord Cancelliere, due duchi e tre conti che reggevano il feretro, con al seguito un lungo corteo che, oltre ai familiari, comprendeva numerose personalità di alto rango.
Un funerale di stato in piena regola, che si concluse con la sepoltura di Newton in «una posizione eminente» della navata centrale, alla stregua «di un re che avesse fatto del bene ai suoi sudditi», come con un po’ di sarcasmo annotò Voltaire.
Ovviamente, quei funerali così solenni rendevano omaggio all’uomo pubblico che nella sua carriera aveva ricoperto cariche prestigiose, al Newton cioè consigliere di fiducia del governo, direttore della Zecca, presidente della Royal Society e insignito del titolo di cavaliere dalla regina d’Inghilterra. Ma a essere celebrato era soprattutto il Newton scienziato, l’autore di capolavori come i Philosophiae naturalis principia mathematica (1687) e l’Opticks (1704), destinati a segnare per sempre la storia della scienza.
Nessuno o quasi sapeva che l’uomo seppellito con tutti gli onori a Westminster sul letto di morte avesse rifiutato i sacramenti della Chiesa anglicana, di cui deplorava il trinitarismo, che giudicava una forma di idolatria. Ed erano davvero in pochissimi a sospettare che Newton avesse dedicato un tempo incomparabilmente maggiore all’esegesi biblica, all’alchimia e alla cronologia universale che non a tutte le altre discipline da noi oggi considerate, in senso proprio, scientifiche.
Ma nel 1728, la pubblicazione postuma della sua Chronology of Ancient Kingdoms Amended (La cronologia degli antichi regni emendata) avrebbe fornito ai contemporanei un primo saggio di questi interessi, e scatenato subito un grande dibattito. Attraverso un estenuante sfoggio di fonti antiche, non privo di ardite speculazioni filologiche, Newton presentava infatti una drastica revisione della cronologia tradizionale, contraendo la storia greca di cinquecento anni e quella egizia di un millennio.
Sulle vere ragioni però che lo avevano spinto a una simile impresa il silenzio era pressoché assoluto. Ed è proprio su di esse che getta nuova luce il magistrale lavoro di Jed Buchwald e Mordechai Feingold, che ricostruisce il coinvolgimento di Newton nello studio della cronologia.
Newton iniziò a occuparsi di cronologia intorno al 1700, al culmine di approfondite indagini storiche che lo vedevano ormai impegnato da parecchio tempo. Aveva passato al setaccio una quantità enorme di fonti classiche, tra cui Erodoto, Clemente di Alessandria, Diodoro Siculo, Eusebio di Cesarea, insieme ad altri Padri della Chiesa e alle Sacre Scritture. Ma non si trattava di erudizione fine a se stessa.
Quelle letture, come mostrano Buchwald e Feingold, scaturivano da esigenze teologiche ben precise: ripristinare nientemeno l’originaria e vera religione, per capire come e perché si fosse corrotta. E in questo contesto risultava fondamentale spiegare le discrepanze tra la cronologia degli storici pagani e quella dell’Antico Testamento, l’unica che Newton considerasse attendibile.
Dopo lunghi anni di ricerche bibliche, Newton si era convinto che l’originaria religione monoteistica, quella cioè che Dio aveva insegnato ad Adamo ed Eva, fosse stata ripetutamente corrotta in una forma di adorazione di falsi déi. Restaurato da Noè, l’autentico culto di Dio fu di nuovo ristabilito da Mosè e poi da Gesù, cadendo però, a causa del trinitarismo introdotto dalla Chiesa cattolica, ancora una volta nell’idolatria. Newton credeva inoltre che le verità ricevute dagli ebrei non riguardassero soltanto il culto originario di Dio, ma anche l’universo che Egli aveva creato. A Noè e alla sua progenie Dio aveva infatti rivelato che la struttura del mondo è eliocentrica; una sapienza antica che si era smarrita con il sorgere di false religioni, a tutto vantaggio dell’erronea cosmologia geocentrica.
Fu sulla base di queste convinzioni che Newton scrisse La cronologia degli antichi regni emendata. Intendeva dimostrare che la civiltà ebraica, a dispetto dell’opinione prevalente, veniva senz’altro prima di quella egizia. Erano stati Noè, i suoi figli e nipoti che, dopo il diluvio, avevano portato in Egitto l’antica sapienza ricevuta da Dio, e che dagli egizi era stata poi trasmessa ai greci.
Come era possibile dunque conciliare la storia sacra con quella pagana? Newton non aveva dubbi: occorreva riformare la cronologia tradizionale degli antichi regni e correggerla attenendosi alle solide basi della Bibbia. Un’operazione tutt’altro che semplice poiché, a suo avviso, tutte le nazioni, a eccezione di quella ebraica, per accrescere la loro antichità si erano falsamente attribuite centinaia di anni in più. Ma che Newton intraprese con un metodo originale e complesso, dove per l’interpretazione delle fonti antiche diventava indispensabile l’uso della matematica e dell’astronomia. E che Buchwald e Feingold ci aiutano a seguire fin nei minimi dettagli, rivelandosi delle guide scrupolose ed eccellenti.
Si scopre così che un aspetto importante del metodo di Newton consisteva nel confutare, attraverso rigorosi calcoli matematici, il criterio di datazione degli antichi cronologisti. E che pertanto le loro cronologie dovevano essere significativamente ridimensionate rispetto alle loro pretese lunghezze. Ma a colpire ancor di più è il modo in cui Newton impiegava gli strumenti dell’astronomia per collocare la spedizione degli Argonauti, dietro il cui mito pensava si nascondesse un evento storico reale, 45 anni dopo la morte di Salomone. Un risultato, a suo avviso, della massima rilevanza, poiché gli consentiva di stabilire una nuova datazione della guerra di Troia, la cui distruzione sarebbe dunque avvenuta dopo la costruzione del Tempio di Salomone.
Newton, come ci ricordano Buchwald e Feingold, «lavorò su questi problemi fino a pochi giorni prima di morire», determinato a dare alla sua riforma della cronologia quel "rigore matematico" che tutti gli riconoscevano. Ma altrettanto determinato a occultare che tale riforma fosse strettamente legata al suo schema genealogico dei discendenti di Noè e al suo tentativo di restaurare l’autentica religione monoteistica. Gli esiti di queste ricerche preferì mantenerli segreti, disseminandoli in una massa impressionante di manoscritti.
La ragione era quanto mai comprensibile: la negazione della Trinità, nell’Inghilterra dell’epoca, costituiva un reato perseguibile per legge. E Newton lo sapeva molto bene: nel 1710, il suo discepolo William Whiston, che aveva scelto come suo successore sulla cattedra di matematica a Cambridge, fu bandito su due piedi dall’università proprio per aver pubblicamente sostenuto l’antitrinitarismo.
Sarebbe tuttavia riduttivo considerare il libro di Buchwald e Feingold come una semplice, per quanto apprezzabile, ricostruzione degli studi cronologici di Newton. Il loro obiettivo è decisamente più ambizioso: dimostrare che il Newton dedito alla teologia, alla cronologia, all’alchimia e alla prisca sapientia non avesse niente di diverso dallo scienziato che aveva svelato la natura composita della luce solare, inventato il calcolo infinitesimale ed enunciato la legge di gravitazione universale.
Una tesi, possiamo dire con un po’ di orgoglio, sostenuta già da un grande studioso italiano di Newton scomparso circa dieci anni fa, Maurizio Mamiani, cui dobbiamo la prima edizione mondiale del Trattato sull’Apocalisse (Bollati Boringhieri, 1994), ma che gli autori purtroppo non citano. In ogni caso, Buchwald e Feingold hanno il merito di aver analizzato tutti quei manoscritti che, soprattutto a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, rappresentano una sfida costante per chiunque si occupi di cose newtoniane, sollevando questioni di estremo rilievo.
Che legame c’è tra gli interessi documentati dai manoscritti e le ricerche di Newton nel campo dell’ottica, della meccanica e della matematica? Il Newton nel suo laboratorio alchemico, alle prese con crogioli e fornaci, era lo stesso che analizzava il passaggio della luce attraverso il prisma o che misurava la caduta dei gravi nei diversi mezzi? Cosa ha a che fare il Newton interprete dell’Apocalisse con l’uomo che scrisse i Principia mathematica? E come è possibile conciliare il Newton immerso nello studio della prisca sapientia con l’autore dell’Opticks?
È a queste domande che cerca di dare risposta l’imponente lavoro di Buchwald e Feingold, che documenta come l’approccio di Newton ai diversi campi del sapere si basasse su un "metodo unico", dove a contare erano sempre i numeri e i dati empirici, fossero essi i fenomeni osservativi piuttosto che le Sacre Scritture o le testimonianze dei classici. Un Newton insomma tutto d’un pezzo, destinato a far discutere gli specialisti, ma che rappresenta indubbiamente uno dei contributi più innovativi degli ultimi anni nella prolifica Newtonian industry.
Il problema della demarcazione
Come si individua la pseudoscienza
di Alessandro Pagnini (Il Sole 24 Ore/Domenica, 12.01.2014)
Stamina è un caso di "pseudoscienza", di "cattiva scienza" o di "falsa scienza con frode"? Nel nostro modo comune di affrontare certi problemi di plausibilità scientifica o di efficacia terapeutica non ci preoccupiamo gran che delle differenze e delle definizioni. Tuttavia un conto è sostenere il Disegno Intelligente rappresentando disonestamente come fallace la teoria dell’evoluzione solo perché si vuole impedire che un’educazione scientifica possa progressivamente sostituire un’educazione religiosa (che fa di certe spiegazioni ultime e di certi "misteri" la sua ragione); un conto è difendere una cura omeopatica credendo davvero nella sua efficacia; un altro ancora è lucrare sulla dabbenaggine e la disperazione della gente contrabbandando per scienza un’illusione.
Eppure se dovessimo dire quale dei casi citati è socialmente meno dannoso, soprattutto dopo aver riflettuto sulla ricca e documentata rassegna di esempi storici di "falsa scienza" che Silvano Fuso ci racconta, forse dovremmo dire il primo. Perché il Disegno Intelligente lo si può trattare a tavolino, magari con in mano qualche libro di supporto alle nostre argomentazioni; mentre gli altri costano: costano risorse economiche (per controlli alla fine inutili), costano tempo (e il tempo può a sua volta costare salute e vite umane), e soprattutto costano perché insinuano in menti deboli e ignoranti il tarlo dello scetticismo e della sfiducia nella scienza.
Ecco perché, da Hume in poi, i filosofi moderni hanno considerato importante quello che Popper battezzò come "problema della demarcazione". Finché però, nell’83, un saggio del filosofo e storico della scienza Larry Laudan ne decretò la "demise", ritenendolo uno "pseudoproblema" che nulla aggiunge, se non per una sua valenza emotiva e retorica, al problema della distinzione «tra una conoscenza affidabile e una conoscenza non affidabile», o ai tradizionali problemi relativi al controllo empirico di una ipotesi.
Oggi, a distanza di trent’anni, a dispetto della sua fortuna (qualcuno, non a caso di vocazione religiosa, lo ha addirittura considerato «uno dei saggi più importanti nella filosofia della scienza del XX secolo»), i contenuti del saggio di Laudan appaiono poco convincenti, talvolta concettualmente confusi, e i suoi argomenti, come anche le sue sinossi storiche, tutt’altro che incontestabili. Meno ancora appare accettabile il verdetto con cui esso liquida come inutile o fuorviante un interesse epistemologico sulla demarcazione. Lo si evince dalla raccolta di saggi curata da Pigliucci e Boudry che si concentra sul problema particolare di una possibile definizione di "pseudoscienza".
Va detto subito che nessuno degli autori che intervengono nella discussione pretende di aver trovato, né ritiene si possano trovare, i criteri necessari e sufficienti affinché si possa dire in assoluto di una teoria o di un’ipotesi se è scientifica o pseudoscientifica. E i più sembrano concordi nel differenziare i criteri di demarcazione tra ambiti di conoscenza diversi (tra scienze mediche, scienze fisiche e scienze della vita, per esempio), nel rispetto della specificità delle loro teorie, delle loro leggi (quando ci sono) e dei loro metodi. I più sono anche concordi nel riconoscere che il problema riguarda meno la logica o la metafisica che non una ragion pratica.
Ma l’idea di tutti è che quella demarcazione si abbia da fare; e che, anzi, non solo sia resa urgente dalle policies nella sanità, dall’allocazione delle risorse in medicina e negli investimenti per la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, da scelte e priorità nell’educazione, da questioni legali riguardo alle frodi e da questioni etiche sul tipo di modelli cognitivi destinati a orientare i nostri comportamenti e le nostre decisioni, ma che di fatto sia (spesso tacitamente) presupposta in gran parte delle nostre considerazioni e dei nostri atteggiamenti normativi e valoriali, e non solo quando si parla del ruolo della scienza e dello scienziato nella società.
Questo significa che il problema della demarcazione ci sfida a trovare soluzioni orientative, certo fallibili e revedibili, ma che riguardano in astratto e in generale una definizione di scienza (sia pure in termini di "somiglianze di famiglia" tra le sue unità), del tipo di quelle utilmente adottate, per esempio, dalla National Academy of Sciences, che periodicamente si premura di render pubblici dei criteri in base a cui valutare la "buona" condotta degli scienziati.
Ciò non ammonta a riesumare il mito del Metodo con la M maiuscola, inteso come algoritmo per dedurre verità; quello che Joseph Agassi icasticamente definì una «science sausage machine» (una macchina per fare scienza simile a quella che fa uscire le salsicce da un impasto prescritto in una ricetta). Serve solo a ricordarci che negare il Metodo non appiattisce la scienza su altre forme di conoscenza o di attività umana. Le differenze ci sono, ed è nostro obbligo, anche morale, renderne conto.
Non sto a elencare i numerosi spunti di grande interesse e attualità che questi due libri ci forniscono sia per comprendere le pseudoscienze sia per comprendere la scienza, e intendo concentrarmi brevemente su una domanda: c’è, nell’evoluzione cognitiva umana, una tendenza "naturale" all’irrazionalità, alla pseudoscienza, come qualcuno sostiene? La mente umana è equipaggiata di euristiche semplici e veloci, le cui operazioni configurano una razionalità adattativa, ecologica.
Tuttavia quando queste euristiche operano per risolvere problemi cognitivi astratti e complessi che richiedono una più lenta riflessione, se non c’è il vaglio di una razionalità normativa basata sulla logica e la probabilità, allora l’esito irrazionale diventa quasi inevitabile. Spesso l’autorità epistemica riconosciuta a una pseudoscienza è una scorciatoia alla fine della quale il pensiero trova l’approdo pigro di una credenza.
I rimedi non possono che essere a livello normativo ed educativo, e non possono che consistere nel favorire, pervasivamente, una forma mentis in cui logica, ragionamento, argomentazione ed etica (molto convincente, nel volume sulla pseudoscienza, l’argomentazione del logico Van Bendegem ... per un’«etica dell’argomentazione») trovino una loro naturale consistenza.
I due saperi, rivali o alleati
«Il Mulino» riapre il dibattito su scienza e umanesimo
Il degrado degli studi produce una politica senza idee
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 12.01.2014)
Il grido d’allarme in favore dell’umanesimo lanciato da Alberto Asor Rosa, Roberto Esposito ed Ernesto Galli della Loggia, pubblicato dalla rivista «Il Mulino», denuncia lo svilimento degli studi storici, filosofici e letterari come un pericolo mortale per l’Italia. Un tema che può essere considerato da svariati punti di vista. L’appello non è piaciuto agli autori convinti che il guaio peggiore del Paese sia piuttosto la carenza di cultura scientifica, mentre altri studiosi ne hanno apprezzato e sottolineato la valenza sul terreno politico.
Al primo gruppo appartiene Gilberto Corbellini, autore del saggio Scienza (Bollati Boringhieri): «Io insegno Storia della medicina e vedo che quasi tutti gli studenti escono dalla scuola superiore senza sapere nulla del metodo scientifico, senza avere idea, per esempio, di come si accerta l’efficacia di un farmaco: poi non c’è da stupirsi se si dà credito agli imbonitori, come nel caso Stamina».
A suo avviso l’appello uscito sul «Mulino» ha un taglio conservatore: «È pervaso dall’idea che la conoscenza umanistica sia più profonda e dinamica, rispetto al presunto appiattimento del sapere scientifico».
Assai diverso l’approccio di Massimo Adinolfi, docente di Filosofia teoretica e autore del saggio Continuare Spinoza (Editori Internazionali Riuniti), che ha commentato positivamente l’appello sul «Messaggero» del 5 gennaio: «Il punto cruciale colto dai tre sottoscrittori riguarda il destino della politica. Essa in Italia ha tratto la sua linfa da una tradizione impregnata di cultura umanistica. Se quel patrimonio storico finisce nel dimenticatoio, come sta accadendo, si perdono le coordinate della vita pubblica. E poi ci ritroviamo ad essere governati da partiti come quelli attuali: formazioni senz’anima e senza storia, incapaci persino di declinare un albero genealogico coerente».
Non tutti però apprezzano il retroterra della cultura politica italiana. Molto critico si mostra ad esempio il sociologo Luciano Pellicani nel libro Contro la modernità (Rubbettino), scritto con Elio Cadelo: «L’appello uscito sul “Mulino” - dichiara - rispecchia una grave arretratezza. Penso all’invettiva contro la cosiddetta “idolatria del mercato”, che forse ha un senso negli Stati Uniti, ma è paradossale in un Paese votato allo statalismo come il nostro. Quanto alla tradizione politica, nelle campagne elettorali italiane non si fa cenno ai temi della ricerca scientifica, che sono invece centrali nei dibattiti delle presidenziali americane. Lungi da me l’idea di sottovalutare l’importanza della letteratura o della filosofia, ma l’emergenza di cui soffriamo è su un altro versante».
Roberto Esposito, firmatario dell’appello, mette in guardia contro gli equivoci: «Abbiamo puntato l’attenzione sull’umanesimo in modo molto netto, forse anche provocatorio, ma non pensiamo certo che si debbano ridimensionare le discipline scientifiche. E siamo consapevoli della necessità di un’osmosi. Essa tuttavia è possibile solo se ciascuno dei due ambiti (anzi tre, se si aggiungono le scienze sociali come l’economia e la sociologia) mantiene la sua specificità. L’errore è omologare i saperi come fanno certi meccanismi di valutazione, tutti basati su parametri quantitativi e oggettivi, che non possono valere per gli studi umanistici, fortemente caratterizzati in senso qualitativo e soggettivo».
Su questo Corbellini concorda: «Anch’io trovo ridicole le modalità di valutazione oggi in uso e la sceneggiata dell’abilitazione nazionale per la docenza universitaria. I tre firmatari dell’appello hanno ragione nel definire umiliante e provinciale la richiesta che un commissario straniero partecipi alle procedure di valutazione. Ed è assurdo che chi scrive fesserie in inglese abbia più probabilità di essere abilitato rispetto a chi scrive cose intelligenti, ma solo in italiano».
Tuttavia, a suo avviso, questi sono proprio i risultati di una tradizione che ha svalutato la scienza: «La nostra classe politica, cui si devono i guasti denunciati sul “Mulino”, non viene quasi tutta da una formazione umanistica? Servirebbe una franca autocritica da parte di chi opera in quel campo. Invece l’appello esalta i tratti peculiari dell’identità italiana, proponendo quasi una riedizione del Primato di Vincenzo Gioberti, men- tre trascura il ruolo cruciale che la scienza ha giocato nello sviluppo della modernità, della tolleranza e della democrazia liberale».
È un’impostazione che non convince Adinolfi: «L’idea che tutti i Paesi si debbano adeguare a un modello unico liberale di matrice anglosassone mi sembra priva di senso storico. In realtà l’Italia del dopoguerra ha conosciuto enormi progressi economici e civili finché hanno tenuto i filoni politico-culturali originali radicati nella nostra vicenda nazionale, come il cattolicesimo democratico della Dc e la tradizione socialista del movimento operaio. Quando quei riferimenti ideali si sono consunti, il nostro Paese ha perso quota ed è entrato in una fase di grave declino».
«Vorrei ricordare - osserva a sua volta Esposito - che l’attuale ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, e il suo predecessore, Francesco Profumo, sono docenti di materie scientifiche, quindi il monopolio dell’umanesimo al governo non esiste più. Riconosco comunque che la tradizione culturale italiana è stata spesso interpretata in modo mediocre dalle classi dirigenti. Aggiungo che tuttavia negli Stati Uniti, dove ha sempre prevalso il sapere scientifico, oggi si riscopre l’importanza della visione umanistica e proprio la filosofia italiana è molto apprezzatra. Ma quella espressa nel nostro appello sul “Mulino” non è una posizione di difesa identitaria: semmai abbiamo voluto sottolineare una innegabile specificità italiana, cioè il ricchissimo patrimonio artistico e culturale che ci deriva dal passato. È una risorsa immensa, di cui altri Paesi non dispongono. Ma come si può valorizzarla, se si emarginano gli studi umanistici?».
Pellicani pensa che la priorità sia un’altra: «Mancano i laureati in matematica e in fisica, per giunta i più dotati tra loro vanno all’estero. E troppi studiosi di materie umanistiche continuano a ignorare gli sviluppi delle scienze naturali e il loro contributo alla comprensione delle nostre esperienze individuali e sociali. Mi sembra che temano un’invasione di campo, anche per la diffidenza diffusa verso tutto ciò che è misurabile e quantitativo. Io invece, come sociologo, giudico prezioso, per esempio, l’apporto della psicologia evoluzionista, che studia il tasso di condizionamento biologico nei comportamenti della specie umana».
Esposito nega però ogni paura di contaminazione: «Nessuna chiusura. Al contrario, personalmente parlo da anni di biopolitica, cioè sostengo la necessità di mettere in rapporto politica e dinamiche biologico-naturali. Neuroscienze e filosofia trovano un terreno comune nella categoria di bios, la vita biologica, attraverso la quale si va facendo strada un nuovo paradigma scientifico più flessibile, attento al divenire, alle differenze, alle varianti. Ma un confronto fecondo esige che non si pretenda di allineare tutti i saperi lungo l’unico orizzonte delle scienze naturali».
Un "appello" pedante e libresco. Asor Rosa, Galli della Loggia e Esposito "sulle scienze umane"
di Michele Dantini
Storico dell’arte contemporanea, critico e saggista *
Siamo certi che le discipline umanistiche possano nutrirsi di se stesse e insieme pretendere di conservare rilievo politico? O che gli attuali assetti scientifici e istituzionali debbano valere anche per le giovani generazioni? L’ Appello per le scienze umane di Asor Rosa, Galli della Loggia e Esposito si guarda indietro con nostalgia mentre dimentica di delineare innovative connessioni tra cultura critica, scienza e tecnologia (per non parlare di Rete o digitale).
Il ruolo delle Humanities è concepito con esclusivo riferimento alla memoria nazionale, in un’impenitente riedizione della figura risorgimentale dell’intellettuale vate. La specificità - o meglio il "primato" - italiano è invocato in polemica con il "progressismo illuminista e romantico" di Martha Nussbaum e gli intellettuali angloamericani a lei vicini. Alla capacità di Nussbaum di mobilitare un’ampia platea internazionale in merito a un problema tutt’altro che locale, cioè l’offensiva neoliberista contro l’educazione umanistica, Asor Rosa, Galli della Loggia e Esposito rispondono sollevando la richiesta di eccezione. Chiudono così la discussione in una riserva culturale.
Chiamato a impegnarsi in un interminabile esercizio di anamnesi, il pensiero dell’"origine" smarrisce ogni perspicuità e prontezza nel confrontarsi con processi storici concreti. Nell’Appello le "giovani generazioni" compaiono solo perché (con condiscendenza mista a ripugnanza e terrore) se ne deplorano la mancata formazione o l’infima cultura. I rari compagni di viaggio che i firmatari si scelgono con superstiziosa meticolosità appartengono alla generazione che va dai settanta agli ottanta (e oltre). Si fa ampio ricorso a retoriche identitarie, incuranti di distinguere un patriottismo civico e collaborativo dall’avocazione a sé di gratificanti ruoli senatoriali. Si sarebbe tuttavia dovuto mostrare maggiore attenzione al contesto economico e occupazionale. La domanda di professioni qualificate giunge oggi dalle imprese tecnologiche, non dallo Stato.
Il rapporto delle Humanities con scienza e tecnologia è considerato solo difensivamente, sul presupposto (a mio avviso fuorviante) della fatale distruttività di orizzonti culturali post-identitari. "Le discipline scientifiche", leggiamo, "le matematiche o l’ingegneria elettronica, la biologia molecolare o la geologia, sono dovunque le medesime, dovunque eguali a se stesse, e non a caso tendono sempre di più a esprimersi dovunque in una medesima lingua: l’inglese". L’affermazione riflette un punto di vista tanto semplificato e banale da destare non poche perplessità. Si è davvero a conoscenza di ciò di cui si parla? Ne dubitiamo. E’ sbagliato presupporre che nella ricerca scientifica e tecnologica non abbiano luogo processi linguistici e immaginativi complessi. Ed è limitativo ritenere che le discipline storiche, filosofiche e soprattutto letterarie abbiano repertori prefissati e immutabili. E’ vero il contrario: il pensiero critico (l’indagine "socratica" di Nussbaum) trae alimento proprio dal confronto con la cultura tecnica e scientifica.
In che modo le competenze umanistiche, opportunamente trasformate, possono contribuire a una corroborante messa a fuoco delle politiche del turismo, dell’industria creativa, digitali e del patrimonio? Non è dato sapere, eppure è proprio questo che si vorrebbe sapere. Ci si preoccupa del paesaggio e dell’eredità culturale pur senza nominare chi, tra gli storici dell’arte, si è più battuto in questi anni per una migliore cultura della tutela. Ma il punto di vista, mai posto in discussione, è quello di chi, con arroganza forse preterintenzionale, si autoproclama detentore esclusivo di conoscenze politiche, storiche e sociali.
Gli estensori dell’Appello non sembrano cogliere l’enormità delle mutazioni istituzionali, cognitive, neurali che l’ubiquità dei gadget va prefigurando per ciascuno di noi. Non c’è alcuna necessità di indulgere alla detestabile retorica dei "nativi digitali" per comprendere come l’interazione tra mente e macchina ("intelligente") determini inediti processi di adattamento bioevolutivo e imponga di modificare in profondità le gerarchie dei saperi. Al pari di psicologi cognitivi, neuroscienziati o tecnologi "critici", gli umanisti possono partecipare utilmente al dibattito sull’innovazione tecnologica. O meglio: hanno l’obbligo di farlo. E’ loro compito contribuire alla manutenzione di un’opinione pubblica informata e indipendente o incoraggiare l’abitudine al libro, alle buone pratiche argomentative e alla scrittura.
L’assenza di un "oggetto" disciplinare rigidamente precostituito può costituire un vantaggio specifico, a patto però che ci si impegni a maturare competenze duplici e ci si spinga di tanto in tanto al di fuori del logoro recinto dei saperi antiquari. La contrapposizione tra competenze storiche e competenze scientifiche o tecnologiche non ha in sé niente di "umanistico": semmai di corporativo. Denuncia inoltre un allarmante deficit di comprensione storica e (per così dire) epistemologica del presente.
L’attitudine all’autocommiserazione affiora stridula e petulante. I "decisori" ci ignorano, questa la tesi dell’Appello; e l’attuale classe politica è sprovvista di competenze (o sensibilità) umanistiche. Non intendo certo negare la circostanza, al contrario. Osservo solo che una qualsiasi dimostrabile ratio economica è assente dal testo e che elementi congiunturali tanto decisivi quanto drammatici, disoccupazione e sottoccupazione giovanile ad esempio, sono ignorati dai tre intellettuali. Come difendere l’occupazione qualificata nell’ambito delle professioni culturali? Questa è la domanda che una riflessione politico-istituzionale responsabile dovrebbe stabilire come prioritaria. Perché tanta insensibilità al tema del lavoro? Se bene intesa, la formazione umanistica ha il compito di debellare culture libresche e dissociative, in definitiva autoritarie.
Si rimpiange il liceo classico d’antan, luogo di selezione delle élite gentiliane e postgentiliane. Il latino, scrivono Asor Rosa, Galli della Loggia e Esposito con trepida metafora amniotica, è il "grembo linguistico nel quale più di metà della storia europea si inscrive". Forse: ma questo non rende meno affascinanti o necessarie, per un paese culturalmente retrivo come l’Italia, la fisica quantistica, l’etologia cognitiva o gli studi culturali.
Infine: appare scientificamente scorretta l’attitudine a ignorare debiti intellettuali. Si contesta l’ANVUR: ma si dovrebbe riconoscere, citando, l’impegno di chi lo fa da lungo tempo in modo ragionato e condiviso. Si insorge contro le retoriche pro-innovazione tecnologica di ministri come Profumo: eppure non ricordo che i tre firmatari siano intervenuti tempestivamente quando, Profumo ministro, le testate con cui loro stessi collaborano da tempo immemorabile gareggiavano nel promuoverne iniziative e rilanciarne i più risibili proclami.
Il competitivo egotismo è il grande torto di un "appello" che ha dalla sua alcune piccole ragioni. Non un dubbio sull’esaurimento del "mandato". Né tantomeno una riflessione sul venir meno della propria autorevolezza (o "morfologia") di intellettuali. Si pretendono pur sempre per sé posizioni di stizzosa contiguità al potere. L’omaggio a Pasolini appare strumentale.
DONNE, UOMINI, E DISORDINE SIMBOLICO
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DEL FIGLIO CON LA MADRE, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". Dalla democrazia della "volontà generale" alla democrazia della "volontà di genere". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
Un Natale nel nome di Isacco (Newton)
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 29.12.2013)
Lo scorso mercoledì una parte del mondo occidentale ha meditato sulle parole del Vangelo secondo Giovanni (I, 6-7): «Venne un uomo mandato da Dio», e «venne come testimone per rendere testimonianza alla luce». E ha festeggiato quell’uomo, che cambiò la storia dell’Occidente, e nacque il giorno di Natale: ma non dell’anno 0, bensì del 1642. Quell’uomo aveva un nome biblico, ma non si chiamava Giovanni o Gesù: bensì, Isacco, o meglio, Isaac.
In realtà, quell’uomo nacque il giorno di Natale solo in Inghilterra, dove la riforma del calendario non era ancora stata adottata: nelresto d’Europa, si era ormai già al 4 gennaio 1643. Ciò nonostante, in Inghilterra il 25 dicembre continua a esser chiamato non solo Christmas, ma anche Newtonmas.
Perché è appunto di Newton che stiamo parlando: un uomo che “rese testimonianza alla luce” in un libro chiamato Ottica, nel quale spiegò al mondo che la luce bianca in realtà è un miscuglio di luci colorate, nelle quali si può decomporre facendola passare attraverso un prisma, e che si possono ricomporre facendole ripassare attraverso un prisma invertito. Solo la mela che ispirò allo stesso Newton la legge di gravitazione universale può competere con il suo prisma nell’immaginario scientifico collettivo, come simbolo del colpo di genio in grado di cambiare la storia del pensiero e dell’uomo.
È per questo che, quando Newton morì, Alexander Pope compose un epitaffio che paragonava la sua nascita non solo a quella di Cristo, ma addirittura alla creazione del mondo: «God said: Let Newton be, and all was light», ossia “Dio disse: Sia fatto Newton, e la luce fu”. Ed è per questo che il 25 dicembre molti si sono augurati, invece che un religioso Merry Christmas, un laico “Merry Newtonmas”!
Il Rinascimento di Galileo
di Carlo Rovelli (Il Sole-24 Ore-Domenica, 22.12.2013)
L’ italiano che ha avuto più influenza sulla storia del mondo, sullo sviluppo della civiltà nella quale viviamo oggi, è con ogni probabilità Galileo Galilei. Il suo contributo alla cultura dell’umanità è impressionante. Galileo è stato il primo a comprendere che possiamo imparare interrogando la natura con degli esperimenti: i primi esperimenti scientifici della storia sono stati compiuti da lui. È stato il primo ascrivere una precisa legge matematica per descrivere i movimenti delle cose sulla Terra. Questo ha aperto la strada al mondo moderno, dove oggi calcoliamo tutto usando la matematica: dai ponti ai computer, dalle previsioni del tempo ai viaggi interplanetari Galileo è stato il primo a usare strumenti scientifici (il telescopio) per osservare il mondo. È stato il primo a osservare cose, fuori dalla Terra, che nessun umano aveva mai visto prima: dai satelliti di Giove, alle fasi di Venere, dagli anelli di Saturno alle macchie solari. Il mondo con Galileo si è ingrandito immensamente: l’umanità si è resa conto di avere la possibilità di vedere lontano. Quasi nulla, né della nostra attuale visione del mondo, né del modo in cui viviamo oggi esisterebbe, senza questo passaggio essenziale che è stata la scoperta della metodologia scientifica di base. Il fatto che sia stata la stessa persona a essere il primo sperimentatore, il primo fisico matematico, e il primo a osservare il cielo, ha del prodigioso e lascia ancora esterrefatti. Eppure l’uomo Galileo Galilei resta controverso, come è stato tutta la sua vita. La valutazione di ciò che ha fatto, perché lo ha fatto e come lo ha fatto, resta dibattuta. Chi era Galileo Galilei? Italianissimo nelle sue straordinarie doti di acume e inventiva, quanto nei suoi giganteschi difetti, è stato descritto come megalomane, attaccabrighe, inaffidabile, adulatore, venditore di fumo, vanitoso, isterico. Un ciarlatano, per il filosofo della scienza austriaco Paul Feyerabend. Un disonesto, per Arthur Koestler. Anche il modo in cui è arrivato ai suoi risultati mirabolanti è oggetto di controversia. La sua prima legge ci dice che i corpi pesanti cadono con accelerazione costante. Oggi ci sembra naturale, ma per secoli nessuno lo sapeva. L’idea stessa di accelerazione, rivelatasi poi fondamentale per la fisica di Newton e la scienza moderna, è stata chiarita con precisione solo da Galileo. Galileo scrive che ha scoperto la sua legge misurando la velocità a cui rotolano palle lungo una discesa. Ma negli anni Trenta lo storico della scienza Alexandre Koyré ha messo in dubbio il suo resoconto, sostenendo che Galileo non aveva mai fatto gli esperimenti che dice di aver fatto. Sennonché negli anni Sessanta lo storico inglese Stillman Drake ha mostrato che Koyré sbagliava, studiando i manoscritti sparpagliati che restano di Galileo, riuscendo a ricostruirne l’ordine cronologico grazie all’evoluzione della grafia (mettete la data sulle vostre note, se pensate di avere qualche chance che il futuro si interessi a voi) e trovando i numeri delle misure delle palle che rotolano, a conferma, almeno parziale, della versione di Galileo.
Ma la questione che più suscita conflitto è l’accanimento della Chiesa cattolica contro di lui. Aveva ragione Galileo a dire che la Terra gira attorno al Sole. Però aveva ragione il cardinale Bellarmino, poi santo, a dire che prove certe Galileo non le aveva, e quindi si trattava solo di ipotesi. Ma aveva ragione Galileo a dire che era alle «sensate osservazioni e ragionevoli deduzioni» che bisognava rivolgersi per sapere chi girasse intorno a cosa, e gli interpreti della Bibbia avrebbero dovuto adeguarsi. Ma aveva ragione Bellarmino a dire che chi interpretasse la Bibbia era affare della Chiesa e non di Galileo. D’altra parte aveva ragione Galileo a dire che lui voleva poter cercare la verità a modo suo. E ancora oggi di questo la Chiesa cattolica non è del tutto convinta. Ma obbligare un vecchio di settantanni, malato, stanco, coraggioso, un immenso scienziato, a inginocchiarsi davanti ai Cardinali e chiedere perdono per le sue idee («Io, Galileo inginocchiato davanti a voi ... giuro che ho sempre creduto, credo adesso, e... sempre crederò, tutto quello che tiene e predica et insegna la Santa Chiesa... abiuro e maledico e detesto i miei errori ed heresie... giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa haver di me simil sospitione»), impedirgli di scrivere quello che pensava, imprigionarlo in casa per il resto della vita, tutto questo resterà un’onta sul cattolicesimo. Ma in fondo non era forse colpa di Galileo, che aveva dato importanza al Vaticano? Fosse restato a Padova, avesse parlato di scienza con gli scienziati del Nord Europa, come Keplero che non chiedeva che di comunicare di più con lui, invece di andare a Firenze e poi a Roma, probabilmente nessuno gli avrebbe dato fastidio. Forse Galileo è stato troppo buon cattolico, cercando di smuovere quello che non si poteva smuovere. Da parte sua, quello che la Chiesa cattolica è riuscita a ottenere condannando Galileo è stato solo tagliare fuori l’Italia dalla crescita culturale dell’Europa dei secoli seguenti. L’eredità del grande italiano sarà raccolta in Inghilterra, nei Paesi Bassi, in Germania, in Francia, dove le gerarchie cattoliche potevano poco. Da ogni parte lo si guardi, Galileo è personaggio che suscita controversie. Come potrebbe essere altrimenti, forse, per l’uomo che ha preteso di essere il paladino della ricerca libera della verità, ma ha abiurato per paura? L’uomo che poteva starsene a Padova, sotto la libera e liberale Venezia che lo lasciava pubblicare quello che voleva, ma è andato invece a cacciarsi sotto l’ala di un principe assolutista a Firenze, Cosimo dei Medici, e poi di sua volontà a Roma a disturbare gesuiti e cardinali per farsi dare ragione anche loro?
A cercare di mettere ordine in questo guazzabuglio storico, e fare un punto sulla vasta letteratura dedicata a Galileo, esce in Italia un corposo volume di un grande storico della scienza inglese, John Heilbron, ottimamente tradotto da, e a cura di, Stefano Gattei. Con una quantità di informazioni che lascia stupiti, e una acuta comprensione del mondo in cui si muove Galileo e della sua scienza in farsi, Heilbron ricostruisce puntigliosamente la sua vita tempestosa, i suoi scontri, l’evolvere delle sue idee, le cautele e le presunzioni. Soprattutto, le sue molte relazioni intellettuali, dalle amicizie giovanili dalle quali nascono le prime idee sul moto, all’inizio dell’Accademia dei Lincei («una banda omoerotica incline al misticismo e al melodramma, organizzata come un ordine religioso e pericolosamente vicina all’eresia»; oggi è cambiata, l’Accademia dei Lincei). Heilbron cerca di alleggerire il testo aggiungendo ironia e giochi di parole (Galileo, carattere ostinato, che va verso Roma a cavallo di una mula diventa: «La piccola mula e il grande mulo»...), giochi di parole continui, fortunatamente diradati nella traduzione italiana. La vita di Galileo scorre giorno dopo giorno davanti ai nostri occhi, con i suoi crucci e le sue debolezze. Il Galileo che ne emerge è un uomo profondamente parte della cultura tardo rinascimentale italiana, un prodotto di questo momento splendido del nostro passato.
Grandissimo scrittore, forse fra i più grandi prosatori che abbia avuto la nostra lingua, musicista, critico letterario, artigiano, cortigiano, intrallazzatore, capace di mettere tutto questo al servizio di una grande nuova idea. È bella questa immagine di Galileo umanista, appassionato di Dante e innamorato di Ariosto quanto di Euclide e Archimede, grande maestro nell’uso delle parole, che ci riporta all’unità e alla coerenza spesso dimenticata del nostro sapere. Il segreto del genio di Galileo, per Heilbron, è nella combinazione delle sue doti di scrittore, musicista, artigiano, disegnatore, matematico e filosofo, nella capacità profondamente rinascimentale di fare funzionare tutto questo insieme. La scienza moderna è radicata in questa splendida alchimia italiana. Ma il Galileo di Heilbron è anche un Galileo che sembra si occupi di più di politica che di scienza, un Galileo che sembra trovare per caso sue straordinarie intuizioni, e si occupa principalmente di divulgarle. Tutt’altro Galileo era descritto in La figlia di Galileo di Dava Sobel, ripubblicato l’anno scorso da Rizzoli nella Biblioteca Universale. Costruito come un commento intorno alle lettere che Suor Maria Celeste, ovvero Virginia, figlia prediletta di Galileo, mandava regolarmente al padre adorato, il libro si legge con facilità e ci mostra un lato molto umano dello scienziato. A Padova, dove aveva fatto le prime scoperte che lo renderanno famosissimo, il giovane scienziato aveva amato Marina, donna Veneziana del popolo, senza poterla sposare, e ne aveva avuto tre figli «nati da fornicazione» come si diceva, a cui era rimasto molto legato. Virginia muore a trentatré anni, poco dopo il processo di Roma e l’abiura che hanno devastato suo padre. «Una tristizia e melanconia immensa, inappetenza estrema, odioso a me stesso, et insomma mi sento continuamente chiamare dalla mia diletta figliola», scrive il vecchio leone.
Continuerà a lavorare scrivendo in vecchiaia pagine fondamentali per la nascita della meccanica, ma perderà la vista: «Quell’universo ch’io con mie meravigliose osservazioni e chiare dimostrazioni aveva ampliato per cento e mille volte più del comunemente creduto da’ sapienti di tutti i secoli passati, ora per me si è diminuito e ristretto, ch’è maggiore quello che occupa la persona mia». Il libro di Dava Sobel aggiunge poco a quello che di Galileo già si sapeva, ma ci fa sentire il suo dolore, la sua passione, ci fa meravigliare alla sua grandezza. Forse non è ancora stata scritta la biografia di Galileo che sappia ricostruire il Galileo che stava dietro tutto questo. Quello che deve avere passato innumerevoli notti a guardare le stelle con il suo cannocchiale mal funzionante, prendendo appunti alla luce di una candela, provando e riprovando una lente dopo l’altra. Quello che deve avere passato innumerevoli ore a scrivere e riscrivere linee di matematica su taccuini sgualciti, a rileggere Aristotele per capire dove fosse il giusto e dove fosse l’errore, rileggere Archimede per trovare il teorema giusto. Quello che deve avere passato giorni e giorni a fare rotolare palle lungo discese di legno, senza all’inizio riuscire a capire come davvero cadessero. È da questo Galileo segreto e forse irraccontabile, credo, che è nata la scienza moderna, non dall’attaccabrighe che voleva farsi dare ragione dai cardinali. Heilbron prova a permettersi solo un’occhiata verso tutto questo, in un bellissimo dialogo sulla scienza del moto fra Galileo e Alessandro, un suo alter ego immaginario, che è la pagina più bella del libro. Non di più. Qualcosa di questo genio universale, che ha cambiato la nostra relazione con la realtà, resta ancora misterioso. Ma chiunque fosse stato davvero Galileo, ci resta il cuore del suo messaggio, un messaggio di scoperte, di idee e di metodo che hanno fondato il mondo moderno, un messaggio scritto in libri bellissimi, in un italiano incantevole, che indicano una strada che si è rivelata essere una strada meravigliosa: la possibilità di studiare e comprendere il mondo, di imparare cose infinitamente utili, di guardare più lontano. Grazie Galileo.
John Heilbron, Galileo, trad. e cura di Stefano Gattei, Einaudi, Torino, pagg. 544, € 32,00
Dava Sobel, La figlia di Galileo, Rizzoli, Milano, pagg. 426, € 10,90
Ma la «luce della fede» non puà accecare il mistero
di Vincenzo Vittiello (l’Unità, 19 luglio 2013)
Lumen fidei , la prima enciclica di papa Francesco, l’ultima di Benedetto XVI, riprende il tema, già affrontato da Giovanni Paolo II nella Fides et ratio , per due ordini di ragioni: perché la fede è il problema centrale del cristianesimo in rapporto alla sua radice ebraica, e perché è la risposta del cristianesimo alla crisi del mondo contemporaneo. Le due ragioni sono strettamente legate. Il punto 23 dell’Enciclica ricorda l’episodio biblico narrato in Isaia 7, 9: al re Acaz che voleva far alleanza con l’Impero degli Assiri, per proteggersi dai suoi nemici, il profeta, invitandolo a confidare solo nell’aiuto di Dio, l’ammoniva: «Se non crederete ( ta’aminu ) non resterete saldi ( te’amenu )».
Ma nella versione (greca) dei Settanta si legge: «Se non crederete, non comprenderete». Il Pontefice, nel rilevare la differenza tra i due testi, ne evidenzia insieme l’«affinità»: il «comprendere» di Isaia - scrive - si riferisce all’agire di Dio, a ciò che dà stabilità alla «vita dell’uomo e (alla) storia del suo popolo». E cos’è la fede se non l’affidarsi a Dio? Il riferimento all’antico spiega il presente. La fede, nell’età di crisi della modernità, e cioè non solo delle ideologie ma più ampiamente del rapporto sapere-potere, è riparo sicuro per l’uomo. Il lumen fidei dà quello che la ragione umana non è in grado di dare, perché viene dall’Alto e dall’Altro: non è la soggettiva presunzione della ragione umana che volendosi universale ha prodotto solo tirannia e guerra, come testimonia il secolo mal definito «breve», dacché non pare affatto sia «passato». La fede, che viene dall’Alto e dall’Altro, che è Amore oblativo, Agape, andando incontro a tutti e a ciascuno, illumina e non costringe. È, pertanto, intrinsecamente plurale - spiega il teologo Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, nella sua introduzione-commento all’Enciclica (La Scuola, Brescia). Le braccia della Chiesa di Roma si aprono al mondo. Alla storia, all’uomo e agli uomini. Alle altre fedi religiose. Nulla escludono, con tutti e su tutto dialogano.
Le parole che ricorrono più di frequente in questa Enciclica sono: fede, ragione, Verità, visione. Per leggere «mistero» bisogna andare oltre la metà del testo, e la parola non ricorre che quattro volte, di cui una al plurale: «I misteri della morte, della resurrezione e della ascensione al Cielo» di Cristo (p. 48). Mistero peraltro aperto alla ragione, che con la sua «propria disciplina» è in grado di esplorarne «le insondabili ricchezze». E alla ragione del credente è aperto anche «il segreto più profondo di tutte le cose»: «la comunione divina» (pp. 60-61). Non il Mistero avvolge e compenetra di sé la fede; bensì la fede illumina il Mistero.
Ma è luce troppo forte, la luce di questa fede, che si pone sullo stesso piano dell’avversario che combatte. Ha infatti la stessa pretesa arcontica della ragione che accusa di idolatria. L’insistenza sulla fede che o è una o non è fede, rende vana l’apertura alle altre religioni. La stessa alterità di Dio è dubbia, se poi di Dio si dice che è Conoscenza, Potere, Amore. Questa teologia rischia - per dirla con Vico - di Dei Deum se facere : di farsi Dio di Dio.
Certo dimentica che Dio è sì Amore, ma non solo Amore: «Ho amato Giacobbe, ho odiato Esaù» (Malachia, 1, 2-3). E non solo l’Antico Testamento parla dell’ orghè thoû theoû , dell’ira di Dio, anche il Nuovo: «Non crediate ch’io sia venuto a portare la pace su questa terra; non la pace sono venuto a portare, ma la spada» (Mt, 10.34). Se Dio, come Anselmo, filosofo grande, e santo della Chiesa di Roma, ci ha insegnato non è solo ciò di cui non si può pensare il maggiore, ma è anche ciò che è maggiore di quanto si possa pensare, allora tutto ciò che diciamo di Dio definisce solo noi: i nostri limiti. Che sono tali se ed in quanto non vengono assolutizzati, cioè se ed in quanto riconoscono il Mistero.
È, questa, l’esperienza della fede che non pretende di vedere dalla prospettiva di Dio, ma resta nella sua umana finitezza, particolarmente quando si sente destinataria di un dono che la trascende. Questa fede non può non chiedersi dove termina il dono e dove inizia la responsabilità di chi ha ricevuto il dono. L’accoglienza del dono è altra dal dono o non è pur essa parte del dono? Ha senso parlare di una fede non accolta? Domande antiche che rendono la fede debole, di quella debolezza che Paolo esaltava, e che il Santo di Assisi fece regola della sua vita.
Questa fede debole, il cui lume non splende più della luce di una candela, non accoglie l’altro in sé, non l’abbraccia, non lo stringe a sé, gli vive accanto. Non dialoga con lui, prega accanto a lui, ciascuno con le proprie preghiere, ciascuno volgendosi al suo Dio. Accanto a chi non ha parole di preghiera, né Dio a cui rivolgersi. Nell’ultima parte dell’Enciclica, ove pure è ancora presente la «fede» nell’unicità della fede, s’avvertono altri toni, risuonano altre parole, emergono altri rapporti: a quello tra fede e verità, fede e visione, succede l’altro, più legato alla fragilità dell’amore umano, il rapporto tra fede e sofferenza, fede e speranza. La speranza che non vede, perché quella che vede non è speranza (Rm, 8.24). A Lampedusa Papa Francesco ha detto «noi non sappiamo più piangere». Sunt lacryme rerum . Se ha da esserci «consolazione», se proprio non sappiamo farne a meno, che almeno sia questa, che spezza ogni cerchia dell’umano.
La zattera della religione nel naufragio delle ideologie
di Bruno Forte (Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2013)
È stato Hans Blumenberg a scegliere la metafora del naufragio come strumento interpretativo dell’epoca moderna e della sua crisi (Naufragio con spettatore, Il Mulino, 1985). Perdu te le certezze che il positivismo e le ideologie avevano offerto, siamo diven tati tutti dei naufraghi, spettatori al tem po stesso del nostro naufragio.
Sta qui la differenza fra la crisi del 1929 e l’attua le: allora il mondo delle certezze ideolo giche si presentava come la possibilità alternativa alla crisi, una terra ferma da cui guardare l’altrui naufragio.
Oggi, dopo la fine delle ideologie e il crollo del sistema dei blocchi contrapposti, non è più così. La sola possibilità di salvezza sta nel farsi una zattera con i resti della nave naufragata. Proprio così, l’imma gine del pensatore tedesco si schiude sull’orizzonte di un’attesa, che richia ma l’affacciarsi di un bisogno collettivo di senso, di etica e di spiritualità. La ri sposta a questo bisogno è, però, tutt’al tro che univoca nel "villaggio globale".
L’ immagine del mare mobile, incostan te, richiama anzi un’altra metafora, non meno importante per capire dove siamo, quella della liquidità. A servirsene con singolare flessibilità è il sociologo britannico, di origini ebraico-polacche, Zygmunt Bau man. Nel nostro tempo - egli afferma- «model li e configurazioni non sono più "dati", e tanto meno "assiomatici"; ce ne sono semplicemente troppi, in contrasto tra loro e in contraddi zione dei rispettivi comandamenti, cosicché ciascuno di essi è stato spogliato di buona parte dei propri poteri di coercizione... Sarebbe incauto negare, o finanche minimizzare, il pro fondo mutamento che l’avvento della moder nità fluida ha introdotto nella condizione uma na» (Modernità liquida, Laterza, 2002, XIII).
Mancando punti di riferimento certi, tutto ap pare giustificabile in rapporto all’onda del mom ento. Gli stessi parametri etici che il "gran de Codice" della Bibbia aveva affidato all’umanità , sembrano diluiti, poco reperibili ed evi denti. Si parla di "relativismo", di "nichili smo", di "pensiero debole", di "ontologia del declino".
Mancando un sogno che accomuni tutti, l’individuo annega nella folla delle solitu dini, incapaci di comunicare fra loro, e l’ambizione dell’emancipazione cede il posto alla ri nuncia al senso del vivere. Questo volto flui do della post-modernità si manifesta in parti colare nella volatilità delle sicurezze pro messe dall’economia virtuale" della finanza internazionale, sempre più separata dall’eco nomia reale.
Crollata la maschera del massi mo vantaggio al minimo rischio, restano le macerie di una situazione fluida su tutti i li velli. Trovare punti di riferimento, indicare linee-guida affidabili è la sfida titanica per go vernanti e amministratori. Anche l’econo mia rivela un bisogno urgente di etica.
Nei segnali d’attesa, che vanno profilandosi nella vasta crisi del senso, non mi sembra infon dato vedere una sfida e una promessa rivolte alle diverse credenze religiose. Anche le religioni vengono convocate al capezzale dell’"ho mo oeconomicus". A loro volta, sfidati dal con testo della globalizzazione, i mondi religiosi av vertono un bisogno nuovo di incontrarsi, di la vorare insieme.
Samuel P. Huntington indivi dua la sfida dell’immediato futuro nel volto conflittuale di questo incontro (Lo scontro del le civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, 1997): dopo le guerre fra le nazioni tipiche del XIX secolo e quelle fra le ideologie proprie del XX secolo, il XXI secolo sarà caratterizzato a suo avviso dal conflitto delle civiltà, identifica te con i mondi religiosi che le ispirano.
Ciò che occorre verificare, allora, è se e in che misura le religioni potranno giocare un ruolo in vista del superamento del conflitto e per la costruzione di un nuovo ordine internazionale. Al centro di questa verifica si pongono in particolare il Cristianesimo e l’Islam, non solo per il loro rap porto rispettivamente alla cultura dell’Occi dente e a quella dei Paesi arabi, ma anche per la minaccia costituita dall’alleanza fra alcuni ambiti antioccidentali e alcune espressioni inte graliste che pretendono di fondarsi sulla fede islamica.
Non meno importante per la causa della pace è il ruolo che al suo servizio potran no svolgere l’Ebraismo e le grandi religioni dell’Asia. La sfida è fra due modelli: lo "scon tro" o l’alleanza" delle civiltà e delle religioni.
Certo, l’incontro non potrà avvenire per sem plice giustapposizione. Alternativa alla barba rie dello scontro totale appare la possibilità del "meticciato": la confluenza di identità moltepli ci, dovuta ai flussi migratori in atto, è non me no legata al ravvicinarsi delle lontananze gra zie ala comunicazione della rete. È l’esperienza, inedita per i più, dell’incontro fra identità diversissime, fino al configurarsi di identità plurali, nomadi, al tempo stesso assertive e fles sibili, meticce. Il succedersi degli eventi - dal fatidico 1989 all’11 Settembre 2001 e a quel che ne è seguito - mostra il volto drammatico di questa sfida. S’impone una scelta di fondo, a partire dalla consapevolezza che il meticciato è stato sempre presente nella storia dei popoli e delle culture.
L’illusione di una purezza dell’identità o della razza è pura follia. Se una cultura è viva e vitale, essa è anche in grado di avviare un processo di mutuo scambio e di reci proca comprensione con l’identità altrui, che venga ad abitarla. Anche a questo ci ha richia mato il viaggio-segno di Papa Francesco a Lam pedusa.
Certamente, quest’assemblaggio" non è facile né esente da rischi: ciò che risulta decisivo è che fra persone e culture si ricono sca un codice di valori comuni, capace di fonda re relazioni di reciproco rispetto, di riconosci mento dell’altro e di dialogo.
A quali fonti potrà attingere un simile codice? Su quale rotta potrà procedere la barca assemblata sui mari del grande villaggio?
Si profila l’urgenza di un orizzonte etico, che sia riconoscibile da tutti. Ed è qui che la ri velazione biblica mi sembra offra una possibili tà decisiva, una sorgente di senso per indicare la rotta. Nella prospettiva dell’alleanza d’amo re promossa dall’iniziativa divina agli abitatori del tempo, essa riconosce la centralità della persona umana davanti al mistero divino co me riferimento fondante.
Oltre il naufragio, sulle onde della modernità liquida, la barca va costruita insieme, consentendo tutti a regole comuni, certe e affidabili, radicate nella digni tà dell’essere personale, nelle esigenze dell’im perativo morale, per navigare insieme sul va sto mare da percorrere verso il porto - intravi sto nella speranza e mai pienamente possedu to nella realtà - della pace universale e della giu stizia per tutti.
L’idea dell’assoluta singolarità dell’essere personale di fronte al Dio persona le - contributo decisivo della rivelazione bibli ca alle culture dell’umanità - è il baluardo con tro ogni possibile manipolazione dell’essere umano, la sorgente di ogni riconoscimento del la sua dignità. Sta qui la riserva di senso e di spe ranza che la proposta della fede biblica ha da offrire alla storia, la ragione profonda della fe condità della presenza dell’identità cristiana nel pluralismo delle opzioni e nel meticciato delle identità.
Così TWITTAVANO I CAFFÈ, SOCIAL NETWORK AL TEMPO DI NEWTON
di TOM STANDAGE (la Repubblica, 12 luglio 2013)
I social network oggi vengono additati come nemici della produttività. Secondo un popolare quanto discutibile infografico che gira in rete, l’ uso di Facebook, Twitter e altri siti del genere durante l’ orario di lavoro costa all’ economia americana 650 miliardi di dollari all’ anno. I nostri intervalli di attenzione si stanno atrofizzando, i nostri punteggi ai test sono in calo:e tuttoa causa di queste «armi di distrazione di massa».
Ma non è la prima volta che si sentono lanciare allarmi di questo genere. In Inghilterra, alla fine dei Seicento, c’ erano timori simili su un altro ambiente di condivisione dell’ informazione, che esercitava un’ attrattiva tale da minare, apparentemente, la capacità dei giovani di concentrarsi sugli studi o sul lavoro: i caffè, il social network dell’ epoca. Come il caffè stesso, anche il caffè inteso come locale era stato importato dai paesi arabi.
La prima coffeehouse in Inghilterra fu inaugurata a Oxford all’ inizio degli anni Cinquanta del Seicento e negli anni successivi spuntarono centinaia di locali simili a Londra e in altre città. La gente andava nei caffè non solo per consumare l’ omonima bevanda, ma per leggere e discutere gli ultimi pamphlet e le ultime gazzette, e per tenersi al corrente su dicerie e pettegolezzi. I caffè erano usati anche come uffici postali:i clienti ci si recavano più volte al giorno per controllare se erano arrivate nuove lettere, tenersi aggiornati sulle notizie e chiacchierare con altri avventori.
Alcuni caffè erano specializzati in dibattiti su argomenti come la scienza, la politica, la letteratura o il commercio navale. Dal momento che i clienti si spostavano da un caffè all’ altro, le informazioni circolavano con loro. Il diario di Samuel Pepys, un funzionario pubblico, è costellato di varianti dell’ espressione «lì nel caffè». Le pagine di Pepys danno un’ idea della vasta gamma di argomenti di conversazione che venivano trattati in questi locali: solo nelle annotazioni relative al mese di novembre del 1663 si trovano riferimenti a «una lunga e accesissima discussione fra due dottori», dibattiti sulla storia romana, su come conservare la birra, su un nuovo tipo di arma nautica e su un processo imminente.
Una delle ragioni della vivacità di queste conversazioni era che all’ interno delle mura di un caffè non si teneva conto delle differenze sociali. I clienti erano non solo autorizzati, ma incoraggiati ad avviare conversazioni con estranei di diversa estrazione sociale. Come scriveva il poeta Samuel Butler, «il gentiluomo, il manovale, l’ aristocratico e il poco di buono, tutti si mescolano e tutti sono uguali».
Non tutti approvavano. Oltre a lamentare il fatto che i cristiani avessero abbandonato la tradizionale birra in favore di una bevanda straniera, i detrattori del fenomeno temevano che i caffè scoraggiassero le persone dal lavoro produttivo. Uno dei primi a lanciare l’ allarme, nel 1677, fu Anthony Wood, un cattedratico di Oxford. «Perché l’ apprendimento serio e concreto appare in declino, e nessuno o quasi ormai lo segue più nell’ Università?», chiedeva. «Risposta: a causa dei caffè, dove trascorrono tutto il loro tempo». Contemporaneamente, a Cambridge, Roger North, un avvocato, lamentava la «smisurata perdita di tempo originata da una semplice novità. Perché chi è in grado di applicarsi seriamente a un argomento con la testa piena del baccano dei caffè?». Questi posti erano «la rovina di tanti giovani gentiluomini e mercanti seri e di belle speranze», secondo un pamphlet pubblicato nel 1673 e intitolato Ecco la spiegazione del grande problema dell’ Inghilterra.
Tutto questo riporta alla mente i duri moniti lanciati da tanti commentatori moderni. Un comune motivo di preoccupazione, allora come oggi, è il fatto che le nuove piattaforme di condivisione dell’ informazione possano rappresentare un pericolo in particolare per i giovani. Ma qual era l’ impatto effettivo dei caffè sulla produttività, l’ istruzione e l’ innovazione? In realtà i caffè non erano nemici dell’ industria: al contrario, erano crocevia di creatività perché facilitavano la mescolanza delle persone e delle idee.
I membri della Royal Society, la pionieristica società scientifica inglese, spesso si ritiravano nei caffè per prolungare le loro discussioni. Gli scienziati spesso realizzavano esperimenti e tenevano conferenze in questi locali, e dato che l’ ingresso costava solo un penny (il costo di una singola tazza), i caffè venivano definiti a volte penny universities.
Fu una discussione con altri scienziati in un caffè che spinse Isaac Newton a scrivere i suoi Principia mathematica, una delle opere fondamentali della scienza moderna. I caffè erano piattaforme per l’ innovazione anche per il mondo degli affari. I mercanti li usavano come sale di riunione, e nei caffè nascevano nuove aziende e nuovi modelli d’ impresa. Il Jonathan’ s, un caffè londinese dove certi tavoli erano riservati ai mercanti per realizzare le loro transazioni, diventò poi la Borsa di Londra.
Il caffè di Edward Lloyd, popolare luogo d’ incontro per capitani di nave, armatori e speculatori, diventò il famoso mercato di assicurazioni Lloyd’ s. Inoltre, l’ economista Adam Smith scrisse buona parte della sua opera più famosa, La ricchezza delle nazioni, nella British Coffee House, un popolare luogo di incontro per intellettuali scozzesi, ai quali sottopose le prime bozze del libro per avere il loro parere.
Sicuramente i caffè erano anche posti dove si perdeva tempo, mai loro meriti sono di gran lunga superiori ai loro demeriti. Offrirono un ambiente sociale e intellettuale stimolante, che favorì un flusso di innovazioni che ha dato forma al mondo moderno. Non è un caso che il caffè sia ancora oggi la bevanda per eccellenza della collaborazione e del networking. Ora lo spirito dei caffè rinasce nelle nostre piattaforme di social network. Anche queste sono aperte a tutti e consentono a persone di diversa estrazione sociale di conoscersi, discutere e condividere informazioni con amici e sconosciuti allo stesso modo, forgiando nuovi legami e stimolando nuove idee. Sono conversazioni interamente virtuali, ma che offrono potenzialità enormi di produrre cambiamenti reali.
Certi capi deridono l’ uso di questi strumenti durante il lavoro dicendo che non si tratta di social network, ma di social NOTwork, ma altre aziende, più lungimiranti, stanno adottando i «social network d’ impresa» (sostanzialmente versioni aziendali di Facebook) per incoraggiare la collaborazione, scoprire talenti e competenze nascosti fra i dipendenti e ridurre l’ uso dell’ e-mail.
Uno studio pubblicato nel 2012 dalla società di consulenza McKinsey & Company ha scoperto che l’ utilizzo dei social network all’ interno delle aziende ha incrementato del 20-25 per cento la produttività dei «lavoratori della conoscenza». L’ uso dei social media nell’ istruzione, peraltro, è sostenuto da studi che dimostrano che gli studenti imparano più efficacemente quando interagiscono con altri studenti.
L’ OpenWorm, un rivoluzionario progetto di biologia computazionale, è partito da un singolo tweet e ora coinvolge collaboratori di tutto il mondo che si incontrano attraverso Google Hangouts. Chi sa quali altre innovazioni stanno fermentando nel caffè globale di Internet? C’ è sempre un periodo di aggiustamento quando compare una nuova tecnologia. Durante questa fase di transizione, che può richiedere anni, le tecnologie sono spesso oggetto di critiche perché sconvolgono il modo tradizionale di fare le cose.
Ma la lezione dei caffè ci insegna che le moderne paure sui pericoli dei social network sono esagerate. In realtà questo tipo di comunicazione ha una lunga storia: l’ uso dei pamphlet da parte di Martin Lutero durante la Riforma getta nuova luce sul ruolo dei social media nella Primavera Araba, per esempio, e ci sono paralleli fra le maldicenze in versi che circolavano nella Francia prerivoluzionaria e l’ uso del microblogging nella Cina moderna. Per affrontare le problematiche sollevate dalle nuove tecnologie, è al passato che dobbiamo guardare.
© 2013 The New York Times, Distributed by the New York Times Syndacate. Tom Standage è direttore digitale dell’ Economist e l’ autore del libro di prossima pubblicazione Writing on the Wall: Social Media - The First 2000 Years. -Traduzione di Fabio Galimberti
Alla scoperta di noi selvaggi Una conversazione di Lévi-Strauss con Marcel Hénaff
di Marino Niola (la Repubblica, 13.07.2013)
Lévi-Strauss colpisce ancora. A tre anni dalla sua scomparsa esce l’ultima grande intervista concessa dal più importante antropologo del Novecento. Una conversazione serrata e appassionante con un interlocutore d’eccezione come il filosofo francese Marcel Hénaff, professore all’Università della California. Titolo, Dentro il pensiero selvaggio. L’antropologo e i filosofi (Medusa, pagg. 96, 12 euro).
Argomento del libro è l’attualità di quell’ossimoro rivoluzionario che nel 1962 diede il titolo a uno dei livres de chevet del secolo breve. Di fatto il pensiero selvaggio mandava in pensione l’opposizione eurocentrica e rassicurante - egualmente cara agli idealismi e ai marxismi - tra primitivi e civilizzati. Questi logici e razionali, quelli prelogici ed emotivi. Praticamente non pensanti, impressionabili dalle cose ma incapaci di dominare il mondo con gli strumenti della ragione.
E in questo dialogo con Hénaff Lévi-Strauss torna sull’argomento e col senno di poi rincara addirittura la dose. Ricordando che gli indios dell’America centromeridionale senza provette, alambicchi e microscopi avevano inventato tecniche per detossificare la manioca a scopi alimentari. Erano riusciti a disidratare le patate alternando fasi di congelamento e di fermentazione. Ed è grazie a loro che abbiamo il mais, creato incrociando specie non commestibili. E per di più senza compromettere gli equilibri ambientali.
Come dire che la scienza non è prerogativa esclusiva di civiltà come la nostra. Perché in realtà il pensiero selvaggio non è il pensiero dei selvaggi, ma è una modalità del pensiero che fiorisce in ogni mente umana, contemporanea e antica, vicina e lontana. È un modo di rapportarsi alla realtà che si trova anche in noi e si manifesta tutte le volte che la mente si ricongiunge alle cose, fa corpo con la natura. È una logica del concreto. Simile a quella dell’arte, della musica, della poesia.
È questa la conclusione provocatoria del grande vecchio che poi spara ad alzo zero sulla filosofia che si ostina a far rientrare la realtà nei suoi schemi come in un letto di Procuste. Il mio pensiero, dice polemicamente l’autore di Tristi Tropici, ha sempre avvertito un senso di soffocamento di fronte a certe astrazioni. Invece “all’aperto l’aria nuova lo rinvigoriva”.
Come dire che l’esperienza dell’altro in carne e ossa è la sola cura contro un universalismo astratto ed eurocentrico. Eppure qualcosa di universale esiste. E l’antropologia indica la strada concreta per trovarlo. Quella che passa attraverso le umanità particolari, per arrivare a quel minimo comune denominatore che ci rende tutti umani. Quell’unità della specie che la modernità ha cominciato a cercare da quando le scoperte geografiche hanno allargato improvvisamente i confini del mondo.
Oggi che non siamo noi a viaggiare verso gli altri ma sono loro a viaggiare verso di noi, a colonizzare il nostro mondo, si ripropone alla rovescia il dilemma dei conquistadores. Cosa possiamo fare noi e loro per coabitare in un pianeta sempre più affollato. In cui un Lévi-Strauss novantaseienne confessa di sentirsi fuori luogo, quasi deportato, fotografando con oggettività da entomologo e visionarietà da profeta quella crisi sistemica che spaesa tutti noi. Perché avvertiamo che niente più sarà come prima. E viviamo con inquietudine una mutazione dagli esiti imprevedibili.
Eppure, ora come allora, si tratta di mantenere l’ordine. Ed è proprio questo il vero tratto universale, la vera natura di homo sapiens. In fondo le istituzioni umane, la cultura, le arti, le ideologie e le religioni stesse sono dispositivi per ordinare la realtà. E parare ogni volta i colpi del caos.
La Bibbia ebraica non è omofoba
di Pierre-Israël Trigano *
in “www.temoignagechretien.fr” del 20 giugno 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Lungi dal condannare l’omosessualità, il Levitico invita ad umanizzare la relazione del maschile al femminile nella coppia.
La multisecolare persecuzione degli omosessuali in nome della Bibbia, fino al rifiuto violento della legge che oggi li autorizza al matrimonio, si è essenzialmente costruita attorno alla lettura di un comandamento del Levitico (Lv 18,22): “Non ti coricherai con un uomo come si fa con una donna: è cosa abominevole”.
Letta così, la proibizione è senza appello. Ed è in questo senso che l’ebraismo e il cristianesimo scomunicano gli omosessuali, in tutta coscienza. Ma il testo ebraico di questo versetto è, così come è costituito, uno dei più oscuri della Bibbia. È il segno indubitabile che è carico di un inconscio portatore di un senso inedito.
Considerato nella sua letteralità, possiamo infatti tradurlo così: “Con un maschio [ zékher o zakàr], tu non coabiterai [verbo al maschile] gli stati di essere coricato [le “coabitazioni”, i “letti”] di donna [isshah].” Tanto vale dire che questo versetto è in gran parte incomprensibile, e che il modo in cui le Chiese lo traducono è un’estrapolazione della versione greca dei Settanta, non tradotta dall’originale ebraico.
Se la Torah avesse voluto avere come bersaglio direttamente l’omosessualità, lo avrebbe fatto in maniera più chiara, in termini più diretti. Del resto non si vede perché essa avrebbe ignorato l’omosessualità femminile.
Constatiamo in primo luogo che da nessuna parte nel testo si trova la parola “come” che stabilirebbe un paragone tra un rapporto con un uomo e uno con una donna.
tornare alla letteralità del testo
Letteralmente, in questo versetto si tratta per l’uomo di “coabitare” i “letti” di donna. Come vedervi un qualsiasi riferimento all’omosessualità? Al contrario, questa strana formula potrebbe evocare delle relazioni sessuali dell’uomo con le donne.
In secondo luogo, la parola tradotta con “donna”, isshah, appare per la prima volta nella Bibbia in Genesi 2, nel racconto della Creazione della donna. Il suo contrario, designante “l’uomo”, è ish. Ci si aspetterebbe di trovare questa parola nel versetto per designare l’opposto della donna. Invece, è la parola zékher (o zakàr), il “maschio” che troviamo nel testo, che ha per polo opposto la parola neqebàh, la “femmina”.
Queste due parole fanno la loro apparizione in Genesi 1, nel racconto della Creazione dell’essere umano. Poiché il Levitico si riferisce a zékher (o zakàr), il “maschio”, avremmo dovuto logicamente trovare nel versetto neqebàh, “la femmina”, piuttosto che isshah, “la donna”. Come comprendere questa differenza?
“Maschio” e “femmina” sono delle categorie per le quali la Bibbia (Gn 1,27) definisce l’essere umano che è appena stato creato da Dio: “Maschio e femmina li creò”. La Chiesa si serve del resto anche di questo versetto per affermare senza appello che solo il matrimonio “di un papà e di una mamma” è la norma divina per fondare la famiglia umana.
Ora, bisogna rendersi conto che “maschio” e “femmina” sono delle categorie animali, e non umane. Esse caratterizzano una umanità primitiva che esce ancora con difficoltà dall’animalità. È precisamente l’emergere di tale umanità, arcaica, originale, non ancora totalmente realizzata, che Genesi 1 descrive. Certamente vi è scritto che è creata “ad immagine e somiglianza di Dio”, ma si tratta di un potenziale divino di umanizzazione che non è ancora attivato all’origine e che è in gioco in tutta l’evoluzione umana.
maschile e femminile arcaici
Le categorie animali zékher e neqebàh esprimono lo stato di violenza che caratterizza l’umanità arcaica da cui sarà difficile per gli esseri umani, uomini e donne, uscire.
La sorprendente potenza significante dell’ebraico biblico ci aiuta a comprenderlo, in particolare per le possibilità di rilettura che offre. Infatti, questa lingua è puramente consonantica e le vocali non sono fissate nei manoscritti originali. La stessa parola, associata a vocali diverse, assume significati insospettati ad una prima lettura, e manifesta così sottilmente un “inconscio” dell’esperienza umana che simbolizza.
È, ad esempio, il caso, molto sorprendente, per la parola neqebàh, “femmina”, che noi possiamo rileggere néqoubah, che ha in sé un significato terribile per la condizione femminile, la “forata”, la “maledetta”! Questa parola ci rivela così senza alcun dubbio che, nell’umanità più arcaica, ancora animale e “primate”, la donna è ridotta alla condizione di “femmina”, dominata, schiacciata dai “maschi”, come oggi ancora nei clan degli scimpanzé, i nostri cugini animali più prossimi. Anche se nelle tribù primitive dette “matriarcali”, le madri hanno avuto un certo potere, non era certamente così per le figlie, ridotte ad essere oggetti di scambio tra clan, a beneficio dei “maschi”.
la psicologia dello zékher
Ed ecco precisamente ciò che ci suggerisce la parola zékher, che designa questi ultimi: pronunciato zakhor, esprime l’azione di ricordare. Così facendo, lo spirito della lingua ebraica sembra insegnarci che è la potenza dei “maschi” che organizza il “ricordo” dell’origine, la fedeltà alle stirpi arcaiche dell’umanità, e quindi la ripetizione del maltrattamento fatto alle donne di generazione in generazione.
È la psicologia dello zékher, il maschile arcaico e violento, che desidera mantenere e perpetuare nella cultura umana le donne e la femminilità nella condizione maledetta di “femmina” inferiorizzata, violentata e umiliata.
Un’altra caratterizzazione dei generi emerge in Genesi 2 con le parole ish e isshah, “uomo” e “donna”. Sarebbe necessario dissipare molti controsensi che la tradizione (investita, occupata dallo zékher) ha accumulato riguardo a queste parole. Cosa impossibile da studiare nei limiti di questo articolo.
Constatiamo semplicemente che significano “sposo” e “sposa”, e sono quindi delle categorie eminentemente relazionali. Esse designano una umanità finalmente umanizzata, uscita dal suo arcaismo “animale”, nella quale, quindi, può sbocciare la relazione d’amore. Rivelatore è il fatto che la parola isshah, “donna”, pronunciato éshéh, significa: “Dimenticherò...”.
maltrattamento fatto alle donne
Il “maschio” nell’essere umano vuole organizzare il ricordo dell’arcaismo violento e inumano dell’origine animale, mentre la “donna” nell’essere umano “dimenticherà”! È una promessa profetica portata da isshah. Verrà un tempo di compimento in cui il maltrattamento fatto alle donne e alla femminilità sarà dimenticato.
A questo punto, il senso del versetto si chiarisce. Ingiunge all’uomo soprattutto di non entrare nella coabitazione (sessuale, ma anche in tutti gli ambii della vita di coppia) con isshah, la donna, con (sulla base di) lo spirito dello zékher, il maschio arcaico senza amore e violento. Isshah è la donna, ma è anche, sul piano archetipico, la femminilità, la capacità di apertura all’altro e di amore, presente nell’uomo quanto nella donna.
Così, questo versetto, lungi dal proibire formalmente l’omosessualità, è piuttosto un’ingiunzione divina a prendersi cura di ogni relazione di coabitazione e di coppia, qualunque sia il (o la) partner che si ha, di fondarla sull’amore, sulla tenerezza, e quindi di coltivare lo sbocciare della femminilità in sé e nell’altro, invece di ferirla sotto i colpi dell’egocentrismo maschile arcaico di onnipotenza. Come si vede, questa ingiunzione può interpellare sia le coppie omosessuali che eterosessuali, senza gettare l’anatema su una qualsiasi categoria di esseri umani.
interrogativo etico
Il suo interrogativo non è legalistico, ma etico. Non si accontenta di una applicazione “tecnica” che sarebbe qui il rifiuto o la repressione dell’omosessualità, come lascerebbe pensare la traduzione abituale. Ma apre una ricerca etica sulla fondatezza della relazione che ciascuno, chiunque sia, allaccia con un altro, chiunque sia, in quanto essere umano.
E questa ricerca è, in se stessa, un cammino di vita che mira a favorire sempre più l’amore, a dare risalto alla femminilità (sia degli uomini che delle donne) ferita dallo zékher. Sicuramente non si può quindi utilizzare la Bibbia ebraica per condannare l’omosessualità.
Tutta la mia ricerca dimostra che essa veicola nel suo testo ebraico un “inconscio” che aspetta di essere riscoperto, portatore di un senso che rivoluziona le interpretazioni della tradizione ebraico- cristiana e sovverte la riduzione dispotica e moralistica della religione. Questo versetto ne è una testimonianza caratteristica. * Pierre-Israël Trigano è filosofo e psicanalista. È l’autore di L’inconscient de la Bible (Edizioni Réel, 7 tomi).
La sindrome CFMP che ammala l’italia
di Franco Cordero (la Repubblica, 11 giugno 2013)
Gli affari italiani propongono al patologo un quesito diagnostico: cos’abbia la paziente; malattia grave, a lungo termine letale; e l’esperienza esclude una regressione spontanea. Il nome, formato dalle iniziali, è sigla quadrilettera, CFMP. Sciogliamola e viene fuori una quaterna d’Apocalisse: corruzione, frode (includiamovi l’incretinimento d’una massa mediante ipnosi mediatica), mafia, parassitismo; e il tutto presuppone una politica gaglioffa.
La malattia ha qualche lontana radice organica (l’anamnesi chiama in causa potere ecclesiastico, Comuni, Signorie, Controriforma, una cultura vuota e megalomane, abiti cortigianeschi) ma il fattore degli ultimi trent’anni è un caimano allevato dal malaffarismo governativo: viene su dal niente abissale; istupidisce le platee con l’arnese televisivo, del quale diventa duopolista disgregando pensieri, sentimenti, gusto; e caduta l’oligarchia i cui favori venali lucrava gonfiandosi, raccoglie la successione. Presiede il Consiglio in tre legislature, otto anni e mezzo e negli altri sette era egemone: profondamente volgare, ignorante, bugiardo, istrione, circonventore degl’indifesi, clown sguaiato, estorsore senza complimenti, sfoga un’acuta nomofobia; le norme esistono affinché lui le vìoli impunito; non tollera poteri separati; sfida tribunali e corti; compra sentenze; allunga i piedi nel piatto legislativo dissestando l’ordinamento. Insomma, esercita la pirateria da Palazzo Chigi, arricchendosi ancora (ai tempi della lira vantava quarantamila miliardi), patrono del malaffare in colletto bianco. Rispetto alla gang che gli gira intorno, i politicanti facili d’una volta erano eremiti. L’ideologia è prassi nichilistica: enrichissez vous,ma l’Italia è alquanto meno florida della Francia sotto Luigi Filippo; e siccome l’economia ha equazioni non mistificabili sine die, viene il collasso.
Diciotto mesi fa, ignobilmente costretto a dimettersi, era mummia torva: gli restava qualche stalliere senza futuro (fuori della compagnia piratesca); chiunque s’illudesse d’averne, indossava maschere miti, qualificandosi colomba; e un ex ministro, poi coordinatore del partito, credente bellicoso, prendeva nota degl’infedeli. Come sia riemerso, è argomento da discutere a parte. Sparito l’Olonese, un governo cosiddetto tecnico aveva dissanguato i meno benestanti sferrando nel mucchio misure draconiane intese a ridurre il debito (che paghino i poveri diavoli, è vecchia storia, vedi l’imposta sul macinato). Adesso stiamo peggio. Ultima in Europa, l’Italia continua a indebitarsi perdendo colpi, e non c’entrano congiunture planetarie, destino baro, influssi siderali. È questione d’elementare economia: quante volte la corte dei Conti l’ha formulata calcolando in 60 o più miliardi il prelievo annuo clandestino CFMP; i «fondamentali» tenderanno al basso finché: il vampiro succhi; e sappiamo con quanta cura intransigente Re Lanterna se lo covasse sabotando ogni tentativo serio d’un risanamento.
Se poi lo sguardo passa dal quadro economico al politico, lo scenario taglia il fiato: la mummia d’allora (12 novembre 2011) tiene al governo uomini suoi, nel senso più possessivo; lo spirituale Angelino Alfano, vicepremier, comanda gl’interni; alle riforme costituzionali provvede tubando la colomba Gaetano Quagliarello; sotto la stessa figura ornitologica vola Maurizio Lupi (trasporti e infrastrutture). Inutile dire chi muova i fili: appena lui fischi, le colombe mettono rostro e artigli diventando falchi; li abbiamo visti e uditi in parti davanti alle quali lo spettatore rimane allibito.
Il divus Berlusco gioca su due tavoli: governativo finché gli conviene, schiera 17 mila teste, rigorosamente non pensanti, pronte all’azione qualunque cosa lui comandi, fosse anche una scalata alla luna; e giurano, «lo difenderò nella guerra dei vent’anni» (qui 2 giugno).
È dogma che sia vittima d’una magistratura assatanata: «uso politico della giustizia», farfugliano i dignitari, monotona filastrocca; almeno tentino qualche variante. Tribunali e corti decidono in base alle prove, sicché arrivano delle condanne. Tanto tempo fa s’era presa una laurea in legge ma, assordato dall’ego, ha dimenticato i rudimenti, quindi strepita: «il Quirinale deve difendermi»; e la Consulta stronchi «l’accanimento» persecutorio (4 giugno).
Tale sarebbe mandare a giudizio chi, secondo i reperti, frodava il fisco, imboscando milioni a centinaia, o gestiva un harem mercenario, o, presidente del Consiglio, ha buttato in pasto al pubblico un segreto d’ufficio contro l’avversario. Viste le norme, ovvia la condanna qualora i fatti constino. Eventuali errori sono rimediabili in appello e Cassazione. La Pasionaria chiama otto milioni d’elettori allo sciopero fiscale, se mercoledì 19 p. v. la Consulta non accoglie il ricorso. Parliamone perché l’aneddoto fa lume sulle tecniche berlusconiane: lunedì 1 marzo 2010 era fissata da un mese e mezzo una delle tante udienze del dibattimento Mediaset diritti tv; è affare acrobatico condurle; pretende d’esservi ma non può quasi mai, carico d’impegni. Intenti al perditempo strategico, i difensori chiedono il rinvio perché l’imputato ha un consiglio dei ministri: il tribunale risponde picche; s’era affatturato l’impedimento aggiornando una seduta 26 febbraio. Ma fosse anche motivo plausibile, solo i cultori d’una procedura asinina pensano che svanisca l’intero processo, se in quell’udienza non è avvenuto niente d’influente sulla decisione; le testimonianze ivi acquisite sono parole al vento; vizio innocuo, dunque.
Con questi architetti il Pd s’accinge a demolire le strutture costituzionali fondando un regime del presidente dai larghi poteri, eletto dal popolo (cavallo di battaglia berlusconiano): bel disegno, come se una neoplasia comandasse i sistemi immunitari; quando vuol colpire qualcuno, Iupiter gli toglie il senno.
Se «libera Chiesa in libero Stato» non basta più
di Vincenzo Vitiello (l’Unità, 10.06.2013)
CONFESSO: QUELLO CHE MI HA PIÙ COLPITO DEL RECENTE INCONTRO TRA L’ATTUALE PONTEFICE E IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA è stata la presenza di Emma Bonino. È questione di età: ricordo presidenti della Repubblica che negli incontri ufficiali col Papa piegavano il ginocchio. Testimonianza, voglio credere, di una fede personale, ma che non era lecito manifestare in quella forma di simbolica sottomissione nell’atto di rappresentare ufficialmente un Paese certo allora a maggioranza cattolica, ma costituito anche di appartenenti ad altre fedi religiose evangelici, ebrei, islamici, questi ultimi pochi allora, anzi pochissimi e pur di non-credenti. La figura minuta di Emma Bonino, il suo volto sorridente, il passo spedito nell’avvicinarsi a Papa Francesco col rispetto che si deve ad una persona eminente, ma nell’eguaglianza della comune umanità, mi è parsa il simbolo di questa minoranza, nel momento in cui il presidente Napolitano rappresentava, giustamente, tutta la Nazione.
Dico questo per significare qualcosa che è più che una perplessità: è un’insoddisfazione teorica e un’inquietudine morale, che voglio esprimere con ogni rispetto, ma anche con tutta sincerità. La difesa della libertà religiosa che abbiamo ascoltato, e non solo in questi giorni e per questa occasione, anche da fonti autorevolissime, mi è parsa abbastanza scontata. Chi si oppone almeno a parole al dialogo tra fedi religiose differenti, all’obbligo etico del reciproco rispetto? Chi non condanna almeno a parole i conflitti religiosi? Chi non s’indigna dei massacri di cristiani inermi che avvengono in Paesi islamici sotto lo sguardo indifferente dei tutori dell’ordine? Si è parlato addirittura di un rivoluzione antireligiosa, anzi anticristiana in Europa (Galli della Loggia sul Corriere del 2 giugno). Ripeto: chi non condanna tutto questo? Ma qui la domanda si può ridurre la libertà religiosa alla libertà di coscienza? Alla libertà del «foro interiore»?
Questa difesa appare oggi storicamente inadeguata. Oggi, nell’età del secolarismo compiuto, in cui è pienamente riconosciuto il diritto delle Chiese parlo al plurale: mi riferisco non solo alla Chiesa di Roma di far politica. Non ha parlato Papa Francesco del «dovere» dei cattolici di impegnarsi politicamente? E vogliamo ancora difendere la religione e la politica col vecchio principio di «libera Chiesa in libero Stato»?
Piuttosto che parlare retoricamente del dialogo e dell’interiorità della coscienza, non è più utile non ad altro che alla convivenza civile tornare ad interrogarsi su cosa s’intende con libertà? E cioè: se sono lo stesso libertà religiosa e libertà politica e/o etica? È un problema, questo, che riguarda essenzialmente il cristianesimo. È bene guardare anzitutto in casa propria.
Maria Zambrano, la filosofa spagnola che la dittatura di Franco costrinse ad emigrare in America latina, alla fine del secondo conflitto mondiale lei che aveva posto Agostino tra i Padri dell’Europa si chiedeva, considerando l’esito della storia religiosa del nostro continente, se il cristianesimo europeo sia stato vero cristianesimo, e se sia ancora possibile un cristianesimo europeo.
A questa domanda non mi sembra si sia data risposta. Rispondervi significa lo dico anzitutto agli amici storici allargare l’orizzonte ben oltre la storia moderna, tornando a riflettere sulle radici del cristianesimo, sul grande problema paolino del rapporto legge-fede: lì è l’origine della nostra domanda; forse della possibile risposta.
In questa sede non posso che azzardare un desiderio, e una speranza: il desiderio e la speranza di un cristianesimo che sia «assoluto» uso di proposito la definizione hegeliana, per rovesciarla solo perché capace di riconoscere l’assolutezza di tutte le religioni; di un cristianesimo che non si limiti a rivendicare il rispetto delle altre religioni, ma pratichi questo rispetto non politicamente, ma nella forma ch’è sua propria: quella della religione. La cui libertà si esplica, prim’ancora che nell’operare storico e comunitario, nella sospensione di ogni fare in quell’istante, in quel «battito d’occhio» per dirla con Paolo, in cui sorge la domanda sull’orizzonte di senso del fare che diciamo nostro, e che neppure sappiamo sin dove ci appartenga.
Questa sospensione ha un nome, Shabbat, che è di una religione, ma la cui esperienza è di ogni religione, e si pratica nella preghiera. Spero in un cristianesimo i cui credenti sappiano pregare il loro Dio, accanto oltre ogni comunità ordinata secondo leggi e principi a fedeli d’altre religioni, parlanti col loro Dio con parole loro proprie; accanto, soprattutto, a chi non ha parole di fede e di preghiera. Spero in un cristianesimo che non è dottrina, ma testimonianza. Memore delle parole di Paolo: «La speranza che vede non è speranza».
Se per trovare dio bisogna rinnegarlo
“Oltre il cristianesimo”, il saggio sulla mistica di Marco Vannini
di Roberto Esposito (la Repubblica, 07.06.2013)
Come i pittori di talento dipingono sempre lo stesso quadro, allo stesso modo i veri autori scrivono sempre lo stesso libro, arricchito di nuovi riferimenti e argomentazioni. Ma raccolto comunque intorno al cuore del problema da cui lo scrittore trae ispirazione ed energia creativa. È quanto si può dire accada a Marco Vannini, di cui Bompiani ha appena pubblicato Oltre il cristianesimo. Da Eckhart a Le Saux.
In esso egli riprende il tema di fondo dei libri precedenti - l’opposizione tra mistica e teologia - spingendolo a un grado di profondità e di radicalità ancora maggiore. Quello che in essi era una direzione possibile, diventa qui l’esito di un percorso compiuto. Il suo sguardo, da tempo volto alle grandi questioni della mistica, nella loro tensione con l’orizzonte cristiano, si sposta adesso oltre di questo. E anzi oltre il linguaggio dei tre monoteismi, in un viaggio senza argini verso la concezione induista e buddista.
Ad accompagnare l’autore in questo esodo verso Oriente è il monaco benedettino francese Henri Le Saux che, arrivato in India, non ne è mai tornato, penetrando nell’anima profonda della spiritualità hindu, senza smettere di sentirsi cristiano. Come risulta dal suo Diario, il suo incontro con il saggio Ramana Maharshi lo ha segnato in maniera indelebile, convincendolo della superiorità spirituale delle Upanishad e della Bhagavadgita rispetto ai testi della tradizione ebraico-cristiana. Ma ciò non in contrasto con l’originario messaggio evangelico - almeno prima che fosse “normalizzato” nella dottrina elaborata da San Paolo - bensì in continuità con esso.
Come aveva sostenuto Simone Weil, sia la Sinagoga che la Chiesa hanno tradito il senso più riposto della parola di Cristo, ingabbiandola nel canone teologico, cui Vannini contrappone la dimensione mistica. Per fissare il punto in cui quest’ultima confluisce nel doppio alveo induista e buddista, Vannini ripercorre originalmente la via tracciata da Ananda K. Coomaraswamy nel suo libro Induismo e buddismo (Rusconi). La porta d’ingresso, per entrambi, è costituita dall’opera del grande mistico medioevale Meister Eckhart, situato all’origine di una tradizione che comprende non soltanto autori di ispirazione spirituale quali Margherita Porete, Giovanni della Croce o Fénelon, ma anche filosofi irreligiosi e perfino atei come Spinoza, Schopenhauer e Nietzsche.
Cosa è che li collega, per nella assoluta distanza? Qual è il punto di raccordo, e certo di tensione, tra mistica e ateismo nel comune contrasto con il lessico teologico-politico del pensiero cristiano?
La figura decisiva di questo problematico nesso, intorno alla quale ruota l’intera ricerca di Vannini, è rappresentata dal distacco. Solo distaccandosi da se stesso, l’uomo può aprire lo spazio vuoto entro il quale accogliere Dio, fino a fare tutt’uno con lui.
Naturalmente ciò prevede una doppia decostruzione della metafisica, insieme greca ed ebraico-cristiana: da un lato la rinuncia all’amor proprio, coincidente con il primato della volontà personale sull’intelletto universale, dall’altro il rifiuto della concezione mitica di Dio come soggetto creatore. In tal modo si rompe la macchina teologica, ma anche politica, del dualismo che fa di Dio null’altro che la proiezione oggettiva di quel che l’uomo presume di sé e si rende possibile il riconoscimento estatico dell’unità del Tutto.
Ogni tipo di beatitudine, pensata in Occidente come in Oriente, riproduce, in forma varia, questo passaggio che identifica soggetto e sostanza, avere ed essere, umanità e divinità. Da Giovanni Taulero a Niccolò Cusano, da Sebastian Franck ad Angelus Silesius, la mistica occidentale perviene a toccare i confini del discorso teologico, eccedendolo nel suo spazio esterno. Se Bruno e Spinoza già rompono il linguaggio della persona a favore di un universo integrato in cui ogni individuo è parte di un tutto che lo comprende, è Nietzsche a compiere il passo ultimo: abbandonare quanto ha di più prezioso, per l’uomo, significa abbandonare anche la sua idea di Dio - «Perciò - conclude Eckhart - prego Dio che mi liberi da Dio». Solo nella sua assenza Dio può mostrarsi senza indossare la maschera dell’idolo. E solo così il fondo dell’anima può identificarsi con il fondo di Dio.
È il punto estremo in cui l’assoluta trascendenza viene a coincidere con l’assoluta immanenza - l’essere, umano e divino, non è altro da una vita infinita che non conosce soglie, disuguaglianze, gerarchie. Pura luce in cui la conoscenza non è diversa dal tutto che conosce e in cui la parola, non potendo definire nulla di delimitato, sfuma nel silenzio.
Da qui il passaggio, per Vannini possibile e necessario, dal nucleo inespresso del Cristianesimo all’Induismo e al Buddismo, a loro volta collegati nel distacco dal proprium e nel ricongiungimento con l’unità divina. Naturalmente è possibile criticare la posizione di Vannini come sincretistica, gnostica e contraddittoria. La massima religiosità appare, in essa, pericolosamente vicina alla massima bestemmia. Ma la sua forza sta proprio nell’assumere e far propria questa contraddizione. Sostenerla in tutta la sua asperità è, per l’autore, l’unico modo di essere religiosi nell’era postreligiosa. O di essere cristiani oltre il cristianesimo.
Arte e filosofia, il grande armistizio
Millenni dopo la condanna di Platone, ora il pensiero si inchina alla pittura
di Bernard-Henry Lévy (Corriere della Sera, 06.06.2013)
Nietzsche è lui. Il Nietzsche di Torino di cui, dieci anni prima di questo quadro, ha ripercorso i passi. Il Nietzsche di Palazzo Carignano e della statua equestre di re Carlo Alberto di cui ha seguito le orme. Poi il Nietzsche greco, il Nietzsche apollino-dionisiaco della Nascita della tragedia.
Il Nietzsche per il quale è sempre stato molto chiaro: che da un lato ci sono «Socrate-e-Platone», la loro malattia, la loro decadenza e, dall’altro, «i filosofi greci», i poeti anteriori a Platone, gli oracoli anteriori a Socrate, che si chiamano Eraclito, Parmenide, Anassagora, Empedocle, Alcmeone di Crotone; e che tanto meno bisogna confonderli in quanto i secondi sono l’antidoto al veleno dei primi, il rimedio da contrapporre, la parola giusta da ritrovare se si vuole guarire l’umanità, come vuole lui, Nietzsche, dal nichilismo che essi le hanno inoculato.
Sono loro, certo, che de Chirico ha rappresentato. Sono i corpi senza volto, perché senza opera realmente accertata (si sa solo, grosso modo, quel che ne riferiscono Aristotele e Platone. È tutto dire!) che anch’egli chiama, senza altra forma di processo, «i» filosofi greci. Sono quei nomi leggendari, necessariamente mascherati perché senza identità certa, e di cui si percepisce bene che, anche per lui, sono enigmatici e tali devono restare.
Cosa fanno? Dove sono? Perché quei corpi in vetro o in trompe l’oeil, issati su trampoli, mal articolati? Si direbbe che hanno la testa fra le nuvole. Hanno i piedi su uno strano pavimento, ma le teste sono altrove, lassù, nella nebbia; è come un vestibolo del cielo, dove già si trovano. Si direbbe anche che si divertano. O addirittura che si torcano dal ridere per il destino di statua che si addice loro così poco? Per il marmo pieghettato con cui li hanno agghindati, loro, i pezzenti, i filosofi da strada e da taverna? O per i cattivi greci, per i greci avvelenati che, come vedono da lassù, gli corrono dietro, e tentano di sfigurarli?
Per fortuna tuttavia, il pittore, una volta incaricato dagli dei, si preoccupa di dare il cambio e di vendicarli.
***
«Alkahest», Anselm Kiefer
Non è più a dio che Kiefer fa concorrenza, è alla geologia. Ma la geologia in atto. Ma la geologia in movimento. Ma una geologia impazzita i cui processi, le generazioni e degenerazioni, gli smottamenti, la formazione delle ondulazioni, dei gessi e degli scisti, i crateri e le cime, le colate di fango o di neve, le eruzioni, i detriti, le furie di solito silenziose, le convulsioni gigantesche, i caos in sospensione e in profondità, fossero stati accelerati. Un’accelerazione resa possibile solo dal fatto che il pittore-geologo fa concorrenza anche - nello stesso tempo e sulla stessa tela - agli alchimisti, cioè a quelli che, con le loro formule sacre, i loro alambicchi e, qui in primo piano, le bilance su cui dosano sale e solfuro, elementi e contro-elementi, poi, più in là, forme e antiforme, hanno fatto concorrenza, durante il Medio Evo in generale e il Medio Evo ebraico in particolare, al dio delle soluzioni e delle dissoluzioni, al dio che guida tutte le cose, al dio che le trasforma e, quando lo fa, le resuscita.
Faust richiama in vita non più Elena e Paride, ma il folle di Sils-Maria, di cui non posso fare a meno di indovinare, nella parte sinistra del quadro, la silhouette. Non contento di trasformare il piombo in oro, o l’oro in argento, egli trasmuta tutti gli elementi, quindi tutti i valori, compreso quello di cui son fatti gli uomini e la cui forza di devastazione barbarica ormai non è, ahimè, da dimostrare.
Il paesaggio è Kiefer, non più le Alpi. È il suo desiderio d’essere montagna. È il suo stesso corpo che geme, ruggisce, vomita il detto maledetto della terra. È il pittore che, allucinato e tragico, demiurgo del mondo e di sé, entra in guerra con la materia o - è la stessa cosa - le fa buttar fuori la sua verità.
Non sono sicuro di sentirmi molto vicino a questa filosofia. Ma è certo che, se Contro-Essere ha un senso, se l’idea di un dire che non dice più la verità ma le succede, ha messo radici da qualche parte, è qui, su questa tela stupefacente che, come quelle di Newman, si avvicina anch’essa al sublime. (traduzione di Daniela Maggioni)
di Stefano Montefiori (Corriere della Sera, 06.06.2013)
PARIGI - Una grande mostra sulle «Avventure della verità»: dal 29 giugno all’11 novembre la Fondation Maeght di Saint-Paul de Vence illustra il rapporto tra pittura e filosofia nei secoli, da Platone a Anselm Kiefer, attraverso 126 opere scelte da Bernard-Henri Lévy, il commissario dell’esposizione (nella foto sotto).
Dopo l’impegno per la rivoluzione libica l’intellettuale francese ha raccolto la sfida lanciatagli un anno fa dal direttore della fondazione, Olivier Kaeppelin, che gli ha lasciato carta bianca per la tradizionale esposizione estiva. «Un filosofo oggi deve prendere esempio dall’arte e dalla pittura in particolare - sostiene Lévy -. L’arte non è più un semplice fenomeno culturale né, ancora meno, decorativo: non è più un ornamento della verità; è la sua instaurazione radicale, l’apertura all’essenza, all’origine; l’arte si trova al fondamento e alla fine di tutto».
Ogni opera viene accompagnata da un testo di Bernard-Henri Lévy, che ripercorre lo scontro tra pittura e filosofia partendo dalla celebre condanna che Platone fece dell’arte, imitazione della realtà sensibile a sua volta imitazione del mondo delle idee.
Il volume «Les Aventures de la vérité», che esce oggi in Francia co-edito da Fondation Maeght e Grasset, raccoglie quei testi facendoli precedere da una sorta di diario, la testimonianza di come la mostra è stata concepita e via via realizzata con l’aiuto, tra gli altri, di François Pinault, Miuccia Prada, Daniela Ferretti.
Bernard-Henri Lévy ha chiesto a venti grandi artisti contemporanei di leggere, davanti alla telecamera, brani di altrettanti filosofi: i film saranno proiettati durante l’esposizione ma intanto, nel libro, Lévy racconta di quando, per esempio, Jeff Koons ha preteso di leggere Aristotele o come Marina Abramovic, in una sorta di anti-performance, a New York abbia perso d’un tratto la sua abituale sicurezza per intimidirsi di fronte alla lettura di Antonin Artaud.
Alla fine l’impostazione platonica è capovolta, l’arte ritrova tutta la sua centralità. Come già scrisse in La barbarie dal volto umano, oltre trent’anni fa, con la mostra alla Fondation Maeght «Bhl» ripete che di fronte alle tragedie del ventesimo secolo - fascismo, nazismo, Kolyma - «il filosofo deve tacere per lasciare la parola a Guernica, Fritz Lang, Solzenicyn».
Alle radici della filosofia di Vico
di Massimo Cacciari ( La Repubblica - 26/01/2008)
In un grandioso sforzo di ripensamento teoretico del senso dell’Umanesimo, Vico coglie l’accordo con la filologia come dimensione essenziale della filosofia stessa. La boria dei dotti si esprime con maggiore evidenza forse proprio nella pretesa di intendere la parola come semplice mezzo per comunicare il pensiero, strumento a sua disposizione. Ma non si dà pensiero che non sia pensato dalle sue stesse parole.
Un pensiero che non riflette su tale "presupposto" non solo sarà un pensiero "sordo alla storia, ai sensi, alla vita sociale" (Gentile), ma neppure sarà in sé teoreticamente fondato. Già il dire "cogito" significa appartenere ad un linguaggio, ad una tradizione, indicare una provenienza, ek-sistere. Ed un "cogito" che non abbia coscienza di ciò non potrà mai fondare una scienza.
Nessuna scienza senza coscienza della propria origine; nessun logos che non sia fenomenologia: storia della sua "materia" e, in uno, sapere che mostra le forme della sua genesi e del suo apparire (la Krisis delle scienze europee non maturerà, per Husserl, proprio su questo stesso terreno? e cioè dall’oblio della co-scienza di sè da parte del progetto scientifico?).
Autentica genealogia. Prima dei filosofi le leggi, prima delle leggi la lingua, prima della lingua la non-lingua. Prima del "sum" che risuona "vittorioso" nell’"io sono-io penso", il sum "astrattissimo", è il "sum" che dice il mangiare, che indica l’alimento che ci sostiene, la "sostanza" che sta sotto, «ne’ talloni, perocché sulle piante de’ piedi l’uomo sussiste; ond’Achille...». Lì, «ne’ talloni», occorrerà perciò pervenire, se non si vuole pensare l’"essere" senza alcun fondamento, se non si vuole fare della filosofia esattamente il contrario di ciò che deve essere: ritorno alla cosa, comprensione dell’effettuale oltre la doxa, l’opinio, il parlare in-cosciente. Il pensare si costituisce così come pensiero dell’origine e la filologia non ne esprime che l’intrinseca, rammemorante dimensione.
Ma il cerchio è lungi, a questo punto, dal chiudersi "virtuosamente"; proprio qui, anzi, viene alla luce tutta la drammatica della "nuova scienza". L’ordine delle idee procedente secondo l’ordine delle cose non giunge ad un fondamento. Il "discendere" alla coscienza dell’origine, che tanta pena comporta, non mette capo a una solida terra su cui poggiare quei nostri "talloni", ma propriamente all’opposto: a un "luogo" appena intendibile e nient’affatto immaginabile. Al toglimento di ogni fondamento.
L’etymon, la radice ultima e vera delle parole, che è oggetto di una "etimologia filosofica" o di una «filologia nata in Platonia» (Warburg), sprofonda oltre ogni filologicamente-filosoficamente accertabile. Si apre un abisso della e nella parola che proprio le "nozze di filologia e filosofia" rivelano: ogni origine "certa" si affaccia all’incertissimo che ne è arché, ogni elemento noto contiene in sé costitutivamente l’ignoto, ogni dimensione definita l’ancora definiendum. Ecco, abbiamo raggiunto coscienza del significato latino di questo termine; ma quale ne è l’etymon? quale l’origine?
Di nuovo, il "descensus" di Vico, a differenza di quello di Enea, non ha termine. E perciò "revocare gradus" gli sarà tanto più penoso. Entrambi, nell’itinerario, compiono straordinarie esperienze, scoprono volti e luoghi; non c’è spazio per accidiose disperazioni; ma l’antico giunge tuttavia "alle madri", mentre il nuovo, il "moderno" alla domanda, la stessa di Goethe: giù, via da ciò che appare ben definito e formato, giù al gioco eterno della metamorfosi - «ma la madre, dove è?». La parola ci inghiotte al suono, al corpo, alle immagini primordiali del suo agire (...), così come l’immagine della milizia rinviava a ferocia, mercatura a avarizia, l’eleganza del cortigiano a ambizione, la monarchia alla barbarie eroica. (...)
Piena coerenza dell’analogia: come l’uomo fa la sua storia senza tuttavia mai poter sapere gli effetti del suo agire, così egli pensa e dice senza mai poter giungere a perfetta co-scienza del "fondo" del suo dire, proprio perché cosciente che tale "fondo" non è linguaggio. L’inopia magna del nostro pre-vedere è l’altra faccia del limite costitutivo della nostra memoria - che perviene al suo ultimo soltanto quando ricorda l’immemorabile.
E sulla soglia dell’immemorabile non stanno gli Zoroastri e gli Orfei, ma «ci rimangono i bestioni» nessun paradiso o età dell’oro, nessun mito edenico; provvida sventura la cacciata da Eden, ma non perché, come per Hegel o Schelling, da quel "momento" abbia inizio la disvelatrice marcia trionfale dello Spirito; solo il corso della storia umana, provvidenzialmente e non progressisticamente, come vedremo, ordinato genera la perdita di ogni paradiso in terra.
La filosofia che si ostina a meditare soltanto «sulla natura umana incivilita» si ritrae atterrita dal thauma, dallo spettacolo meraviglioso-tremendo, della natura umana dalla quale provengono religioni e leggi, ma perché quella natura non sembra dotata di logos - e non è per la filosofia l’uomo quel vivente caratterizzato proprio dall’"arma" del logos? In questa natura, in questa physis, il nascimento più sorgivo, getta invece lo sguardo con cosciente ardimento la "scienza nuova", "armata" dei suoi assiomi e delle tradizioni «lacere e sparte» che la filologia permette di accertare.
Il viaggio nella memoria fino al suo stesso fondo-non-fonda va fatto valere, dunque, come co-scienza della modernità. Nessun culto antiquario dell’Antico, nessuna sedentaria erudizione, e così critica radicale della pretesa auto-referenzialità dell’Io penso, fondamento del moderno sapere. Ma scienza, comunque, avrà da essere, e ciò comporta comprensione e comunicazione della materia che essa raccoglie. Qui la nuova aporia: come potremo conoscere ciò che ci appare così essenzialmente diverso? come potremo comprendere ciò che "i bestioni" avvertono? partecipare a quella, per dirla con Hegel, «ebbrezza del sentire».
Le domande centrali dell’ermeneutica sono tutte palpitanti in Vico. Come avanzare la pretesa di conoscere l’altro? Qui non può essere in gioco una forma "cartesiana" di conoscenza; anzi, orgogliosamente Cartesio inizia affermando la sua assoluta indifferenza, prima ancora che estraneità, ad ogni linguaggio che egli giudichi "straniero". Il sapere della "nuova scienza", un sapere indisgiungibile dal rammemorare (straordinaria "re-invenzione" dell’anamnesis platonica!), dovrà non solo essere indiziario, procedere per tracce, ma anche necessariamente ricorrere alla forza dell’intuizione e della immaginazione.
Che è autentica vis, e non pensiero degradato, sapere dimidiato. La vis imaginativa si sposa all’acribia filologica, all’evidenza delle idee che la metafisica contempla nella Mente divina. La facoltà dell’immaginare, Einbildungskraft, è, possiamo davvero dire, facoltà del giudizio. Non si giudica del passato, dell’altro, senza di essa. Senza con-sentire in qualche modo con la forza della sua fantasia, con la violenza delle sue passioni, sentimenti e affetti, mai potremmo intenderlo. Non si pensa non immaginando.
Come si pensa-in- parole, come non c’è "cogito" se non nella sua espressione linguistica, così non v’è logos che sia astratto da pathos. Ed è per questo che possiamo, nonostante la abissale distanza, nonostante la differenza che ci divide da "ciò" che non è lingua, che non è logos, tuttavia con-sentirlo e intenderne la voce ("prima" voce, o grido o canto, che a sua volta si apre ad un silenzio insondabile: quello cui si è prima accennato, della storia davvero sacra, la generazione del proprio Verbum uni-genitum da Dio-in Dio).
La visione del passato, co-scienza della filosofia, esige filologia e immaginazione. Esso deve perciò trasmettersi anche per immagini. Senza la loro "guida" e senza un profondo con-sentire sarà impossibile condurre la nostra "visita". Ma syn-pathein è possibile, a sua volta, solo se in noi permane l’eco di ciò che andiamo "visitando". Ciò che nel "moderno" è il valore emeneutico del pathos, in quanto capacità di connessione, in quanto organo di una "logica dell’analogia", deve "ricordare" in sé, per poterci permettere di intendere il più profondo passato, l’esperienza che di esso, come del loro presente, compirono gli uomini che lo attraversarono.
Quel senso interno che ci dice: “sei vivo"
Il nuovo saggio di Daniel Heller-Roazen sulle radici del “Cogito ergo sum”
di Valerio Magrelli (la Repubblica, 01.06.2013) *
Daniel Heller-Roazen, professore di letteratura comparata a Princeton e traduttore di Giorgio Agamben, è un autore piuttosto eterodosso, o meglio, come è stato affermato da Carlo Ginzburg, “eclettico”. Dopo aver pubblicato Ecolalie, un saggio sull’oblio delle lingue, e Il nemico di tutti, uno studio sulla figura del pirata, Quodlibet propone adesso Il tatto interno. Archeologia di una sensazione.
Il primo titolo, spaziando fra mitologia, psicoanalisi, teologia, linguistica e letteratura (con Ovidio, Dante, Poe, Canetti), partiva da un punto di vista medico. Indagando l’ecolalia, cioè quel «disturbo che consiste nel ripetere involontariamente parole o frasi pronunciate da altre persone», le sue pagine ampliavano il senso di questa patologia, riconducendola alle origini del linguaggio stesso. Così facendo, dischiudeva nuove prospettive sul rapporto fra oralità e scrittura, memoria e l’oblio: «Ogni lingua è l’eco di quella babele infantile la cui cancellazione rende possibile la parola».
Con il secondo volume, la scena cambia radicalmente, passando dalla lallazione del bambino alla predazione del bandito. Qui Heller-Roazen muove da Cicerone, per ricordare che, se esistono nemici con i quali si può negoziare e stabilire una tregua, ne esistono altri con cui i trattati restano lettera morta e la guerra continua senza fine. Si tratta dei pirati, che gli antichi consideravano “i nemici di tutti”.
Il pensiero giuridico e politico ha approfondito questa tema per secoli, ma mai come oggi, afferma l’autore, il pirata costituisce l’immagine dell’avversario universale. Dopo essere stato considerato un personaggio del lontano passato, il nemico di tutti è oggi più vicino a noi di quanto si possa pensare, anzi, forse non è mai stato così vicino. Siamo così al terzo volume, nel quale, tra “paradigma ecolalico” e al “paradigma piratico”, Heller-Roazen cambia ancora una volta paesaggio esperienziale.
Abbandonato l’universo linguistico, accantonata la dimensione bellica, adesso la sua indagine ruota attorno a una facoltà chiamata “senso comune”, e assimilata a una sorta di “tatto interiore, attraverso il quale percepiamo noi stessi”. Anche in questo caso ritroviamo una mescolanza di discipline, una predilezione per la letteratura, un rigore documentativo (cento pagine di note e bibliografia), che devono molto alla lezione di Walter Benjamin.
Cominciando con un racconto di E.T.A. Hoffmann sul celebre gatto Murr e terminando con le ultime scoperte della neurologia, venticinque brevi capitoli passano in rassegna filosofi dell’Antichità, pensatori arabi, ebrei e latini del Medio Evo, Montaigne, Francis Bacon, Locke, Leibniz, Rousseau, Proust, fino agli psichiatri del XIX secolo. Al centro delle indagini sta il confronto fra natura umana e animale, da Crisippo a Plutarco, che all’intelligenza dei cani dedicò un celebre trattato.
Ma scendiamo nel vivo del testo, esaminando il quinto capitolo, arricchito da un sottotitolo che suona: «In cui Aristotele e i suoi antichi commentatori spiegano perché gli animali, lungo tutta la loro vita, non possono mancare di accorgersi di esistere ».
Confrontato con il De anima del sommo filosofo greco, il suo De sensu appare un trattato più modesto. Eppure, gli studiosi novecenteschi sono rimasti colpiti dalla sua somiglianza con la famosa prova cartesiana, tesa a dimostrare come l’essere pensante non possa dubitare della propria esistenza: noi percepiamo sempre noi stessi, noi siamo sempre consci di esistere. Ma qui occorre introdurre una precisazione.
Infatti, a differenza del Cogito ergo sum (“penso dunque sono”) di Cartesio, Aristotele, con il suo Sentio ergo sum (“sento dunque sono”), sposta l’accento dalla sfera razionale a quella percettiva. Inoltre, mentre il primo sostiene la continuità fra specie umana e animali, il secondo vede in queste ultime delle semplici macchine: basti citare l’aneddoto di un suo allievo che prese a calci una cagna incinta, ritenendola appunto nient’altro che un mero congegno organico. Distinguendolo quindi da Cartesio, Heller-Roazen preferisce avvicinare le posizioni di Aristotele al concetto di “continuum” in Leibniz. Tornando all’oggetto di queste esplorazioni, ci si trova dunque ad affrontare la storia della percezione che ogni creatura ha della propria vita.
Secondo Agamben, una simile archeologia della sensazione permetterà di porre un problema su cui filosofi e scienziati non potranno evitare di interrogarsi: qual è il senso col quale, al di qua o al di là della coscienza, sentiamo di esistere? Cosa vuol dire, cioè, sentirsi vivi?
A tale domanda Heller-Roazen risponde analizzando un insieme di fenomeni che giocano un ruolo cruciale proprio nella definizione dell’esistenza animale. Ecco venire allora in primo piano alcuni argomenti sul rapporto che lega il corpo alla mente: sonno e veglia, percezione e anestesia, coscienza e incoscienza. Dopo l’apparizione di gatti e cani, lepri, cozze, granchi, ora è la volta dell’uomo, colto però nei suoi stati più labili e alterati. Quali disturbi avvengono al nostro risveglio? Oppure: cosa accade quando si verifica il fenomeno del cosiddetto “arto fantasma”? Lunga è la storia del nostro “tatto interno”, e questo testo la ricostruisce in maniera tanto rigorosa quanto avvincente.
* IL LIBRO Tatto interno di Daniel Heller-Roazen (Quodlibet trad. di G. Lucchesini pagg. 364 euro 26)
Intervista con Luce Iragaray
“Ma l’umanità ha bisogno di infinite carezze”
«Il desiderio è una fonte di energia di cui il nostro corpo ha bisogno per crescere e fiorire»
«I tablet ora magnificano il “touch screen”, ma la cultura dell’Occidente ha sempre privilegiato la vista»
di Egle Santolini (La Stampa TuttoLibri, 08.06.2013)
L’ultimo saggio di Luce Irigaray, la pensatrice belga che negli Anni Settanta infiammò la scena filosofica e psicanalitica con Speculum e la teoria della differenza, è un libro piccolo e densissimo appena tradotto in Italia dal Melangolo.
Signora Irigaray, nell’«Elogio del toccare» lei denuncia la perdita di significato del tatto nella cultura occidentale, dominata dal «logos» maschile: secondo lei, siamo dunque una grande testa che continua a pensare ma che ha dimenticato la pelle?
«E’ così. Il fatto che l’uomo abbia costruito la propria cultura attraverso la dominazione della propria origine naturale e della prima relazione con la madre gli ha impedito di coltivare la dimensione sensibile dell’identità umana. E dunque il tatto non è stato considerato un modo di entrare umanamente in comunicazione con l’altro(a), di restituire all’altro(a) la propria pelle attraverso le carezze, di avvicinarsi l’uno(a) all’altro fino a un’intima comunione grazie al tocco delle mucose».
Poi sono arrivati i computer, le macchine che si frappongono ai corpi. Ci si guarda attraverso gli schermi e ci si relaziona in modo virtuale. Eppure, i modelli più richiesti di tablet e cellulare si definisco no proprio «touch» e metto no l’accento sulle proprie qualità tattili. Non lo trova paradossale?
«L’ industria lo fa per motivi commerciali, per dare l’idea di un contatto da lontano immediato e permanente. Certo il privilegio della vista nell’elaborazione della cultura occidentale non ha contribuito a una coltivazione del tatto. E l’uso della tecnica per dominare la natura ha trascinato con sé lo sviluppo di tutte le tecnologie che ci allontanano sempre più dal toccarci reciprocamente».
Che cosa è successo quando, per i postumi di un incidente, ha cominciato a fare yoga?
«Lo yoga e le tradizioni orientali mi hanno riportato ad abitare il corpo da cui la tradizione occidentale mi aveva invece esiliata, sia riducendomi a una semplice naturalità a disposizione di una cultura al maschile sia attraverso la sottomissione della mia energia corporea a valori soprasensibili. La pratica dello yoga, specialmente la cura del respiro, mi ha aiutata a superare a poco a poco la scissione fra corpo e mente, corpo e anima, dalla quale si è elaborata la tradizione occidentale. Il respiro è ciò che ci permette di passare da una vitalità soltanto naturale a una vitalità e perfino a una possibile condivisione spirituali, che restano radicate nel corpo e lo trasformano in un corpo spirituale che può fare da mediatore tra di noi. La pratica dello yoga mi ha perfino portata a un’interpretazione del messaggio cristiano dell’incarnazione che non mi era stata insegnata, benché sia fedele a parole del Vangelo. Ho in parte reinterpretato in questo modo l’evento dell’Annunciazione nel piccolo libro Il mistero di Maria (ed. Paoline 2010). Ma già in Amante Marina alludo all’importanza della fedeltà alla natura e del toccare nella vita del Cristo stesso, il mediatore fra appartenenza naturale e appartenenza divina».
La salvezza sta ancora nel desiderio?
«Il desiderio è una fonte di energia naturale di cui il nostro corpo ha bisogno per crescere e fiorire. E’ come un sole interiore che si manifesta e si irradia attraverso il nostro corpo: per mantenere e portare a compimento la nostra vita dobbiamo coltivarlo, anche prendendoci cura della nostra bellezza naturale». Come lei scrive, «trasformare il proprio corpo in un’opera d’arte, non con voluttà narcisistica, ma per rendere possibile un’umana condivisione di bellezza con l’altro».
Eppure lei, che tanto ama la cultura greca e che si è addirittura identificata nella figura di Antigone, conclude che coltivare la propria differenza coincide con un destino tragico.
«Rispettare la propria appartenenza sessuata implica sempre una parte di tragedia perché ognuno di noi deve assumerla e coltivarla nella solitudine. Per di più il desiderio aspira all’infinito e all’assoluto, mentre dobbiamo incarnarci in un mondo e una storia che sono finiti. Inoltre, dobbiamo rinunciare alla soddisfazione immediata del nostro desiderio per rispettare la differenza tra le nostre identità sessuate, e anche opporci alla riduzione della nostra identità sessuata all’universalità di un individuo neutro. Sono le due chiavi del tragico insegnamento di Antigone, che come ricordo nel libro All’inizio, lei era, appena uscito da Bollati Boringhieri, prima di unirsi al fidanzato Emone deve dare sepoltura al fratello Polinice. Obbedendo a un ordine più alto, a leggi non scritte che il nuovo ordine rappresentato da Creonte intende abolire. Ma forse l’attuale nostalgia di un ritorno alla cultura greca significa un voler tornare al nostro sé, un sé da cui la nostra tradizione ci ha sempre di più esiliati(e). Si tratta allora di tornare a un’autoaffezione di cui l’età d’oro della Grecia ci aveva già privati(e) sottoponendo il nostro essere globale a una dominazione del mentale. Ora l’autoaffezione ci è necessaria come il pane, perché è la prima condizione della dignità umana».
Siamo fratelli, quindi nemici
Valeria Egidi Morpurgo (Il Sole-24ore, 4 aprile 2013)
“Noi proveniamo dal Cyberspace, la nuova casa della Mente. Nell’interesse del Futuro, noi vi chiediamo, uomini del passato, di lasciarci da soli. Voi non siete benvenuti tra noi. Voi non avete alcuna sovranità dove noi ci incontriamo”.
“Noi stiamo creando un mondo dove tutti possono accedere senza privilegi o pregiudizi indotti dalla razza, dal potere economico e militare o dal luogo di nascita”.
(Dichiarazione di indipendenza del Cyberspace di John Perry Barlow, 1996) .
Compare, (o ricompare) nel manifesto di Barlow, che ricalca la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti (1776) il sogno di un mondo nuovo, contrario all’autorità e a qualsiasi forma di gerarchia a partire da quella generazionale. Qui e altrove la “filosofia della Rete” si esprime in una sorta di utopia egualitaria: che favorisce, nelle iniziative volte a condividere la conoscenza, e nella parificazione dei contributi di ognuno, una democrazia costituita dal basso, una “società dei fratelli”. Ma sogni e progetti di fratellanza a che prezzo si pagano?
Freud, proprio un secolo fa, con Totem e tabù (1912-14), raccontava il cupo “mito scientifico” fondativo della civiltà umana: il parricidio primitivo del padre dell’Orda.
Eccone la trama. All’origine della civiltà, modellata sul calco di un’osservazione di Darwin sui primati superiori, un violento Padre primordiale è il possessore esclusivo dei beni e delle femmine del gruppo, e ne vieta con violenza l’accesso ai figli. Finché un giorno (in un tempo metastorico) i figli si aggregano, cospirano contro il genitore tiranno e lo uccidono. Successivamente, angosciati dalle lotte fratricide, i fratelli si pentono del parricidio, e dopo una elaborazione durata per generazioni si uniscono in una sorta di contratto sociale che dà vita alle leggi e alle istituzioni sociali, a cominciare dall’esogamia (tramite il divieto dell’incesto) e dal divieto di omicidio. Infine trasformano la figura del padre morto in una figura divina e danno origine al Dio delle religioni monoteistiche.
Dei legami tra una sorta di fratelli e un capo Freud tratta poi in Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921) testo che continua a disturbare la nostra tranquillità intellettuale in cui studia due “masse” artificiali, organizzate e stabili: l’Esercito e la Chiesa. Freud scava nei legami di idealizzazione per così dire “verticali” dei “figli” con i capi, che nel suo esempio sono Cristo e il capo dell’esercito. Al tempo stesso descrive i legami “orizzontali”, reciproci, tra i “figli”/sudditi, che si legano tra loro in quanto fratelli nella fede, o come fratelli d’arme, in virtù del legame di ognuno con il capo supremo. Il legame tra i fratelli è basato sull’identificazione reciproca di ogni io individuale con l’altro io ed è perciò un legame di tipo narcisistico, ben diverso dai legami, detti “libidici” in cui vi è la scoperta e il riconoscimento dell’altro da sé come autonomo.
L’ipotesi ha conseguenze inquietanti, perché in questa ottica il capo, in quanto ideale (dell’Io) di ogni individuo, condiviso dal gruppo, “diventa” letteralmente la coscienza di ogni soggetto, sostituendosi ad essa. Basti pensare al fanatismo di massa, e poco importa se sia politico, religioso o di altro genere, per accorgersi della portata di queste idee freudiane.
René Kaës, geniale studioso dei fenomeni di gruppo nel Complesso fraterno (2009) nota invece che i fratelli dell’Orda si ribellano ad un padre che nega il mandato transgenerazionale, tradendo la generazione dei figli, e sottolinea, scostandosi da Freud, che l’alleanza dei fratelli dopo la rielaborazione del parricidio “fonda” l’autorità, non la riscopre. La fonda perché basa il patto sociale sulla rinuncia di ogni singolo membro del gruppo ad appropriarsi del potere dispotico del Padre Primitivo. Di qui Kaës sviluppa lo studio di quell’intreccio di aspetti emotivi tipici dei gruppi paritari, degli aggregati di fratelli e sorelle uniti in fratrie reali o simboliche, che definisce “complesso fraterno”
In ogni gruppo di “fratelli” Kaës individua la presenza di forze coesive di tipo narcisistico da un lato e di aspetti di differenziazione, che arrivano all’aggressività fratricida, dall’altro. Le istanze narcisistiche, e anche qui Kaës innova il pensiero freudiano, spiegano come i “fratelli” possano costituire gruppi che ammettono solo individui omologati, conformisti. Al contrario un gruppo può favorire lo sviluppo delle specificità individuali se ammette il principio di specializzazione delle generazioni e la conflittualità “fraterna”.
Insiste sul disoccultamento e l’accettazione della conflittualità anche un autore di scuola psicoanalitica argentina, Luis Kancyper, che usa l’espressione di “complesso fraterno” per indicare l’aspetto narcisistico del conflitto fraterno, e il suo intreccio con il conflitto generazionale. Con un mito, la storia biblica di Giacobbe, autore di un doppio inganno (inganna il padre e così carpisce la primogenitura al fratello Esaù) che deve cambiare il suo nome e il suo omen, per ordine divino, l’autore mostra che se si accetta l’esistenza dell’ostilità e della conflittualità tra pari si può anche riparane i danni.
Si potrebbe allora pensare che una società egualitaria (o un gruppo)che si costituisce sull’evitamento del confronto con gli aspetti conflittuali nel rapporto con i fratelli (“reali” o simbolici o virtuali che siano)si espone a gravi rischi. Si può finire in una ricerca di omologazione che paralizza ogni movimento e impedisce il riconoscimento dell’individualità e nella ricerca del “controllo totale”. Azione che viene esercitata dal gruppo dei “fratelli” nei confronti di altri gruppi (o di un sottogruppo interno) in modo altrettanto dispotico di come la esercitava il Padre primitivo o i suoi successori. Si rischia di destarsi dal sogno egualitario per trovarsi (Kaës, Op. cit., p. 265)in un incubo: il Big Brother orwelliano.
Luis Kancyper, Il complesso fraterno. Studio psicoanalitico, Borla, 2008
René René Kaës Il complesso fraterno, Borla, 2009
Ateologia politica
“Basta con quel pensiero che ci tiene prigionieri”
Intervista a Roberto Esposito che in un libro affronta il rapporto tra religione e potere
Contro una tradizione che ha identificato il debito con una colpa personale
Intervista di Leopoldo Fabiani (la Repubblica, 27.05.2013)
«Tutti i concetti politici sono concetti teologici secolarizzati ». La celebre definizione di Carl Schmitt ha segnato per tutto il Novecento la riflessione filosofica sulla politica. “Teologia politica” è divenuto così un paradigma irrinunciabile per comprendere non solo i rapporti tra potere e religione, tra Stato e chiesa, ma tutta l’evoluzione della civiltà occidentale.
Ma “teologia politica” è anche una “macchina” di pensiero dentro la quale siamo da sempre imprigionati. La “cattura” non riguarda solo le menti ma, nell’era della biopolitica, anche i corpi, per mezzo del debito, figura centrale della “teologia economica”. È arrivato il momento di liberarcene. Questo è il tema dell’ultimo libro di Roberto Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero (Einaudi, 234 pagine, 21 euro) che esce in questi giorni. Un testo che mentre ricostruisce la genealogia di questa categoria concettuale, ne mina allo stesso tempo le fondamenta.
E sostiene che se vogliamo uscirne non si tratta solo di abbandonare una millenaria tradizione di pensiero, ma anche di ritrovare le ragioni profonde del vivere insieme in una collettività.
Professor Esposito, l’idea della fede come “instrumentum regni” è solo funzionale a una ideologia conservatrice o nasconde qualcosa di più profondo?
«L’idea che senza valori religiosi dominanti non si tenga insieme una società non è solo degli “atei devoti” come Giuliano Ferrara. Anche pensatori raffinati come Massimo Cacciari o Mario Tronti credono che il riferimento alle radici teologiche sia decisivo. Ecco dimostrato, se ce ne fosse bisogno, quanto sia persistente e pervasivo questo modo di pensare».
Altri però ritengono che viviamo nell’era della secolarizzazione, del relativismo, della morale “fai da te”.
«Ma questo non significa affatto che ci siamo “liberati”. Categorie come “secolarizzazione”, “disincanto” “ateismo” sono concetti teologici negativi o rovesciati. Esistono solo all’interno di quell’orizzonte che si vorrebbe invece oltrepassare».
Possiamo fare un esempio di qualche concetto “teologico” operante nell’attualità politica di questi giorni?
«Se ne possono fare molti, pensiamo al dibattito recente sul presidenzialismo. Si è sostenuto che siamo una società che non può fare a meno della figura del padre. Ora, l’azione del presidente Napolitano è stata un bene per tutti, ha trovato soluzioni, ha sbloccato una situazione che era arrivata alla paralisi. Sul piano simbolico però c’è qualcosa che non va. Perché la democrazia non deve essere un regime di “figli”, bensì di “fratelli”. Non è vero che abbiamo bisogno di un riferimento superiore, trascendente».
Ma in cosa consiste il meccanismo oppressivo che lei attribuisce alla teologia politica?
«È una tradizione di pensiero che taglia in due le nostre vite. Che tende a realizzare l’unità attraverso l’emarginazione di una delle parti. Che esclude mentre pretende di includere. L’uguaglianza, storicamente, è stata sempre “tagliata”: tra bianchi e neri, uomini e donne. Ecco, l’Occidente che sottomette il resto del mondo, la globalizzazione che impoverisce tante parti di umanità».
Secondo lei è giunto il momento di uscire da questo “dispositivo” che ci ha catturati e impedisce un’autentica libertà di pensiero. Ma come è possibile riuscirci?
«Non è certo un compito facile, al contrario, è difficilissimo. Io credo che la cappa che ci tiene prigionieri e che dobbiamo provare a rompere, sia fondata sul concetto di persona. Più precisamente, sull’idea che il pensiero appartenga al singolo, all’individuo. Dopo Cartesio, ci pare ovvio. Invece occorre tornare a una tradizione che da Aristotele arriva a Bergson e Deleuze, passando per Averroè, Dante e Spinoza. È una catena che risale all’antichità dove il pensiero è visto come un luogo che tutti possiamo attraversare, un patrimonio cui tutti possiamo attingere. Il primo e più importante, si potrebbe dire, dei beni comuni».
Arriviamo alla “teologia economica” dove la parte centrale del suo ragionamento si svolge attorno all’idea di debito.
«Intanto pensiamo all’ironia di definire i debiti degli stati con l’espressione “debito sovrano” (concetto, quello di sovranità eminentemente teologico). Oggi, chiaramente, la sovranità non appartiene più ai singoli stati, ma alla finanza».
Cosa c’è di teologico nel concetto di debito?
«Walter Benjamin definiva il capitalismo “l’unico culto che non purifica ma colpevolizza”. L’origine teologica di questo concetto è chiarissima. Se pensiamo che nella lingua tedesca la stessa parola significa sia debito sia colpa, capiamo molte cose. Comprendiamo perché i tedeschi vivano se stessi come virtuosi e considerino ad esempio i greci non solo indebitati, ma anche colpevoli. Ma oggi, attraverso il debito pubblico, siamo tutti indebitati».
Siamo tutti “prigionieri” del debito?
«Nietzsche diceva che il debito ci ha reso tutti schiavi gli uni degli altri. E non solo in senso simbolico. Il cerchio biopolitico che lega il corpo del debitore al creditore ha origini lontane. L’istituzione romana del “nexum” consegnava il destino della persona indebitata al suo creditore, che ne poteva disporre liberamente, per la vita e per la morte. Il mercante di Venezia di Shakespeare pretende di essere ripagato con una libbra di carne da chi non può farlo col denaro. Ma anche oggi il debito si paga con la vita. Pensiamo agli immigrati che devono ripagare per sempre con il lavoro chi gli ha prestato i soldi per uscire dai loro paesi. Pensiamo ai suicidi per debiti».
Se siamo arrivati a questo punto non è solo frutto della “macchina” teologica, ci sono anche responsabilità più recenti.
«Senza dubbio tutto questo processo è stato agevolato dalla governance liberale, attuata a partire dagli anni di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, che non ci ha affatto liberato, anzi. Ha trasformato il welfare in un peso insostenibile, teorizzando il “Lightfare”, lo stato leggero. È l’ideologia dell’“ognuno per sé” che ha portato alla crisi e reso il 99% della popolazione più povera».
Per liberarci come individui, lei sostiene, bisogna agire collettivamente.
«Io credo di sì. Il meccanismo di sviluppo va cambiato, dobbiamo tornare a pensare agli investimenti socialmente utili, non al guadagno personale. In questo ci aiuta il concetto di “communitas”. Che significa avere in comune un “munus”, parola che originariamente significava al tempo stesso debito e dono. Nelle società arcaiche il debito era vissuto come un legame sociale. Essere comunità non significa cercare di sopraffarsi uno con l’altro, ma sentirsi vincolati da un dono di fratellanza ».
NON C’E’ VERA STORIA SENZA LA FILOSOFIA. MA QUALE FILOSOFIA?!:
Non c’è vera storia senza la filosofia
Perché Vico resta attuale, mentre ogni forma di conoscenza riconosce i propri limiti
di Enanuele Severino*
Oggi si tende a considerare la scienza moderna come la forma più alta di sapere. Ma la scienza stessa riconosce ormai il proprio carattere ipotetico. Anche le scienze storiche lo riconoscono. Anzi, a questa consapevolezza sono giunte prima delle scienze della natura e logico-matematiche. In modo indiretto Giambattista Vico, nel XVIII secolo, ha aperto la strada in questa direzione. «Ci è mancata sinora - scrive - una scienza la quale fosse, insieme, istoria e filosofia dell’umanità». Passa la vita a tracciare la configurazione di questa nuova scienza.
Al di fuori di essa, esiste una «istoria» senza filosofia, cioè, per lui, senza «verità»: una conoscenza storica che mostra sì un immenso cumulo di notizie, ma senza indicare alcuna Legge immutabile, «eterna» che dia loro un senso unitario, e quindi lasciandole allo stato di ipotesi. La «Scienza nuova» deve procedere pertanto «senza veruna ipotesi»: senza le «incertezze» e «dubbiezze» che competono alle scienze storiche sino a che rimangono separate dalla filosofia.
Ma il nostro tempo - e innanzitutto l’essenza (tendenzialmente nascosta) della filosofia del nostro tempo - esclude l’esistenza di una qualsiasi Legge immutabile ed eterna, sì che le scienze storiche si trovano oggi a conservare proprio quel carattere di «incertezza», «dubbiezza», ipoteticità che Vico aveva consapevolmente colto in esse in quanto separate dalla filosofia.
La Scienza nuova è ora ripubblicata da Bompiani nelle tre edizioni del 1725, 1730, 1744, a cura di Manuela Sanna e Vincenzo Vitiello, che inoltre premette al testo un saggio introduttivo di grande ampiezza e profondo impegno speculativo. Il testo è riproposto secondo l’edizione fattane dalla stessa Sanna, da Fulvio Tessitore e Fausto Nicolini, con alcuni restauri per le edizioni del ’30 e del ’44. Un’imponente operazione culturale.
Molto opportunamente, Vitiello inizia il suo saggio al pensiero di Vico mettendo in luce il carattere problematico della conoscenza storica e in generale della nostra memoria. Vico e tutte le successive riflessioni sulla conoscenza storica non mettono però in questione l’esistenza della storia. E nemmeno le scienze naturali mettono in questione l’esistenza della natura. Storia e natura sono cioè trattate come indubitabilmente esistenti: la loro esistenza è considerata una verità incontrovertibile. Ma a chi va affidato il compito di mostrare la verità non ipotetica dell’esistenza del mondo? Che esista il mondo è una conoscenza scientifica - quindi problematica -, oppure è una conoscenza innegabilmente vera, e quindi non scientifica? Né il «senso comune» può farsi avanti con la pretesa di saper lui rispondere: non può avere la pretesa di possedere una conoscenza superiore a quella della scienza.
Affermare che l’esistenza del mondo è una verità innegabile significa affidare alla filosofia il compito di mostrarlo. È sempre stato il suo compito metter tutto in questione e spingersi in vari modi fino al luogo che «non può» esser messo in questione. Da questo punto di vista, non mettendo in questione l’esistenza della storia, lasciandola cioè implicitamente valere come verità innegabile, Vico rimane indietro rispetto al compito essenziale della filosofia. Ma per altro verso egli coglie nel segno intuendo che la filosofia non può, a sua volta, chiudere gli occhi di fronte alla storia, alla natura, al mondo. Proviamo a chiarire quest’ultima affermazione.
Il «senso comune», in cui si trova ognuno di noi da quando nasce, non ha dubbi sull’esistenza del mondo e della ricchezza dei suoi contenuti: vi crede con tutte le sue forze. (Vi crede anche la scienza, anche quando essa si discosta dal senso comune). Ma, appunto, lo crede, ha fede nella sua esistenza, e non può fare a meno di crederlo - così come non può fare a meno di credere che il sole si muova da oriente a occidente anche se la scienza gli dice che è la terra a muoversi attorno al sole, che sta fermo rispetto ad essa.
Ma la fede non è la verità innegabile. La fede mette in manicomio o distrugge chi mostra di dissentire da essa; sebbene faccia questo quando il dissenziente ha meno forza del credente. Sennonché la verità non è una forza o violenza vincente. Quando la filosofia del nostro tempo lo sostiene, lo può sostenere sul fondamento di ciò che per essa è la verità innegabile: l’esistenza del divenire del mondo, cioè del divenire le cui forze sono capaci di travolgere e vincere ogni «verità» che pretenda imporsi su di esse e regolarle. Affermando che la verità innegabile è il divenire del mondo (implicante l’inesistenza di ogni eterno e di ogni immutabile al di sopra di sé), nemmeno la filosofia del nostro tempo lo afferma perché è riuscita a mettere in manicomio o a distruggere chi la pensa diversamente da essa.
In verità, il mondo non è il mondo (storia, natura, lo stesso altro dal mondo) quale appare all’interno della fede nella sua esistenza e nei suoi molteplici contenuti - ossia all’interno della non-verità. Tuttavia è necessario che nella verità appaia la non-verità: innanzitutto perché la verità è negazione della non-verità e per esserne la negazione è necessario che la veda. È necessario cioè che nella verità appaia la fede nel mondo, al cui interno si costituisce ogni altra fede (ad esempio la fede nella storia e nella natura, o la fede religiosa), ossia ogni altra non-verità, ogni altro errare. Ciò significa che, in verità, il mondo è la fede nel mondo e che la non verità della fede nel mondo appartiene necessariamente, come negata, al contenuto della verità.
Quando Vico pensa una «scienza la quale sia insieme istoria e filosofia dell’umanità», non scorge che l’esistenza della storia (e del mondo) è il contenuto di una fede, ma crede che nell’unione di storia e filosofia la storia sia illuminata dalla verità della filosofia e divenga essa stessa verità; e tuttavia egli intuisce che la verità è inseparabile dal proprio opposto, cioè dalla fede, dall’errore.
Quale volto deve avere la verità che si mette autenticamente in rapporto col proprio opposto? Nel capitolo conclusivo della sua introduzione, intitolato «Prospezioni vichiane», Vincenzo Vitiello scrive: «Al presente spetta la cura della "possibilità" del futuro, che non solo, in quanto futuro non è, ma neppure è necessario che sia». Sono d’accordo che questa sia una «prospezione vichiana», un proseguire cioè lungo il sentiero percorso da Vico. Ma aggiungo che questo sentiero è solo un tratto del grande Sentiero aperto dalla filosofia greca e in cui consiste la storia dell’Occidente: il Sentiero per il quale il divenire delle cose (di cui sopra si parlava) è il loro uscire dal nulla del futuro e ritornare nel nulla del passato. E Vitiello sa bene che, servendomi di un’espressione dell’antico Parmenide, lo chiamo «Sentiero della Notte» - dove la «Notte» è l’errare estremo. Quella «prospezione vichiana» raggiunge il proprio culmine e la propria estrema coerenza in ciò che prima ho chiamato essenza (tendenzialmente nascosta) della filosofia del nostro tempo, ossia nella distruzione di ogni Legge e di ogni Essere immutabile ed eterno. Da gran tempo vado mostrando la malattia mortale - l’essenziale non-verità del mondo - che sta al fondamento di quel Sentiero e che impedisce alla verità di essere l’autentica negazione dell’errore, cioè della malattia mortale che, appunto, fa dire a tutti gli abitatori del Pianeta che il futuro e il passato non sono e non è necessario che siano. Ho detto che tutto questo vado mostrandolo «da gran tempo»? Mi son lasciato andare. Rispetto alla grandezza della posta in gioco quel tempo è minimo.
Emanuele Severino
Ian Tattersall
“Prima il corpo, poi la mente. La doppia genesi dell’uomo”
di Gabriele Beccaria (La Stampa TuttoScienze, 22.05.2013)
Immaginiamo il nostro cervello come le piume dei dinosauri, prima, e degli uccelli, poi. Non c’era proprio niente di prevedibile in ciò che è diventato e che ora ci troviamo intrappolato nella scatola cranica.
Ci siamo trasformati nei «signori del pianeta» - dice il celebre paleoantropologo Ian Tattersall - dopo una rivoluzione improvvisa e tutt’altro che scontata: è secondo queste due declinazioni che dobbiamo pensare alla nostra specie, se vogliamo credere alle ricerche più recenti, sparse tra l’analisi dei resti fossili e le decifrazioni del Dna. Siamo comparsi 200 mila anni fa, eppure, se tornassimo indietro a quei momenti, faticheremmo a riconoscerci, come se incontrassimo un fratello tonto. Per immedesimarci (e provare un’esplosione liberatoria di empatia) dovremmo aspettare e approdare a tempi recenti.
Solo 60 mila anni fa - spiega il curatore del Museo di storia naturale di New York - siamo diventati pienamente umani. Per decine di migliaia di anni abbiamo continuato a comportarci come gli altri ominidi, per esempio i Neanderthal. Laboriosi, piuttosto socievoli, ma poco ciarlieri e quasi per nulla creativi. Poi, di colpo, siamo diventati gli esseri simbolici che siamo.
Tattersall ha scritto un saggio («I signori del pianeta», edito da Codice) per indagare il mistero. E a Torino, al Salone del Libro, ha tenuto una conferenza per raccontare questo viaggio a ritroso nel tempo e nei neuroni. Gli universi alternativi che rielaboriamo continuamente nella mente - ha spiegato - non sono «la glassa sulla torta», ma «la perlina di zucchero che sta in cima alla ciliegia sopra la glassa».
Una metafora di past