CULTURA E RELIGIONE
A 60 anni di distanza Bozzolo ricorda con un convegno il 18 aprile elettorale di don Primo: dall’oratoria in piazza («Ma da sacerdote, non da galoppino») a favore della Dc al monito ai deputati appena eletti: «Siate grandi!»...
1948, i comizi di don Mazzolari
di GIUSEPPE GIUSSANI (Avvenire, 18.10.2008)
Nella lettera al suo vescovo, monsignor Cazzani, il 29 gennaio 1949, don Mazzolari così scriveva: «Subito dopo la Liberazione ho fatto la campagna per sedare e svelenire gi animi da un antifascismo improvvisato quanto disumano, e fui uno dei primi ad affrontare sulle piazze ed in pubblici contraddittori il comunismo, guadagnandomi dai miei la qualifica di filo-comunista. Ho condotto tre campagne elettorali, non come galoppino di partito, ma come sacerdote, fino a buttarmi via salute e cuore, e sono rimasto con i debiti delle auto non pagate dagli stessi comitati che mi richiedevano con urgenza disperata ».
Bisogna però affermare subito che la presenza di don Mazzolari sulle piazze, dal 1946 al ’58, era sempre al di sopra di un partito, la Democrazia cristiana, perché la sua presenza era da lui considerata un momento del suo ministero di predicazione e un complemento dei suoi articoli sui giornali e dei libri. Dal 1945 al ’48 don Mazzolari scrisse con regolare frequenza sul settimanale della Dc milanese, Democrazia, venendo quasi a colmare lo spazio fra l’impegno della Resistenza e la pubblicazione della rivista Adesso.
Credo non sia facile pensare cosa sia stata la «politica» per don Mazzolari, egli però sapeva conciliare il suo ministero pastorale con l’impegno politico perché - nel ministero - predicava la giustizia, parteggiava per i poveri, combatteva contro i potenti e si spendeva anche nell’area delle realtà terrene, sociali e culturali. Tuttavia non prese mai un posto nelle file di un movimento, non si iscrisse al Partito popolare e neppure alla Dc, aveva partecipato alla Lega democratica nazionale, nel 1921, perché lasciava piena libertà agli aderenti e per l’autonomia dall’autorità ecclesiastica.
Nel pensiero di don Mazzolari permane una sublime utopia: il Vangelo come ragione d’essere della politica; ora, il Vangelo è certamente un annuncio di salvezza, ma non si impegna in scelte economiche e in equilibri politici o amministrativi; la sofferta partecipazione politica di don Mazzolari rivela perciò la sincera derivazione mistica della sua predicazione a tutti, anche ai parlamentari, ma rimane nella prospettiva disincarnata del progetto ideale, e qui egli rivela insieme il suo genio e il suo limite; l’esecuzione di un progetto evangelico può essere infatti un rompicapo e perfino un pericolo, se non si confronta con le circostanze concrete.
È forse opportuno ricordare, di quel periodo, il rapporto tra don Mazzolari e Guido Miglioli (1879-1954) sindacalista cattolico cremonese che aveva organizzato, negli anni ’20, un vasto movimento bracciantile nella bassa padana (leghe bianche) sostenendo l’unità con le leghe socialiste contro il fascismo. Costretto all’esilio nel 1926, Miglioli si recò in Russia e - tornato in Italia nel ’45 - scrisse Con Roma e con Mosca, in cui affermava, dopo la sua esperienza esistenziale, che era possibile la convivenza fra le due città cristiana e bolscevica. Nel 1946-47 vi fu uno scambio di articoli tra Mazzolari e Miglioli. Il 6 ottobre 1946 don Primo scrisse: «L’agitazione comunista non è l’azione nostra, però se la nostra azione e la nostra democrazia non saranno prese incandescenti dalla passione cristiana, l’azione e la democrazia avranno un’altra volta la peggio. Di fronte al comunismo un cristiano che non sia ’di più’ è un perduto; l’amore più grande non fa soltanto l’idea, ma la rivoluzione più grande». La risposta di Miglioli fu far respirare l’anima cristiana nella rivoluzione comunista, e don Primo gli obiettò: «Non capisco perché un cristiano abbia bisogno di andare a prestito di rivoluzioni; voi parlate di rivoluzioni ’collettive’, io propongo, col Vangelo in mano, la rivoluzione ’personale’».
Dei numerosissimi discorsi tenuti da don Mazzolari sulle piazze della Lombardia e dell’Emilia nel 1948, restò memorabile un contraddittorio con l’onorevole Montanari del Pci in piazza Sordello a Mantova, e un secondo a Rivarolo del Re con l’ex prete Vittorio Marazzi. Farò riferimento a un solo discorso: quello tenuto nella piazza del Duomo a Cremona, l’8 aprile, davanti a seimila giovani lavoratori cristiani. Don Primo disse: «Siete qui non per una parata elettorale, ma per una professione di fede e dovete assumere posizione nella svolta attuale della storia. L’impegno cristiano di oggi è nei tre avverbi: militantemente, urgentemente, decisamente. Oggi è una giornata facile; domani, di fronte all’odio, sentireste il costo della professione cristiana, ma solo ciò che costa è degno di essere amato... Mi auguro che la vittoria cristiana assicuri quello che in 20 secoli la Chiesa ha conservato: la dignità della persona umana». Una valanga di applausi mostrò l’apprezzamento entusiasta dei giovani.
Ma il suo vescovo come vedeva questi comizi elettorali? Monsignor Paolo Antonini, che è rimasto forse l’unico discepolo e amico ancora vivente di don Primo, ricorda queste sue parole: «Mi trattano come un cane: quando c’è bisogno, lo si chiama fuori dal canile per abbaiare, quando non c’è più bisogno, lo si rimanda dentro perché faccia silenzio». Forse, nell’esagerazione, c’è un briciolo di verità.
Mi sembra di dover concludere con alcuni passi di una lettera aperta rivolta ai deputati e ai senatori cristiani appena eletti, pubblicata sul quotidiano cattolico di Bergamo il 27 maggio, col titolo: «Siate grandi!»: «Sono sicuro che non vi sentite degli arrivati, però la tentazione ci attende su ogni strada, anche su quelle imposteci dall’obbedienza, la quale, se non ci dà mano nel bene, non ci garantisce dal nostro male. Gli uomini che veramente valgono non rifiutano la responsabilità. L’aspetto, finora poco considerato, della spiritualità laica cristiana, va messo in luce se vogliamo liberarla da ogni residuo farisaico che, detestabile in religione, non lo è meno in politica. Siate dunque consapevoli dell’istanza presentata e dell’impegno ricevuto. Le Camere hanno un’aria mefitica e ci vogliono polmoni sani, se no, vi ammalate di parlamentarismo e delle sue adiacenze ministeriali... Dovete dar vita a un nuovo costume politico, aprire alla nuova tradizione. Siate grandi come la povertà che rappresentate!». Non so come queste parole siano state messe in pratica.
IL CONVEGNO
Nel 2009 il 50° con un premio al «Giusto»
Oggi, alla Casa della Gioventù di Bozzolo (Mn), la Fondazione Mazzolari promuove un convegno dedicato a «Don Primo Mazzolari e le elezioni del 1948». Grazie alle relazioni dello storico Giorgio Vecchio, del giornalista Gianni Borsa e del presidente della Fondazione don Giuseppe Giussani (il cui testo è pubblicato per ampi stralci in questa pagina), si cercherà di indagare un tema centrale nella vicenda pastorale e umana del parroco scrittore.
L’occasione servirà a presentare le manifestazioni per il 50° della morte del fondatore di «Adesso», avvenuta il 12 aprile 1959. Tra le iniziative in programma: una rassegna internazionale d’arte «Città di Bozzolo» (idea realizzata dallo stesso Mazzolari negli anni ’50 con l’Ermitage di San Pietroburgo), un convegno sul rapporto tra don Mazzolari e la comunicazione, il premio «Giusto come don Primo» e un convegno a Roma (17 e 18 aprile 2009) sull’ecclesiologia ai tempi di don Primo. Inoltre sono previsti interventi più strutturali, come la raccolta in formato digitale di tutti i discorsi e il restauro della tomba del sacerdote.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ENTUSIASMO DI UN POPOLO PER LA DEMOCRAZIA.
LE ELEZIONI AMMINISTRATIVE ITALIANE DAL 1946 AL 1956.
LA SVOLTA DI SALERNO... E LA LOTTA PER LA LIBERTA’ E LA DEMOCRAZIA, OGGI
Letteratura.
La voce profetica del "prete giusto" di Nuto Revelli
Nuova edizione per l’opera dove lo scrittore racconta la parabola di don Raimondo Viale, antifascista che si prodigò per salvare partigiani ed ebrei
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, mercoledì 16 giugno 2021)
È in uscita una nuova edizione di Il prete giusto di Nuto Revelli (Einaudi, pagine 112, euro 10,00) per cui il cardinale Gianfranco Ravasi ha scritto una nuova e ampia introduzione, della quale anticipiamo alcuni stralci in queste colonne. Il prete giusto è la storia di un uomo libero, don Raimondo Viale (19071984), costretto a una sfida impari e solitaria con gli eventi più aspri del Novecento. Abbandonato e malato, ha affidato a Nuto Revelli la memoria della sua vita. Sullo sfondo della campagna povera del Cuneese si snodano gli anni duri dell’infanzia, della Prima guerra mondiale, l’impegno nella parrocchia di Borgo San Dalmazzo fino allo scontro con i fascisti, le prediche coraggiose contro la guerra, l’imbarazzo della Chiesa, il confino. Poi, in un crescendo, i grandi drammi collettivi: l’8 settembre, le stragi naziste e fasciste, la persecuzione degli ebrei. E la scelta istintiva di schierarsi dalla parte giusta, con l’impegno prioritario, lui prete cattolico, di soccorrere le centinaia di ebrei in fuga dalla Francia.
Era il 1998 e da qualche mese l’editrice Einaudi aveva pubblicato Il prete giusto. L’autore, Nuto Revelli, me l’aveva inviato alla Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana di Milano che allora dirigevo come prefetto. A una dedica molto essenziale aveva aggiunto un’indicazione di pagina ove egli aveva segnato a margine un paragrafo. Era la voce del protagonista, don Raimondo Viale, che si confidava con lui: «Ci sono preti che si comportano da altoparlanti di Gesù Cristo, non solo con le parole ma anche coi fatti. Altri invece hanno scelto la vita quieta, il tran tran: nessun nemico. Io dico: se un prete non ha nemici, non è un prete. Gesù crea una rottura tale che lo chiamano “segno di contraddizione” ».
L’immagine dell’altoparlante è decisamente moderna, ma in realtà potrebbe essere la trascrizione attualizzata di un termine biblico, «profeta». Esso, infatti, nella sua matrice greca significa «colui che parla ( phemí) in nome ( pro-) di Dio», divenendone il portavoce, non solo a parole, ma pronto anche a rischiare la vita per il messaggio proclamato: non per nulla la preposizione greca pro- può essere ugualmente tradotta con «davanti a» un uditorio anche ostile o refrattario, come era accaduto a tutti i profeti biblici e soprattutto a quella voce suprema, Gesù Cristo. E, in ultima analisi, il greco pro-, che significa anche «prima di», poteva essere anche uno sguardo sul futuro, e sarà questa l’accezione popolare dominante di «profeta» e l’interpretazione comune della sua figura. [...]
Le voci di don Raimondo e di Revelli, nelle pagine che seguiranno, si comporranno quasi a dittico o, se si vuole, a duetto, un genere musicale che, pur adottando voci distanti per tonalità, genera armonia e simbiosi artistica. Don Viale è naturalmente il protagonista col suo dettato scarno, intarsiato di fatti ed emozioni, simile quasi a una sceneggiatura filmica, con colpi di scena, memorie ardenti, persino suspense e tensione. Eppure tutto il racconto è avvolto in una pacatezza e in una purezza di spirito da affascinare il lettore, nonostante che, a più riprese, don Raimondo riveli la sua amarezza e debolezza personale, anche con sorprendenti accenti poetici. «Adesso ho le ali basse - confessa - ... Adesso sono un uomo morto, eh sì, come le foglie d’autunno che sono ancora attaccate all’albero ma con quel filo fragile, sottile... Adesso sono stanco, malato e ho anche un po’ di paura di mettermi in altri guai prima di morire, adesso che sono già al tramonto». Tuttavia il racconto sembra percorso da uno squillo di tromba, un po’ come immaginava che fosse la sua parola provocatoria il profeta biblico Ezechiele. E questo appare già fin dagli inizi, che si aprono in una famiglia povera del cuneese: «Avevamo poca terra, quasi tutta “rupestre”, a valle di Limone, in una zona di vipere... La nostra era una vita modesta, stentata. Avevamo una mucca, una capra, e non sempre un vitellino da far crescere».
Ecco, poi, la svolta radicale della vita di Raimondo, la vocazione al sacerdozio: il seminario, ove già primeggiava nel «club dei ribelli», pur amando quell’ambiente e i suoi educatori; l’ordinazione sacerdotale nel 1930; l’ingresso nella parrocchia di Borgo San Dalmazzo che sarà il fondale costante del suo ministero e della sua passione umana e pastorale. È curioso notare che di gran lunga più numerosi sono i preti ai quali egli fu legato da affetto e stima (sentimenti per altro ricambiati), così come lo furono soprattutto i vescovi e persino i cardinali, come accadde per l’arcivescovo Maurilio Fossati di Torino e quello di Genova, Pietro Boetto, intrepidi nel sostenerlo soprattutto quando era in causa la salvezza degli ebrei dalla brutalità nazifascista.
Persino a Roma, in quel Vaticano che ai suoi occhi non avrebbe dovuto vincolarsi al regime mussoliniano del Concordato, aveva trovato solidarietà e sostegno. Proprio per questo, credo che egli non si sarebbe stupito che a scrivere per lui queste righe sia ora un cardinale e per di più appartenente alla Curia romana. In questa luce, particolarmente dura e sofferta era stata per lui la «sospensione a divinis » inflittagli nell’ultima fase della sua vita da una gerarchia ecclesiastica che aveva giudicato in modo freddo e giuridico una persona la cui incandescenza umana e spirituale e anche la sua indignazione antiistituzionale (religiosa e politica) non poteva essere compressa nello stampo rigido della normativa canonistica. Eppure egli, anche dialogando con Revelli, continuava a ribadire: «nonostante tutto credo nella Chiesa, in Gesù Cristo».
In quel dialogo la sua testimonianza prosegue con un’appassionata autodifesa: «Io non ero un funzionario, ero un padre. Anche adesso, mentre ne parlo, piango. Anche di notte, quando ci penso, piango. Voi non potete immaginare la situazione di un prete che è affezionato alla sua gente, e che all’improvviso viene allontanato come un nemico, come un estraneo, come un indegno». Effettivamente egli era vissuto sempre spalla a spalla coi suoi fedeli, a partire dai tempi spietati del fascismo, preso a bastonate da una squadraccia fino a lasciarlo per terra esanime. Era il 31 marzo 1939. Un anno dopo, sarebbe stata una sua predica contro la guerra, pomposamente dichiarata dal regime, a strapparlo dalla sua comunità e a scaraventarlo in esilio ad Agnone nel Molise, dopo un arresto e un processo farsa. Anche là, però, nonostante il clero locale non sempre esemplare, troverà il calore della gente semplice che intuiva in questo prete, isolato nel confino, un uomo giusto e sincero.
Rientrato nella sua Dalmazzo, vivrà l’esperienza tragica del secondo conflitto mondiale e soprattutto delle sanguinarie vendette dei tedeschi in ritirata dopo il crollo del fascismo e l’armistizio con gli angloamericani dell’8 settembre 1943, firmato dal suo conterraneo piemontese Pietro Badoglio. I sussulti della belva moribonda - terribilmente famosa è la strage perpetrata nella vicina Boves - sono descritti da don Raimondo in presa diretta. Emozionante è la vicenda tragica dei quattordici giovani partigiani fucilati e da lui assistiti sino alla fine, con una commovente confessione sacramentale alle soglie della fucilazione. Egli non esita, sfidando la crudeltà della banda repubblichina «Muti», a salvare con un astuto colpo di scena un giovane votato all’esecuzione.
Ma soprattutto imponente è la trama che egli tesse per salvare gli ebrei, tanto da meritare nel 1980 il titolo di “Giusto”, suggellato da un emozionante viaggio in Israele del quale egli lascia un vero e proprio diario che Revelli definisce come un suo testamento e un «meraviglioso inno alla vita». Don Viale, infatti, considerò quel pellegrinaggio laico e religioso al tempo stesso come uno dei momenti «più intensi e sereni della sua esistenza. Là, infatti, aveva intravisto il Paradiso». Questa meta, gloriosa per il credente, sarà raggiunta quattro anni dopo, nel 1984, in una “Casa di cura e di riposo”, non lontano dalla sua amata Borgo San Dalmazzo, «tra il verde delle colline, in un finto castello antico in un’isola di pace». Là per cinque volte lo aveva visitato Nuto Revelli, interrogandolo e ascoltandolo, scoprendo la ricchezza interiore e persino la dolcezza oltre la scorza forte di un prete che, pur coinvolto fino all’ultimo anche nei grovigli della vita sociale e politica, ribadiva: «Non era tanto per la politica che mi lasciavo attrarre e coinvolgere, quanto per la questione morale, per il rispetto che si deve all’uomo, alla libertà». E questa sua totale dedizione allo spirito evangelico era stata attestata, ad esempio, anche quando era corso a sostenere e confortare tre spie fasciste, responsabili di incendi e fucilazioni, condannate a morte dai partigiani. Impressionante è il racconto del grido incessante di una donna che faceva parte dei tre votati all’esecuzione e dell’accompagnamento amoroso, sincero e non pietistico di don Raimondo. Egli, infatti, ripeterà, guardando in faccia già in anticipo la tappa ultima della sua vita: «Io morirò così, spero di morire così. Vangelo alla mano».
Rileggendo la sua testimonianza raccolta da Revelli, mi è spontaneamente venuta in mente una battuta tagliente dello scrittore francese Charles Péguy (1873-1914), socialista eterodosso divenuto cattolico libero e radicale: «Navighiamo tra due schiere di preti: i preti laici che negano l’eterno nel temporale e i preti chierici che negano il temporale nell’eterno».
Con questo paradosso che colpiva il clericalismo e l’anticlericalismo, egli coglieva il cuore del cristianesimo nel quale s’intrecciano in modo inscindibile il divino e l’umano, l’eterno e il temporale, l’assoluto e il quotidiano. È ciò che esprime in maniera mirabile l’inno che funge da prologo al Vangelo di Giovanni (1,14): il Logos, il “Verbo” divino, si fece sarx, “carne” umana, figura storica in Gesù di Nazaret. Per questo non è lecito al cristiano «negare il temporale nell’eterno», servire Dio ignorando l’uomo, ma neanche perdersi nell’immanenza delle realtà terrene dissolvendo la trascendenza, ossia la tensione verso il mistero divino. Dobbiamo, però, aggiungere che il sacerdote autentico non deve temere di essere sempre segno di contrasto, come suggeriva e testimoniava un ideale fratello di don Viale, anche nelle prove con la Chiesa ufficiale, il sacerdote fiorentino don Lorenzo Milani: «Dove è scritto che il prete debba farsi voler bene? A Gesù o non è riuscito o non è importato». È proprio ciò che aveva dichiarato don Raimondo.
(© 1998, 2004 e 2021 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino)
Corpus Domini. Il Papa: l’Eucaristia è il "farmaco" e la forza per amare chi sbaglia
All’Angelus in Piazza San Pietro, Francesco ricorda la Solennità del Corpo e Sangue di Cristo e sottolinea che l’Eucaristia guarisce perché la misericordia di Gesù non ha paura delle nostre miserie
di Redazione Internet (Avvenire, lunedì 7 giugno 2021) *
L’Eucaristia è il "farmaco" efficace contro le nostre chiusure. Fragilità e forza, amore e tradimento, peccato e misericordia. Papa Francesco, nella catechesi all’Angelus in Piazza San Pietro - come riporta Vatican News -, si sofferma su questi aspetti parlando della Solennità del Corpo e Sangue di Cristo, il Corpus Domini, e del racconto dell’Ultima Cena di Gesù con l’istituzione dell’Eucaristia, “il sacramento più grande”, il Pane di vita.
Richiamando le parole di don Primo Mazzolari, Papa Francesco, già al mattino nella sua omelia per la solennità del Corpus Domini, aveva prefigurato l’immagine di una Chiesa che è “una sala grande”, dalle "porte aperte", “dove tutti possono entrare”. Non "un circolo piccolo e chiuso", ma "una Comunità con le braccia spalancate, accogliente verso tutti”.
Una comunità dove si guarda all’Eucarestia con "stupore e adorazione": se manca quello, avverte il Papa, "non c’è strada che ci porti al Signore. Neppure ci sarà il Sinodo". L’Eucaristia è pane dei peccatori non premio dei santi. “La Chiesa dev’essere una sala grande”, ha affermato a più riprese Francesco nella Messa per il Corpus Domini celebrata anche quest’anno all’Altare della Cattedra di San Pietro e non - a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia - nel tradizionale scenario del sagrato di San Giovanni in Laterano, con la processione fino a Santa Maria Maggiore, oppure in luoghi di periferia come avvenuto nel 2018, con la celebrazione a Ostia, e nel 2019, nel quartiere romano di Casal Bertone. Contingentato anche il numero dei fedeli presenti in Basilica. A loro, e alle centinaia di persone collegate alla celebrazione via streaming, il Pontefice pone una domanda: “Quando si avvicina qualcuno che è ferito, che ha sbagliato, che ha un percorso di vita diverso, la Chiesa è una sala grande per accoglierlo e condurlo alla gioia dell’incontro con Cristo?”. “L’Eucaristia vuole nutrire chi è stanco e affamato lungo il cammino, non dimentichiamolo!”, afferma Francesco. “La Chiesa dei perfetti e dei puri è una stanza in cui non c’è posto per nessuno; la Chiesa dalle porte aperte, che festeggia attorno a Cristo, è invece una sala grande dove tutti possono entrare”.
L’umanità assetata
Quella della sala grande è una delle tre immagini proposte dal Vangelo della Solennità, che il Pontefice usa come spunti di riflessione per la sua omelia. L’altra immagine è l’uomo che porta una brocca d’acqua. “Seguitelo”, dice Gesù ai due discepoli inviati in città, perché dove li avrebbe condotti quell’uomo, là si sarebbe celebrata la Cena della Pasqua. Un uomo “anonimo” diventa dunque “guida per i discepoli”, mentre la brocca d’acqua è “segno di riconoscimento” che, dice il Papa, fa pensare all’“umanità assetata”, sempre alla ricerca di una sorgente d’acqua che la disseti e la rigeneri”.
Non possiamo farcela da soli
Bisogna riconoscerla, però, questa “sete di Dio” per celebrare l’Eucaristia. Bisogna essere, cioè, “consapevoli che non possiamo farcela da soli ma abbiamo bisogno di un Cibo e di una Bevanda di vita eterna che ci sostengono nel cammino”. “Il dramma di oggi - osserva il Pontefice - è che spesso la sete si è estinta. Si sono spente le domande su Dio, si è affievolito il desiderio di Lui, si fanno sempre più rari i cercatori di Dio. Dio non attira più perché non avvertiamo più la nostra sete profonda”. La sete di Dio, rimarca il Papa, “ci porta all’altare”; se manca “le nostre celebrazioni diventano aride”.
Una Chiesa con la brocca in mano
“Diventiamo una Chiesa con la brocca in mano, che risveglia la sete e porta l’acqua”, è dunque l’esortazione conclusiva del Papa per questa festa del Corpus Domini. “Spalanchiamo il cuore nell’amore, per essere noi la sala spaziosa e ospitale dove tutti possano entrare a incontrare il Signore. Spezziamo la nostra vita nella compassione e nella solidarietà, perché il mondo veda attraverso di noi la grandezza dell’amore di Dio”.
IL TESTO DELL’OMELIA DEL PAPA PER IL CORPUS DOMINI
L’Eucaristia è pane dei peccatori non premio dei santi
L’Eucaristia guarisce perché unisce a Gesù: ci fa assimilare il suo modo di vivere, la sua capacità di spezzarsi e donarsi ai fratelli, di rispondere al male con il bene. Ci dona il coraggio di uscire da noi stessi e di chinarci con amore verso le fragilità altrui. Come fa Dio con noi. Questa è la logica dell’Eucaristia: riceviamo Gesù che ci ama e sana le nostre fragilità per amare gli altri e aiutarli nelle loro fragilità.
Una logica nuova che Francesco ritrova in quel “gesto umile di dono, di condivisione” che porta Gesù a non dare pane in abbondanza per sfamare le folle ma ad offrire se stesso. “In questo modo Gesù - afferma il Papa - ci mostra che il traguardo della vita sta nel donarsi, che la cosa più grande è servire. E noi ritroviamo oggi la grandezza di Dio in un pezzetto di Pane, in una fragilità che trabocca amore e condivisione”.
Nell’Eucaristia la fragilità è forza: forza dell’amore che si fa piccolo per poter essere accolto e non temuto; forza dell’amore che si spezza e si divide per nutrire e dare vita; forza dell’amore che si frammenta per riunirci tutti noi in unità.
Il Pane dei peccatori
Un amore che si rafforza se è donato a chi ha sbagliato. Nel tradimento del discepolo, “il dolore più grande per chi ama”, in quell’ “abisso più profondo” Gesù non punisce ma dona misericordia.
Quando riceviamo l’Eucaristia, Gesù fa lo stesso con noi: ci conosce, sa che siamo peccatori e sbagliamo tanto, ma non rinuncia a unire la sua vita alla nostra. Sa che ne abbiamo bisogno, perché l’Eucaristia non è il premio dei santi, ma il Pane dei peccatori. Per questo ci esorta: “Non avete paura! Prendete e mangiate”.
In quel Pane c’è un “senso nuovo alle nostre fragilità”, Gesù ci dice che siamo preziosi, “ci ripete - afferma il Papa - che la sua misericordia non ha paura delle nostre miserie”.
E soprattutto ci guarisce con amore da quelle fragilità che da soli non possiamo risanare. Quali fragilità? Pensiamo. Quella di provare risentimento verso chi ci ha fatto del male - da questo da soli non possiamo guarire -; quella di prendere le distanze dagli altri e isolarci in noi stessi - da quella da soli non possiamo guarire -; quella di piangerci addosso e lamentarci senza trovare pace; anche da questa, noi soli non possiamo guarire. È Lui che di guarisce con la sua presenza, con il suo pane, con l’Eucaristia. L’Eucaristia è farmaco efficace contro queste chiusure.
Infine Francesco ricorda che nei quattro versetti della Liturgia delle ore c’è "il riassunto di tutta la vita di Gesù". "E ci dicono così che Gesù nascendo, si è fatto compagno di viaggio nella vita. Poi, nella cena si è dato come cibo. Poi, nella croce, nella sua morte, si è fatto prezzo: ha pagato per noi. E adesso, regnando nei Cieli è il nostro premio, che noi andiamo a cercare quello che ci aspetta".
Al termine dell’Angelus, il Pontefice ha ricordato l’iniziativa dell’Azione Cattolica che si terrà martedì: "Dopodomani, martedì 8 giugno, alle ore 13.00, l’Azione Cattolica Internazionale invita a dedicare un minuto per la pace, ciascuno secondo la propria tradizione religiosa. Preghiamo in particolare per la Terra Santa e per il Myanmar".
Poi ha rivolto il suo saluto ai "ragazzi del Progetto Contatto di Torino e il Gruppo Devoti della Madonna dei Miracoli di Corbetta, le famiglie di Cerignola e l’Associazione Nazionale Ambulanti, con numerosi lavoratori delle fiere e artisti di strada", ringraziandoli per i doni ricevuti. Infine un pensiero e un incoraggiamento ai salentini del sud della Puglia che in Piazza San Pietro hanno ballato "la pizzica".
IL TESTO DELL’ANGELUS DEL PAPA
Il video dell’Angelus
* Fonte: Avvenire, lunedì 7 giugno 2021 (ripresa parziale).
Cosa significa Gesù per me
di Mohandas Karamchand Gandhi *
Benché io abbia dedicato gran parte della mia vita allo studio della religione e alla discussione con i capi religiosi di tutte le fedi, riconosco molto bene di non poter non sembrare presuntuoso nel momento in cui mi accingo a scrivere di Gesù Cristo e a cercare di spiegare ciò che Lui significa per me. (...)
... Egli è stato sicuramente il più alto esempio di chi ha desiderato di dare tutto senza chiedere in cambio niente e senza interessarsi a quale sarebbe stato il credo che avrebbe professato il ricevente. Sono sicuro che se Lui in questo momento vivesse tra gli uomini, Egli benedirebbe le vite di molti di coloro che forse non hanno mai sentito il Suo nome, se soltanto le loro vite incarnassero le virtù delle quali Lui è stato l’esempio vivente sulla terra, la virtù di amare il prossimo come se stessi e del fare del bene e della carità tra i propri simili.
Allora, cosa può significare per me Gesù? Per me Egli è stato uno dei più grandi maestri che l’umanità abbia mai conosciuto. Secondo i Suoi credenti Egli è stato l’Unigenito Figlio di Dio. Ma il fatto che io accetti o meno questa convinzione può far sì che Gesù abbia maggiore o minore influenza nella mia vita? È forse che tutta la grandezza dei Suoi insegnamenti e della Sua dottrina devono essermi vietati? Non posso crederci.
Per me ciò implica una nascita spirituale. In altre parole, la mia interpretazione è che nella vita di Gesù vi è la chiave della Sua vicinanza a Dio e che Egli espresse, come nessun altro ha saputo fare, lo spirito e la volontà di Dio. È in questo senso che io Lo vedo e Lo riconosco come Figlio di Dio.
(...)
E poiché la vita di Gesù ha quel senso e quella trascendenza ai quali io ho alluso, credo che Egli appartenga non soltanto al cristianesimo ma al mondo intero, a tutte le razze e a tutti i popoli, poco importa sotto quale bandiera, nome o dottrina essi possano lavorare o professare una fede o adorare un dio ereditato dai propri avi.[1]
*
[1] Mohandas Karamchand Gandhi, Cosa significa Gesù per me, «Modern Review», ottobre 1941. Pubblicato in Mohandas Karamchand Gandhi, La forza della verità. Scritti etici e politici, Edizioni Sonda, Torino 1991, vol. I, pp. 458-460 .
CHIESA
Avviata la beatificazione
Don Mazzolari: dal Sant’Uffizio agli altari?
di ANSELMO PALINI*
Qualcosa sta veramente cambiando nella Chiesa. Prima la beatificazione di Oscar Romero, a oltre 35 anni dal suo martirio e malgrado l’iter sembrasse bloccato poiché l’arcivescovo di San Salvador era ritenuto troppo politicizzato. Ora il nulla osta della Congregazione per le Cause di Santi per l’avvio della causa di beatificazione di don Primo Mazzolari. Il nulla osta è stato firmato dal cardinale prefetto Angelo Amato. La richiesta era stata avanzata dal vescovo di Cremona fin dal febbraio 2013, con l’approvazione unanime dell’episcopato lombardo.
Il postulatore della causa di beatificazione è don Bruno Bignami, presidente della “Fondazione Mazzolari” di Bozzolo (Mn) e autore di numerosi studi e pubblicazioni su don Primo: senza dubbio uno dei più autorevoli conoscitori del pensiero mazzolariano. Inizierà dunque ora la fase diocesana del processo di beatificazione, al termine della quale tutto verrà inviato a Roma per i successivi passaggi.
Don Mazzolari, per tutta la sua vita osteggiato dal Sant’Uffizio che considerò “erronei” molti suoi libri, e aspramente criticato dall’episcopato lombardo, ora viene formalmente “messo sotto esame” per una possibile beatificazione. Come dire che si riconosce la bontà dell’azione e del pensiero di don Primo, il suo essere profeta, non compreso allora dalla Chiesa.
Il primo provvedimento del Sant’Uffizio di censura degli scritti di don Mazzolari è del 1934, l’ultimo del 1960 quando Mazzolari era ormai morto. Una decina sono stati i provvedimenti del Sant’Uffizio presi nei confronti di Mazzolari: gli venivano contestati non aspetti della dottrina, bensì l’opportunità delle sue prese di posizione su tematiche di attualità o su aspetti di tipo pastorale.
Il parroco di Bozzolo ha obbedito alle ingiunzioni del Sant’Uffizio di non scrivere, poi di non dare interviste, poi di non predicare fuori diocesi, poi di restare nella propria parrocchia, ma ha obbedito in piedi, facendo presente che era contestato non su aspetti del dogma, ma su materie opinabili, dove la coscienza morale individuale doveva essere il criterio di giudizio. È stato obbediente ma libero. Pur se con grande sofferenza interiore.
La sua obbedienza comunque è stata soprattutto al Vangelo e a Cristo. Soltanto con l’avvento al soglio pontificio di Giovanni XXIII si ebbe il pieno riconoscimento della completa ortodossia e dell’appassionata fedeltà alla Chiesa di Mazzolari. Giovanni XXIII lo ricevette in Vaticano il 5 febbraio 1959 indicandolo come la «tromba dello Spirito santo in Val Padana », bloccando così un duro provvedimento dell’episcopato lombardo che stava per colpire don Primo.
L’attività di don Primo non si è potuta svolgere in modo lineare. Le censure e le condanne subite per i suoi scritti fanno supporre che don Mazzolari si sia in un certo senso trattenuto dall’esprimersi compiutamente, in quanto ben cosciente del fatto che tutto il suo lavoro sarebbe finito sotto la lente di ingrandimento del Sant’Uffizio e degli incaricati di dare l’imprimatur ecclesiastico ad ogni nuova pubblicazione. Possiamo in un certo qual modo ipotizzare che le pagine migliori di don Mazzolari siano rimaste inedite.
A Bozzolo, sulla tomba di don Primo, posta ora nella chiesa di san Pietro, è scritto solamente «Primo Mazzolari, sacerdote». Don Mazzolari è stato questo innanzitutto, e la sua vita sacerdotale si è svolta sostanzialmente nell’ombra, senza onorificenze né riconoscimenti, in un isolamento rotto solamente dai frequenti viaggi pastorali e dalla visita degli amici più cari, oltre che dalla passione per lo scrivere che sempre lo accompagnò e che fu alla base delle sue fortune quanto delle sue disavventure.
Don Mazzolari era animato da un’ansia pastorale incessante: la Chiesa doveva essere missionaria. I lontani erano al centro della sua attenzione: il Vangelo doveva giungere fino a loro. Nessuno è escluso, ma di tutti e di ciascuno Dio è Padre amorevole. Il tema dei lontani è stato trattato ne La più bella avventura, dove commenta la parabola del Figliol Prodigo, e in numerosi articoli pubblicati sul quindicinale da lui fondato nel 1949, Adesso.
L’immagine della parrocchia di don Primo è quella tradizionale: era figlio del suo tempo e intendeva il ruolo del prete come quello di autentica guida dell’intera comunità anche nel campo non strettamente religioso. Non aveva in mente nulla di rivoluzionario, ma il suo andare oltre le mura del tempio e proporre a tutti le proprie iniziative era già di per sé rivoluzionario per la Chiesa del suo tempo.
Riteneva inoltre che fosse necessaria una rievangelizzazione anche all’interno della cittadella cristiana, dove la fede era spesso ridotta a ritualismo e rimaneva chiusa nelle sagrestie. La sua fede è stata tormentata, non tanto sotto il profilo teologico e dottrinale, quanto per il suo sforzo di dialogo con i lontani e di confronto con le varie problematiche del tempo. Ciò non venne compreso e fu aspramente combattuto.
Quello di Mazzolari è stato un cammino di formazione della coscienza morale lungo e faticoso, a volte anche accidentato, ma accompagnato da una conversione continua, da una sempre nuova capacità di discernimento, secondo un duplice costante riferimento: il Vangelo e la storia. Un Vangelo sganciato dalla storia degli esseri umani per don Mazzolari sfociava in semplice intellettualismo, in formule sterili e disincarnate. Se analizziamo gli scritti di don Primo, constatiamo che sono costruiti riferendosi fondamentalmente ai Vangeli, pochissimo alle lettere di Paolo e ancor meno all’Antico Testamento. Questa centralità di Gesù Cristo e del Vangelo ispira tutta l’azione di Mazzolari.
Fra i temi cari a Mazzolari va ricordato innanzitutto quello della pace. Mazzolari, dopo un percorso accidentato e sofferto, negli anni Cinquanta ha indicato alla Chiesa la strada della pace, mettendo le basi di una sorta di nonviolenza cristiana, teorizzando l’obiezione di coscienza, in piena guerra fredda e quando c’era il rischio di un nuovo conflitto mondiale. Il comandamento cristiano dell’amore non può coniugarsi con le armi e con la guerra. In questo senso il libro Tu non uccidere è assolutamente attuale. Vi è scritto: «La nostra arma di difesa è la giustizia sociale più che l’atomica. Chi pensa di difendere con la guerra la libertà, si troverà in un mondo senza nessuna libertà. Chi pensa di difendere con la guerra la giustizia, si troverà in un mondo che avrà perduto perfino l’idea e la passione per la giustizia. Chi pretende di difendere con la guerra la cristianità, riporterà la Chiesa alle catacombe». Una condanna assoluta della guerra, come quella pronunciata da papa Francesco a Redipuglia il 12 settembre 2014.
Un secondo tema centrale per Mazzolari, e oggi più che mai essenziale in rapporto alla credibilità dell’azione pastorale, è quello dei poveri: il parroco di Bozzolo ha parlato a tutti, ma il suo sguardo preferenziale era per i poveri e per questo ha parlato di “Chiesa di poveri”, una terminologia che poi il Concilio farà propria. «Nei poveri vi è il volto di Cristo», amava ripetere don Primo. Non solo, ma Mazzolari ha anche vissuto da povero. Ha scritto nel suo Testamento: «Non possiedo niente. La roba non mi ha mai fatto gola e tanto meno occupato. Attorno al mio altare come attorno alla mia casa e al mio lavoro non ci fu mai suon di denaro».
Un altro tratto della figura di don Primo oggi assolutamente attuale è la sua convinzione circa un ruolo più attivo, autonomo e responsabile dei laici, che per don Mazzolari devono rappresentare il naturale raccordo, una sorta di ponte, tra la Chiesa e il mondo moderno. I laici devono operare con intelligenza, coraggio e autonomia dentro e fuori la comunità cristiana, devono fare da fermento nel mondo, assumendosi con coraggio le responsabilità delle proprie scelte. La valorizzazione del laicato è il tema centrale della Lettera sulla parrocchia del 1937.
Nel profilo sacerdotale di don Mazzolari è centrale infine l’esperienza della misericordia divina e tra le pagine più significative a questo riguardo vi è la famosa predica del giovedì santo, 3 aprile 1958, su Nostro fratello Giuda. Come non ricordare papa Francesco e il suo «misericordiare», ossia non solo fare opere di misericordia, ma proclamare che Dio è misericordia?
* autore di diversi volumi su don Mazzolari, fra cui “Primo Mazzolari. Un uomo libero”, con postfazione di mons. Loris Francesco Capovilla (Ave, 2009); “Primo Mazzolari. In cammino sulle strade degli uomini” (Ave, 2012); “Sui sentieri della profezia. I rapporti fra Giovanni Battista Montini-Paolo VI e Primo Mazzolari” (Messaggero, 2012)
* Adista 23 MAGGIO 2015 • N. 19
LA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA HA ROTTO I PONTI CON IL MESSAGGIO EVANGELICO. A 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, bisogna prendere atto che il terribile è già accaduto: il "Lumen Gentium" è stato spento e, sulla cattedra di Pietro, siede il Vicario del Signore e Padrone Gesù ("Dominus Iesus": J. Ratzinger, 2000).
A 50 ANNI DAL VATICANO II, UNA SITUAZIONE CUPA. Un’analisi di Vito Mancuso - con una nota
Nell’ultima intervista Martini ha dichiarato: «Vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza», parole che potrebbero essere sottoscritte dalla gran parte dei vescovi e dei periti teologici che cinquant’anni fa arrivavano a Roma per il Vaticano Il. L’ironia vuole che proprio uno di essi sia oggi il pontefice regnante, tra i principali responsabili di questa cupa situazione
DON PRIMO MAZZOLARI,
IL MUCCHIO COME MITO ("Adesso", 17/1953)
a cura di don Aldo Antonelli
"Il mucchio come mito"!
Le adunate in piazza san Pietro? O quelle, sterminate, delle GMG in giro per il mondo? O quelle, affollate ed anche tragiche, che fanno da contorno ai viaggi papali, Africa o non Africa?
Ma anche le ammucchiate dei figuranti alla Fiera di Roma! Siamo ormai alla celebrazione quantitativa delle cose e delle persone. Non è il sapore dei soldi che interessa, ma il loro ammontare. Non è la voce delle persone che si vuole ascoltare, ma il loro peso numerico.
"Il mucchio come mito" è il titolo che riporta un articolo non firmato del numero 17/1953 della rivista "Adesso" di don Primo Mazzolari. Molto probabilmernte (lo si vede anche dallo stile) è di don Mazzolari stesso.
Nel mese di settembre del 1953, nella stessa domenica, un milione di cattolici si erano radunati a Torino per il Congresso Eucaristico, oltre settecentomila a Milano per la festa dell’"Unità" e duecentomila a Spalato per ascoltare Tito...
Don Primo che fa?
Prende la penna e scrive:
IL MUCCHIO COME MITO
Questo il bilancio di una qualunque domenica del settembre 1953.
Non ne siamo stupiti, ma non siamo contenti, anche se il Congresso di Torino batte il record.
Appunto perché noi cattolici siamo ancora davanti in questa gara di mobilitazione delle masse, noi per primi non possiamo essere contenti dell’andazzo.
Le moltitudini non ci fanno paura: ci fa paura la fiducia che esse portano dietro e che ispirano alle loro guide. E’ una fiducia che, secondo me, contrasta con le regole dello spirito e s’avvicina a quelle del materialismo.
Il materialismo, infatti, s’insinua,e fa capolino da ogni dove, e il fasto, il rumore, la quantità ne sono gli araldi. La tecnica poi, che fa muovere genti e suoni, senza fatica ma non senza spesa, e che dispone di ritrovati incantatori, che distraggono invece di raccogliere, eccitano invece di purificare, si è messa volentieri a servizio di questo spirito di massa.
Per rimanere un attimo in casa nostra, penso che molti credenti troveranno un pò arduo portare come motivo di massa certi sublimi Misteri, che un tempo venivano circondati da gelose e arcane iniziazioni.
Non vorrei essere frainteso. Io non contesto il diritto di esprimere la propria fede e di esternare la propria adorazione, e neppure di sottrarre il popolo cristiano al dovere di fare ciò che gli altri fanno, e che potrebbe rappresentare un "aggiornamento d’apostolato". Mi permetto soltanto di chiedere se noi cattolici possiamo metterci in questo piano di gara che ci porta fatalmente all’esaltazione dei valori di massa.
Questo stare insieme a quel modo per un’ora, per una giornata, questo affiancarsi e pigiarsi assomiglia al quam bonum et quam jucundum habitare fratres in unum?
Non tutto quello che gli altri fanno è bene fare: non tutti i diritti sono usabili per chi guarda oltre il diritto.
In certi favolosi ammassamenti di qualsiasi genere, si ha l’impressione che il motivo centrale divenga piuttosto un pretesto per uno spiegamento di forze o per un torneo oratorio, che deve per forza sfociare nella retorica.
Lamentiamo il disamoramento del quotidiano, si chiami esso parrocchia, casa, ecc., e siamo noi che ne deformiamo il gusto con questa incessante mobilitazione verso lo straordinario e lo sbalorditivo.
Ma il fatto di questa strutturazione di massa investe in pieno il problema dell’educazione del popolo e il progressivo svuotamento dell’uomo. La personalità sta diventando una larva, e un pò anche per colpa nostra, nonostante il daffare verbale per difenderla e consolidarla.
Ieri avevano ragione i più grossi portafogli: oggi, hanno ragione le masse più grosse, i mucchi più grossi.
Non abbiamo fatto molta strada e neppur cambiato strada. Prepotenza del danaro o sopraffazione del numero, se non è zuppa è pan bagnato: una strada cioè che ci dispensa dall’essere ragionevoli e dal rispettare tanto coloro che sono senza soldi come coloro che sono in pochi.
Senz’accorgersene, il mucchio diventa il mito: ed esso va accresciuto e difeso ad ogni costo. E chi fa parte del mucchio s’abitua a non esistere, a non parlare, a non agire se non come mucchio.
La democrazia del mucchio non è la democrazia: come non è la religione la religione del mucchio.
Il mucchio è falange, legione, rullo compressore, non comunità; elemento di urto, non comunione.
Le masse, come i blocchi non si cercano se non per sfidarsi, urtarsi, annientarsi. Dietro un ordinamento politico di masse o di blocchi, non c’è che la guerra.
Il pericolo della massa è avvertito purtroppo anche da pochi cristiani, i quali trovano più facile ammucchiare che educare, sbalordire più che elevare.
Cristo è venuto a liberare l’uomo da ogni schiavitù, anche dalla schiavitù della massa.
Presentato al Festival di Roma il documentario sul ’Papa buono’
’Giovanni XXIII - il pensiero e la memoria’, prodotto da Rai Trade, Istituto Luce e Officina della comunicazione, andrà in onda su Raiuno a Natale. Presenti alla proiezione, tra gli altri, il cardinale Martini, Massimo Cacciari e Rita Levi Montalcini.
Roma, 27 ott. - (Adnkronos/Cinematografo.it) - È stato presentato al Festival di Roma il film-documentario ’Giovanni XXIII - il pensiero e la memoria’. Prodotto in collaborazione con Rai Trade, Istituto Luce e Officina della comunicazione, andrà in onda su Rai Uno a Natale, e ’’presenta un ritratto attualissimo della dimensione spirituale e umana del Papa buono’’, come ha commentato Carlo Nardello, direttore di Rai Trade.
La proiezione ha visto il patrocinio del Pontificio Consiglio della cultura e delle comunicazioni sociali e la presenza speciale delle testimonianze e dei contributi del cardinal Martini, del filosofo Massimo Cacciari, del premio Nobel Rita Levi Montalcini e degli storici Alberto Melloni, Andrea Riccardi e Giovanni Maria Vian direttore dell’Osservatore Romano. Una figura certamente poliedrica e una testimonianza cristiana altamente fedele alla storia e all’umanità, quella di Giovanni XXIII è di certo una personalità ’’che sottolineava la legge del perdono e invitava a perdonare e a saper perdonare’’, dice Tarcisio Bertone, cardinale e segretario di Stato Vaticano.
Loris Capovilla, vescovo e segretario personale di Papa Giovanni ha ricordato come ’’in un periodo storico delicatissimo per tutta l’umanità, il pontificato di Giovanni XXIII ha voluto, anche attraverso l’indizione del Concilio Vaticano II, gridare in maniera sconvolgente la passione della Chiesa per l’uomo così come è’’.