È il più importante mediatore culturale tra Cina e Occidente: «Da quando ho scoperto la pittura del Rinascimento sono diventato un pellegrino d’Oriente»
François Cheng: «La bellezza? È un’epifania che nasce dal dialogo con le altre culture»
di Elena Doni (l’Unità, 13.06.2008)
A pensarci bene l’unico indizio che potrebbe rivelarlo non autoctono è il suo francese. Troppo perfetto nella pronuncia, troppo insindacabile nella scelta dei vocaboli, insomma un francese troppo amato per essere madrelingua. Cioè una lingua con la quale si ha confidenza fin dalle prime parole («il pappo e il dindi») e la si storpia e la si usa distrattamente anche dopo.
Il professore, il filosofo, il poeta, l’Accademico di Francia non è infatti nato francese, ma lo è diventato in età adulta. François Cheng arrivò a Parigi a vent’anni senza conoscere una parola di francese e durante l’affollata conferenza che ha tenuto a Roma, all’ambasciata presso la Santa Sede, ha fatto cenno alla durezza dello scontro con una lingua tanto diversa dalla sua. «Possedere la lingua francese è stata per me una battaglia di tutta una vita. E alla fine sono diventato un altro, ma senza perdere la mia anima. E senza nessun senso di lacerazione: al contrario, con un sentimento di gratitudine. Io non sono che dialogo, il dialogo ci offre la sola possibilità che l’umanità possa raggiungere il suo posto nell’universo».
Patrick Valdrini, direttore del Centro culturale San Luigi dei Francesi che aveva organizzato l’incontro, gli ha posto allora una domanda elementare e monumentale: «Che consigli darebbe oggi a un immigrato?». E Cheng, un minuscolo signore di 79 anni che ha il garbo e la pazienza dei grandi maestri, ha detto: «Spesso chi va in un paese lontano a cercare lavoro, e lo trova, dice: “mi sono rifatto una vita”. Ma passa la sua vita a coltivare la nostalgia per la patria lontana. I miei primi dieci anni in Francia sono stati terribili, avevo un senso di perdizione. Ma rifarsi una vita vuol dire anche rinascere. Attraverso la lingua io sono entrato in un’altra cultura, quella francese, e poi anche in altre culture europee. Nel conoscere la migliore parte dell’Altro si conosce la migliore parte di sé». Oggi Cheng è considerato il più importante mediatore culturale tra la Cina e l’Europa. Secondo l’ex presidente della Repubblica Jacques Chirac «il suo itinerario tra Oriente e Occidente costituisce un’opera universale».
La conoscenza dell’altro da sé può talvolta costituire uno shock, racconta Cheng. Come nel 1960, quando venne per la prima volta in Italia e scoprì la pittura del Rinascimento. Da allora è tornato una ventina di volte: «sono diventato un pellegrino dell’oriente», dice. Ha studiato a fondo quel periodo storico, ha scritto una raccolta di poesie intitolata Cantos toscans. E in qualche modo si rifà a questa passione il suo ultimo libro (esaurito in Francia, non ancora tradotto in italiano) Pélerinage au Louvre: «perché, purtroppo per voi, i grandi capolavori del Rinascimento stanno quasi tutti a Parigi».
L’analisi della Gioconda, fatta alla conferenza ma contenuta anche nel libro Cinque meditazioni sulla bellezza edito in italiano da Bollati Boringhieri, parte dalla constatazione che la seduzione esercitata da questo ritratto non viene solo dall’armonia dei tratti della gentildonna, ma dal sorriso e dallo sguardo. E non è neppure giusto, secondo Cheng, davanti a un tale capolavoro interrogarsi sulla ragione del misterioso sorriso: “la bellezza è una sorta di epifania che nasce dal dialogo con l’universo. Con la Gioconda l’intenzione di Leonardo non era solo quella di rendere sulla tela i tratti di una donna. C’è stata in lui la volontà di trasmetterci il suo meravigliarsi davanti al miracolo dell’universo, quasi che la Gioconda ne fosse un’emanazione». Non è un caso, ha fatto notare Cheng, che Leonardo abbia rialzato il paesaggio raffigurato dietro la figura umana: nelle convenzioni dell’epoca la natura che fa da sfondo non supera mai l’altezza delle spalle della persona ritratta: nel caso della Gioconda invece arriva fino al livello degli occhi.
Alla domanda se l’Occidente gli abbia offerto chiavi di interpretazione che a noi forse sfuggono, Cheng ha risposto che la grandezza dell’Occidente è nata dal dualismo soggetto-oggetto, presente in tutta la nostra storia fin dai tempi di Platone: «l’osservazione dell’oggetto ha permesso lo sviluppo del pensiero scientifico, il porsi come soggetto ha dato vita al diritto e alla libertà. E anche alla meraviglia della ritrattistica, che la pittura cinese invece non conosce». Ma sulla quale Cheng ha scritto un libro illuminante.
Nato in una famiglia di letterati (i suoi genitori furono tra i primi borsisti cinesi negli USA, e il padre fu uno dei fondatori dell’UNESCO), arrivò in Francia nel 1949, senza conoscere una parola di francese, esule dalla sua patria e spinto dalla passione per la cultura francese. È entrato nella carriera universitaria a partire dagli anni ’60, all’École des langues orientales, cimentandosi anche in traduzioni di poesia, e traducendo in cinese Baudelaire, Rimbaud, Apollinaire, Char e Michaux.
Naturalizzato francese nel 1971, ha cominciato a pubblicare in francese abbastanza tardi, inizialmente sulla pittura cinese, poi anche opere di poesia. Successivamente, valutando di aver raggiunto l’esperienza sufficiente, è passato a scrivere romanzi.
Nel 2001 François Cheng è stato insignito del Grand Prix de la francophonie dell’Académie française. Il 13 giugno 2002 è diventato il primo asiatico eletto tra i membri dell’Académie française. È membro dell’Haut Conseil de la Francophonie. (Wikipedia)
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
LUNGA VITA ALL’ITALIA: "RESTITUITEMI IL MIO URLO"!!! -Dalla Cina, la lezione di Huang Jianxiang. A Lui, in omaggio perenne
Scambi di opere, convegni.
Tra Santa Sede e Cina è l’ora della diplomazia della cultura
Al percorso di riconciliazione, segnato dall’accordo del 2018, si affiancano prestiti di opere d’arte, mostre, convegni su temi comuni. Così si gettano i ponti che servono
di Agostino Giovagnoli (Avvenire, sabato 1 giugno 2019)
Il Palazzo imperiale di Pechino espone da qualche giorno importanti oggetti d’arte cinesi dei Musei Vaticani. «È la prima volta che sono stati riportati nel loro Paese d’origine manufatti cinesi provenienti dalla collezione dei Musei Vaticani, nella quale sono presenti doni che testimoniano secoli di comunicazioni tra la Cina e il Vaticano e manufatti che intrecciano arte cattolica e arte cinese». Lo scrive il ’Global Times’, quotidiano ufficioso di Pechino. Si tratta dell’ultima di una serie di ’prime volte’: il padiglione della Santa Sede all’Expo dell’Orticoltura a Pechino inaugurato il 29 aprile alla presenza del cardinal Gianfranco Ravasi; l’intervista del Segretario di Stato vaticano ancora al ’Global Times’ il 12 maggio; la partecipazione di due vescovi cinesi insieme al cardinal Pietro Parolin a un convegno dell’Università Cattolica a Milano il 14 maggio... Sono eventi con uno spiccato carattere culturale. Ed è probabile che altri seguiranno nei prossimi mesi.
Lecito chiedersi se si tratti di una sorta di ’diplomazia della cultura’ che si affianca al dialogo politico diplomatico tra Santa Sede e Cina, sul modello della ’diplomazia del pingpong’ che cinquant’anni fa preparò nuovi rapporti tra Stati Uniti e Repubblica popolare cinese. In realtà, questi eventi rispondono a una logica più profonda. Che è culturale nel senso ampio del termine, pur implicando anche eventi culturali in senso specifico e pur avendo anche effetti politici. Di questa mostra aveva parlato già un anno fa papa Francesco, collegando tra loro diversi livelli di dialogo tra Santa Sede e Cina: quello ’ufficiale’ delle delegazioni che si incontrano; quello che si sviluppa attraverso contatti personali; e «il terzo, che per me è il più importante nel [...] riavvicinamento con la Cina», appunto quello «culturale». Nel duplice senso del dialogo interculturale e degli eventi culturali. «È la strada tradizionale, quella dei grandi, come Matteo Ricci», in cui si inseriva - affermò il Papa - anche la mostra di oggetti d’arte conservati nei Musei Vaticani.
Questa strada è la più importante perché, nella visione di Francesco, un legame profondo unisce ciascun popolo alla sua cultura. Lo ha detto più volte, proprio a proposito della Cina. E, per lui, se si sviluppa un dialogo tra le diverse culture sono i popoli interi a dialogare. Il che vuol dire aprirsi all’altro, accorciare le distanze, costruire la pace. È il dialogo interculturale, che ha avuto un ruolo anche nei recenti sviluppi dei rapporti sino-vaticani. Apparentemente, il livello cruciale è stato quello politico-diplomatico e, indubbiamente, l’Accordo provvisorio del 22 settembre 2018 ha segnato una svolta. Ma la strada verso l’Accordo si è sbloccata solo grazie al superamento di incomprensioni, equivoci, fraintendimenti che hanno una radice culturale.
Le due parti si sono scontrate a lungo anche perché non si capivano l’un l’altra, mentre la situazione è cambiata quando ciascuna delle due ha rinunciato a imporre i propri princìpi, criteri e regole. Lo ha spiegato il cardinal Parolin a Milano in occasione del convegno ’1919-2019. Speranze di pace tra Oriente e Occidente’. Anche questo Accordo, insomma, si colloca all’interno di un dialogo interculturale. Tale dialogo presuppone una forte volontà di incontro. Di per sé, infatti, le culture non si parlano, sono realtà inerti che non entrano in relazione l’una con l’altra. Possono dialogare solo uomini e donne in carne ed ossa, che decidono di farlo, superando inerzie radicate, forti resistenze e grandi ostacoli. In francese li chiamano passeurs, traghettatori, coloro che si avventurano nella cultura degli altri.
L’esempio di Matteo Ricci è illuminante. Il gesuita italiano è giunto in Cina con una nutrita biblioteca di testi occidentali classici, medievali e rinascimentali. Ma ha poi iniziato un percorso di evangelizzazione che lo ha portato da Macao a Pechino e che è stato anche di dialogo interculturale. Dapprima ha individuato nei monaci buddisti i più vicini all’annuncio religioso di cui era portatore e ha indossato i loro abiti. Successivamente, prima a Nanchino e poi a Pechino, ha stretto amicizia con i mandarini-letterati e ha individuato nella cultura confuciana del tempo il miglior veicolo per parlare loro del «Signore del Cielo». Perché ci sia dialogo interculturale, insomma, ci vuole un incontro umano e quello che si realizza all’interno di un’amicizia è certamente tra i più ricchi e profondi. Non è la cultura che conduce all’incontro, insomma, ma è la «cultura dell’incontro» - per usare un’espressione cara a papa Francesco - a spingere verso il dialogo senza cui non sono possibili comprensione, intesa, accordo.
È un percorso tutt’altro che astrattamente accademico. Che però può essere aiutato dalla cultura in senso stretto: studi storici e ricerche linguistiche, seminari e convegni, traduzioni e pubblicazioni, come pure mostre d’arte ed esposizioni archeologiche, musica e teatro ecc. Uomini e donne di cultura infatti - e, potenzialmente, tutti lo siamo - fanno parte di una comunità che non può essere limitata da barriere e confini. La disciplina del confronto culturale aiuta a imparare la lingua dell’altro e a ricomprendere sé stessi attraverso i suoi occhi, insomma a decentrarsi da sé e a gustare il sapore dell’alterità. Gli eventi culturali predispongono al dialogo interculturale. Nel rapporto sino-vaticano questo dialogo ha indotto gli uni ad accogliere un approccio pragmatico e fattuale e gli altri ad accettare una modalità astratta e generalista o, per dirla, con Francois Jullien, la «cultura del vivere», propria degli orientali, e quella «dell’essere», propria degli occidentali. Tra l’assolutezza del principio occidentale di sovranità territoriale e la tradizione cinese del controllo politico sulla società, i negoziatori hanno trovato uno spazio di convergenza che costituisce anche una novità culturale. E così via. Pure i nodi ancora insoluti nei rapporti tra Santa Sede e Cina possono essere sciolti solo affrontandone anche lo spessore culturale.
Tutto ciò è anche politica. Ha ragione papa Francesco: se uno stretto legame unisce ciascun popolo alla sua cultura, dove c’è dialogo interculturale ci sono anche rapporti tra popoli. Mentre, dove non c’è dialogo, prevale il confitto. Nel mondo di oggi le identità culturali vengono evocate sempre più spesso per costruire muri. Contemporaneamente, però, in tante parti del mondo il dialogo interculturale costruisce ponti. Oggi, in Cina, il disegno di una progressiva sinizzazione delle religioni si sta esprimendo anche sotto forma di crescente insistenza sulla tradizione confuciana, come si è visto nel recente incontro dei responsabili delle diverse comunità religiose cinesi convocati a Qufu, dove è nato Confucio. Bisogna avere paura di Confucio? Da questa paura è nata la lunga querelle dei riti, chiusa definitivamente da Pio XII nel 1939 dopo tre lunghi secoli di dolorose controversie. Matteo Ricci, invece, non ha avuta paura di Confucio e ha trasformato la tradizione confuciana in un ponte tra Oriente e Occidente sul quale ha camminato anche l’annuncio del Vangelo. Per papa Francesco, Matteo Ricci è anche oggi un modello da seguire: la strada più importante, dice infatti, è quella della cultura, «la strada tradizionale, quella dei grandi».
Così gli italiani hanno scritto il Codice civile per Pechino
L’ex ministro Diliberto ha portato il diritto romano in Cina. “E’ un lavoro enorme, dalla proprietà privata all’eredità”
di Mattia Feltri (La Stampa, 06/03/2017)
Roma. «È cominciata per caso», dice Oliviero Diliberto. Lo ricordate, vero? Inizi nel Pci, poi in Rifondazione, fino al 2013 leader dei Comunisti italiani. È stato ministro della Giustizia (premier Massimo D’Alema) dal ’98 al 2000. Oggi ha sessant’anni, è ordinario di Diritto romano alla Sapienza, e tutta questa breve biografia ha contribuito al caso. E cioè, nel 1998 la Cina decide di dotarsi di un codice civile. Non lo aveva, prima. A che serve un codice civile a un Paese comunista, in cui non c’è proprietà privata?
Ma nel ’98 il mondo era cambiato. «Era cambiato da un po’», dice oggi Diliberto. «Nel 1988 il professor Sandro Schipani, docente di Diritto romano a Tor Vergata, raggiunge in Cina uno studioso, Jiang Ping, che aveva conosciuto l’anno prima a Roma. Attenzione, il Muro di Berlino era ancora in piedi. E a Schipani viene l’intuizione: vi servirà un codice civile. La Cina, che veniva da un lunghissimo periodo di nichilismo giuridico, per cui la legislazione civile era una sovrastruttura borghese, capisce che il futuro è la globalizzazione e già sta evolvendo in un sistema misto, di economia statale e privata. E come gestisci un’economia così senza un codice civile?».Si sarà già capito dove stiamo andando a parare. La discussione in Cina dura a lungo: tocca decidere se adottare il Common law anglosassone o il Civil law di stampo romanistico.
«Ma intanto Schipani sta traducendo dal latino al cinese il Corpus Iuris Civilis, il fondamentale codice di Giustiniano che alla caduta dell’Impero Romano raccoglie il complesso delle leggi civili e così salva l’Europa, le dà un fondamento. E quando nel ’99 Pechino sceglie il diritto romano, si chiede: ma quale ne è la culla? L’Italia. Chi è ministro della Giustizia in Italia? Diliberto. Toh, è pure docente di diritto romano! E persino comunista! Perfetto! E così insieme a Schipani iniziamo, su richiesta cinese, a formare una classe di giuristi che poi dovranno scrivere il codice».
Il che, grosso modo, equivale ad averlo scritto.
«Il codice lo scrivono benissimo i cinesi, ma c’è del vero. Hanno cominciato a venire da noi studenti cinesi, passati attraverso selezioni durissime. Oggi ne ho con me dieci ma negli anni sono stati una cinquantina, molti di loro sono diventati professori e stanno lavorando appunto al codice. In quattro anni imparano l’italiano, il latino, il diritto romano e infine scrivono la tesi di dottorato».
Ma che significa scrivere il codice civile per la Cina? Un lavoro enorme, dice Diliberto, «pensate di introdurre in un Paese giuridicamente vergine, comunista, enorme, complesso, concetti come la proprietà, l’usufrutto, la successione, la compravendita, la proprietà intellettuale per libri e brevetti. Hanno dovuto creare e introdurre i notai. Pensate le difficoltà in un Paese in cui tutta la terra è dello Stato, e ai contadini ora viene data in concessione, mentre si riconosce la proprietà privata delle aziende o delle squadre di calcio. Pensate, in una Cina che a un certo punto ammette che uno molto bravo può diventare molto ricco, al problema dell’eredità. Perché i figli non sono molto bravi, solo molto fortunati». Si è risolta con una elevatissima tassa di successione, e ogni volta che si pone una questione del genere «partono le telefonate, i consulti, si organizzano convegni».
Il codice sarà pronto nel 2020 ma intanto «sono state scritte legislazioni singole, entrate in vigore, sugli aspetti più impellenti». Diliberto ha una cattedra all’Università Zhongnan of Economics and Law di Wuhan, terza città della Cina. Va due volte l’anno per tenere lezione. Come detto, altri studenti cinesi vengono a Roma.
«La Cina ha fame e urgenza di formare giuristi che la accompagnino all’interno e nel mondo. Ma intanto anche nostri studenti vanno in Cina. Ora ce ne sono quattro a fare dottorati sul diritto civile cinese. Diventeranno merce pregiatissima, avvocati del cui sostegno avrà bisogno chiunque intenda stringere affari in Cina. La Germania è molto avanti rispetto a noi, ma il volume dei nostri affari con la Cina cresce vertiginosamente. Poche settimane fa, alla presenza del presidente Mattarella, abbiamo inaugurato alla Sapienza il più grande centro di studi giuridici cinesi d’Europa. Chiunque debba approfondire la materia verrà da noi. E ci tengo a dirlo: tutto pagato da Pechino. Dal nostro governo non è arrivato un euro».
Rimangono un paio di dubbi.
Primo, ma davvero i cinesi hanno fiducia in noi? «Intanto amano la nostra cultura classica, e in particolare la musica operistica. In questo momento, pochi lo sanno, ma in Italia ci sono mille e cinquecento giovani cinesi che stanno studiando l’opera lirica. E poi i cinesi sono diversi, ragionano sulla base dei millenni, e nel loro grande orgoglio ci considerano dei pari, alla loro stessa altezza perché anche noi come loro abbiamo avuto l’impero, siamo figli di un impero che conquistava e civilizzava il mondo». Secondo dubbio, il solito: d’accordo il codice civile ma, di civile, dovrebbero esserci anche i diritti.
Diliberto non è uno che si lasci andare al romanticismo, e prevede che «i diritti arriveranno per processo naturale. Già oggi la Cina è profondamente diversa da quella di quaranta o venti anni fa. Sono leciti il mercato e la proprietà privata. E per i cinesi oggi sono fondamentali il diritto alla vita e alla sussistenza.
Il Presidente Xi Jingping ha posto tra le priorità lo “stato di diritto”, conquista enorme. Anche la politica seguirà un processo naturale, ma le trasformazioni saranno gestite dal Partito comunista, evitando qualsiasi gorbaciovismo. Sarebbe folle il contrario, come fu folle l’idea di esportare la nostra forma di democrazia: che è il prodotto di 25 secoli di storia, dall’Atene di Pericle alla rivoluzione francese. Ma i cinesi Pericle non l’hanno avuto. E tu glielo vuoi imporre da un giorno con l’altro?».
Gottfried Wilhelm Leibniz, La Cina, Spirali, Milano, 1987 *
PRESENTAZIONE
di Carlo Sini
"Er kehrte alles zum Besten": così concludeva la sua biografia di Leibniz I. G. Eckhardt, che era stato suo segretario, e a quanto pare anche tutto il pubblico presente ai modestissimi funerali del filosofo, sepolto quasi alla chetichella un grigio mattino di novembre del 1716. Esattamente un anno più tardi Fontanelle, tenendo il celebre elogio di Leibniz di fronte all’Accademia delle scienze di Parigi (13 novembre 1717), osservò con giusta indignazione che l’uomo che era stato l’ornamento della sua patria, il fondatore dell’Accademia delle scienze di Berlino e uno dei più grandi spiriti universali di tutti i tempi, era morto piuttosto come un brigante che non come un filosofo famoso. Volgere tutto al bene, indirizzare ogni cosa al meglio, al suo lato migliore: questa notazione di Eckhardt non va intesa in un senso meramente psicologico; essa esprime piuttosto, e assai felicemente, l’essenza e il cuore del pensiero e del lavoro di Leibniz. Si potrebbe dire: proprio quel lato del "sistema" leibniziano che dava sui nervi a Voltaire, il quale lo intendeva come "ottimismo", morale e cosmico, a tutti i costi.
Ma non si trattava di questo. Si trattava invece della profonda vocazione "cattolica" (nel senso letterale della parola) che animava la filosofia leibniziana: necessità di comprendere la realtà senza pregiudizi e inutili dispute, e cioè necessità di porsi dal punto di vista "monadologico" di tutte le ragioni, non per averne infine ragione, ma per costituire con esse una ragione e un’armonia più alta e più comprensiva, la cui complessità crescente si modellasse sulle cose, anziché pretendere ottusamente di costringere la realtà in uno schema di pensiero già ristrettamente presupposto; col che si vede come il "metafisico" Leibniz fosse di assai più larghe vedute dell’ "empirista" Voltaire, cosa che poteva accadere allora come oggi, se non altro perché l’intelligenza e la profondità di pensiero sono ben più decisivi delle intenzioni "metodologiche".
Come è stato notato, anche nelle opere dei suoi avversari e oppositori Leibniz dunque si sforzava piuttosto di sottolineare i motivi di accordo che non quelli di contrasto. La mediazione, in vista della riunificazione culturale e politica fu del resto il sogno della sua vita: unità delle chiese cristiane (e, se ciò si rivelava per il momento irrealizzabile, almeno unità delle confessioni protestanti), unità politica dell’Europa, unità culturale dei popoli e delle razze anche più lontane, unità della terra per un’unica enciclopedia del sapere, delle credenze filosofiche, scientifiche e infine religiose, quasi intuendo con più di due secoli di anticipo quella totalizzazione planetaria che oggi sembra avviarsi, nel bene e nel male, sotto il segno della tecnica.
Con i cattolici veri e propri del tempo suo Leibniz si era del resto trovato bene. Nel viaggio compiuto in Italia per reperire i documenti utili alla sua annosa e mai completata ricerca storica sulla casata di Brunswick (ricerca che si venne via via allargando a una sorta di storia della Germania) fu certo la tappa di Roma a riservargli le più ampie soddisfazioni. Nella città eterna egli arrivò il 14 maggio del 1689, in tempo per assistere all’elezione del nuovo papa, Alfonso VIII, successo a Innocenzo XI. Qui non perse tempo a intrecciare relazioni con gli ambienti della cultura e dei dotti, e quindi, com’era naturale, con l’intera curia. Tali furono l’impressione scientifica e la simpatia anche umana che egli suscitò, che gli venne addirittura offerta la direzione della Biblioteca vaticana: fatto in ogni senso straordinario, tanto più che tale carica normalmente si accompagnava alla dignità cardinalizia. Unica ovvia condizione era quella di convertirsi al cattolicesimo. Il quarantatreenne e già molto celebre bibliotecario, storiografo e consigliere di corte del Duca di Hannover dovette declinare il lusinghiero invito, stante la sua personale ripugnanza ad abbandonare la religione in cui era cresciuto ed era stato educato.
A Roma Leibniz divenne amico del gesuita padre Grimaldi, che era stato missionario in Cina: impresa che gli aveva procurato ampia fama e universale stima. Leibniz, che già era in assiduo contatto epistolare con i dotti e i governanti delle remote regioni della terra (egli lasciò alla sua morte migliaia e migliaia di lettere, molte delle quali di altissimo valore scientifico), iniziò allora, proprio per merito del Grimaldi, a interessarsi attivamente della cultura e della storia cinesi e nel 1697 curò quella raccolta di scritti (Novissima sinica, historiam nostri temporis illustratura) che forma oggetto del presente volume.
Che cosa si deve pensare della Cina, di questa civiltà innegabilmente antichissima e per molti versi straordinaria? Come si devono giudicare la sua esotica sapienza, le sue istituzioni, i suoi costumi e infine la sua religione? Si tratta alla fin fine di un popolo di atei, di materialisti pagani, o addirittura di barbari e primitivi soggiogati dalle più oscure superstizioni? Così inclinavano a giudicare i cinesi alcuni missionari, tra i quali quel padre Nicola Longobardi le cui opinioni Leibniz si impegna a confutare punto per punto (e con quale finezza di argomentazioni storico-interpretative: oggi si direbbe "ermeneutiche"). Contro tali rozze e superficiali valutazioni, secondo le quali l’azione missionaria in Cina sarebbe dovuta consistere essenzialmente (e posto che ciò fosse materialmente possibile) nel "distruggere l’impero del Demonio per stabilirvi quello di Gesù Cristo", Leibniz non tardò, con quell’acume e larghezza di idee che sono proprie di un grande spirito, a formarsi tutt’altra convinzione. "Siccome la Cina, egli scrisse, è un grande Impero che non cede affatto in estensione all’Europa colta e la sopravanza per numero di abitanti e in urbanità; e siccome c’è in Cina una morale esteriore per certi versi ammirabile, congiunta a una dottrina filosofica, o meglio a una teologia naturale, venerabile per la sua antichità, stabilita e autorizzata da tremila anni o quasi, molto tempo prima della filosofia dei greci, la quale è pure la prima di cui il resto della Terra abbia opere, eccettuati sempre i nostri sacri libri, sarebbe una grande imprudenza e presunzione per noi altri, nuovi venuti dopo di loro e appena usciti dalla barbarie, voler condannare una dottrina così antica, solo perché non sembra accordarsi subito con le nostre ordinarie nozioni scolastiche".
Anche qui Leibniz infaticabilmente si applicò per "volgere al meglio" la filosofia e la religione dei cinesi, sforzandosi di dimostrare che essa non è, nei suoi principi, lontana da una concezione platonico-cristiana dell’universo, la quale poté presumibilmente derivarle da quella originaria e incorrotta sapienza dell’età dei Patriarchi, direttamente ispirati da Dio, della cui esistenza storica (si pensi anche al nostro Vico) nessuno allora dubitava. Sicché il leggendario Fohi, mitico iniziatore della civiltà cinese, altri forse non era che Zoroastro, o Ermete Trismegisto, o Enoc, e magari non aveva mai calcato suolo cinese (come qualcuno arrivò a supporre, con devoti propositi).
Leibniz si trovò così a concordare largamente con quella fazione più avveduta dei gesuiti che mirava a introdurre il cristianesimo in Cina passando per la stessa antica filosofia cinese, restaurandone i principi corrottisi o obliati nel corso del tempo, magari non senza l’uso, molto gesuitico, del "santo artifizio" di accentuarvi o introdurvi qualche elemento precristiano, così che il salmo potesse concludersi in gloria nel modo più naturale. Santi artifizi che a Leibniz non sembravano peraltro necessari, stante l’alta ed ecumenica opinione che egli si veniva facendo delle originarie concezioni cinesi relative all’universo e alla divinità. Ma non mancarono naturalmente aspri critici, tra i protestanti, che videro di malocchio questa assidua collaborazione del filosofo con i gesuiti, e che insinuarono che Leibniz si era fatto conquistare dalle lusinghe e dalle lodi sperticate dei suoi corrispondenti cattolici. Insinuazione ingiusta, poiché nulla entusiasmava in modo più disinteressato e sincero Leibniz della possibilità di ampliare le sue conoscenze della cultura e della scienza di altri popoli e di altre civiltà. La Cina incarna così un episodio importante dei suoi arditi piani "mondiali" per l’unità spirituale dell’uomo. Divenuto nel 1711 consigliere dello zar Pietro il Grande, non mancherà di suggerirgli a più riprese le due grandi mete della riunificazione della chiesa greco-ortodossa e di quella latina e della diffusione del cristianesimo nell’Estremo Oriente. È questa infatti, egli ripeteva, la funzione storica della Russia: mediare l’Occidente con l’Oriente.
Nei documenti qui raccolti possiamo dunque leggere un capitolo essenziale della progressiva conoscenza della Cina in Europa; vicenda destinata ai più ampi sviluppi (solo con l’insegnamento di J.P. Abel Rémusat al Collège de France nel 1815 avrà inizio la sinologia moderna) e tutt’altro che conclusa. Oggi si parla tanto di ermeneutica, di "fusione degli orizzonti culturali", e cioè dei problemi connessi a ogni evento interpretativo fra culture ed epoche diverse; in questo libro noi assistiamo non a una "teoria", ma a un’ermeneutica in atto, con tutte le sue contraddizioni, le sue indecisioni, i suoi inevitabili errori, che sono però anche espressioni di una volontà di comprensione che non nasce a freddo, sul tavolo di lavoro dell’ "erudito" e dello "storico", ma che trae origine da azioni e progetti concretamente vissuti e passionalmente realizzati fra pericoli, rischi di morte, ambizioni, illusioni, sogni sublimi, delusioni, insuccessi e sconfitte. Documenti cioè di quell’ermeneutica aspra e reale che guida da sempre la vita delle culture e dei singoli uomini in esse. È in virtù di un simile cammino che noi oggi possiamo lusingarci di possedere conoscenze ben altrimenti ricche e fondate sulla cultura cinese, non senza, naturalmente, altri limiti che siamo lontani dall’aver individuato e superato. Sicché bisogna riconoscere che fu il "pregiudizio" cristiano, ben prima e ben più della scienza, a renderci accessibile la Cina, rendendo nel contempo possibile, in forza di questo incontro ermeneutico, un nuovo modo di considerare noi stessi.
Tuttavia, proprio la scienza giocò un ruolo di rilievo in questa avventura. Anzitutto perché i gesuiti usarono ampiamente la matematica e l’astronomia europee (funzionalmente assai superiori a quelle cinesi) per trovar credito e fare colpo su imperatori virtuosamente avidi di conoscenza e così devoti al sapere da suscitare in noi un mortificante contrasto nel confronto con la gran parte dei sovrani e dei potenti delle nostre regioni, allora come ora. È un fatto che i cinesi non persero tempo ad adottare le tavole dei seni e dei logaritmi (senza trarne peraltro la conseguenza di convertirsi in massa alla fede cristiana, come i gesuiti speravano); episodio che sembra anticipare emblematicamente l’attuale diffondersi in ogni cultura della tecnica occidentale. Ma poi vi è un altro aspetto che tocca Leibniz da vicino e concerne la gran questione della scrittura cinese.
Già Leibniz doveva restare profondamente colpito dalle analogie, che gli venivano segnalate, tra il suo nuovo sistema di calcolo numerico, fondato su una logica che oggi potremmo definire "da calcolatore elettronico", e il sistema "I King", incentrato sulla duplicità o alternanza binaria delle linee intere e spezzate (sistema che doveva così profondamente impressionare, due secoli più tardi, Karl Gustav Jung).
Ma il fatto poi che tale sistema si possa collegare col principio della scrittura ideogrammatica cinese da un lato suggeriva l’idea di aver ritrovato il più antico documento della originaria scrittura dei Patriarchi, della quale resterebbero tracce nella cabala ebraica e nei geroglifici egiziani (che taluni non dubitano di porre in diretto rapporto storico con gli ideogrammi cinesi); da un altro lato si rinfocolava la speranza di poter pervenire a quella lingua universale, a quella diretta scrittura delle cose e delle idee, che era un proposito dominante della filosofia europea di quei tempi. Come si sa, sin dal De arte combinatoria del 1766 Leibniz inseguiva il sogno di una "scrittura universale... allo stesso modo in cui fecero un tempo gli egizi e fanno oggi i cinesi", che costituisse il nuovo strumento per un sapere universale: strumento in grado di superare ogni controversia e pregiudizio, ogni particolarità di concezione e di espressione, nonché in grado di servire come non ultimo ausilio al diffondersi nel mondo delle verità cristiane (come già aveva sognato Raimondo Lullo ai tempi suoi).
Come ha osservato Julia Joyaux, "Leibniz ha paragonato il funzionamento della lingua cinese - scrittura che costituisce una vera e propria analisi logica delle unità significanti - a quello di un sistema algebrico: ’Se esistesse (nella scrittura cinese), egli scrive, un certo numero di caratteri fondamentali da cui gli altri derivassero come combinazioni’, questa scrittura o sistematizzazione linguistica ’avrebbe una qualche analogia con l’analisi dei pensieri’. Needham, a sua volta, confronta questo funzionamento combinatorio dei caratteri cinesi alla combinatoria di molecole e atomi: i caratteri possono essere considerati come molecole composte per mezzo della permutazione e della combinazione di 214 atomi. Effettivamente, è possibile ridurre tutti gli elementi fonetici a un certo numero di radicali, o meglio, a contrassegni di semi, la cui applicazione produce la molecola - semantema (la parola). In una ’molecola’ si trovano non più di sette ’atomi’, e un ’atomo’ può venir ripetuto non più di tre volte in uno stesso semantema - come per la struttura di un cristallo". Leibniz tentò così, per quanto potevano consentirglielo le conoscenze del tempo suo, di proseguire quella via di approccio al pensiero tramite la scrittura ideogrammatica che Hegel doveva poi rimproverargli come una debolezza e un cedimento "empirico" ed "esotico" al tempo stesso.
È facile oggi vedere che se Hegel aveva le sue ragioni, la ragione del futuro era destinata infine a recuperare il germe vitale dell’intuizione leibniziana. Sia perché la questione della scrittura occidentale (che Hegel giudica dogmaticamente come "la più intelligente in sé e per sé"), proprio nella sua differenza da ogni ideografismo, si è oggi imposta come luogo d’origine e terreno di comprensione della mentalità scientifica europea, e cioè come causa prima dei suoi successi e delle sue alienazioni; sia perché il problema del segno e della scrittura, connessi a ogni forma di sapere, ci sta ancora davanti, affascinante e misterioso. E se la scienza europea è stata, a far tempo da Galileo, ed è di fatto ancora oggi, una nuova scrittura, è lecito chiedersi in quale nuova scrittura possa in futuro iscriversi la comprensione stessa del significato profondo dell’impresa scientifica oggi mondiale, significato che tanto resta enigmatico e indeciso quanto e proprio decisivo per il destino degli uomini nel tempo della tecnica. Chi potrebbe oggi negare che proprio lo studio degli ideogrammi non sia per rivelarsi importante, se non essenziale, a tale scopo?
Ma questa non sarebbe altro, allora, se non la rivincita di Leibniz su Hegel, del suo modo di intendere il carattere "cattolico" del "sapere assoluto" e "mondiale", certo molto al di là della consapevolezza e della comprensione che egli poté allora averne. Il che è quanto necessariamente accade in ogni umano interpretare.
Carlo Sini
* Fonte: TecaLibri