-L’uomo e l’esperienza dell’inventare
L’invenzione si conviene sempre all’uomo. Non si è mai autorizzati a dire di Dio né dell’animale che inventano, mentre noi possiamo inventare dei e animali
Anticipiamo un brano di "Psychè-Invenzioni dell’altro" di (Jaca Book, pagg. 472, euro 46, primo di due volumi) da oggi in libreria
di Jacques Derrida (la Repubblica, 12.09.2008)
Che cos’è un’invenzione? Che cosa fa? Viene a trovare per la prima volta. Tutto l’equivoco viene a ricadere sulla parola «trovare». Trovare è inventare quando l’esperienza del trovare ha luogo per la prima volta. Evento senza precedenti la cui novità può essere o quella della cosa trovata (inventata), per esempio un dispositivo tecnico che prima non esisteva: la stampa, un vaccino, una forma musicale, un’istituzione - buona o cattiva -, un congegno di telecomunicazione o di distruzione a distanza, ecc.; oppure l’atto e non l’oggetto del «trovare» o dello «scoprire» (per esempio, in un senso ora antiquato, l’Invenzione della Croce - da parte di Elena, la madre dell’imperatore Costantino, a Gerusalemme nel 326 - o l’invenzione del corpo di san Marco, del Tintoretto).
Ma nei due casi, secondo i due punti di vista (oggetto o atto), l’invenzione non crea un’esistenza o un mondo come insieme di esistenti, non ha il senso teologico di una creazione dell’esistenza come tale, ex nihilo. Scopre per la prima volta, svela ciò che già si trovava lì, o produce ciò che, in quanto téchne, certo non si trovava lì ma non per questo viene creato, nel senso forte della parola, ma soltanto congegnato, a partire da una riserva di elementi esistenti e disponibili, in una determinata configurazione.
Questa configurazione, questa tonalità ordinata che rende possibile un’invenzione e la sua legittimazione pone tutti i problemi che sapete, la si chiami totalità culturale, Weltanschauung, epoca, episteme, paradigma, ecc. Quale che sia l’importanza di tali problemi, e la loro difficoltà, tutti reclamano una delucidazione di che cosa voglia dire e implichi inventare. (...)
In tutti i casi e attraverso tutti gli spostamenti semantici della parola «invenzione», questa rimane il venire, l’evento, di una novità che deve sorprendere: nel momento in cui sopravviene non poteva essere predisposto uno statuto per attenderla e ridurla al medesimo. Ma questo sopravvenire del nuovo deve essere dovuto a una operazione del soggetto umano. L’invenzione si conviene sempre all’uomo come soggetto. Ecco una determinazione di grandissima stabilità, una quasi invariante semantica di cui si dovrà tener rigorosamente conto.(...)
L’uomo stesso, il mondo umano, è definito dall’attitudine a inventare, nel duplice senso della narrazione fittizia o della favola e dell’innovazione tecnica o tecno-espistemica. Come collego téchne e fabula, così richiamo qui il legame tra historia ed episteme. Non si è mai autorizzati (ne va proprio dello statuto e della convezione) a dire di Dio che inventa, anche se la sua creazione - si è pensato - fonda e garantisce l’invenzione degli uomini; non si è mai autorizzati a dire dell’animale che inventa, anche se la sua produzione e manipolazione di strumenti assomiglia, talvolta si dice, all’invenzione degli uomini. Viceversa, gli uomini possono inventare dei, animali, e soprattutto animali divini.
Questa dimensione tecno-epistemo-antropocentrica iscrive il senso d’invenzione (da intendersi nell’uso dominante e regolato da convenzioni) nell’insieme delle strutture che legano in modo differenziato tecnica e umanesimo metafisico. Se bisogna oggi reinventare l’invenzione, sarà attraverso questioni e performance decostruttive che vertono su questo senso dominante dell’invenzione, sul suo statuto e sulla storia enigmatica che lega, in un sistema di convenzioni, una metafisica alla tecno-scienza e all’umanesimo. (...)
Che cosa si chiede quando ci si interroga sullo stato dell’invenzione? Si chiede anzitutto che cos’è un’invenzione, e quale concetto conviene alla sua essenza. Più precisamente, ci si interroga sull’essenza che ci si accorda a riconoscerle. Ci si chiede qual è il concetto garantito, il concetto ritenuto legittimo al suo riguardo. (...)
Tanto più che il circolo economico dell’invenzione non è altro che un movimento per riappropriarsi precisamente di ciò che lo mette in movimento, la différance dell’altro. Che non si ricapitola né nel senso, né nell’esistenza, né nella verità.
Passando oltre il possibile, essa è priva di statuto, di legge, di orizzonte di riappropriazione, di programmazione, di legittimazione istituzionale, oltrepassa l’ordine della commessa, del mercato dell’arte o della scienza, non chiede nessun brevetto né mai ne avrà. Restando, in tutto ciò, assolutamente mite, estranea alla minaccia e alla guerra. Ma tanto più perciò avvertita come un pericolo.
Come lo è l’avvenire, la sua unica preoccupazione: lasciar venire l’avventura o l’evento del tutt’altro. Di un tutt’altro che non può più confondersi con il Dio o l’Uomo dell’onto-teologia né con nessuna delle figure di questa configurazione (il soggetto, la coscienza, l’inconscio, l’io, l’uomo o la donna, ecc.). Dire che qui sta l’unico avvenire non significa invocare l’amnesia.
La venuta dell’invenzione non si può rendere estranea alla ripetizione e alla memoria. Del resto l’altro non è il nuovo. Ma la sua venuta porta al di là di questo presente passato che ha potuto costruire (si dovrebbe dire: inventare) il concetto tecno-onto-antropo-teologico dell’invenzione, la sua stessa convenzione il suo statuto, lo statuto dell’invenzione e la statua dell’inventore. Che cosa posso ancora inventare, vi chiedevate all’inizio, quando era la favola. E ovviamente non avete visto venire nulla. L’altro, non s’inventa più.
Che cosa vuole dire con ciò? Che l’altro non sarà stato altro che un’invenzione, l’invenzione dell’altro? No, che l’altro è ciò che non si inventa mai e che non avrà mai atteso la vostra invenzione. L’altro chiama a venire e questo è solo a più voci che viene.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA LUCE, LA TERRA, E LA LINEA DELLA BELLEZZA: LA MENTE ACCOGLIENTE. "Note per una epistemologia genesica"
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
I segreti dei disegni di Leonardo svelati da un grande fisico
Lo scienziato l’artista e creatore di forme. La sua era una scienza gentile
La lezione di Fritjof Capra, autore di "Il punto di svolta", alla rassegna Pordenonelegge
Lavorò con la natura invece di dominarla.
Chiamava tutte le creazioni umane "invenzioni" e si è sempre definito un inventore
di Fritjof Capra (la Repubblica, 19.09.2008)
Leonardo da Vinci, il grande maestro della pittura e genio del Rinascimento, è stato l’argomento di centinaia di libri sia dotti che popolari. Tuttavia, ci sono sorprendentemente pochi libri sulla scienza di Leonardo, anche se ha lasciato taccuini voluminosi pieni di descrizioni dettagliate dei suoi esperimenti, meravigliosi disegni, e lunghe analisi delle sue scoperte. Inoltre, la maggior parte degli autori che hanno parlato del suo lavoro scientifico, lo hanno fatto guardandolo attraverso le lenti newtoniane. Questo ha spesso impedito loro di comprendere la natura essenziale della sua scienza, che è una scienza delle forme organiche, una scienza delle qualità, completamente differente dalla scienza meccanicistica di Galileo, di Cartesio e di Newton. (...) Nella storia intellettuale occidentale, il Rinascimento segna il periodo della transizione dal medioevo all’età moderna. Negli anni 60 a 70 del Quattrocento, quando il giovane Leonardo ricevette la sua formazione come pittore, scultore ed ingegnere a Firenze, la visione del mondo dei suoi contemporanei era ancora avvolto nel pensiero medioevale.
La scienza in senso moderno, come metodo sistematico empirico per ottenere conoscenza sul mondo naturale, non esisteva. La conoscenza dei fenomeni naturali fu trasmessa da Aristotele e da altri filosofi dell’antichità ed è stata poi fusa con la dottrina cristiana dai teologi scolastici che la presentavano come la dottrina ufficiale. Esperimenti scientifici vennero condannati come sovversivi, e si considerava qualsiasi attacco alla scienza aristotelica come un attacco alla chiesa stessa. Leonardo da Vinci ruppe con questa tradizione (...).
Cento anni prima di Galileo e Bacone, Leonardo sviluppò da solo un nuovo approccio empirico, coinvolgendo l’osservazione sistematica della natura, il ragionamento e la matematica - cioè le caratteristiche principali di quello che oggi si conosce come il metodo scientifico. (...).
Leonardo si rese conto che la fantasia non è limitata agli artisti, ma è una qualità generale della mente umana. Chiamava tutte le creazioni umane - tanto i manufatti come le opere d’arte - «invenzioni», e per tutta la sua vita si è visto come inventore. Dal suo punto di vista, un inventore era qualcuno che generava un manufatto o un’opera d’arte, riunendo vari elementi in una configurazione nuova che non compariva in natura. Questa definizione si avvicina molto alla nostra nozione di un designer, che non esisteva nel Rinascimento. Il concetto di design, come una professione separata, è emerso soltanto nel ventesimo secolo. Durante l’era pre-industriale, il design era sempre una parte integrante di un processo più grande che includeva la soluzione di problemi, l’innovazione, il dare-forma, la decorazione, e la produzione.
Quindi, Leonardo non separò il processo del design - ossia la configurazione astratta di vari elementi - dal loro incorporamento materiale. Tuttavia, sembrava sempre più interessato al processo del design che alla relativa realizzazione fisica. La maggior parte delle macchine e dei dispositivi meccanici che inventò e che presentò in disegni magnifici, non fu costruita; la maggior parte dei suoi schemi d’ingegneria, sia militare o civile, non fu realizzata; e anche se era famoso come architetto, il suo nome non è collegato con alcun edificio conosciuto. Perfino come pittore, sembrava spesso più interessato alla soluzione dei problemi di composizione che al completamento effettivo dell’opera. Leonardo da Vinci, l’archétipo "uomo universale", era un artista, uno scienziato e un designer, e lui integrava quelle tre discipline in un tutto armonioso. (...)
Leonardo non ha perseguito la scienza e l’ingegneria per dominare la natura, come Francesco Bacone sosteneva un secolo più tardi. Quella di Leonardo era una scienza gentile. Egli aborriva la violenza e provava una compassione particolare per gli animali. Era vegetariano perché non voleva provocare soffrenza agli animali uccidendoli per cibarsene. Comprava al mercato gli uccelli tenuti in gabbia per liberarli, e osservava il loro volo non soltanto con l’occhio acuto dello scienziato, ma anche con una grande empatia (...). Invece di cercare di dominare la natura, l’intento di Leonardo era sempre di imparare da lei quanto più possibile. Aveva un grande timore reverenziale per la bellezza che vedeva nella complessità delle forme, degli schemi e dei processi naturali, ed era consapevole del fatto che l’ingegno della natura era di gran lunga superiore alle invenzioni umane (...).
Come Leonardo da Vinci 500 anni fa, il moderno ecodesigner studia gli schemi e i flussi del mondo naturale e cerca di incorporare i principi che ne sono alla base nelle sue progettazioni. Quando Leonardo progettava ville e palazzi, dedicava un’attenzione particolare ai movimenti delle persone e delle cose negli edifici, applicando la metafora dei processi metabolici ai suoi progetti architettonici. E considerava anche i giardini come parte degli edifici, nel tentativo costante di integrare architettura e natura. Applicava gli stessi principi alla progettazione urbana, poiché in una città vedeva una specie di organismo in cui le persone, i beni materiali, il cibo, l’acqua, e gli scarti dovevano fluire liberamente perché la città fosse in buona salute.
Questi esempi di trattare i processi naturali come modelli per il design umano, e di lavorare con la natura invece di cercare di dominarla, ci mostrano che Leonardo, come designer, lavorava nello spirito che il movimento dell’ecodesign propone oggi. Alla base di questo atteggiamento di stima e rispetto per la natura c’è un orientamento filosofico che non considera gli essseri umani separati dal resto del mondo vivente, ma fondamentalmente inseriti nell’intera comunità vivente della biosfera, e da essa dipendenti. Oggi questa filosofia è sviluppata dalla scuola di pensiero conosciuta come «ecologia profonda».
Corriere della sera 11.10.2008
E Don Chisciotte incontrò Paul Klee
I grandi artisti usano il potere della fantasia per capire le cose vere
di Carlo Sini *
L’arte, diceva Paul Klee, non ripete le cose visibili, ma rende visibili le cose, la realtà. Se aggiungiamo a questo motto famoso un celebre aneddoto, avremo perfettamente circoscritto il tema affascinante della «serietà giocosa» dell’arte.
Narra l’aneddoto che una signora, dopo aver visitato una mostra di Klee, si rivolse all’artista così apostrofandolo: «Queste cose le sa fare anche il mio bambino, che ha cinque anni!». «Certo signora - rispose Klee -. Bisognerà vedere se le farà ancora a cinquanta».
Maturità e infanzia si trovano così immediatamente accostate e contrapposte: c’è qualcosa che si rende visibile al bambino che l’adulto non vede o non vede più, a meno che non sia appunto un artista. Ovviamente questo «qualcosa» ha a che fare con la fantasia e col gioco ed è ben noto che il gioco per i bambini è una cosa molto seria e anzi indispensabile. Anche l’artista vi ha a che fare, almeno nella misura in cui la sua attività è connessa all’immaginazione e alla creazione di cose che il giudizio comune tende talora a ritenere futili, gratuite e insomma poco serie. Ma come sta la cosa in realtà?
Sigmund Freud se lo chiese. «Il contrario del gioco, osservò, non è ciò che è serio, bensì ciò che è reale ». Cosa fa infatti il bambino giocando? Egli crea un mondo di fantasia che prende molto sul serio, perché lo carica di profondi significati affettivi, senza per questo dimenticare che quel mondo non è quello della comune realtà. Ancora l’adolescente fa qualcosa del genere; mostra infatti una forte tendenza a fantasticare (ed è appunto nell’adolescenza che per lo più si manifestano le vocazioni artistiche). L’attività ludica e quella fantastica serbano così un tratto comune, che il linguaggio esprime efficacemente quando le definisce «sogni a occhi aperti». In altri termini, modi di gratificazione simbolica dei desideri più profondi. Il bambino, giocando, sogna di essere adulto, di essere «grande». A sua volta l’adolescente esaudisce fantasticando i suoi desideri, per lo più erotici.
Su questa stessa linea si pone infine l’artista, poiché la sua indole non riesce ad adattarsi alla dura prosaicità della vita corrente. Il suo bisogno di soddisfacimento pulsionale trova nell’arte la possibilità meravigliosa di trasfigurare le sue fantasie in un una nuova specie di «cose vere» e «reali» che il mondo accoglie per lo più con favore. Questo favore mostra chiaramente che anche gli altri uomini provano la stessa insoddisfazione dell’artista nei confronti della vita e delle rinunce che essa impone. In ogni essere umano, si dice, c’è potenzialmente un poeta. Tra l’artista e il suo pubblico si stabilisce pertanto una sorta di patto segreto, una tacita connivenza: dietro lo schermo del «lavoro» artistico e delle «regole severe» del-l’arte vien dato spazio al bisogno di continuare a giocare con le proprie fantasie.
L’idea che l’arte sia «disinteressata » sembrerebbe allora quanto mai ingannevole; Aristotele con la sua teoria della catarsi l’aveva compreso: c’è nell’arte un bisogno nascosto di trasgressione e di trasfigurazione delle passioni più profonde, e cioè un bisogno di purificazione e insieme di soddisfacimento simbolico dei nostri sentimenti e desideri, che la vita e la società respingono o censurano. Solo i bambini, infatti, non si vergognano di mostrarsi mentre giocano, grazie appunto alla loro «innocenza». Gli adolescenti e gli adulti, invece, nascondono le loro private fantasie, spesso inconfessabili, ma l’arte e il lavoro serissimo dell’artista giungono a risarcirli per via indiretta e traversa. In parole povere: essi possono continuare a giocare, sottraendosi, senza vergogna o sensi di colpa, agli ostacoli che la vita reale oppone ai loro se in un altro senso è forse possibile intendere la serietà del gioco dell’arte: un senso che percorre una via contraria e insieme parallela alla precedente.
Qui non si tratta di frequentare la fantasia per sfuggire alla durezza del reale, ma di utilizzarla invece per ritornarvi, in parte risanati dalla comune follia dei mortali. Il gioco dell’arte appare allora come una metafora della sapienza e un’introduzione alla saggezza. Il suo mondo immaginario diviene uno specchio nel quale ravvisarsi, vedersi vivere e riconoscersi in ciò che non si sapeva, non si credeva o non si voleva ammettere di essere.
Esemplare ed emblematica appare allora la figura del Chisciotte, il protagonista del romanzo di Cervantes: forse la più alta espressione della nostra modernità critica e disincantata. Tutto il cammino del libro, dalla prima alla seconda parte, è infatti un percorso attraverso il quale il cavaliere e il suo scudiero in un certo senso si scambiano insensibilmente le parti e a tratti quasi si confondono: l’uno nel mostrare quanta savia consapevolezza sta al fondo delle nostre idealizzate fantasie; l’altro quanta folle e ignorante presunzione abita le opinioni e i costumi del cosiddetto vivere civile. E così l’arte, anche per questa via, rende visibile l’oscura trama e la nascosta realtà delle nostre vite.
* Carlo Sini è docente di filosofia teoretica alla Statale di Milano