Un Dpef per arginare le disuguaglianze di Luciano Gallino (La Repubblica, 19 luglio 2006)
Tanto il presidente del Consiglio che il ministro dell’Economia hanno detto di scorgere nel Dpef in gestazione uno strumento da utilizzare anche allo scopo di contrastare, in nome d’una maggior equità, le disuguaglianze economiche nel nostro paese. La semplice menzione di queste ultime, in rapporto a un documento governativo, rappresenta di per sé una novità di cospicuo rilievo. Sono infatti decenni che il tema delle disuguaglianze è stato escluso non solo dall’agenda, ma perfino dal linguaggio della politica. Che lo abbiano fatto le destre è comprensibile. Per le destre le disuguaglianze di reddito e di ricchezza, siano moderate o abissali, sono semplicemente l’esito, inevitabile quanto giusto, delle differenze di talento e di impegno sul lavoro che esistono tra le persone. Chi possiede il primo e si profonde nel secondo si ritrova naturalmente ai piani alti della piramide sociale. Tutti gli altri debbono accomodarsi ai piani bassi. Un po’ meno comprensibile è che pure il centrosinistra, il quale dovrebbe contare tra le sue idee ispiratrici la convinzione che la suddetta visione della società è politicamente e moralmente insostenibile, si sia parimenti tenuto per anni alla larga dal tema delle disuguaglianze. Rischiando in tal modo di farsi bypassare a sinistra, per lo meno sotto il profilo del lessico concettuale e politico, perfino da quel bastione del capitalismo moderno che è la Banca Mondiale. Nel recente rapporto di questa sullo sviluppo del mondo, per dire, la parola disuguaglianza ricorre 831 volte.
Una volta che sia accolto con interesse e apprezzamento l’ingresso del tema delle disuguaglianze nel Dpef, si tratta di vedere come il governo procederà al fine di passare dall’intento dichiarato a interventi capaci di ridurle in modo stabile. Di certo il compito è difficile. Contribuiscono a renderlo tale sia la entità delle disuguaglianze rilevabili in Italia, sia le loro profonde, e tutt’altro che recenti, radici strutturali. Quanto all’entità, è noto da tempo che l’Italia condivide con il Regno Unito e gli Usa il primato di essere, tra i grandi paesi sviluppati, uno dei più disuguali del mondo, in termini sia di reddito che di ricchezza. Nel 2004, il 10 per cento di famiglie italiane con i redditi più elevati ha percepito il 26,7 per cento del totale dei redditi prodotti, al netto delle imposte sul reddito e dei contributi previdenziali e assistenziali; al 10 per cento delle famiglie con il reddito più basso è toccato solamente il 2,6 per cento, ossia oltre dieci volte di meno. La ricchezza netta totale, incluse quindi sia la proprietà dell’abitazione e di altre proprietà immobiliari, sia le attività finanziarie, appare ancora più concentrata verso l’alto. Il 10 per cento delle famiglie più ricche risulta infatti possedere il 43 per cento dell’intera ricchezza netta delle famiglie italiane; meno dell’1 per cento di questa risulta posseduto dal 10 per cento più povero (fonte Banca d’Italia). Si noti che sia il reddito sia, in maggior misura, la ricchezza degli strati superiori sono sicuramente sottostimati. Accade infatti che nei confronti di tali strati i ricercatori abbiano maggiori difficoltà sia nell’includere un tot proporzionale di famiglie nel campione osservato, sia nell’ottenere dai rispondenti dichiarazioni fedeli. La distanza reale tra chi ha poco e chi ha molto è quindi maggiore, da noi, di quanto le statistiche disponibili non dicano.
Le disuguaglianze di reddito si sono fortemente approfondite in Italia non da ieri, bensì tra la metà degli anni ‘80 e la metà degli anni ‘90. In seguito sono rimaste relativamente stabili. Anche le disuguaglianze di ricchezza sono esplose in tale periodo, ma anziché stabilizzarsi hanno continuato ad inasprirsi sino ad oggi, con una concentrazione crescente di essa non solo nelle mani del 10 per cento delle famiglie più ricche, ma addirittura del 5 per cento, che già nel 2000 disponeva di oltre il 36 per cento della ricchezza familiare netta. Ad approfondire il fossato delle disuguaglianze economiche in Italia hanno contribuito diversi fattori. Anzitutto, se si guarda verso il basso, si è avuta una stagnazione delle retribuzioni reali che per entità e durata non trova paragoni negli altri maggiori paesi europei. Tra il 1995 e il 2005, le retribuzioni reali dei dipendenti del settore manifatturiero, calcolate cioè al netto dell’inflazione, sono aumentate di oltre il 25 per cento nel Regno Unito, di oltre il 14 in Francia, e di oltre il 9 in Germania. In Italia, l’aumento è stato di un misero 1,5 per cento (dati Ocse). Ciò significa che un operaio che guadagnava l’equivalente di 1.000 euro mensili nel 1995 ne guadagna oggi 1.250 se è inglese, 1.140 se è francese, e 1.090 se è tedesco. Se è italiano, si deve invece accontentare di 15 euro d’aumento, un paio di biglietti del cinema in più al mese.
Verso l’alto, il fossato appare essere stato scavato prevalentemente dalla crescita della quota degli attivi finanziari presenti nel patrimonio delle famiglie, soprattutto nel 10 per cento e ancor più nel 5 per cento costituito dalle famiglie più ricche. Il valore complessivo di tali attivi è stato accresciuto vuoi dal rilevantissimo incremento del loro corso borsistico, ad onta del rallentamento di questo verificatosi nei primi anni 2000, vuoi dai dividendi percepiti: l’accumulazione degli uni e degli altri essendo favorita anche da un trattamento fiscale eccezionalmente favorevole, con un’aliquota fissa del 12,5 per cento sui guadagni di borsa, giusto la metà di quel che pagano le famiglie e gli operatori americani. Oltre che dall’andamento dei redditi e della ricchezza rilevati dalle indagini dirette sui bilanci familiari, l’ampliamento del fossato tra chi ha e chi non ha trova un perentorio riscontro in un dato macroeconomico. Tra la metà degli anni ‘70 e i primi anni 2000, la quota di reddito da lavoro dipendente in rapporto al valore aggiunto è scesa di ben dieci punti, dal 48 al 38 per cento, mentre la quota dei profitti nel settore privato saliva di sei-sette punti già a metà degli anni ‘90 e si manteneva stabile dopo d’allora (dati Ocse e Fmi).
Questo insieme di dati sulle disuguaglianze economiche, sulla loro entità e sulla loro storia, attestano che al fine di ridurle stabilmente, almeno in qualche misura, la leva fiscale può essere utile ma non è sufficiente. Occorrerà pensare ad altri strumenti redistributivi, convergenti - a partire da un aumento del salario reale - in una crescita del reddito effettivamente disponibile quanto meno al 20 per cento delle famiglie a reddito più basso. Prendiamo atto, in attesa di vedere concretate le sue misure, che per la prima volta il Dpef di quest’anno sembra essersi fatto carico della questione. Con una (nostra) nota finale per i possibili obiettori: i paesi che presentano indici di disuguaglianza nettamente minori rispetto all’Italia pagano salari più elevati, ed offrono alla collettività servizi sociali migliori, mentre hanno tassi di produttività superiori e ci superano abbondantemente in tema di tecnologie ed esportazioni.
Neocorporativismo. L’Italia che va in frantumi
di Luciano Gallino(La Repubblica/Diario, 28.11.2006)
Etichettare avvocati, medici, tassisti, ricercatori e altre categorie scese in piazza per protestare contro le liberalizzazioni e la Finanziaria come altrettante corporazioni, e le loro azioni come corporativismo, viene naturale. Ci si deve tuttavia chiedere se sia la scelta più idonea per spiegare le loro azioni. Ove si risalga al decreto del 1934 che istituiva 22 corporazioni, tra cui una per le barbabietole e i prodotti dello zucchero, e una per i servizi alberghieri, la corrispondenza sembra piuttosto labile. Ogni corporazione includeva infatti sia i lavoratori che i datori di lavoro, e una delle sue principali funzioni doveva essere l’elaborazione dei contratti collettivi di lavoro. Peggio sarebbe risalire al Medioevo, tante sono le differenze tra le organizzazioni professionali di ieri e di oggi.
Un diverso schema interpretativo potrebbe invece vedere in quel che succede una fase di crisi della modernità. Nel duplice senso del venir meno di quella particolare esperienza che consiste nell’essere e sentirsi moderni, e del declino d’una idea della modernità capace di dare profondità e ricchezza a tale esperienza. Essere moderni, scriveva già vent’anni fa un docente newyorkese di Scienza politica, Marshall Berman, «vuol dire trovarsi in un ambiente che ci promette avventura, potere, gioia, trasformazione di noi stessi e del mondo; e che, al contempo, minaccia di distruggere tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che conosciamo, tutto ciò che siamo». Simile esperienza materiale e intellettuale di "unità della separatezza" di processi complementari e nondimeno contrapposti entra in crisi quando uno dei due processi viene separato e assolutizzato, nella pratica come nelle idee, quasi che potesse sussistere in modo indipendente dall’altro.
Vari fattori hanno concorso a spezzare tale unità, in Italia come in altri paesi. Fra di essi bisogna porre la visione oleografica della modernizzazione diffusa dalle scienze sociali sin dagli anni Sessanta del Novecento. Stando a essa, tutte le società del mondo sarebbero immancabilmente avanzate, al pari delle società occidentali, verso una condizione in cui le autorità tradizionali di tipo religioso, etnico e familiare vengono soppiantate da autorità razionalmente costituite in base a un contratto politico di natura secolare tra le masse e le classi dirigenti; la partecipazione politica manifesta un grande sviluppo; l’azione sociale viene sempre più guidata da norme secolari-razionali; il carattere delle persone si trasforma in modo da combinare una maggior capacità di auto-realizzazione con una crescente disponibilità a cooperare con altri.
Oggi tale idea della modernizzazione appare penosamente sfocata, punto per punto, a confronto della situazione del mondo. A onta del suo distacco dalla realtà, essa si ripresenta di continuo, ad esempio in varie riforme che le forze politiche dei due schieramenti propongono sovente allo scopo di modernizzare il Paese. Esse disegnano un lungo cammino felice verso una nuova stabilità sociale ed economica, per poco che si seguano le indicazioni dei governi, intanto che le persone sperimentano ogni giorno la distruzione accelerata di rapporti tradizionali, la scomparsa di tratti di cultura, l’erosione di comunità identitarie. Le proposte dimezzate provenienti dalle forze di governo, insieme con le esperienze dimezzate che le persone compiono, in assenza di adeguati schemi pubblici d’orientamento, restringono l’orizzonte delle persone agli interessi privati e accentuano il solco tra le élite e le masse.
Opera qui nello sfondo, fra le élite come fra le masse, una concezione rozzamente individualistica della società. Poche battute sono politicamente più ottuse di quella di Margaret Thatcher, per cui la società non esiste; esistono soltanto gli individui. Quanto invece è acuta e fertile la concezione che vede nella società, nello Stato, un essere umano in grande, e in ciascun essere umano una società in piccolo. È una concezione che risale quanto meno a Platone, ma alla quale è stata data nitida forma da un sociologo tedesco, Georg Simmel, ormai un secolo fa. Scriveva Simmel: «Tutte le fasi di una lotta, l’equilibrio delle forze che paralizza temporaneamente la lotta, la vittoria apparente di un partito che dà soltanto all’altro l’occasione di raccogliere le proprie forze... tutto ciò rappresenta in egual misura la forma del corso dei conflitti sia interni che esterni». In altre parole la società risiede in noi, siamo noi stessi, perché sin dall’infanzia abbiamo interiorizzato le sue tensioni, i conflitti e i mutamenti, le ambiguità e le certezze. Mentre ciò che si svolge all’esterno, sulla scena pubblica, è una lotta di formazioni sociali e di rappresentazioni reciproche che riproduce in grande la nostra stessa molteplicità, ma insieme la complica e la estende.
La comprensione di questa dialettica tra l’interiore e l’esteriore, tra società e Stato e l’individuo, per farne impegno di arricchimento personale e sociale, è l’essenza stessa della modernità. Quando comprensione e impegno vengono meno, com’è accaduto in Italia, si ha la regressione di masse intere negli interessi privati, siano essi materiali o spirituali, lo squilibrio tra ricchezza privata e povertà pubblica. Che è anche squilibrio tra l’azione privata, che bada soltanto alle cerchie più interne del proprio mondo quotidiano, e l’azione pubblica, con la quale l’individuo non si identifica con persone, etnie o gruppi sociali, bensì con sistemi impersonali di regole intese a rendere praticabile la cooperazione con cerchie via via più ampie di estranei.
Allorché ciò accade, non serve limitarsi a gettarne la responsabilità sulle masse, accusandole ritualmente di comportamenti rozzamente corporativi, o di colpevoli ricadute nella cultura dell’Io - anche quando lo meritino. Esse hanno soggettivamente interiorizzato una scena oggettivamente predisposta, nel corso di decenni, dalle élite politiche, economiche e intellettuali. Per dirla con Christopher Lasch, che una decina di anni fa intitolò un suo libro La ribellione delle élite per contrapporlo a La ribellione delle masse di José Ortega Y Gasset: «le élite, che definiscono... i temi del dibattito pubblico, hanno perso il contatto con la gente normale. Il carattere irreale, artificiale, della nostra politica riflette il loro isolamento dalla vita comune, e la segreta convinzione che questi problemi siano insolubili».