Recensione
Giuliano Pontara ha presentato a Venezia L’Antibarbarie (7 ottobre 2006)
di Enrico Peyretti *
Nell’ambito del 6° Salone dell’editoria della pace, a Venezia, Giuliano Pontara (docente emerito di Filosofia Pratica nell’Università di Stoccolma) ha presentato il suo libro L’Antibarbarie, che esce in novembre presso le edizioni Gruppo Abele di Torino, col sottotitolo La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo. È un ampio studio che mostra nel lascito di Gandhi, nel suo pensiero e nella sua azione, un antidoto profondo alla violenza profondamente intrinseca al sistema mondiale attuale.
Giovane studente a Stoccolma, Pontara ebbe tra i suoi maestri Harald Ofstad, autore di un libro del 1971, mai tradotto in italiano, Our Contempt for Weakness (Il nostro disprezzo per la debolezza). Ofstad riconosceva alcune tendenze naziste presenti in noi, nei nostri modi di vivere, precedenti e seguenti il nazismo storico. Da quel lontano spunto, oggi Pontara individua, riassuntivamente, otto componenti di questa vecchia e nuova “barbarie”:
1. la visione del mondo come teatro di una spietata lotta per la supremazia; 2. il diritto assoluto del più forte; 3. lo svincolamento da ogni limite morale; 4. l’elitismo (diritto di dominio che una élite si attribuisce in quanto “superiore”); 5. il disprezzo per il debole; 6. la glorificazione della violenza; 7. il dovere assoluto di obbedienza; 8. il dogmatismo fanatico.
Le nuove violenze del XXI secolo sono espressione di queste tendenze. La globalizzazione della violenza e la nazificazione del mondo hanno chiuso il XX secolo. Si sono costruite follemente una quantità di armi di distruzione di massa, da parte di molti, e anzitutto dagli Stati Uniti, che prevedono di nuovo nei documenti pubblici della loro strategia l’impiego di armi termo-nucleari. La paura è alimentata e utilizzata per il dominio. La democrazia è sempre più corrosa. È impressionante pensare che la democrazia di Pericle, ad Atene, durò circa novant’anni, poi distrutta appunto da tendenze “naziste”, e che le nostre democrazie attuali hanno circa novant’anni, e sono minacciate dalle stesse tendenze.
Gandhi ha dato un contributo alla trasformazione dei conflitti, ha promosso metodi incruenti di resistenza alla barbarie, metodi il più possibile liberi dall’imitazione della violenza. Egli sapeva di indicare una via difficile, ma praticabile a livello di massa, a certe condizioni empiricamente verificabili. Egli vide il nesso storico tra la globalizzazione violenta armata e il processo di occidentalizzazione del mondo da cinque secoli in qua (scoperte geografiche ed espansione europea), grazie alla potenza militare, economica, mediatica. Gandhi definiva «tortura prolungata» la violenza strutturale.
Le due guerre mondiali del Novecento sono state causate dalla «brama di spartizione del mondo da parte delle potenze occidentali». Nel 1942 Gandhi scrive: «Usa e Gran Bretagna non hanno diritto di parlare di democrazia e civiltà fino a quando il cancro della supremazia dei bianchi non sarà distrutto». Ricordiamo che Gandhi nel 1940 scriveva che «la democrazia occidentale, nelle sue attuali caratteristiche, è una forma diluita di nazismo o di fascismo»: un giudizio severo, ma che neppure oggi possiamo liquidare in fretta.
Kant diceva: «Rimarrà sempre sconcertante il fatto che le generazioni precedenti portino il fardello per le successive, e che queste abitino nell’edificio completato da quelle». Oggi pare proprio il contrario: i posteri pagheranno per le distruzioni che una parte crescente dell’umanità attuale sta compiendo.
Gandhi opponeva un duro rifiuto al macchinismo, allo sfruttamento, ai consumi sfrenati: «un sistema che denuda il mondo al modo delle locuste». «Nel mondo ci sono risorse sufficienti per i bisogni di tutti, non per l’avidità di alcuni». Egli propugnava un socialismo nonviolento, su base di solidarietà, di risparmio e non di spreco, di scambi commerciali equi e non un mercato senza regole, di controlli democratici su tutte le decisioni collettive, anche economiche. Proponeva all’India una socializzazione democratica, secondo l’idea e il metodo sarvodaya, benessere di tutti, bene sociale, interesse pubblico. Concepiva la proprietà come «amministrazione fiduciaria», gestita nell’interesse di tutti. Le risorse del pianeta sono un bene comune, usabili a patto che ne rimangano a sufficienza e in misura altrettanto buona per le generazioni successive.
Oggi questa concezione guida i movimenti gandhiani, la vera risorsa umana e politica per resistere e opporsi alla violenza strutturale, al grande apartheid globale, che tiene divisa l’umanità sotto un unico impero. Nonostante le tendenze naziste, nel mondo di oggi sono in corso importanti lotte nonviolente, anche senza conoscenza di Gandhi: lotte di indigeni in America Latina, lotta anti-nucleare in Italia.
Contro la violenza culturale, il fanatismo, contro i fondamentalismi non solo religiosi ma anche laici (il mito assoluto del mercato; l’ideologia neo-cons), da Gandhi viene un saggio fallibilismo: quello che ora, con buone ragioni, ci pare vero, può non essere vero. Perciò Gandhi definì la propria vita come «storia dei suoi esperimenti con la verità».
In lui il fallibilismo sta insieme alla «fermezza nella verità» (satyagraha), che tuttavia è sempre correggibile. Poiché siamo fallibili, dobbiamo sempre essere aperti a dialogo, tolleranza, perdono, e fare continua ricerca sui fatti. Poiché possiamo sbagliare, non possiamo mai imporre con la violenza le nostre visioni e interessi. È la violenza culturale, e poi fisica, che assolutizza la mia convinzione. Contro la logica imperiale che tutto assorbe, dobbiamo assumere l’atteggiamento ecumenico, il dialogo interculturale.
Gandhi riconobbe dolorosamente, nel 1948, che nel conflitto indo-musulmano la nonviolenza era fallita, con le stragi, con la divisione tra India e Pakistan. Già nel 1921 diceva: osservare la dottrina nonviolenta in un mondo di passioni e violenze è difficile. Ma rimase sempre «prigioniero della speranza» (titolo del libro di J. M. Brown, Il Mulino, 1995), speranza che le tendenze naziste non portino alla distruzione dell’umanità.
Gandhi fondava questa speranza sull’idea religiosa dell’unità di tutto il reale, per cui le forze del bene come del male sono in tutti noi, anche in Hitler. Perciò possiamo sviluppare e usare le risorse positive che fanno appello a uguali risorse presenti nell’avversario. Così Gandhi fece tanto bene agli inglesi quanto agli indiani.
Questo libro di Giuliano Pontara, che ho potuto leggere in anteprima, è uno dei più importanti e approfonditi nella interessante serie di libri di e su Gandhi che la cultura e l’editoria più attenta sta producendo in questo periodo.
Enrico Peyretti (14 ottobre 2006)
www.ildialogo.org, Lunedì, 16 ottobre 2006
NON COMINCIARE, SAGGEZZA SUPREMA
Intervista a Gianni Sofri
realizzata da Barbara Bertoncin
Quando Gandhi scrisse a Tolstoj, che lui riconosceva come un maestro insieme a Thoreau, Ruskin e Raychandbhai, un gioielliere giainista di Bombay; la domanda se Gandhi sia diventato indiano a Londra; i tantissimi libri che lesse in carcere e di cui pubblicava l’elenco; la sua idea della non-violenza e il suo pragmatismo politico; la complessità spesso non raccontata dell’India, dove, pur nella venerazione di Gandhi, governano i discendenti di chi lo uccise. Intervista a Gianni Sofri.
Possiamo partire dalla storia di questo libro...
Questo libro ha un antenato, le cui origini sono legate a un amico carissimo, Pier Cesare Bori, che era uno studioso di storia delle religioni e grande conoscitore di Tolstoj. Ora, sia lui che io sapevamo che Tolstoj e Gandhi erano stati in corrispondenza. Ovviamente per un breve periodo perché Tolstoj era all’epoca molto vecchio, infatti sarebbe morto di lì a poco, mentre Gandhi era sulla quarantina. Non a caso quando abbiamo iniziato a parlare del progetto di pubblicare queste lettere, ci siamo resi conto che la maggior parte delle persone cadeva dalle nuvole, quasi non ci voleva credere. Le persone sono infatti abituate a pensare a Tolstoj come a un grande personaggio dell’Ottocento e a Gandhi come a una grande figura del Novecento. Quando scoprivano che questi due personaggi avevano addirittura corrisposto erano tutti molto stupiti.
Questa corrispondenza consta di sette lettere complessivamente fra l’uno e l’altro; noi l’abbiamo accompagnata con una serie di lettere scritte dai rispettivi collaboratori, che aiutano a capire il contesto. Alcune di queste lettere sono importanti, altre testimoniano semplicemente della difficoltà di inserire la prima marcia e mettere in moto la macchina.
Gandhi all’epoca è in Sudafrica dove conduce delle lotte in difesa degli indiani; nel 1909 scrive a Tolstoj e gli dice: ho letto un suo articolo, mi ha dato molto da pensare, noi ci ispiriamo molto alle cose che lei scrive, e quindi mi è venuta voglia di parlargliene. Tolstoj riceve questa lettera che probabilmente giace a lungo sul suo tavolo. Diciamo che la messa in moto di questa macchina è molto lenta. A un certo punto però Tolstoj riceve anche una biografia di Gandhi, la prima, scritta da un sacerdote anglicano che stava in Sudafrica; la legge e comincia a capire che queste lotte di indiani sudafricani sono importanti. Scrive pertanto a Gandhi e i due cominciano a dialogare, entrano anche nel merito di alcuni problemi.
Ecco, per scrivere questo primo libro, che risale agli anni Ottanta, di comune accordo, Bori e io ci dividemmo il lavoro. Io scrissi un saggio lungo su Gandhi, e lui su Tolstoj, e poi curammo questa corrispondenza. Per molti anni ho pensato che mi sarebbe piaciuto ritirare fuori questa corrispondenza con i discorsi che ci avevamo costruito attorno; anche Bori pensava la stessa cosa, tant’è che in una sua raccolta di saggi sulla cultura russa ripubblicò il suo saggio su Tolstoj. All’epoca gli dissi che prima o poi anch’io avrei fatto la stessa cosa. Questi sono i precedenti.
Aggiungo che il mio capitolo su Gandhi non è propriamente una biografia, e un po’ lo è. A me interessava portare il lettore al punto dell’incontro di Gandhi con Tolstoj (cronologicamente la mia biografia si ferma lì) e poi mi interessava mettere in evidenza alcuni problemi.
Veniamo a Gandhi. La prima cosa che metti in evidenza è che Gandhi, paradossalmente, sembra scoprire la sua identità di indiano a Londra...
In questa sorta di biografia che arriva soltanto fino all’inizio della Prima guerra mondiale, cioè al momento in cui Gandhi, finita la sua esperienza sudafricana, torna a vivere in India, il primo problema che pongo è per l’appunto questo: ma Gandhi è un indiano o un europeo? In apparenza la risposta è molto semplice, è indiano, più indiano di così! Ci sono dei bellissimi libri fotografici su Gandhi, che contengono decine e decine di fotografie delle varie tappe della sua vita. È possibile ricostruire l’evoluzione del pensiero e dell’attività di Gandhi attraverso i suoi abbigliamenti. Fino a quello finale, che consiste sostanzialmente di una specie di tunica, di lenzuolo, corredato di sandali.
Gli oggetti che lascia alla sua morte sono appunto questo lenzuolo, un paio di sandali, un arcolaio, perché lui filava e tesseva il cotone, un orologio, credo, e poco più. Alla fine di una lunga vita lui possedeva queste cose. Il suo abbigliamento era una scelta, la scelta di essere vestito e quindi riconosciuto come tutti gli altri indiani, di non portare alcun segno di distinzione o di ricchezza.
C’era anche un altro elemento all’origine di questa scelta, cioè quello che lui chiama lo swadeshi, una parola che vuole segnalare qualcosa di vicino, del proprio paese; oggi parliamo di "chilometro zero”; ecco, Gandhi era molto favorevole a che venissero mangiate, bevute, indossate delle cose fabbricate, prodotte molto vicino al luogo in cui si stava, quindi per esempio nello stesso ashram dove viveva con i suoi discepoli. Questo valeva soprattutto per il cotone. Era un atteggiamento che nasceva in polemica con l’industrializzazione imposta dagli inglesi, nel tentativo di rivalutare la capacità degli indiani di mettere in azione un’economia più tradizionale, più autonoma.
Dicevo delle fotografie: quella sulla copertina del mio ultimo libro (quello di Sellerio), per esempio, appartiene al periodo in cui Gandhi è in Inghilterra. Ora, da ragazzino Gandhi non era particolarmente "gandhiano”, era un ragazzino molto normale, faceva anche delle birbonate, per esempio a un certo punto, trascinato da un suo compagno di studi musulmano, birbante più di lui, che lo esortava a fare cose peccaminose, prova a mangiare carne (con risultati tragicomici).
Gandhi infatti sosteneva che gli inglesi erano in grado di governare l’India pur essendo pochissimi proprio perché non erano vegetariani. Gandhi non era neanche un nazionalista indipendentista. Era per certi aspetti un ammiratore degli inglesi anche per questa loro capacità di dominare. Quando finì le scuole decise che voleva andare a Londra a fare giurisprudenza. Lì ne nacque una specie di tragedia familiare, perché Gandhi apparteneva a una sottocasta della terza casta, quella dei commercianti, che proibiva ai suoi membri di attraversare il mare. Con l’aiuto della madre, e soprattutto di un monaco giainista, riuscì ad andare in Inghilterra. Però, attenzione, per poterlo fare venne, non so come dire, squalificato, diventò praticamente un fuoricasta. Naturalmente dovette promettere a sua madre che per tutto il tempo in cui sarebbe stato a Londra non avrebbe mangiato carne, non avrebbe toccato donne, non si sarebbe drogato...
Resta il fatto che Gandhi, quando andò in Inghilterra, attraverso gli studi di giurisprudenza, attraverso la sua vita quotidiana, le sue abitudini, il suo modo di vestire, ecc., voleva trasformarsi in un gentiluomo inglese. Quindi fece delle cose che non possono che apparirci strane, e che lui stesso racconta nella sua autobiografia, cioè prese lezioni di danza, di violino, di buona pronuncia, ecc.
A Londra ebbe anche delle difficoltà molto pratiche, per esempio circa il vegetarianesimo. Lui si era portato dietro dei cibi dall’India, però a un certo punto li finì, credo che soffrì anche la fame. Non era un vegetariano per convinzione assoluta, però era rispettoso delle tradizioni e soprattutto desideroso di non venir meno alla promessa sacra, solenne, che aveva fatto a sua madre. Finché a un certo punto scoprì che a Londra esistevano dei ristoranti vegetariani. Questa per lui fu una grande scoperta! Si iscrisse alla Società vegetariana e diventò un vegetariano militante. Questa fu la prima grande trasformazione.
Sempre a Londra gli capitò per la prima volta di parlare in pubblico: gli toccò di sostituire una giovane donna che doveva fare un discorso sul vegetarianesimo a Hyde Park, allo speaker’s corner; lei si ammalò e chiesero a lui: andò in panico.
Non fu mai quello che si dice un grande oratore. Era veramente uno che faceva fatica, ma poi si dominava e sapeva convincere e tenere le persone per ore e ore ad ascoltarlo. Gandhi seppe usare i nuovi mezzi, la radio, gli altoparlanti, i microfoni, era bravissimo, però se si guarda un documentario, si vede subito che lui parla senza mai alzare la voce, in una maniera monotona però convincente, con la tranquillità di chi ha imparato a dominare il panico.
In seguito cominciò a scrivere sul giornalino "The Vegetarian”. Possiamo dire che esordì come scrittore in quanto vegetariano. Non solo: nel ristorante vegetariano incominciò a incontrare dei cultori della cultura indiana, per esempio dei teosofisti. La Teosofia era una setta un po’ stravagante per certi aspetti, fondata da una nobildonna, Madame Blavatsky, un’esule russa; nell’intellighenzia londinese la pigliavano in giro.
In realtà la Teosofia svolse un suo ruolo importante in questo periodo, soprattutto grazie ad Annie Besant, che fu a lungo presidente della Società teosofica dopo la morte della Blavatsky. La Teosofia ebbe allora il merito di far conoscere meglio le religioni fra di loro, in particolare le religioni orientali.
Sempre in questo ristorante vegetariano, incontrò due signori che, quando seppero che era indiano, esordirono: "Ah, beato lei che è indiano, che conosce bene la Bhagavad Gita, e poi l’avrà letta in sanscrito! Che grande fortuna!”. Lui non disse niente ma poi ci ripensò. Gandhi non aveva mai letto la Bhagavad Gita, meno che mai in sanscrito, lingua che non conosceva. Così si mise a studiare la propria cultura, leggendo dei libri, perlopiù scritti da inglesi che si erano appassionati alla cultura indiana; opere sul buddismo, sull’induismo, oppure classici tradotti in inglese.
In questo senso ho parlato di circolarità tra la cultura indiana e la cultura europea, perché poco per volta a Gandhi arriva la sua stessa cultura, però attraverso mediazioni occidentali; le più importanti sono inglesi, per la semplice ragione che l’Inghilterra della seconda metà dell’Ottocento è gli Stati Uniti degli anni Cinquanta del Novecento. Così come buona parte della cultura europea e mondiale ha dovuto passare attraverso Manhattan, così allora si passava da Londra.
Ruskin, noto come critico d’arte, ma che scrisse anche opere che noi oggi definiremmo di sociologia o sul welfare, è uno degli autori che più ha influito su Gandhi, ma non fu certo il solo; c’era un gran giro: ognuno prestava agli altri le opere che gli piacevano, o gliele suggeriva semplicemente.
Tolstoj sta proprio in cima a questa piramide che stiamo disegnando. Un altro personaggio cruciale, che invece viene dagli Stati Uniti, è Thoreau, sia in quanto rivalutatore di una vita a contatto con la natura (era stato per un po’ di tempo a vivere in un bosco e aveva descritto le sue esperienze), sia per un’opera chiamata Civil Disobedience, nata dal suo rifiuto di pagare le tasse in opposizione alla guerra al Messico.
Ecco, la cosa curiosa è che questa circolarità non valeva solo per i libri, ma anche per oggetti della vita quotidiana. Uno degli autori che più influenzarono Gandhi è Carpenter, un ricco signore con idee di sinistra libertaria. Ebbene, una delle cose che faceva Carpenter era di fabbricarsi le scarpe. Lo si faceva in tutte queste comuni, ashram, ecc. Chi è andato a Jasnaja Poljana, a casa di Tolstoj, ha scoperto che sono esposti degli stivali fabbricati da Tolstoj in persona. Ma la cosa che mi aveva colpito, è che un amico di Carpenter gli scrive una lettera dal Punjab in cui gli dice di aver trovato "quei sandali che mi avevi chiesto”. Ecco, c’è una circolarità persino negli oggetti.
Apro una parentesi: chi abbia vissuto gli anni a cavallo del Sessantotto si ritrova perfettamente in questo ambiente londinese che ho cercato di descrivere, per varie ragioni. Per esempio, c’è tutto un fiorire di studi sull’Oriente; anche nel post-Sessantotto, gli anni che sono stati giornalisticamente definiti del "riflusso”, molti sono andati in India, poi a un certo punto hanno smesso e sono andati negli Stati Uniti, ma insomma c’è stata questa voga. Qualcosa del genere accadeva anche nell’Inghilterra di allora. Poi c’erano quelli che finanziavano sperimentazioni sociali o le attuavano, per esempio andando a vivere in campagna in specie di comuni in cui c’erano sia operai, lavoratori manuali, sia intellettuali. Quasi sempre litigavano dopo un po’. Poi c’erano questi finanziatori come Carpenter che a un certo punto si stancavano di essere finanziatori e volevano essere compagni attivi anche loro, con tutta una serie di problematiche personali, di gruppo e culturali generali. Altri hanno semplicemente scritto contro questi gruppi, magari prendendoli in giro, per esempio Kipling, in un racconto satirico del 1913, non risparmiò questo mondo che gli appariva popolato da giovani viziati, sperimentatori in rapporti sociali.
Quello che mi interessava sottolineare è che Gandhi è entrato, direttamente o indirettamente, in contatto con questo mondo di sperimentatori sociali per l’appunto, e ne è stato fortemente influenzato. Inoltre aveva tra i suoi collaboratori persone delle più svariate religioni, ebrei, cattolici, anglicani e così via. Per tutta la vita Gandhi ha riconosciuto i suoi debiti nei confronti di personaggi di questo mondo culturale religioso prevalentemente europeo, però anche nei confronti del mondo indiano, che nel frattempo veniva riscoprendo.
Possiamo dire che, quando è partito dall’India, Gandhi era induista per tradizione, stancamente insomma; invece quando è tornato in India, soprattutto dopo l’esperienza sudafricana, è tornato induista perché convinto della bontà della religione indiana. Che non voleva dire però che lui sottovalutasse le altre. Lui usava non a caso questa metafora, diceva che le religioni sono tutte come rami dello stesso albero. Era nettamente contrario all’idea stessa della conversione. Ciascuno doveva comportarsi bene secondo le regole della propria religione. Aveva anche un approccio molto pragmatico. A un certo punto Tolstoj gli aveva scritto che l’induismo gli piaceva molto, salvo la reincarnazione. Gandhi gli rispose chiedendogli di tradurre il suo testo, ma togliendo quel pezzetto, spiegandogli che gli indiani riuscivano a vivere e sopravvivere in condizioni difficili, in povertà, in carcere, grazie a quella credenza.
Anche quando, a Londra, gli chiesero di scrivere un articolo su indiani e vegetarianesimo, lui spiegò che gli indiani non è che fossero vegetariani chissà per quali strane ragioni ecologiche, ma perché non hanno soldi. Non era proprio esattamente così ma, insomma, metteva in evidenza anche gli aspetti economici, materiali.
Riassumendo, per tutta la vita è stato chiesto a Gandhi chi fossero stati i suoi principali maestri e lui ha sempre risposto facendo i nomi di Tolstoj, Thoreau, Ruskin e Raychandbhai, un gioielliere di Bombay, giainista. Il giainismo è la religione che ha sviluppato di più la nonviolenza, e in particolare il concetto di ahimsa, un termine composto da alfa privativo e da una parola che significa violenza. I monaci giainisti sono quelli che camminano per strada stando attenti a non calpestare animaletti, che si tengono davanti alla bocca una benda per non ingoiarne, ecc., e sono radicalmente nonviolenti nei confronti di ogni essere. Ecco, Gandhi è stato certamente molto influenzato dal giainismo.
Lui era un pensatore sperimentale, questo va sempre ricordato perché alcuni l’hanno trattato come un pensatore politico. Gandhi invece amava molto la sperimentalità, non a caso la sua autobiografia è intitolata "La storia dei miei esperimenti con la verità”.
Nella tua ricostruzione ti soffermi sulla storia di un anno, il 1909. Puoi raccontare?
Negli anni intorno al 1909 Gandhi opera una serie di trasformazioni, introduce questo concetto di brahmacharya, che non è semplicemente la castità, va inteso come controllo del corpo più in generale; poi comincia anche a trasformare il suo atteggiamento politico, nel senso di renderlo più radicale, insiste molto per esempio sul fatto che la nonviolenza non può e non deve essere soltanto autodifesa, deve avere la capacità di andare all’attacco; nonviolenza non vuol dire rifiuto della conflittualità, vuol dire accettazione, gestione della conflittualità. Quindi una radicalizzazione del suo pensiero.
Nel 1909 esce anche il libro più radicale di Gandhi, Hind Swaraj, di critica alla civiltà moderna, all’industrializzazione, alle città, alle ferrovie. Possiamo dire che Ivan Illich è un assoluto discepolo di questo libro. Gandhi ha degli aspetti passatisti, non c’è dubbio; Hind Swaraj è anche un libro pieno di contraddizioni, però io ho cercato di mettere in evidenza alcune intuizioni importanti. In particolare c’è una frase che mi piace moltissimo: "Il non cominciamento di una cosa è saggezza suprema”. È la frase che apre l’epoca dell’ecologia; è l’idea che tutto si tiene. Con quest’opera Gandhi vuole anche dire agli indiani: guardate che non basta aver cacciato gli inglesi, bisogna avere cambiato se stessi. Perché se no non si vince la guerra.
Il 1909 è un anno importante anche per un altro motivo: il 2 luglio a Londra c’è un attentato politico, un giovane indiano, Madanlal Dhingra, uccide il capo di gabinetto del segretario di stato per l’India. Dhingra è membro di un’associazione fondata da Savarkar, un personaggio già noto per il suo estremismo, e che lo diverrà ancora di più dopo aver passato alcuni anni nelle galere britanniche. Oggi è considerato uno dei venerati padri fondatori della destra nazionalista indiana, con venature fasciste.
Nel 1909 Gandhi arriva a Londra dal Sudafrica, per una missione diplomatica, pochi giorni dopo che Dhingra aveva commesso l’omicidio, e ha modo di seguire la vicenda sui giornali e nei suoi colloqui con uomini politici britannici. Qualche mese dopo, in una riunione fra indiani (ma presente un agente inglese che registra diligentemente quanto si dice) ha modo di polemizzare con Savarkar: è l’inizio di un inquietante, tragico rapporto che durerà decenni. Savarkar era stato certamente il mandante dell’omicidio commesso da Dhingra e nel 1948 fu quasi certamente lui il mandante dell’assassinio di Gandhi (non mi sembra ci possano essere molti dubbi, benché un tribunale lo mandasse ufficialmente assolto). Nel frattempo, in più occasioni, soprattutto in quella di una vasta campagna per farlo uscire di prigione, Gandhi si era impegnato in favore di Savarkar, che lo aveva ricambiato con un aperto disprezzo.
Ma torniamo a noi e al 1909. In quell’anno, a Londra, Gandhi viene messo di fronte ad alcuni dei personaggi che rappresentano il mondo della violenza (anche terroristica) in India. È un anno decisivo per la sua evoluzione politica, e ci aiuta a capire come ci siano momenti nei quali, più che i libri (anche se "grandi libri”) contino a volte gli incontri diretti con persone, fatti, idee in azione. Nel caso di Gandhi a Londra nel 1909, l’estremismo osservato da vicino. Non ci sono solo il giainismo o Tolstoj. Gandhi ha visto cosa sono i violenti e ha dovuto battagliare con loro, anche se con una certa prudenza. In Hind Swaraj, laddove parla del rapporto fra violenza e nonviolenza, è cauto perché ha conosciuto molti indiani che stanno seguendo questa strada e quindi non può limitarsi a condannare. Cioè lui condanna ma vuole capire. C’è un’ultima questione su cui comincia a interrogarsi sempre nel 1909. Fino ad allora Gandhi si era abituato all’idea che la sua vocazione fosse di difendere i diritti e cambiare la vita degli indiani del Sudafrica.
Invece, attraverso questi incontri con Savarkar, Dhingra e gli altri, capisce che il Sudafrica è un vicolo cieco, non potrà mai vincere da solo. Capisce che prima o poi, lui, Gandhi, dovrà prendere in mano i destini dell’India intera. Non lo dice esplicitamente e non lo fa subito, però incomincia a pensarci e pochi anni dopo lo farà. Lo farà anche con molta forza, perché è lui il rifondatore del Partito del Congresso. Farà molta politica, ma sempre con la capacità di ritirarsi ogni tanto: negli ashram, nell’India dei villaggi, a studiare e predicare riforme morali e sociali. Diventerà famoso anche come un politico, ma di una politica diversa, con regole nuove, meno staccata dalla morale; e rimarrà sempre pronto a stupire gli avversari, fossero inglesi o indiani, per la sua capacità di rovesciare improvvisamente, ma sempre in maniera leale, i tavoli sui quali si stava giocando.
In biografie recenti sono stati criticati alcuni atteggiamenti di Gandhi, per esempio verso i sudafricani...
Gandhi era anch’egli succube della concezione socio-antropologica dominante in quegli anni. Alla fine dell’Ottocento vigeva una concezione positivistica che vedeva l’umanità a gradini. Anche lui, se vuoi, considerava gli indiani un gradino immediatamente sotto i bianchi, con una accentuazione culturale, più che fisica. Invece vedeva i neri africani nel gradino più basso. Il suo approccio agli africani originari non era molto diverso da quello dei colonizzatori bianchi. Ma perché lui in realtà faceva parte di quella cultura. Lui aveva una grandissima cultura europea. E il suo erede, Nehru, ancora di più. Quando scoppiò la guerra di Spagna, non solo Nehru ci andò (anche se solo per qualche giorno), ma scrisse che "la nostra civiltà era in pericolo”. La nostra civiltà. In seguito andò anche in Russia per capire cosa fosse questa rivoluzione, e ne fu entusiasta, tant’è che portò anche in India l’idea della programmazione economica, dei piani quinquennali...
Nehru aveva studiato nelle più famose scuole e università inglesi. Anche Gandhi aveva studiato in Inghilterra. Non solo, quando andava in prigione leggeva una quantità di libri e poi, essendo un pignolo, ne elencava tutti i titoli. "Ho letto...”, due punti, e seguivano pagine e pagine di titoli di libri, ma i più svariati. Una volta pubblicai in un articolo uno di questi elenchi, era impressionante.
Hai dedicato un capitolo del libro alle biografie di Gandhi.
Volevo soprattutto mettere in evidenza un aspetto peculiare, e cioè il carattere "gandhicentrico” delle biografie di Gandhi. Il fatto che la fonte principale di tutti gli scritti su Gandhi siano le sue stesse biografie o gli scritti dei suoi seguaci ha come effetto e conseguenza che se tu leggi un libro intitolato "L’India contemporanea”, ti sembra che nell’India contemporanea ci sia solo il Partito del Congresso. Tutt’al più ci sono i conflitti all’interno del Partito, Tilak con Gandhi, Bose con Nehru, e qualche accenno agli estremisti dei primi anni del secolo, ma sono tutte comparse. Gandhi predomina.
Il problema di queste storie dell’India contemporanea è che sono costruite in maniera tale da non far capire bene al lettore come mai oggi c’è al governo uno che si chiama Modi. Per questo io ho sentito il bisogno di alcuni capitoli interamente nuovi, uno dei quali parlasse della complessità della storia indiana. Volevo far capire che il Partito del Congresso era effettivamente il filone principale, però accanto, e spesso intersecato, c’era anche quest’altro filone.
Dopo l’uccisione di Gandhi, anche se sia i suoi familiari che quelli di Tolstoj intervennero a chiedere che gli esecutori non venissero uccisi, i due responsabili furono condannati a morte (però Savarkar fu invece assolto). Questi movimenti subirono in seguito un fermo per qualche anno. Modi però è proprio l’erede di quest’altra tradizione. Un lettore di questo libro mi ha detto: "Ma lo sai che non avrei mai immaginato che quelli che governano oggi l’India sono quelli che hanno ucciso Gandhi!”. Invece in qualche modo è così.
Una curiosità: dove nasce la tua passione per l’Asia?
In effetti è una storia curiosa che fa capire come a volte il caso abbia un suo ruolo. Io mi sono laureato nel 1958 sui cattolici liberali toscani, ho fatto la tesi di laurea su Lambruschini, Capponi e Tommaseo, e poi ho continuato studiando temi di storia italiana. Appena laureato, assieme a un mio carissimo amico che si chiama Traniello, sono andato a lavorare a Torino, dove uno dei nostri professori dirigeva un’enciclopedia storica. Era stato programmato un saggio sulla Cina, una decina di paginette che doveva dare un’immagine chiara della Cina dalle origini ai giorni nostri! Ebbene, l’autore di questo saggio all’ultimo momento ci fece sapere che non ce la faceva. Mi chiamarono: "Senti, lo fai tu?”. Io non ne sapevo niente, della Cina. Mi scelsi dieci libri, di più non potevano essere perché avevo una settimana, mi chiusi in una stanza e scrissi questo pezzo, che fu apprezzato.
Poi, sempre un po’ casualmente, mi imbattei nel problema del "modo di produzione asiatico”. Me ne aveva parlato Carlo Poni, grande studioso di storia economica (forlivese, fra l’altro). Questo problema appassionò i comunisti del Comintern, della Terza internazionale negli anni Venti e Trenta, ma li appassionò al punto che Stalin alcuni li uccise. La questione era la seguente: le società umane seguono tutte la stessa strada, cioè comunismo primitivo, società schiavistica, società feudale, capitalismo, poi necessariamente comunismo? Oppure ci sono anche società che si pongono ai margini e hanno storie diverse? -Per esempio, ci sono società asiatiche, come l’India e la Cina, che hanno una tradizione di dispotismo orientale e di non proprietà privata della terra. La terra appartiene al sovrano, allo stato. Da questa discussione negli anni in cui il Comintern cominciava a intervenire creando partiti comunisti in Cina, India, dappertutto, si traevano delle conseguenze. Per esempio Trockij diceva: no, qui non c’è una società borghese, quindi bisogna lavorare a organizzare subito una società socialista, saltando una fase. Gli altri dicevano: no, non si può saltare una fase, le fasi sono quelle. E così via. Per questo si veniva alle mani, e non solo alle mani.
Quindi io scrissi un libro su questo che uscì da Einaudi e venne tradotto in tanti paesi del mondo, compresa la Svezia, il Brasile, dove grazie a internet ho scoperto che è ancora in uso in qualche università.
Devo dire che successivamente sono entrate in gioco altre cose. Intanto la curiosità per le lotte di liberazione, l’Algeria prima di tutto (sono più vecchio della generazione del Vietnam), e poi la Cina, che ci ha attirato molto, e lì ho avuto delle cadute, nel senso che sono stato abbastanza filocinese, anche se mai a livello dei marxisti leninisti, dei maoisti puri. In quegli anni scrissi un articolo sulla politica estera cinese, uscito sui "Quaderni piacentini”, che era molto critico, anche ironico, scherzoso, cosa insopportabile per i maoisti.
Questo articolo piacque molto alla rivista di Sartre, "Les Temps Modernes”, così André Gorz mi scrisse e mi chiese se potevano tradurlo. Poco dopo mi capitò di andare a Parigi, e in una libreria mi misi a sfogliare l’ultimo numero di una rivista abbastanza famosa di allora, "Tel Quel”, dove c’era un articolo sulla politica estera cinese; vidi che mi citava, non certo favorevolmente.
Non mi fece una grande impressione. Solo che continuando a sfogliarla mi accorsi che a seguire c’era un altro articolo di sole due pagine, molto fitte, intitolato "Le cas Gianni Sofri”. Questo articolo, di un maoista francese importante, me ne diceva di tutti i colori, mi accusava di soggettivismo, mi diceva tutte le cose peggiori che un maoista potesse dire. Ecco, probabilmente questa cosa mi ha salvato.
Invece l’incontro con Gandhi lo so spiegare meno bene. All’epoca si leggevano soprattutto articoli di filocinesi, nei quali si faceva spesso un paragone tra la Cina e l’India, per dire, sì, l’India è più democratica, ma in fondo che democrazia è se poi muoiono di fame? E allora si faceva vedere che l’India cresceva pochissimo mentre la Cina (dove però morivano di fame ancora di più) cresceva a ritmi molto elevati. Questa cosa cominciò a darmi un po’ fastidio, allora mi misi a leggere, a cercare di capire. Anche leggere quello che scrivevano di Gandhi gli scrittori comunisti, che lui non era che un servo della borghesia indiana, mi infastidiva. Il fastidio aumentò quando mi accorsi che i comunisti cominciarono a rivalutare poco per volta sia Gandhi sia, a livello italiano, Capitini. Ciò che più mi disturbava è che, ad esempio, scrivevano degli articoli sull’"Unità”, parlando bene di queste persone, come se l’avessero fatto sempre, dimenticandosi di dire: "Ci siamo sbagliati”. Non c’era alcuna autocritica. Il culmine si raggiunse una volta che mi invitarono a un convegno a Perugia, la città di Capitini, che voleva essere il convegno della sua definitiva "riabilitazione”, loro usano questo termine.
Capitini, tra l’altro, era stato mio professore, però io non avevo saputo approfittare di questa opportunità; per noi era un po’ una macchietta, credevamo di essere più di sinistra... Comunque, mi chiesero di fare una relazione. Accettai, mi ricordo che andai a Perugia accompagnato da un mio studente. All’arrivo, vidi questo manifesto enorme col faccione di Capitini, e poi Partito comunista, federazione di Perugia ecc. Capii che anche lì non avrebbero detto niente, avrebbero semplicemente parlato bene di Capitini come fosse uno di loro. Allora mi arrabbiai, buttai via la relazione che avevo preparato e ne feci una improvvisata lì, dicendo: "Guardate, mi fa un grande piacere che lo riabilitiate. Non accuso solo voi, accuso anche me, perché l’ho avuto come professore e purtroppo non ho saputo approfittarne...”, e quindi raccontai queste cose e c’era un grande imbarazzo, davvero un grande imbarazzo.
Insomma, è tutto molto complicato. Quello che è certo è che dopo di allora decisi che volevo capire meglio. Spero di essere riuscito nel caso di Gandhi a introdurre delle tematiche meno scontate, senza creare nuove confusioni, però non lo so sinceramente se ci sono riuscito.
Una questione che ti viene posta spesso è se Gandhi, il suo insegnamento, possa ancora servirci oggi.
Proprio in una presentazione che abbiamo fatto all’Archiginnasio, con Marcello Fois, volendo attualizzare la discussione, si è proposto di intitolarla: "È ancora attuale Gandhi in un’epoca di grande violenza?”. In quell’occasione ho ripreso in mano un altro mio libro, quello su Gandhi in Italia, il cui capitolo finale è intitolato "Gandhi e i dittatori”.
La mia tesi è che senz’altro non bisogna smettere di leggere Gandhi perché ci sono dei personaggi che sono universali, che sono difensori di valori universali e bisogna quindi abituarsi all’idea che è necessario giocare sempre su due tavoli.
Un tavolo è l’educazione dell’umanità, per usare l’espressione di Lessing: l’educazione dell’umanità per un giorno in cui sia possibile vivere in un altro modo. Cioè superare le incrostazioni che secoli e secoli di violenza hanno prodotto su di noi, quindi costruire società fondate su altri valori, su altre abitudini, su altre leggi, ecc., e questo è un tavolo. Ma contemporaneamente devi giocare su un altro tavolo, i cui giocatori sono Hitler, Al Baghdadi, Bin Laden, ecc., ecc. Continuando in questo discorso, io ho cercato di sostenere che Gandhi non ha avuto la capacità e la possibilità, per distanze geografiche e culturali, di cogliere la novità dei regimi totalitari moderni. Da qui, le lettere scritte a Hitler, cercando di esortarlo a diventare nonviolento, le lettere agli inglesi... In conclusione, secondo me, Gandhi, per combattere Hitler e salvare gli ebrei, oppure per salvare l’Europa da questi disgraziati che si fanno saltare in aria, che poi ormai sono imprevedibili, impalpabili, ecco, contro tutto questo Gandhi non serve. Malinconicamente, ma non si può non dire questo.
(a cura di Barbara Bertoncin)
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1. TESTI. GIULIANO PONTARA: L’ESCALATION DELLA BARBARIE. UN ESTRATTO DAL PRIMO CAPITOLO DE "L’ANTIBARBARIE" *
1.1. L’escalation della barbarie
Il XX secolo e’ stato profondamente segnato dall’acuirsi di due processi strettamente congiunti: l’escalation della brutalizzazione e la globalizzazione della violenza. Agli inizi del XXI secolo non vi sono segni di arresto e inversione.
Tutti e due questi processi vengono da lontano: dai massacri imperialisti e razzisti perpetrati dagli spagnoli e dai portoghesi in America Latina e da altri europei nell’America del Nord; da quelli perpetrati dagli inglesi, dai francesi, dai belgi, dai tedeschi e, in ritardo su questi, dagli italiani in Africa; dalla "missione civilizzatrice" degli inglesi in India, i quali alternarono l’uso della violenza armata e delle carestie per tenere l’intero subcontinente sotto il loro dispotico dominio. I massacri colonialisti sono perpetrati da eserciti dotati di armi nettamente superiori e molto piu’ distruttive di quelle di cui dispongono le popolazioni che cercano di resistere. Verso la fine dell’Ottocento sono inventate e adottate le prime mitragliatrici, prima semiautomatiche, poi automatiche. Nel 1885 l’esercito dell’impero britannico viene dotato della mitragliatrice automatica portabile Hiram Maxim, fornita di una capacita’ di fuoco tra i 500 e i 600 colpi al minuto. Nel 1898 l’uso di questa mitragliatrice fu decisivo nella battaglia di Ondurman, in Sudan, nella quale le truppe inglesi affogarono nel sangue i guerriglieri del movimento indipendentista che si era sviluppato nel Paese sotto la guida di Muhammad ibn Abd Allah (normalmente noto come Abdullahi). Nella battaglia furono massacrati 22.000 sudanesi, altri 20.000 furono feriti. I morti tra le file dell’esercito coloniale inglese furono 48. II giovane Winston Churchill, futuro primo ministro inglese, presente alla battaglia come corrispondente di guerra, descrive il fuoco "fermo e insistente" dei soldati che, "interessati al loro lavoro" e "minuziosi nell’espletamento di esso", sparavano "senza fretta e senza eccitazione", con la nuova mitragliatrice Hiram Maxim su un "nemico lontano" che non poteva colpirli. Churchill chiama la nuova arma automatica di distruzione un’"arma di civilizzazione" (l).
Sono omicidi di massa di questo tipo a preparare quella che un noto storico contemporaneo ha chiamato "l’eta’ dei massacri" (2), tuttora in corso, iniziata con la prima guerra mondiale, durante la quale centinaia di migliaia di soldati dei "Paesi civili" si massacrarono reciprocamente su scala industriale per quasi cinque anni: solo nella battaglia di Verdun, nel 1915, i tedeschi uccisero 315.000 francesi e i francesi a loro volta trucidarono 280.000 tedeschi (3). Con la prima guerra mondiale si rinforza un militarismo profondamente legato a grandi e potenti interessi economici e di classe. Di pari passo, e favorito dagli sviluppi sempre piu’ rapidi della scienza e della tecnologia, si intensifica un processo sempre piu’ serrato di corsa ad armamenti sempre piu’ distruttivi che inghiotte somme sempre piu’ astronomiche: tra le nuove mitragliatrici usate nella prima guerra mondiale (dopo che prototipi erano stati provati contro i "barbari incivili" nei massacri coloniali) e lo sganciamento delle due bombe nucleari sul Giappone intercorrono solo una trentina d’anni. Molti meno ce ne vorranno per sviluppare e costruire su scala industriale sistemi di armi termonucleari, chimiche e biologiche con le quali e’ possibile distruggere l’intero genere umano, o gran parte di esso.
Contemporaneamente, causa ed effetto dell’escalation della violenza, con la prima guerra mondiale si innesca un rapido processo di vasta brutalizzazione, di crescente e sempre piu’ largamente condivisa accettazione di forme di violenza precedentemente di regola non accettate e giudicate inaccettabili. Attraverso il blocco economico della Germania, efficacemente realizzato dalla flotta britannica per l’intera durata della guerra, lo sforzo bellico viene per la prima volta direttamente rivolto contro la popolazione civile allo scopo di abbatterne il morale. Le stime dei civili che morirono a causa della penuria di risorse essenziali causata dal blocco navale britannico variano da una cifra massima di 800.000 a una minima di 424.000 (4). Esso costituisce l’inizio della guerra come carneficina indiscriminata di combattenti e civili, perpetrata su scala industriale. L’invenzione e costruzione su larga scala dell’aereo rende possibile i bombardamenti terroristici diretti contro la popolazione civile, i primi dei quali si verificarono gia’ verso la fine della prima guerra mondiale. Fatti inizialmente oggetto di un’ondata di proteste, questi bombardamenti vennero in seguito sempre piu’ accettati e sanzionati come parte integrante della guerra, diventando fatto giornaliero durante la seconda.
Nel XX secolo la guerra, compresa quella "civile", e’ dunque diventata totale. La percentuale dei civili uccisi in guerra non ha fatto che crescere: alla fine dell’Ottocento e’ il 5%; nelle guerre di fine Novecento e’ il 90% (5). Molte delle vittime sono bambini: soltanto nel corso dei vari conflitti violenti che hanno infestato varie regioni del pianeta negli ultimi quindici anni i bambini uccisi, resi invalidi, orfani, profondamente traumatizzati si contano a milioni. Alla fine degli anni Novanta esistevano oltre 110 milioni di mine attive disseminate in una settantina di Paesi martoriati da conflitti violenti (6); e’ stato calcolato che in media ogni mese 2.000 persone pestano una di queste mine e vengono uccise o rese invalide per il resto della vita. Aveva ragione il militarista Karl von Clausewitz quando scriveva che "gli spiriti umani potrebbero pensare che esistano metodi tecnici per disarmare o abbattere l’avversario senza infliggergli troppe ferite e che sia questa la finalita’ autentica dell’arte militare. Per quanto seducente ne sia l’apparenza occorre distruggere tale errore. La guerra e’ un atto di forza, all’impiego del quale non esistono limiti: i belligeranti si impongono legge mutuamente; ne risulta un’azione reciproca che logicamente deve condurre all’estremo" (7). A massacri avvenuti, e suggellati dalle carneficine di civili causate dai bombardamenti atomici con cui gli Stati Uniti rasero al suolo le citta’ di Hiroshima e Nagasaki e da quello "tradizionale" con cui gli alleati, a guerra praticamente conclusa e vinta, distrussero nel fuoco la citt" di Dresda, "i popoli della terra", nauseati dal sangue che arriva fino alle ginocchia, si dichiarano solennemente "decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra" (8). Ma il flagello continua attraverso una serie di guerre locali, alcune delle quali assumono dimensioni mondiali in quanto coinvolgono, direttamente o indirettamente, le maggiori potenze militari del pianeta: guerra di Corea, guerra di Indocina, guerra del Vietnam, guerra di Algeria, guerre in Africa, guerre balcaniche, guerre in Aghanistan, guerre in Iraq, guerre in Libano. Appare cosi’ un nuovo fenomeno: la crescente globalizzazione e internazionalizzazione del terrorismo non statale (quello di Stato e’ ben piu’ antico e massiccio) favorito dalla globalizzazione del mercato, legale e nero, delle armi, dai nuovi fondamentalismi religiosi, ma anche da geopolitiche neo-imperialiste e dall’enorme iniquita’ nella distribuzione delle risorse nel mondo.
A suo tempo, Karl Marx, con una metafora divenuta celebre, poteva parlare della violenza come ostetrica della storia, come lo strumento attraverso il quale lo sviluppo storico si apre la strada, abbattendo vecchie e pietrificate strutture, verso forme sempre piu’ aperte, meno violente e piu’ umane di societa’. Oggi c’e’ il rischio che la metafora piu’ calzante sia un’altra: quella della violenza come becchino della storia.
1.2. La barbarie nazista
I vasti processi di brutalizzazione e globalizzazione della violenza, innescati dai massacri imperialisti nel mondo extraeuropeo, e ulteriormente sviluppati nel corso della prima guerra mondiale, favoriscono l’affermarsi del nazismo, una sistematica (anche se incoerente) ideologia della violenza e prassi metodica di essa come fine e come mezzo, che, a sua volta, fornisce combustibile a un ulteriore imbarbarimento.
Inteso come ideologia - Weltanschauung la chiamavano i suoi fautori - il nazismo e’ un misto di nazionalismo tribale, di darwinismo sociale e di elitismo conditi con idee sul superuomo e la volonta’ di potenza provenienti da Nietzsche (dai lati piu’ oscuri del suo pensiero) e con la tendenza, di provenienza hegeliana, a concepire un popolo, una nazione come un’entita’ metafisica. Cosi’ inteso, il nazismo si articola in una costellazione di interconnesse componenti che si manifestano sia a livello verbale (a questo livello la bibbia del nazismo rimane pur sempre il Mein Kampf di Hitler), sia a livello comportamentale, attraverso atteggiamenti e comportamenti individuali e collettivi estremamente violenti e brutali, sia a livello strutturale in istituzioni e strutture che promuovono distribuzioni inique di potere e autorita’ nel sistema sociale e di risorse e ricchezza a livello economico.
Molto fa ritenere che le componenti che assieme costituiscono la Weltanschauung nazista siano l’espressione estrema di strutture mentali, assunti, norme, valori a lungo presenti e coltivati non solo nella cultura tedesca, bensi’ piu’ in generale nella cultura occidentale (9). Ne’ si tratta di un fenomeno circoscritto allo specifico contesto dei dodici anni di dittatura hitleriana in Germania. A determinate condizioni le componenti che congiuntamente costituiscono il nocciolo duro dell’ideologia nazista si possono realizzare, singolarmente o tutte assieme, in altri contesti. "E’ avvenuto, quindi puo’ accadere di nuovo... e dappertutto" (10).
In effetti molte sono le situazioni che portano a pensare che diverse delle componenti essenziali del nazismo siano ancora oggi largamente presenti nel mondo, a Nord come a Sud, in Occidente come in Oriente. Non penso qui tanto ai vari gruppi neonazisti attivi in diversi Paesi e che si ispirano direttamente agli insegnamenti di Hitler, richiamandosi piu’ o meno apertamente al suo nome. Penso piuttosto alla diffusione di modi di pensare, di concepire l’uomo e il mondo per vari versi simili a quelli propri del nazismo, alle strutture autoritarie e oppressive non molto dissimili da quelle naziste tuttora imperanti nel mondo, alle forme sempre piu’ brutali e distruttive assunte dalla violenza armata dopo la caduta del nazismo in Germania e che, come gia’ aveva rilevato Primo Levi, sembrano in parte diramarsi proprio dalla violenza dominante nella Germania di Hitler (11).
Nelle pagine che seguono cerchero’ di mettere brevemente e sinteticamente in luce ciascuna delle componenti che costituisce il nocciolo della Weltanschauung nazista (12), indicando di volta in volta come ciascuna di esse sia ancora ben presente nel mondo in tendenze naziste che costituiscono una grande minaccia per il futuro dell’umanita’. Ostacolare lo sviluppo di queste tendenze costituisce una delle maggiori sfide del secolo XXI.
1.3. La nuova barbarie: tendenze naziste oggi Elenco riassuntivamente le componenti essenziali dell’ideologia nazista sulle quali nel resto di questo capitolo intendo incentrare il discorso.
Esse sono otto:
a. la visione del mondo come teatro di una spietata lotta per la supremazia; b. il diritto assoluto del piu’ forte; c. lo svincolamento della politica da ogni limite morale; d. l’elitismo; e. il disprezzo per il debole; f. la glorificazione della violenza; g. il culto dell’obbedienza assoluta; h. il dogmatismo fanatico.
Note
1. W. Churchill, The River War: An Historical Account of the Reconquest of the Sudan, Green Longmans, London 1899 (tr. it. Riconquistare Khartoum, Piemme, Casale Monferrato 1999).
2. E. Hobsbawm, The Age of Extremes, Abacus, London 1995, p. 24 (tr. it. Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1997).
3. S. Robson, La prima guerra mondiale, il Mulino, Bologna 2002, p. 89 (ed.
orig. The First World War, Longman, London-New York 1998).
4. J. Glover, Humanity. Una storia morale del ventesimo secolo, Il Saggiatore, Milano 2002, pp. 90-91 (ed. orig. Humanity. A Moral History of the Twentieth Century, Pimlico, London 2001).
5. Undp, Human Development Report, Oxford University Press, Oxford 1998, p.
35.
6. Ivi.
7. K. von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, Milano 1970, pp. 21-22.
8. Preambolo della Carta delle Nazioni Unite.
9. Lo storico Enzo Traverso argomenta bene questa tesi nel suo lavoro La violenza nazista. Una genealogia, il Mulino, Bologna 2002.
10. P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, p. 164.
11. Ivi, p. 165.
12. Per una dettagliata analisi delle molteplici componenti che costituiscono la Weltanschauung nazista cfr. la meticolosa ricostruzione dell’intera ideologia fatta da H. Ofstad in Our Contempt for Weakness: Nazi Norms and Values - and Our Own, Almqvist & Wiksell International, Stockholm
1989 (ed. orig. in norvegese, Var forakt for svakhet, Pax Forlag, Oslo 1971). Debbo molto a questa analisi. Cfr. anche l’intera parte VI del lavoro di Glover, op. cit.
2. TESTI. GIULIANO PONTARA: IL MONDO COME TEATRO DELLE FORZE COSTRUTTIVE. UN ESTRATTO DALL’ULTIMO CAPITOLO DE "L’ANTIBARBARIE"
[Riproponiamo il seguente estratto da Giuliano Pontara, L’antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, Ega, Torino 2006, pp. 322-323]
Alla Weltanschauung nazista che vede il mondo come teatro di una perenne lotta violenta e brutale per la supremazia, la mentalita’ nonviolenta oppone una visione del mondo al centro della quale sta quella "forza costruttiva" che nella storia dell’umanita’ si esprime concretamente in atteggiamenti, comportamenti, pratiche, istituzioni, strutture - a livello morale, giuridico, sociale, economico, politico - volti ad arginare la violenza in tutte le sue forme; quella forza costruttiva che nella storia ha permesso agli esseri umani di convivere pacificamente, di condurre e risolvere i conflitti senza distruggersi a vicenda, di istituire relazioni cooperative, fiduciose, e costruire societa’ fiorenti. La pace non e’ vista come situazione di tregua tra guerre, bensi’ come un continuo e dinamico processo costruttivo interrotto da esse. A una visione della storia umana, per cui il "progresso" si fa faticosamente strada con e grazie alla violenza, viene opposta una visione per cui le maggiori conquiste dell’umanita’ sono avvenute non grazie alla violenza, ma nonostante essa.
Questa concezione costruttiva non nega la centralita’ del conflitto nel mondo delle relazioni umane e l’importanza del potere nella conduzione dei conflitti. Ma potere non equivale a violenza; se la violenza e’ sempre potere, non sempre il potere e’ violenza. Non e’ contraddittorio a livello teorico, ne’ controfattuale a livello empirico, parlare di potere della nonviolenza, potere che nella storia si e’ manifestato in una miriade di modi diversi, sia prima sia dopo Gandhi, e al quale Gandhi ha aggiunto, con la dottrina e la pratica del satyagraha, una nuova e originale dimensione.
3. TESTI. GIULIANO PONTARA: UNA VIA DIFFICILE. LE PAROLE CONCLUSIVE DE "L’ANTIBARBARIE" [Riproponiamo il seguente estratto da Giuliano Pontara, L’antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, Ega, Torino 2006, pp. 333-334]
"Sento nel piu’ profondo del mio cuore - scriveva Gandhi verso la fine della sua vita - che il mondo e’ mortalmente nauseato dai versamenti di sangue. Il mondo sta cercando una via d’uscita". Uscita dalla barbarie.
Combattere la barbarie senza diventare barbari, questo e’ il problema; opporsi, con mezzi immuni dal contagio, alla logica della volonta’ di potenza, quella logica gia’ enunciata, e forse anche denunciata, da Tucidide per cui "i forti fanno cio’ che hanno la potenza per fare, mentre i deboli accettano quello che sono costretti ad accettare", e in base alla quale gli ateniesi, dopo che Melos si era arresa a discrezione, fecero massacro tra gli abitanti maschi in eta’ militare e deportarono in schiavitu’ donne e bambini; la stessa logica che domina tuttora nel mondo fra quanti vedono nel terrorismo della guerra e nella guerra del terrorismo la continuazione della politica con altri mezzi. E’ difficile vedere come si possa uscire da questa logica con nuove e ulteriori violenze. Non c’e’ una guerra che ponga fine a tutte le guerre, un terrorismo che ponga fine a ogni terrorismo, una barbarie che ponga fine a ogni barbarie, tranne la barbarie ultima dell’olocausto dell’umanita’. Non si tratta di abbandonarsi a discorsi apocalittici, ma non si puo’ e non si deve assuefarsi alla convivenza con armi di distruzione di massa, e rimuovere la consapevolezza che la minaccia e il pericolo di una Auschwitz e di una Hiroshima sempre piu’ globali sono pur sempre incombenti.
Se, da una parte, guardando all’immane corsa storica ad armamenti sempre piu’ distruttivi, ai massacri, alle carneficine, alle guerre, ai genocidi perpetrati nel "mattatoio della storia" e alle minacciose tendenze naziste nel mondo d’oggi, si puo’ ragionevolmente e pessimisticamente disperare di poter uscire dalla barbarie ed evitare la barbarie ultima; dall’altra, rivolgendo l’attenzione alle forze morali, costruttive e nonviolente che in ogni epoca della storia gli umani sono riusciti a mobilitare contro la violenza e la barbarie, si possono trovare ragioni per non disperare, appigli per un’intelligente speranza, quell’intelligente speranza di cui era "prigioniero" Gandhi e che l’accompagno’ nel suo cammino sulla via della politica e della lotta nonviolenta. La via e’ difficile, e Gandhi e’ il primo a riconoscerlo: "Enunciare la nobile dottrina dell’ahimsa e’ facile; osservarla in un mondo pieno di conflitti, di sconvolgimenti e di passioni e’ un compito della cui difficolta’ mi rendo conto ogni giorno di piu’". Ma esistono forse vie facili?
* LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
Supplemento domenicale de "La nonviolenza e’ in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it Numero 141 del 9 dicembre 2007 (Ripresa parziale).
Gandhi, il non violento che aveva letto Marx
di Michele Prospero *
La figura del «Mahtma» Gandhi è certamente una tra quelle più significative ed eclettiche del Novecento. Nel secolo della paura e della violenza di massa, intesa da tutti come grammatica minimale del politico, egli esalta la «non-violenza» declinandola come una condotta politica pacifica e nondimeno efficace per la liberazione dei popoli dalle potenze coloniali, ma anche come un argine protettivo utile persino contro i regimi più totalitari.
Alla ormai sconfitta potenza inglese, che però intende imporre la netta separazione etnico-religiosa del territorio indiano tra musulmani e indù, Gandhi oppone le ragioni laiche della convivenza politico-territoriale comune. Proprio a questo apostolo della nonviolenza, ridotto a pesare 45 chili dai suoi lunghi digiuni, toccò però una morte violenta che lo raggiunse nel corso di una pubblica preghiera, il 30 gennaio del 1948. Domani a 60 anni dall’uccisione di Gandhi per mano di un indù ortodosso, l’Unità propone per «Le Chiavi del Tempo» un ampio volume di Giuliano Pontara (L’antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, pp. 351, euro 7,50, più il prezzo del quotidiano), uno dei maggiori studiosi della nonviolenza. Sul politico indiano, che postula una nonviolenza capace di operare in profondità determinando mutamenti di mentalità tra i carnefici, non si è mai spento l’interesse, rimasto vivo nel tempo anche al di là dell’effettiva robustezza, sistematicità e coerenza concettuale dell’impianto delle sue riflessioni. Ricorda Pontara che «assieme a Lenin, Gandhi è la figura politica del XX secolo sulla quale è stato scritto più copiosamente». E i loro stili politici non potrebbero essere più diversi. Lenin è un campione del realismo politico che scruta nelle condizioni oggettive la possibilità di un grande evento risolutivo.
La conquista del potere fa parte della posta in gioco dell’azione politica, ne è anzi la prospettiva più accattivante. Anche la sua «guerra alla guerra» adotta il lessico della violenza, che è pur sempre uno degli strumenti della politica da soppesare e da impiegare sulla base di una valutazione delle opportunità e della effettiva natura dei rapporti di forza. Gandhi, che pure esalta la «levatura spirituale di Lenin» e «il sacrificio più puro» in nome dell’ideale, è l’esemplare invece di un «politico morale» che esclude la guerra dal novero degli strumenti pensabili dell’agire collettivo. L’opposizione alla ribellione armata è in lui totale e non è collegata alla sua utilità, al suo vantaggio, al suo apporto strumentale al fine. La violenza è dichiarata estranea in quanto tale al corredo della politica, rigettata indipendentemente dalla sua storica efficacia.
Un simile atteggiamento, basato sul principio vincolante dell’unità del genere umano, è molto ostile alle pratiche di sterminio del Novecento e Pontara trova alquanto singolare che «il secolo che ha generato Hitler e il nazismo abbia però generato anche il suo opposto Gandhi e la nonviolenza del forte».
Anche rispetto a un regime totale di annientamento, la strada della disobbedienza civile, del rifiuto nonviolento è quella più adatta per indurre gli oppressori a mitigare la repressione e a pervenire a generalizzate forme di non esecuzione di ordini cruenti entro le stesse fila degli eserciti occupanti. Gandhi (lo stesso farà in seguito anche la Arendt) enfatizza il caso danese di disobbedienza civile all’aggressore nazista come pratica in parte riuscita di umanizzazione del nemico.
È evidente che su questo piano, quello cioè che misura anche l’efficacia reale del metodo della nonviolenza, Gandhi è costretto a scendere sul versante della pragmatica e, a rigore, ad accettare di valutare la stessa non violenza (con i suoi tipici ritrovati della non-collaborazione) alla stregua di ogni altro strumento d’azione collettiva. L’assolutezza di un metodo che non ha alternative viene di fatto limata se in questo «Machiavelli della nonviolenza», così lo definisce anche Pontara, la stessa nonviolenza entra nel conteggio dei suoi vantaggi operativi riscontrabili in una situazione data.
L’alternativa è molto semplice: se la nonviolenza è una assoluta etica della interiorità e della verità, essa va adottata a prescindere dal suo impatto storico, se invece conta anche l’esito effettuale della pratica nonviolenta, allora anch’essa diventa uno degli strumenti dell’agire che vale non già in assoluto ma in quanto sottoposto a un calcolo politico di opportunità, di vantaggio, di efficacia. In questo caso, il principio di responsabilità dell’azione, che valuta cioè la reale ricaduta della mossa adottata, si impone anche al «politico morale» che non può esimersi dal dare conto dell’efficacia oggettiva della sua azione e delle sue empiriche conseguenze. Anche sotto i regimi democratici la nonviolenza conserva la sua piena rilevanza. Gandhi ritiene anzitutto che proprio la democrazia sia la forma politica più coerente con le ispirazioni della nonviolenza nei rapporti intersoggettivi. Aggiunge inoltre che il principio di maggioranza e la competizione elettorale rendono pacifica la contesa tra le parti, anche se l’adozione del metodo non violento di per sé non cancella del tutto la differenza, l’eccentricità, rispetto alle richieste di obbedienza.
Tutti i regimi, anche quelli più tirannici, non si reggono senza una base di consenso. E tutti i governi, anche quelli più democratici, suppongono una più o meno modica quantità di violenza. È evidente che entro società democratiche ben strutturate ogni forma di conflitto non potrà che svolgersi con il corredo delle tecniche nonviolente (voto, disobbedienza civile, scioperi, boicottaggio, evasione delle tasse destinate alle armi, mentre perplesso Gandhi si mostra sui picchettaggi, sui sabotaggi). Entro un regime democratico si rintraccia di sicuro un titolo superiore di legittimità rispetto ad ogni altro meccanismo di potere. Per questo, secondo Gandhi , in una democrazia l’ordinamento non può venire contestato nel suo complesso. È ipotizzabile solo una disobbedienza civile difensiva che si agita dinanzi a singole decisioni adottate peraltro nel rispetto del principio di maggioranza. La separazione dei poteri non cancella per Gandhi il diritto della minoranza ad agire diversamente per motivi di coscienza laica o religiosa (pagando però le conseguenze legali e le sanzioni previste per la disobbedienza e la rottura dell’obbligo politico). Anche rispetto all’autorità legittima è sempre lecita la disobbedienza (parziale, non di sistema, rivolta alla singola legge ritenuta ingiusta non all’ordinamento costituzionale).
Diverso è invece il caso di regimi oppressivi nei quali Gandhi contempla la «disobbedienza civile offensiva», una pratica intransigente mirante cioè a demolire un ordinamento illegittimo nelle sue stesse fondamenta. Di sicuro nelle pagine politiche di Gandhi scorre una venatura anarchico-libertaria molto evidente (propugna ad esempio un azzeramento degli istituti repressivi). Sul piano economico invece egli rigetta ogni forma di individualismo accostandosi a forme di socialismo che non prevedono però il conflitto tra capitale e lavoro. Gandhi contesta il principio di Adam Smith per cui il mercato è sovrano con i suoi anonimi automatismi e il fattore umano si presenta sempre come un inaccettabile momento di disturbo. Secondo Gandhi il vero fattore di disturbo da eliminare è proprio il calcolo egocentrico, perché dai congegni del libero mercato in cui operano individui perfettamente razionali si originano sempre oscuri meccanismi di dipendenza. La violenza strutturale insita nell’economia può essere così estirpata solo da elementi di socialismo conditi in una salsa molto indiana e pragmatica.
Pontara rammenta a questo proposito che Gandhi ha letto Il Capitale trovando in Marx «vari riscontri a idee che era andato sviluppato, anche in base alla sua diretta esperienza di colonizzato, circa la natura del modo di produzione capitalistico. Egli stesso disse che il suo socialismo era naturale, non era stato imparato su nessun libro». Un anelito di eguaglianza, un bisogno di giustizia sociale più che una critica della proprietà privata dei mezzi di produzione accompagnano la riflessione di Gandhi, che ammette una forma di «proprietà fiduciaria». Nelle sue pagine è presente una critica demolitrice della civiltà delle macchine, della metropoli, del consumo, della proliferazione delle armi di sterminio in nome di rapporti più semplici, di legami più immediati, di valori tradizionali infranti, del disarmo.
Cosa resta nel XXI secolo di questo abile maneggiatore dei mezzi di comunicazione e nondimeno ascetico e «sedizioso avvocatuccio», come lo bollò Churchill? Pontara non ha dubbi: una capacità di scovare e contrastare alla radice quella «tendenza nazista», come la chiama, che opera in profondità e coincide in ogni tempo con l’esaltazione della violenza, del capo, della disuguaglianza, del fondamentalismo del mercato, della guerra giusta e dello scontro di civiltà. Pontara vede in circolazione anche nel postmoderno molte immagini del nemico e velleità di costruire un sistema di apartheid globale. In un mondo che riscopre le guerre di civiltà ed esalta la religione come identità differenziante, il messaggio del religiosissimo Gandhi risuona come un pressante invito laico a conservare la religione nella sua dimora solo privata, non pubblica. I modi con i quali salvare l’anima per lui non riguardano lo Stato.
Le credenze non possono avere ricadute pubbliche e la religione, ammonisce Gandhi, è solo «una mia faccenda personale. Lo Stato non c’entra. Lo Stato dovrebbe preoccuparsi del benessere temporale, della salute, delle comunicazioni, delle relazioni con l’estero, della circolazione della moneta, ma non della vostra o della mia religione. Questa è affare personale di ciascuno». Per questo Gandhi, che rivendica un’etica del rispetto verso il vivente non umano, si proclama favorevole all’eutanasia per far cessare le forme di inaudita di sofferenza. La sua curiosità non è poi così distante dai temi eticamente sensibili che oggi sono ovunque al centro dell’agenda pubblica.
* l’Unità, Pubblicato il: 29.01.08, Modificato il: 29.01.08 alle ore 8.16