Parla Julia Kristeva:«Per agire nel XXI secolo economia e scienza non bastano: la scuola deve aprirsi ad arti e religioni contro i riduzionismi»
Educazione, i laici che fanno?
«Il pensiero cristiano è una chance enorme contro l’uniformismo imperante. Negli ultimi anni c’è stata un’evoluzione di fondo del tessuto democratico nell’accesso alla parola, la quale diventa sempre più un luogo plurale»
Da Parigi Daniele Zappalà (Avvenire, 10.07.2007)
«Trovo che oggi la pulsione di morte sia più forte di quella d’amare, ma faccio lo stesso la scommessa di puntare sulle forze che legano e non su quelle che slegano». Gli accenti pascaliani sulla bocca di Julia Kristeva non sorprenderanno i lettori che in tutto il mondo hanno già attraversato le opere dell’eclettica intellettuale francese nata in Bulgaria: linguista, semiologa, psicanalista, scrittrice, militante di un femminismo aperto e tollerante. Umanista e non credente, la Kristeva è però convinta che «l’umanesimo è un figlio del cristianesimo». L’interesse di sempre per il pensiero cristiano è particolarmente presente nel recente Il bisogno di credere (Donzelli), opera nata da una conferenza tenuta all’arcivescovado di Parigi e impostata come un dialogo fra sguardo laico e cristiano.
Professoressa, il suo testo parte dal problema della sofferenza ma parla anche di amore. Perché?
«In una prospettiva analitica, ho cercato di spiegare in che modo lo psicanalista osserva da un punto di vista antropologico le diverse varianti dei legami amorosi che possono permettere la creatività. Anche chi non crede in Dio, crede nell’amore e ciò mi pare oggi il più grande elemento di persistenza della nostra civiltà cristiana. Ma molto spesso, quest’atto di fede nell’amore è dell’ordine della soddisfazione, del piacere o di una sorta di riparazione e non di quest’infinita sublimazione che mi pare così centrale nell’amore cristiano. Un amore che è anche compassionevole e che può dunque accompagnare la persona nella sofferenza in modo complementare rispetto alla solidarietà laica».
Cosa intende per sublimazione?
«La visione cristiana del divino come amore mi pare il fermento, il motore di una sublimazione. È perché sono amato che vengo creduto e che quest’atto di fede può divenire un impulso per lo sviluppo delle mie pulsioni verso i linguaggi e la facoltà di comunicare. Quest’amore è un’onda portante della creatività».
Per il pensiero cristiano, l’amore può irrorare integr almente e trasformare l’identità dell’individuo. Qual è il suo sguardo in proposito?
«Leggendo attentamente i testi cristiani, sono rimasta colpita dalla grande diversità dell’esperienza amorosa che vi si può trovare. L’amore in san Bernardo mi pare diverso rispetto a quello in san Tommaso o in Duns Scoto. Questa diversità potrà a mio parere permettere al cristianesimo di rispondere alle forme nuove d’amore, diverse secondo le epoche e le civiltà. Ho a volte l’impressione che i cristiani non siano sufficientemente fieri di questa polifonia. Al contrario, credo che ogni visione unica e troppo globale dell’amore rischia di ridurlo a un’apparenza consolatrice».
Cosa intende per "bisogno di credere"?
«Credo che esista un bisogno pre-religioso di credere e nell’esperienza psicanalitica può essere ricercato attorno alla cosiddetta identificazione primaria del figlio col padre. Non si tratta del padre edipico, quello dei divieti. Ma del padre dell’amore, dato che l’autorità paterna è un connubio fra il padre della legge e questo padre che ama. L’acquisizione del linguaggio richiede già questa fiducia di sé che ci viene data dal padre che ama. Leggendo la Seconda lettera ai Corinzi, sono rimasta colpita da san Paolo che dice "ho creduto e ho parlato": frase che può essere certo interpretata in mille modi diversi, ma che nell’ottica dell’analista ricorda il fatto che è impossibile parlare se prima non si crede».
La sua riflessione ruota da sempre attorno alla parola. La stessa che vari intellettuali giudicano oggi in crisi soprattutto rispetto all’immagine. Che ne pensa?
«Credo che la parola sia sempre in crisi, che la crisi sia davvero costitutiva della parola. Questa crisi prende oggi volti che possono apparire sconcertanti, soprattutto quando sono fatti di distruttività e di forze di morte. Si può però pensare anche il contrario. È proprio perché ci si avvicina sempre a questi stati critici così infernali, che cerchiamo di condividere le parole. È una forma non di resistenza alla morte, ma di sublimazione e di superamento di questa pulsione di morte. Quando si dice che al posto di Proust oggi abbiamo solo le trasmissioni televisive, occorre ricordare anche che si è passati nel frattempo dal dieci all’ottanta per cento di giovani con un diploma secondario. C’è dunque un’evoluzione di fondo del tessuto democratico nell’accesso alla parola, la quale diventa sempre più un luogo plurale».
Può farci un altro esempio?
«Penso ancora al pensiero cristiano, secondo il quale non si può fare una graduatoria dei successi e dei fallimenti individuali. Ho lavorato di recente a Parigi con persone handicappate, autistici che cantano. Anche se ciò non ha certo nulla a che vedere con Mozart, resto sempre abbagliata di fronte alla parola di questi giovani che attraverso il canto riescono ad accedere a una comunicazione verbale».
Immagini, parole, simboli di ogni tipo affollano le nostre giornate. Orientarsi nel mondo dei segni è davvero più difficile che in passato?
«Esistono almeno due tendenze. Una che aggiunge nuovi segni, spesso artificiali. Ma al contempo esiste anche una tendenza all’uniformizzazione e un autentico rischio di riduzionismo. Il vero problema è in realtà quale educazione occorre dare all’individuo del XXI secolo. In proposito, accanto ai linguaggi del calcolo, dell’economia e della scienza, credo che la scuola dovrebbe oggi aprirsi sempre più anche ai linguaggi delle arti e delle religioni».
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chi è
Dalla linguistica alla psicologia
Teorica del linguaggio, romanziera, saggista, psicanalista e pensatrice, Julia Kristeva (nella foto) è nata a Sliven, in Bulgaria, nel 1941 ma dal 1964 vive e lavora in Francia e pubblica principalmente in francese.
Partecipò alla redazione della rivista «Tel Quel» e alla vita culturale francese degli anni Sessanta-Settanta.
Nel 1979 diventa psicanalista, dopo aver seguito dei seminari di Jacques Lacan. Ha costruito una relazione tra la semiologia e l’analisi psicanalitica.
Insegna semiologia alla State University of New York e all’Université Paris 7 «Denis Diderot» e dirige il centro Roland Barthes.
In italiano, soltanto nel 2006 sono apparsi «Il bisogno di credere» (Donzelli), «Melanie Klein» (Donzelli), «Il rischio di pensare» (Il Nuovo Melangolo) e «La rivoluzione nel linguaggio poetico» (Spirali).
Per ulteriori approfondimenti, in rete, si cfr.:
Sul tema, nel sito, si cfr. anche
IL PROBLEMA MOSE’ E LA BANALITA’ DEL MALE: FREUD NELLA SCIA DI KANT.
A FREUD (Freiberg, 6 maggio 1856 - Londra, 23 settembre 1939), GLORIA ETERNA!!!
Dostoevskij ci può aiutare contro questo disastro
La lectio magistralis dell’intellettuale di origine bulgara
di Julia Kristeva (la Repubblica, 18Febbraio 2021)
Sono convinta che il disastro umano imposto da questa crisi sanitaria ed economica non possa essere gestito con procedure mediche, economiche e politiche, per quanto efficaci. Perché? Perché è la fortezza interiore che dobbiamo salvare in questo stato di guerra in corso. Parlo di fortezza interiore intendendola nel senso in cui i lettori conoscono questa esperienza, e la lettura ci riporta alla fortezza interiore. Il libro, per alcuni la preghiera, per me la scrittura.
Parlo di fortezza interiore con il significato dato a questa espressione da un grande scrittore francese: Georges Bataille, che ne parla così nel libro "L’esperienza interiore": «L’esperienza interiore è l’approvazione della vita fin dentro la morte». Intesa così, dice, l’esperienza interiore è anche una contestazione permanente. Contestazione di cosa? Contestazione del ripiegamento su di sé, sui propri modelli, limiti e significati.
La scrittura, la lettura ci invitano a questa contestazione, a questa approvazione della vita fin dentro alla morte. Ma perché proprio Dostoevskij? Perché ve ne parlo? Perché penso che l’opera di Dostoevskij possa illuminarci, possa ottimizzare la nostra esperienza interiore nella situazione attuale.
Vi racconterò come io ho scoperto Dostoevskij, perché ho accettato di parlarne in un libro pubblicato in Italia da Donzelli con il titolo "Lo scrittore della mia vita". Perché posso dire che Dostoevskij è uno degli scrittori della mia vita.
Come sono arrivata a Dostoevskij? Per riassumere un po’ la storia, inizierò da un episodio che mi è accaduto di recente. Qualche anno fa, quando sono mancati i miei genitori. Cercando nella biblioteca di famiglia ho scoperto sull’ultimo scaffale in fondo, nell’ultima fila, contro il muro, i romanzi di Dostoevskij e, accanto, la traduzione in bulgaro del libro di Freud "Introduzione alla psicoanalisi". Due pilastri del mio percorso. Dostoevskij per la letteratura e Freud erano già nella biblioteca di famiglia. Ma mio padre consultava questi libri in segreto.
Erano vietati alle sue figlie, a me e mia sorella. Perché ce li vietava? Sognava di farci lasciare la nostra Bulgaria natale. Secondo lui dovevo sviluppare ciò che considerava il mio gusto innato per la chiarezza e la libertà, necessariamente in francese. Per questo ci aveva iscritte - io in particolare, mia sorella ha seguito un altro percorso nella musica - alla scuola materna francese. Ho scoperto molto presto la lingua di La Fontaine, Voltaire e Hugo.
Oltre a quella del grande fratello russo che ci era stata imposta naturalmente. Mio padre preferiva che restassi nel filone della lingua francese e della sua cultura di libertà, la cultura dell’Illuminismo. Soprattutto perché, ai tempi, Dostoevskij era ufficialmente tacciato come oscurantista religioso e nemico del popolo. Cercava di proteggermi da una possibile discriminazione a scuola in quanto lettrice di Dostoevskij.
Anche se, dietro le quinte staliniane dell’epoca, le opere di Dostoevskij erano ancora lette con grande trasporto e passione all’università e tra i ricercatori. Durante ciò che chiamiamo il disgelo, ossia l’inizio della destalinizzazione, viene pubblicata la seconda edizione del libro di Michail Bachtin, un post-formalista russo: "Problemi dell’opera di Dostoevskij", che diventa un fenomeno sociale e un sintomo politico. Il pensiero della dissidenza, della liberazione politica, economica e sociale, passava prima dalla teoria della letteratura, dalle arti, che dalla filosofia o dalla sociologia, sclerotizzate e ufficiali.
Quando sono arrivata a Parigi con cinque dollari in tasca in attesa della borsa di studio per il dottorato sul Nouveau Roman francese, avevo il libro di Bachtin in valigia. L’ho presentato al seminario di Roland Barthes. Fu l’inizio di ciò che sarà chiamato post-strutturalismo. In poche parole, il post-strutturalismo vedeva nella lingua non solo una struttura ma un movimento dialogico, un dialogo tra sé e gli altri. Il monologo, già a Bachtin e anche a me, non appariva come una monotonia narcisista ma come colloquio permanente tra l’altro e l’altro in sé. Anche in un monologo, si è in due a parlare. Si è divisi in due: la propria alterità, sé stessi, e qualcun altro a cui ci si rivolge, pur senza sapere chi è.
La lingua è dunque un inesauribile colloquio. Questa è la prima versione del rinnovamento che abbiamo portato e che si ritrova accentuato in Dostoevskij. La sua scrittura interroga costantemente sé stessa, interroga gli altri, l’epoca. Non soltanto sé stessa e gli altri, come ho detto, ma anche l’epoca e dunque il contesto sociale.
Mi chiedono perché amo Dostoevskij. Spesso dico che faccio fatica a rispondere a questa domanda. La parola "amare", che è molto ampia, non è adatta. Se leggerete Dostoevskij, spero che troviate ciò che io ho trovato: lasciarsi sommergere da una prosa esorbitante, ansimante, ferita. In una lettera al poeta Maikov, Dostoevskij dice: «Ovunque, e in ogni cosa, vivevo fino al limite estremo e ho trascorso la mia vita ad attraversarlo».
Vivere al limite estremo di sé e degli altri, essere sempre al limite del bene e del male, della credenza e dell’ateismo, del nichilismo e della fede profonda. Tutti questi estremi del pensiero e della sensibilità sono qualcosa che inghiotte, che divora. Il termine "amore" forse può essere utilizzato, ma nel senso di una passione che annulla e al contempo conduce al benessere. Con la sua scrittura Dostoevskij ci lascia una testimonianza di grande ricchezza, di grande penetrazione psichica dei limiti della nostra vita spirituale e sessuale che ha percepito e che ha descritto. È per questo motivo che fa parte della biblioteca che dobbiamo leggere, oggi e non solo.
Quando siamo in cerca di valori e di appigli poter entrare in questa penetrazione e poter espellere i demoni partendo da una scrittura così umana e che non distoglie lo sguardo dal potenziale morboso dell’essere umano, dalla viralità della psiche, mi fa dire... Leggiamo Dostoevskij.
Un libro su Santa Teresa d’Avila, una serenata in forma di fiction
Lacan e Kristeva come godono i santi
Un’analisi dedicata alla beata spagnola e alla sua estasi. Come interpretare questa forma sublime di rapimento? Perché il sesso non spiega tutto
di NADIA FUSINI (la Repubblica, 27.01.2009) *
Teresa, mon amour è non solo il titolo dell’ultimo libro di Julia Kristeva (tradotto da Alessia Piovanello per Donzelli Editore, pagg.628, euro 35,00); è il ritornello che l’attraversa, quasi il libro tutto fosse una canzone, una lunghissima serenata che l’autrice dedica alla santa spagnola, alla sua estasi. In copertina, of course, la Transverberazione di Santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini. Subito comprendiamo che lacaniano sarà il corteggiamento, debitore al medesimo fremito barocco che scioglie perfino il marmo della famosa scultura.
E non a caso Jacques Lacan sceglieva lo stesso gruppo marmoreo a copertina del suo seminario Encore dell’anno accademico 1972-73. Dove nel capitolo sesto a chi volesse intendere l’amore divino e il godimento mistico si raccomandava di andare a Roma a contemplare la statua del Bernini. Guardatela e vedrete, affermava Lacan, vedrete che lei gode! Non c’è dubbio. E di che cosa gode? Di che cosa godono i mistici, le mistiche? Fino al secolo scorso, fino a Charcot, fino a Freud si sarebbe detto che era una faccenda puramente sessuale, energia libidica repressa, e così via.
No, dice Lacan, non è una questione di fottere, o meno. C’è di più. In quell’attacco c’è un vero e proprio passaggio all’ ex-sistenza, un passaggio in quell’"ex", in quel "fuori" che fa da prefisso alla parola ex-stasi.
In mille variazioni Julia Kristeva riprende il motivo lacaniano, intrecciando il delirio mistico alla dimensione immaginativa e alla scrittura, e in quest’ultima versione, in quanto scrittrice, fa "sua" la santa. Letteralmente se ne appropria. Si identifica. Una volta adottata questa chiave - la vera estasi è la scrittura - non ci vuole molto a stabilire una stretta affinità tra la santa e la scrittrice. Tanto più che Teresa, oltre che santa e scrittrice e fondatrice, fu interprete e analista dell’anima.
A dare più brio alla serenata, l’inno a Teresa viene affidato a un alter ego, tale Sylvia Leclercq, psicoterapeuta, ossessionata, invasata dalla santa, intorno alla quale monta la sua fiction; fiction postmoderna, più che letteratura vera e propria, perché solo nel registro di una bulimica assimilazione, che procede per scorci temporali e incroci spaziali, pare a Sylvia di riuscire ad afferrare la vita della santa. Se Sylvia legge con passione le opere di Teresa, è per comprendere se stessa, le donne di oggi che incontra in terapia. E si esalta a certe affinità che intravvede. E’ meno sensibile alle differenze.
Il termine fiction piace alla dotta dottoressa di Linguistica e Semiotica Julia Kristeva, che in questa sua opera si sforza al massimo di rendere contemporaneo il suo soggetto anche grazie a una scrittura che si vuole veloce, gergale. E si concede vezzi modaioli che per via di slang ci presentano Teresa come "un big-bang fatto donna" (p.588); mentre per descrivere la sua religiosa confidenza con Dio si ricorre all’ espressione: "fare una Tac al mistero del Signore (p.274). Abbondano allusioni all’idea della rete. Internet, default sono termini che tornano. E i corsi di Derrida e di Kristeva alla Columbia University vengono citati come occasioni uniche per i pochi privilegiati che li frequentarono per penetrare, o meglio decostruire i misteri della rete che per l’appunto connetterebbe i mistici e i kamikaze.
La nebulosa mistica si espande così in nebbia religiosa, e si aprono a ventaglio nel libro scottanti temi di attualità, tra cui sovrani i problemi del fanatismo e della fede: con Teresa sempre al centro, al crocevia di pensieri e concezioni di sé e del mondo che cambiano, che la vedono accanto a Montaigne, a Spinoza, a Cervantes. Teresa esponente sublime del Siglo de Oro. E ragazza d’oggi, runaway girl. Come Louise Bourgeois. Come Julia Kristeva. Tutte donne capaci di darsi un altro padre, un’altra patria. E di farsi un nome!
In questo senso, Teresa mon amour è una "installazione" (p.577). E forse proprio tale termine meglio descrive questo strano libro troppo lungo, interessante quando si presenta come "una avventura nel cuore del credere" (p.565). Meno, quando riduce quell’avventura a una spiegazione della vita umana tutta - sia barocca sia contemporanea sia mistica sia mondana - in chiave di parafrasi attualizzante tradotta in termini psicoanalitici della vita medesima. A proposito della scrittura teresiana Kristeva parla di "una scrittura fuori genere, perché li mescola tutti" (p.311). Così fa lei qui; trasportata non dall’estasi, ma da una specie di hybris intellettuale che di certo non le manca, si fa una e trina: autrice, narratrice, protagonista del racconto, che è insieme una biografia, una autobiografia, un saggio, una fiction; alla fine, un monumento alla diva Julia.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
In principio era l’amore (charitas - non caritas!!!): pensare l’ "edipo completo"(Freud)
INTERVISTA A JULIA KRISTEVA. Anche chi non crede in Dio, crede nell’amore e ciò mi pare oggi il più grande elemento di persistenza della nostra civiltà cristiana. Ma, detto questo, la studiosa ri-cade nelle braccia dell’autorità paterna (della versione cattolico-romana del cristianesimo ... ancora edipica)
CARMELITANI SCALZI ED ECUMENISMO: STORIA E MEMORIA. Ritrovato nel salernitano "file" perduto del tardo Rinascimento
Federico La Sala
Kristeva: uniti, non sottomessi
Come rifondare il matrimonio
di Stefano Montefiori (Corriere della Sera, 08.09.2016)
Una 25enne borsista bulgara arriva a Parigi, nel 1966, con cinque dollari in tasca, una non comune padronanza del francese e «idee tanto coraggiose quanto vaghe». La brillante studiosa Julia Kristeva chiede un incontro a Philippe Sollers, di pochi anni più grande e già fondatore della rivista Tel Quel, quella di Roland Barthes, Umberto Eco e alcuni altri monumenti. Julia e Philippe non si lasceranno più, l’estate prossima festeggeranno cinquant’anni di matrimonio. Allo loro unione hanno dedicato «Del matrimonio considerato come un’arte», non una ricetta ma una riflessione su «come vivere insieme, senza sottomissione dell’uno all’altro e senza negare le differenze».
Intanto, Julia Kristeva non crede nella coppia fusionale. «Nella storia recente della cultura francese abbiamo due o tre esempi di coppie date come modello, coppie surrealiste come Nadja e André Breton, dove la donna è allo stesso tempo mito, strega e vittima, oppure la coppia contestataria Beauvoir e Sartre, e poi ancora Elsa Triolet e Aragon, incensati dal partito comunista. Poi si è capito che questi miti si fondavano su errori, abbiamo conosciuto la sofferenza di Beauvoir rispetto alla mancata maternità, o la fuga di Aragon verso l’omosessualità. Non c’è un modello possibile, quel che conta è mettersi in discussione. Io e Philippe abbiamo subito preso la misura delle nostre singolarità ed estraneità, e abbiamo provato a fare della vita di coppia uno spazio di pensiero. Che ciascuno prosegua nella la sua creatività, che si discuta insieme. Coesistenza di due estraneità, rispetto dell’alterità dell’altro, e malgrado tutto cura, cioè preoccupazione dell’altro».
Sulla fedeltà, Kristeva ha delle frasi fulminanti: «Il sentimento di fedeltà risale all’infanzia e al suo desiderio di sicurezza. Personalmente ho ricevuto i miei pegni di fedeltà quando ero bambina». E ancora: «Ci possono essere “all’esterno” delle relazioni sessuali e sensuali che rispettano il corpo e la sensibilità del partner principale. È questa la fedeltà. E non stare sempre insieme, o non conoscere alcun altro uomo o alcuna altra donna». Qual è il ruolo del narcisismo? «Un incontro si basa sempre su un magnetismo sessuale e su una fascinazione, e in questa fascinazione c’è anche la capacità di tendere all’altro uno specchio gratificante. Tu ti vedi in me, io mi vedo in te e i nostri ideali, i nostri narcisismi si incrociano e si incontrano».
Guardando al suo matrimonio, secondo Kristeva «c’era una possibilità su non so quanti miliardi che una donna nata nell’Europa comunista percorresse una linea di pensiero che incrociava l’intelletto di un giovane borghese di Bordeaux. Ma in quella Francia che usciva dalla guerra d’Algeria alcuni intellettuali si interessavano allo strutturalismo, al formalismo russo, alla filosofia post-marxista. Sollers ha incontrato in me una ragazza che veniva dal comunismo del disgelo, l’era di Krusciov contro Stalin, l’apertura all’umanesimo dell’Illuminismo, la rivalutazione di Diderot, Voltaire, Rousseau, il nuovo romanzo dopo Sartre e Beauvoir sul quale avevo appena fato una tesi. Questa corrispondenza intellettuale si è tradotta nella realtà grazie anche al caso. Non ci saremmo mai incontrati se il capo del mio istituto in Bulgaria, un comunista puro e duro, non si fosse assentato permettendo a un altro professore di presentarmi all’Ambasciata di Francia per farmi assegnare la borsa di studio».
Nei giorni scorsi in Italia si è molto parlato di maternità, dopo una discussa campagna della ministra per la Salute.
«La maternità ha scosso le femministe, le ha divise. Simone de Beauvoir diceva che un bambino era un tumore che divora la donna, che avere un bambino significa sottomettersi al patriarcato. All’estremo opposto c’è l’idea di sottomettere la donna al ruolo di riproduttrice della specie.
Bisognerebbe evitare entrambi gli estremi e indagare a fondo la questione della passione materna. Ma non abbiamo abbastanza strumenti, l’umanesimo secolarizzato non ha un discorso sulla maternità, siamo vittime sia del rigetto, sia del discorso religioso, con il modello della Vergine Maria, il burqa o non so che altro. È la prossima sfida delle scienze umane accompagnare le donne nel loro desiderio di maternità, o di non maternità».
di Daniele Zappalà (Avvenire, 4 ottobre 2015)
Parigi. Quando discettano assieme in un’aula universitaria, si può pensare che allettare questi due con le gioie semplici della vita sarebbe impresa vana anche per i più geniali oratori. Perché i coniugi Joyaux, che nel 1966 si conobbero e amarono subito sulle sponde della Senna, avvolgono da allora il focolare in reti chilometriche di conversazioni zeppe di coltissime citazioni e frasi ben annodate, comprese quelle di ogni nuovo libro in uscita dell’una o dell’altro, trattandosi di una linguista-semiologa-psicanalista scrittrice e di un romanziere sperimentale famosi in Francia e non solo.
Ma qual è il segreto degli smaglianti ’Gioielli’, la cui passione perdura fra i campi di rovine sentimentali del milieu d’appartenenza? Di certo, non solo il cognome allo stato civile, come Julia Kristeva e Philippe Sollers fanno capire aprendo lo scrigno familiare nel volumetto Del matrimonio considerato come un’arte, in uscita adesso in Italia per Donzelli (pagine 144, euro 19). La ’fisiologia del matrimonio’ cara a Balzac è tema letterario in voga da secoli a Parigi, con frequente predilezione per la satira dei ’costumi borghesi’.
Nel preambolo, la Kristeva spiega invece che con il marito ha provato a «raccontare una passione, con precisione, senza vergogna e senza viltà, senza modificare ciò che essa è stata né abbellire il presente, e scongiurando il rischio spettacolare delle ossessioni sentimentali, dei fantasmi erotici dei quali si va compiacendo l’autofinzione del selfie».
Con queste premesse, va detto che il libro raccoglie quattro interventi piuttosto eterogenei (una vecchia intervista al Nouvel Observateur, una dichiarazione amorosa della Kristeva e due duetti discorsivi pronunciati in pubblico) su un arco di vent’anni. E lungo il ’racconto’, il lettore brancola un tantino, soprattutto quando la brillantissima studiosa ragiona sugli schemi psicanalitici fondamentali di matrice freudiana dietro la coniugalità. Ma si tratta di figure complesse. Fino al gusto sottile dell’autocontraddizione, nel caso di Philippe, che indossa spesso in pubblico la maschera dello scrittore dandy vagamente kierkegaardiano, nel cui cuore il Don Giovanni giovanile sopravvive orgogliosamente all’arrivo della passione civile e poi di quella religiosa, coltivata in particolare attraverso un’ammirazione di recente molto esibita per la liturgia cattolica e il Magistero romano.
Philippe, ovvero il ’miglior paziente’ di Julia, certo. E nel volume, lei ironizza sul camaleontismo del marito, maestro di sperimentazioni e pastiche tanto nei sofisticati romanzi indirizzati a un pubblico di aficionados, quanto nella vita. Un ’polimorfo’, spiega la psicanalista, a sua volta campionessa d’eclettismo dal curriculum impressionante, soprannominata in famiglia ’Honoris causa’, come ricorda Sollers, evocando i continui viaggi della moglie per ricevere titoli e premi ai quattro angoli del globo.
L’intervista al settimanale preferito della cosiddetta ’gauche al caviale’, concessa in quel 1996 ancora un po’ nell’onda della ruggente Parigi mitterrandiana, esibisce due celebrità forse troppo intellettuali. Brillante è certo l’analisi della Kristeva sulle nevrosi conclamate di coppie adulate come Sartre-Beauvoir. Ma a volte si sconfina troppo nella teoria. Cos’è in sostanza un matrimonio? «Un modello di armonie dissonanti », conclude la studiosa con l’ennesimo paradosso.
Nel secondo scambio pronunciato davanti a uno squisito parterre accademico (siamo già nel 2011), in una Francia culturalmente disorientata che in 15 anni ha visto tante vecchie certezze e altezzosità sciogliersi come cera, pure la coppia gaudente pare visibilmente cambiata.
Così, fra una discettazione di Julia e una battuta di Philippe, affiora pure l’evocazione di due traumi privati occorsi proprio sul bastimento ’Gioielli’: un aborto clandestino ’dolorosamente subito’, ricorda Julia, prima di evocare in chiusura David, il figlio affetto da handicap che ha rischiato di non farcela. Riappare così il ricordo di una donna disperata per un piccolo, come già milioni di altre su questo vecchio mondo. Stesa su un materassino in una camera d’ospedale, implorando chissà cosa ai piedi di un letto. Su questo intimo versante, è nato il bisogno delle lettere scambiate con «Jean Vanier, cattolico, fondatore dell’Arca, che ha creato case di accoglienza per persone handicappate in centoquaranta paesi in tutto il mondo».
Nel volumetto giunge così uno spartiacque. Perché gli ultimi due testi, pur brevi, sono di un’umanità sorprendente. Sul filo dei ricordi, dal ’patto a due’ Kristeva-Sollers firmato in municipio nel 1967 cominciano a sprizzare scintille calde. Luccicano pepite. Julia se la prende con la «banalizzazione degli spiriti che ci minaccia e che è ai miei occhi il male radicale». E della sua coppia, evoca pure la comune eredità ricevuta da genitori cristiani, ortodossi bulgari nel suo caso, cattolici per Philippe.
Lasciti di famiglia e di studi in scuole religiose nel corso d’infanzie a loro modo trasognanti e che forse non hanno mai smesso di suggerire una strada. Molto è stato poi riposto a lungo in un cassetto, ma nel velluto. Pronto ad offrire vivide emozioni sul filo dei ricordi: «L’adolescente Sollers è un credente ribelle, non smette mai di reinventare il proprio paradiso. Adamo ed Eva erano degli adolescenti. Dante e Beatrice anche, tutti noi siamo degli adolescenti quando siamo innamorati». Julia descrive qui il marito al Collegio dei Bernardini, il centro culturale parigino voluto dal compianto cardinale Jean-Marie Lustiger.
Si termina parlando d’amore, più che di tecniche e transfert erotici. E la brillantissima Julia, emigrata quasi clandestinamente a 25 anni dalla Bulgaria comunista per trovare a Parigi provvidenzialmente le braccia del suo Philippe, esalta allora «il Cantico dei cantici, il testo amoroso da me preferito, che fonda - per la prima volta al mondo, credo - la possibilità di un legame amoroso tra un uomo e una donna: poesia pura, intrecciata con una filosofia dell’impossibile e tuttavia gioiosa».
È un capolavoro misteriosamente sempreverde anche per l’incallito sperimentatore Philippe: «Il Cantico dei cantici dice che l’amore è forte come la morte. Questa cosa m’impressiona molto: se amo, potrò forse essere forte come la morte, o vincere la morte?». Sulla sedicente bocca dongiovannesca, risuonano allora note di tenerezza coniugale: «Continuiamo a essere bambini insieme, a parlarci come due bambini». Mentre Julia spiega alla fine, da psicanalista, con parole comprensibili a tutti, che «dal momento che credo di essere amata - nel senso di una certezza incrollabile -, che il mio papà mi ami, per esempio, che la mia mamma mi ami, allora, la gelosia non ha il potere d’intossicarmi». Alla fine, consola che pure negli alti appartamenti parigini del Quartiere latino con vista sul Senato, il dantesco trasumanar provochi ancora qualche sospiro.
Julia Kristeva racconta in chiave psicopatologica l’autore francese più controverso. Campione di una “letteratura dell’orrore” che mette a nudo l’inconscio
Ecco perché odio e amo l’enigma Céline
di Julia Kristeva (la Repubblica, 07.07.2015)
LOUIS Ferdinand Destouches, detto Céline (1894-1961), non cessa di suscitare emozioni e indignazioni. La prova: la continua riproposta delle sue opere. Alcuni plaudono al coraggio degli editori, e necessariamente a quello dello scrittore che scava con il bisturi del medico in fondo agli esseri umani, che il genio di questo viaggiatore al termine della notte chiamava «opera del diluvio ». Altri bacchettano questo incensamento di cui non dovrebbe essere onorato l’autore antisemita di “Bagatelle per un massacro”. Molti di voi ne hanno sentito parlare. Pochi l’hanno letto, lo so, non dite il contrario. Se mi arrischio a parlarne, è in primo luogo perché quegli scritti non sono solo let-teratura: toccando tutte le corde della lingua, Céline mette a nudo l’inconscio fino all’insostenibile, e fa ridere l’essere parlante della sua stessa bestialità.
D’altro lato, e al tempo stesso, la sua angoscia distrugge quella barriera di sicurezza chiamata sublimazione e si compiace in un’eccitazione mortifera alla quale la storia europea offre una via discarico: l’antisemitismo. Céline attraversa la vita e la morte in un’esperienza che lo spoglia della sua identità e lo conduce all’apice della sua eccitabilità e delle sue angosce. Una esperienza come quella che crea mistici e che i filosofi (da Hegel a Heidegger) cercano di delucidare a posteriori? Con una differenza, e si tratta di una differenza radicale: che Céline pratica la sua esperienza e ce la consegna nella lingua più curata che ci sia: il francese «regale», dice. Fino a farlo vibrare in danza e in musica, e portarlo ai limiti del senso, ebbro del solo piacere dell’esattezza della parola e del ritmo, per piangere d’orrore e di risa.
Quale altro approccio, diverso dalla psicoanalisi, potrebbe arrischiarsi su questa cresta, dove la pulsione e le parole camminano di pari passo e si scontrano per inabissarsi e sublimarsi mentre “io” crollo o mi esalto in un’apocalisse senza Dio? Oltretutto, è la tragedia della Shoah? È la logica implacabile dell’Homo religiosus che, di sporcizia in sozzura, di tabù levitici in peccato e codici morali, affina le sue logiche e i suoi riti di purificazione fianco a fianco alle sue passioni, ma molto spesso vi soccombe? Il viaggio di Céline al termine della notte si è trovato un capro espiatorio, un polo di fascinazione e di odio, nella figura immaginaria dell’ebreo. Quale arte diversa dalla psicoanalisi può accettare la scommessa di fare luce su questa compromissione antisemita?
Dopo avere letto tutto Céline e quasi tutto su di lui, senza dimenticare scrittori degni di stima che si sono compromessi con il suo antisemitismo, avevo difficoltà a pensare insieme Céline scrittore e Céline ideologo. Avevo acquisito la certezza che non ci fossero due Céline: da un lato quello del «francese lingua regale»; dall’altro l’assassino innamorato di Yubelblat, del «fondo della sua sostanza di immondizia ». Alcuni preferendo dimenticare la politica per cullarsi in gioie estetiche, altri esecrando l’autore di pamphlet al punto da censurare lo scrittore. Nella mia lettura i due Céline stanno insieme, in una stessa dinamica psichica che può assumere sfaccettature diverse: slanci di tenerezza, squarci di luce, come salve di deiezione, di pus e di sangue, di chiamata all’omicidio.
È a questo punto che, in un periodo drammatico della mia vita personale, e dopo avere letto Céline a tarda notte, mi sono svegliata con la parola “abiezione”. E la convinzione che questa parola riassuma l’enigma Céline. Non vi sto dicendo che la mia lettura costituisca una spiegazione esaustiva del suo stile, e ancor meno dell’orrore antisemita nel quale si è compromesso col sogghigno. Dico solo che questa dinamica psichica, che io chiamo una abiezione, si aggiunge alle ragioni religiose, politiche, sociali, storiche che, da oltre due millenni, hanno fatto dell’ebreo il nemico d’elezione in Europa. E ancora oggi il nemico d’elezione del mondo musulmano, benché in modo sociopolitico diverso, ma attingendo alla stessa riserva psichica.
Molte altre cose sono state dette dai sociologi e dai politologi sulle cause della tragedia antisemita che ha portato all’Olocausto. Resta ancor più da dire delle motivazioni religiose interne ai tre monoteismi che attizzano quella violenza fratricida. L’analista, come sempre a partire da un discorso individuale ( qui: Céline), può aggiungervi solo un chiarimento complementare: un carotaggio diretto a quel luogo psichico, peraltro temibile e tuttavia straordinario, dove l’essere parlante al tempo stesso perde e costruisce la propria identità. Né soggetto né oggetto, un aggetto/ abietto. Né te né me, tutti abietti, ma tu più di chiunque altro. Chi, tu? Tu-mio altro: mio Me abietto che io proietto in Te confuso con la mia abiezione, la nostra-la tua. Così intesa, l’abiezione ha una lunga vita davanti a sé: abitando le pieghe tra linguaggio e pulsione, là dove le identità vacillano, essa può tanto ordinare la creazione immaginaria quanto fomentare tutti quei confronti con l’altro dove dominano il potere dell’orrore, l’attrazione e il disgusto, l’antisemitismo e il razzismo che perdurano e che verranno. Quali rapporti dunque tra l’abiezione e il racconto di Céline?
«In principio era l’emozione... », ripete spesso, nei suoi scritti e nei suoi colloqui. A leggerlo, si ha l’impressione che in principio fosse il malessere. Il dolore come luogo del soggetto. Limite incandescente, insopportabile tra dentro e fuori, me e altro. L’essere come mal-essere. Il racconto céliniano è un racconto del dolore e dell’orrore non solo perché i “temi” ci sono, tali e quali, ma perché tutta la posizione narrativa sembra ordinata dalla necessità di attraversare l’abiezione della quale il dolore è l’aspetto intimo, e l’orrore il volto pubblico. Poiché quando l’identità narrata è insostenibile, quando la frontiera soggetto/oggetto è lacerata e anche il limite tra dentro e fuori diventa incerto, il racconto è il primo a essere interpellato. Se esso prosegue nonostante tutto, cambia fattura: la linearità si spezza, procede a scatti, per enigmi, scorciatoie, lacune, grovigli, rotture. A uno stadio ulteriore, l’identità insostenibile del narratore e dell’ambiente che si pensa lo sostenga non si narra più, ma si grida o si descrive con un’intensità stilistica massimale (linguaggio della violenza, dell’oscenità, o di una retorica che apparenta il testo alla poesia). Il racconto cede davanti a un tema-grido che, quando tende a coincidere con gli stati incandescenti di una soggettività-limite che abbiamo chiamato abiezione, è il tema- grido del dolore-dell’orrore.
In altre parole, il tema del dolore dell’orrore è la testimonianza ultima degli stati di abiezione all’interno di una rappresentazione narrativa. Volendosi spingere oltre intorno all’abiezione, non si troverebbero né racconto né tema, ma il rimaneggiamento della sintassi e del lessico: violenza della poesia, e silenzio. In tal senso c’è già tutto nel Viaggio al termine della notte : il dolore, l’orrore, la morte, il sarcasmo, l’abiezione, la paura. E quel baratro dove parla uno strano strappo tra un me e un altro: tra niente e tutto. Due estremi che cambiano peraltro posto, Bardamu e Arthur, e attribuiscono un corpo dolente a quella sintassi interminabile, quel viaggio senza fine: un racconto tra apocalisse e carnevale. (Traduzione di Anna Maria Brogi)
intervista a Julia Kristeva,
a cura di Stefano Montefiori (Corriere della Sera, 25 marzo 2011)
Il Bisogno di credere: prepolitico, prereligioso. A questo istinto dell’uomo Julia Kristeva ha dedicato un libro (edito in Italia da Donzelli) e l’intervento che pronuncerà questa mattina, alla Sorbona, nella seconda giornata del «Cortile dei Gentili». Uno spazio di dialogo e di confronto tra mondo religioso e intellettuali non credenti, alla ricerca dei valori comuni e della complementarità, dove la grande semiologa «bulgara d’origine, francese di nazionalità, europea di cittadinanza e americana d’adozione» ripercorrerà i grandi momenti dell’umanesimo secondo questa traiettoria: Erasmo, Diderot, Sade, Freud.
«L’opera di Freud - spiega la Kristeva - è la cerniera tra le due frontiere dell’esperienza umana: lo scatenamento delle passioni da una parte e la morale dall’altra. Solo la teoria freudiana permette di coordinare questi due aspetti».
Ormai da qualche anno la moda del tempo, anche e soprattutto tra gli intellettuali non credenti, è demolire l’opera di Freud, accusata di essere una falsa scienza dal Libro nero della psicoanalisi (Fazi) fino agli ultimi saggi di Michel Onfray.
«Sono solo fenomeni mediatici, che non mi interessano. Non vedo come si possa affrontare la questione della religione senza tenere conto di ciò che Sigmund Freud ci insegna sull’essere umano, e cioè che l’homo sapiens è homo religiosus: il bisogno di sapere si traduce in un bisogno di credere, il sapere può decostruire il credere, ma non può esistere senza il credere. Ci siamo abituati ad attaccare l’opera di Freud perché ha detto che le religioni sono un’illusione e questo infastidisce molto gli uomini di fede; è vero, i fenomeni religiosi talvolta portano alla nevrosi se non all’oscurantismo e all’integralismo, ma Freud non si limita a questo. Mostra anche come la psicanalisi sia la sola delle scienze umane in grado di avvicinare il fenomeno religioso in maniera delicata, riconoscendone il radicamento profondo nell’uomo. Penso che il dialogo che cominciamo in questi giorni a Parigi possa avvenire a partire da questo tipo di approccio. Con delicatezza».
Lei come si definisce in rapporto alla religione?
«Mi interessa l’umanesimo, la differenza tra l’umanesimo cristiano e quello dei Lumi, e come quest’ultimo può rispondere alle questioni della nostra epoca, dalla libertà sessuale al ruolo della donna, alle crisi dei giovani e del multiculturalismo. Non si tratta di distruggere la religione, come hanno tentato di fare i totalitarismi, ma neanche di accettarla: serve un lavoro di rivalutazione della memoria».
Questo umanismo è ateo, agnostico o credente?
«Io appartengo alla variante dell’umanesimo dei Lumi: un ateismo in senso sartriano, che è quindi un’"esperienza crudele e di lungo respiro". Cerco di continuare quel lavoro».
Nell’intervento, Julia Kristeva citerà L’esistenzialismo è un umanesimo di Jean-Paul Sartre (Mursia) e la Lettera sull’ «umanismo» di Martin Heidegger (Adelphi).
«Sartre parla molto della libertà, l’esistenza dell’uomo precede l’essenza, ed è una libertà che si conquista con scelte e rischi; dalla parte di Heidegger il problema è più complesso: non si pone né per Dio né contro Dio né nell’indifferentismo, ma cerca di cogliere l’uomo in rapporto al linguaggio. Ma solo Freud riesce a mettere in relazione la follia umana e il bisogno di valori. Come diceva Jung, il credere non può essere cancellato, può essere solo sublimato. Il percorso psicanalitico è in fondo un modo di sublimare questo bisogno di credere».
Julia Kristeva crede molto nell’utilità di spazi di confronto come «Il Cortile dei Gentili», «che non può restare un’occasione isolata». Il suo progetto è creare un’istituzione permanente, un luogo di studio che aiuti a «rispondere al malessere dell’uomo moderno in modo post-religioso, ma tenendo conto dell’apporto delle religioni».
Se Teresa d’Avila incontra una strizzacervelli
di Julia Kristeva (La Stampa, 22 giugno 2010)
La scrittrice e psicanalista francese (di origine bulgara) Julia Kristeva è ospite della serata conclusiva del festival Letterature di Roma (oggi alle 21, Basilica di Massenzio), a cui partecipa anche Tiziano Scarpa. Leggerà un testo inedito dal titolo La Passione secondo Teresa D’Avila (la santa a cui ha dedicato il saggio Teresa, mon amour, Donzelli 2009), del quale anticipiamo un estratto.
Come spiegare questo strano incontro fra una santa e una strizzacervelli? Non vi dirò tutto. Vi ricorderò soltanto che oggi è impossibile vivere senza accorgersi che gli scontri tra religioni non sono estranei agli scenari economici che incombono sulla nostra quotidianità e minacciano la pace nel mondo. Vi confesso che faccio parte di quei (rari?) scrittori e intellettuali europei convinti che esista una cultura europea di cui non andiamo abbastanza fieri. Io sono profondamente persuasa che solo a partire da una migliore appropriazione critica della pluralità delle sue culture la nostra Europa potrà ricoprire un ruolo decisivo nei diversi conflitti che si affastellano all’orizzonte. Si tratta, esattamente, di una "trasvalutazione" (per usare un termine nietzschiano) dei valori ebraici, cristiani, ma anche musulmani e di quelli della secolarizzazione.
Sì, il filo della tradizione è stato reciso, ci avvertono Tocqueville e Hannah Arendt, e avete dinanzi a voi una donna che si considera atea: non a caso la mia eroina \ finisce il suo racconto su Teresa con una lettera rivolta a Denis Diderot che, al suo tempo, fustigava gli abusi della religione, in particolare nella Religiosa, il celebre romanzo incompiuto.
Ma Diderot, ex canonico e scrittore-filosofo dei Lumi, si rammaricava di non riuscire a finire la sua storia, perché, liberata dagli abusi della vita monastica, la sua religiosa viene gettata in una vita priva di senso.
Ho la pretesa di credere che la psicanalisi freudiana, che interroga i miti e la storia delle religioni, e al tempo stesso spalanca le porte della vita interiore degli uomini moderni, sia la strada maestra per trasvalutare, per l’appunto, quella tradizione che ci precede e con la quale noi, non credenti, abbiamo tagliato il filo. Noi, non credenti. Ma anche noi, credenti molto spesso ridotti a «elementi delle religioni» (come si dice degli «elementi del linguaggio» e dimenticando la complessità dell’esperienza).
"Solo un nuovo umanesimo può fermare il nichilismo"
Domani sarà a Massenzio dove leggerà un testo su Santa Teresa d’Avila: "Il suo esempio ci serve anche oggi, contro l’integralismo e il vuoto di valori"
di Jiulia Kristeva (la Repubblica, 21.06.2010)
PARIGI. «Il bisogno di credere è un bisogno prepolitico e prereligioso, sul quale poggia il desiderio di sapere. Riconoscendo l’importanza di tale bisogno, noi atei possiamo favorire il dialogo tra credenti e non credenti, per combattere da un lato il nichilismo e dall’altro l’integralismo». Linguista e psicanalista, saggista e romanziera, Julia Kristeva, dopo Il genio femminile, la trilogia dedicata a Hannah Arendt, Melanie Klein e Colette, ha pubblicato Bisogno di credere (Donzelli), un testo in cui, pur senza rinunciare alle sue convinzioni figlie dell’illuminismo, si confronta con l’universo della fede. Un dialogo che attraversa anche Teresa mon amour. Santa Teresa d’Avila: l’estasi come un romanzo (Donzelli), un libro a metà strada tra romanzo e saggio, che analizza la personalità e gli scritti della santa spagnola del XVI secolo.
Proprio di Teresa d’Avila, la studiosa francese parlerà domani alla Basilica di Massenzio in chiusura del Festival Letterature. «Ho iniziato ad occuparmi di Teresa quasi per caso, scoprendo un personaggio estremamente complesso, ricco e attuale», spiega Kristeva, in questo momento alle prese con la stesura di un nuovo romanzo. «Oggi lo scontro di religioni è una realtà che non possiamo ignorare. Il dialogo quindi è necessario. L’Europa - forse perché ha conosciuto la violenza e l’orrore legati alle religioni, dalle crociate alla Shoah - ha intrapreso, prima con l’illuminismo e in seguito con le scienze umane, un percorso di attraversamento della religione. Non per ghigliottinarla, come ha fatto la Rivoluzione francese, o per rinchiuderla nei gulag, come è accaduto in Unione Sovietica, ma per tentare di "transvalutarla", come direbbe Nietzsche. Attraverso il caso concreto di Teresa, io ho cercato di dare il mio contributo a questo percorso di attraversamento».
Per questo, Monsignor Gianfranco Ravasi l’ha invitata a partecipare al dialogo tra credenti e non credenti. Le sembra un’opportunità?
«Oggi, più ancora del dialogo interreligioso, occorre promuovere il dialogo tra chi crede e chi no, soprattutto in Europa. Appartengo a coloro che, per dirla con Tocqueville e Hannah Arendt, hanno reciso il filo della tradizione. Mi considero una discendente dell’illuminismo e della secolarizzazione che ci hanno messo in guardia contro i rischi della religione: la nevrosi, le illusioni, gli abusi, le guerre. Il filo reciso della tradizione ci ha consentito di muoverci verso la libertà, senza la quale non ci sarebbero il mondo della scienza né quello dell’arte, l’avventura dell’impresa né quella dei nuovi amori. Il filo reciso della tradizione è una conquista importante, ma occorre evitare la deriva verso un nichilismo senza valori e senza autorità. Ecco perché abbiamo bisogno di "transvalutare" la tradizione. Vale a dire ripensarla e attraversala, cercando di trarne tutto ciò che può essere positivo per noi contemporanei. Ciò vale per tutta la tradizione, le tre religioni monoteistiche, ma anche la cultura classica, il taoismo o il confucianesimo».
A chi spetta questo compito?
«Agli intellettuali, ma anche agli artisti, visto che considero la letteratura e le arti delle vere e proprie forme di pensiero. Senza il confronto con la tradizione rischiamo di perderci in un nichilismo depressivo. Sul piano della religione, tale confronto ci consente di capire che la fede non è solamente un vicolo cieco, come diceva Diderot. Condannando la fede, la filosofia dell’illuminismo ha privato il bisogno di conoscenza di un fondamento importante. Per me il bisogno di credere è il fondamento del sapere. È una necessità antropologica che la storia delle religioni ha capitalizzato attraverso le varianti cristiana, islamica, ebraica, taoista. Noi atei dobbiamo riscoprire le radici di tale bisogno, favorendo in questo modo il dialogo tra credenti e non credenti, un dialogo alla pari dove ciascuno possa spiegare e difendere le proprie posizioni».
Il bisogno di credere come si manifesta in Teresa d’Avila?
«Teresa vive una fede sovrannaturale, che esalta il legame amoroso nascosto nella fede. Lo esalta in maniera ideale, ma anche concretamente con tutte le fibre del suo corpo di donna, come testimonia la statua del Bernini nella chiesa romana di Santa Maria della Vittoria. Teresa si esilia nell’alterità divina, rivelando una profondità estrema della vita psichica, che Lacan è stato il primo a mettere in evidenza, parlando del piacere femminile. Nelle sue estasi non c’è solo la felicità dell’incontro con Dio, ma tutta la violenza del piacere, l’annullamento di se stessi e del proprio corpo. Mettendo per iscritto i suoi stati di estasi, Teresa riesce però ad allontanare la loro dimensione mortuaria. Più li descrive, più diventa lucida, agendo nel mondo in maniera concreta».
Nell’abbandono dell’estasi, Dio - per Teresa - cessa d’essere un’entità esterna, diventando una realtà interiore e immanente. È così?
«Nel suo viaggio verso l’altro, Teresa indica un dato importante per la cultura europea. Perché l’io esista, il cogito di Descartes non è sufficiente. L’io ha bisogno dell’altro da sé, con il quale instaura un legame indispensabile. L’io e l’altro s’identificano, si confondono e si portano a vicenda. Teresa crea tale legame con la divinità. Per lei la trascendenza diventa immanenza. In questo modo si colloca sulla via dell’umanesimo cristiano che darà luogo l’umanesimo moderno. Proprio perché Dio e l’infinito sono in lei, Teresa diventa una persona e un linguaggio infinito. Anche per questo affascinò tanto Leibniz».
È per questo che lei la considera una nostra contemporanea?
«Certo. Teresa è una donna eccezionale, un genio femminile che ha innovato la fede cattolica, anticipando la rivoluzione barocca. La sua esperienza parla alle donne moderne e in particolare a quelle che si consacrano alla creazione artistica, lavorando con le immagini e il linguaggio».
Lei è stata una delle voci del femminismo francese. Teresa d’Avila può interessare le femministe?
«Oggi il ritorno della tradizione e la centralità della maternità rimettono in discussione le conquiste del femminismo. Ciò è vero soprattutto quando la maternità è prigioniera delle preoccupazioni materiali e sanitarie. Teresa c’insegna che occorre riuscire a pensare dal punto di vista dell’altro. Non dobbiamo proiettare sui figli i nostri desideri, le nostre angosce, i nostri bisogni, ma considerarli come un altro da sé, cercando di sviluppare la loro alterità. In questa prospettiva, le donne saranno all’avanguardia della civiltà. Come ha fatto Teresa, ogni donna deve cercare di essere singolare. Occorre rifondare l’umanesimo in una direzione che stimoli le singolarità. E’ questo l’insegnamento di Teresa».
Il Pontefice approva un testo dove Roma viene posta al di sopra
Lo strale più forte contro i protestanti, "carenze" per gli ortodossi
Documento voluto da papa Ratzinger
"L’unica chiesa di Cristo è quella cattolica" *
CITTA’ DEL VATICANO - Roma contro Lutero e la Riforma per affermare il primato del Papa e della chiesa cattolica sulle altre. Perché Cristo ha costituito "sulla terra un’unica Chiesa", che si identifica "pienamente" solo nella Chiesa cattolica e non nelle altre comunità cristiane. E’ quanto afferma il documento "Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina della Chiesa" redatto dalla Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede, diffuso oggi dalla Santa Sede e approvato dal Papa che ne ha ordinato la pubblicazione.
Il testo è firmato dal Prefetto della Congregazione, il cardinale William Levada, e dal segretario, monsignor Angelo Amato e porta la data del 29 giugno, solennità dei santi Pietro e Paolo, scelta, evidentemente, non a caso. Come non a caso arriva una precisazione sul Concilio Vaticano II: "Nel periodo postconciliare - dice l’articolo - la dottrina del Vaticano II è stata oggetto, e continua ad esserlo, di interpretazioni fuorvianti e in discontinuità con la dottrina cattolica tradizionale sulla natura della Chiesa: se, da una parte, si vedeva in essa una ’svolta copernicana’, dall’altra, ci si è concentrati su taluni aspetti considerati quasi in contrapposizione con altri. In realtà - spiega la congregazione - l’intenzione profonda del Concilio Vaticano II era chiaramente di inserire e subordinare il discorso della Chiesa al discorso di Dio".
Nel testo si legge anche che il Vaticano riconosce nelle altre comunità cristiane non cattoliche, in particolare nella Chiesa ortodossa, l’esistenza "numerosi elementi di santificazione e di verità". Ma vi sono anche - indica il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicato oggi - "carenze", in quanto tali confessioni non riconoscono "il primato di Pietro", ovvero del Papa di Roma. Tale primato - avverte tuttavia la nota - "non deve essere inteso in modo estraneo o concorrente nei confronti dei vescovi delle Chiese particolari".
Sì al dialogo anche con le chiese "particolari" ma, afferma l’ex Sant’Uffizio, "perché il dialogo possa veramente essere costruttivo, oltre all’apertura agli interlocutori, è necessaria la fedeltà alla identità della fede cattolica". Le comunità protestanti, nate dalla riforma luterana del XVI secolo, non possono essere considerate, dalla dottrina cattolica, "chiese in senso proprio", in quanto non contemplano il sacerdozio e non conservano più in modo sostanziale il sacramento dell’Eucarestia.
"L’identificazione della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica - è quanto afferma in un’intervista monsignor Angelo Amato - non è da intendersi come se al di fuori della chiesa cattolica ci fosse un ’vuoto ecclesiale’, dal momento che nelle chiese e comunità ecclesiali separate si danno importanti ’elementa ecclesiae’". "Il volto nuovo della Chiesa - aggiunge - non implica rottura ma armonia in una comprensione sempre più adeguata della sua unità e della sua unicità".
Il segretario della Congregazione spiega anche perché sia stato scelto, nel documento, lo stile delle domande con risposte. "E’ un genere - osserva - che non implica argomentazioni diffuse e molto articolate, proprie ad esempio delle Istruzioni o delle Note dottrinali. Nel nostro caso invece si tratta di alcune brevi risposte a dubbi relativi alla corretta interpretazione del Concilio".
* la Repubblica, 10 luglio 2007