Oggi la liturgia ci ricorda il padre terreno di Gesù che i Vangeli descrivono come uomo giusto. L’attuale Pontefice coltiva da sempre una profonda devozione per il falegname di Nazareth sposo di Maria
L’anello del Papa, dono a san Giuseppe
Giusto un anno fa Giovanni Paolo II lo inviò alla chiesa della città natale di Wadowice che frequentava sin da bambino
di Luigi Geninazzi (Avvenire, 19.03.2005)
È una devozione particolare quella che lega Giovanni Paolo II a san Giuseppe, «il secondo Patrono del mio Battesimo», come ama spesso ricordare Karol Józef Wojtyla. Fin da bambino si recava spesso coi suoi genitori nella chiesa dei Carmelitani Scalzi «na górka», sulla collina che sorge nel centro della sua città natale di Wadowice. L’immagine di «San Giuseppe con il Bambino in braccio» sta sopra l’altare maggiore. Fedeli ad una tradizione secolare gli abitanti di Wadowice si preparano alla festa del 19 marzo con una grande novena di preghiera. Per nove mercoledì consecutivi i fedeli si radunano nella chiesa dei Carmelitani scalzi chiedendo una grazia particolare a san Giuseppe.
Il rito si è ripetuto anche quest’anno e «in cima a tutte le suppliche c’era quella per la salute del Papa», tiene a sottolineare padre Silvano Zielinski, priore del convento e custode del Santuario giuseppino. Nei giorni scorsi le tv di tutto il mondo hanno diffuso l’immagine dei compaesani di Wojtyla giunti al Policlinico Gemelli di Roma per sostenere coi loro canti e le loro preghiere il Papa anziano e malato. E prima di tornarsene in Polonia gli hanno lasciato in dono il libro contenente le omelie pronunciate durante la novena del 2004.
Proprio un anno fa Giovanni Paolo II volle donare il suo anello pontificio al santuario di Wadowice. Con una solenne cerimonia, presieduta dall’arcivescovo di Cracovia. cardinale Franciszek Macharski, il 19 marzo del 2004 è avvenuta la decorazione del quadro di san Giuseppe, alla cui mano destra è stato imposto «l’anello del pescatore». Un regalo che è stato accolto con grande gioia e commozione dagli abitanti di Wadowice che hanno visto in quel gesto la testimonianza di un vincolo spirituale profondo tra Wojtyla e la sua città natale.
«Che questo anello ricordi che il Capo dell’Alma famiglia è l’uomo giusto di Nazareth che rimase fedele sino alla fine alla chiamata di Dio» ha scritto il Papa nel messaggio inviato per l’occasione alla città di Wadowice. In questo modo ha voluto ispirarsi ad un gesto del suo predecessore Giovanni XXIII, il quale nell’anno d’inaugurazione del Concilio Vaticano II aveva offerto il suo anello papale al quadro di san Giuseppe venerato nella basilica della città polacca di Kalisz.
«Con quel dono è come se il Santo Padre allungasse il suo braccio dalla collina del Vaticano a quella di Wadowice per indicare in san Giuseppe il modello perfetto della fedeltà a Cristo», commenta padre Zielinski. È il segno di un legame profondo su cui più volte è tornato a riflettere Giovanni Paolo II.
Parlando della chiesa di San Giuseppe presso il convento dei Carmelitani scalzi ebbe a dire: «Come nella mia giovinezza mi reco in spirito in questo luogo... dove io stesso ricevetti numerose grazie di cui oggi esprimo riconoscenza al Signore». Era il giugno del 1999 e Giovanni Paolo II tornava nella sua città natale abbandonandosi ad uno struggente amarcord, una lunga serie di aneddoti sul filo dei ricordi.
Il giovane Wojtyla era tra i frequentatori più assidui del convento fondato da san Raffaele Kalinowski, un ufficiale polacco dell’esercito zarista che aiutò i suoi connazionali durante l’insurrezione del 1863, venne esiliato in Siberia ed una volta liberato entrò dell’Ordine dei Carmelitani. Fu così che fin da ragazzo Karol Jozef Wojtyla venne in contatto con la tradizione del Carmelo, «una scuola di spiritualità», la definisce nel messaggio che accompagna la consegna dell’anello pontificio.
Una scuola che sull’esempio di Madre Teresa di Gesù gli insegnò a «contemplare in san Giuseppe il modello perfetto dell’intimità con Gesù e con Maria, patrono della preghiera interiore e dell’infaticabile servizio ai fratelli».
Sui temi, nel sito, si cfr.:
Caro Benedetto XVI... GESU’ E MARIA ... E GIUSEPPE, DOV’E’?!!
MESSAGGIO EV-ANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER.
Per un ri-orientamento teologico-politico e antropologico...
L’APOSTOLO ASTUTO MENTITORE, SENZA GRAZIA ("CHARIS") E SENZA AMORE ("CHARITAS")! UNA NOTA SULL’OPERAZIONE DI SAN PAOLO:
ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA), ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E FILOLOGIA TEOLOGICO-POLITICA: "REMEMBER ME" (SHAKESPEARE, "HAMLET", I.5).
Dantedi (#25marzo 2025). Un’indicazione per uscire dal "sottosuolo" ("underworld"): «#Trasumanar significar per verba / non si porìa; però l’essemplo basti / a cui esperienza grazia serba.» (#Dante Alighieri, Par. I, 70-71).
ANTROPOLOGIA, INTERPRETAZIONE DEI #SOGNI, E FILOLOGIA DI #PRIMAVERA: EARTHRISE (#20MARZO 2025)
UNA NOTA SUL "COME NASCONO I BAMBINI" E SUL "BUON-MESSAGGIO".
Alla #luce dell’aria primaverile, e del presente storico corrente, forse, è proprio bene ricordare che #Giuseppe, lo #sposo di #Maria, anche senza capire tutto, seppe bene #interpretare il suo #sogno: al #Bambino, "egli pose #nome #Gesù"! (Mt. 1. 25).
DIVINA COMMEDIA. I #Profeti, come le #Sibille (come quelle, legate alla tradizione dei #Carmelitani scalzi e delle Carmelitane scalze di #Teresa d’#Avila, presenti nella Chiesa dedicata alla "#MadonnadelCarmine" nel 1613 di #ContursiTerme: https://www.ildialogo.org/cultura/AppelliInterventi_1331650525.htm ), non si erano affatto sbagliati e sbagliate nel dire quello che avevano detto: è l’#amore "che move il sole e le altre stelle" (#DanteAlighieri, Par. XXXIII, 145).
PSICOANALISI, ANTROPOLOGIA, E FILOLOGIA: COME JUNG DIVENNE JUNG: LA ROTTURA TEORICA CON FREUD (1912), "I SIMBOLI DELLA TRASFORMAZIONE" (SULLA "STRADA DI DAMASCO"), E IL PROBLEMA DI "NICODEMO O DELLA NASCITA" (ENZO PACI: "COME NASCONO I BAMBINI"). *
"SÀPERE AUDE!" (KANT, 1784). Un omaggio a Romeo Pulsoni: una nota a margine del suo "Il coraggio di trasformarsi" ("Insula Europea", 12 Gennaio 2025):
"[...] arduo e forse impossibile per me commentare “i simboli della trasformazione" in C. G. Jung, e nello stesso tempo cercare di demarcare quello che a mio parere è fondamentale per discernere il culturale dal terapeutico e dallo spirituale e cioè la differenza tra il cambiamento tra la trasformazione e la trasfigurazione.
Jung intende il processo di auto-realizzazione come un continuo cammino di trasformazione. La meta del processo di trasformazione consiste nell’unificazione degli opposti, nell’autorealizzazione dell’uomo. [...] Il contrasto di fondo in cui si trova l’uomo è la tensione tra spirito e istinto. [...] La trasformazione degli istinti avviene dunque, secondo Jung, a causa dell’attivazione dell’archetipo: ma gli archetipi vengono attivati tramite riti e simboli, e portati alla conoscenza. Jung chiama i simboli “trasformatori”. Come una centrale di energia idrica trasforma la pressione dell’acqua in energia elettrica, così i simboli trasformano l’energia biologica in energia spirituale. [...]
Per il cristiano il più importante simbolo della trasformazione è l’eucarestia. Jung chiama la Santa Messa “rito del processo di individuazione (...) il suo compito è quello di trasformare l’anima dell’uomo empirico, che è solo una parte di esso, nella sua totalità, che si esprime in Cristo” (volume XI, p. 262: Il simbolo della trasformazione nella messa). [...]
La trasformazione dell’uomo inizia nel suo subconscio. Spesso è una situazione difficile a costringerlo a occuparsi del subconscio; sovente sono archetipi che di colpo appaiono nei suoi sogni o che incontra nei riti della sua fede o nella lettura. [...]
La caduta da cavallo sulla via di Damasco provoca il cambiamento, il percorso successivo lungo dolce e soave sono la trasformazione, l’unione del subconscio al conscio. [....]
La grande aspirazione degli uomini è la trasformazione dell’umano nel divino, del mortale nell’immortale. La via della trasformazione consiste in varie iniziazioni o riti che cambiano sempre più la figura interiore degli iniziati, anche se, come nel caso di Nicodemo, sono domandati sconti. [...]" (Romeo Pulsoni, op. cit.).
* http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4365#forum3185426.
ANTROPOLOGIA E COSMOLOGIA.
STORIA STORIOGRAFIA E PROFEZIA: MEMORIA DELLA "PRIMA RINASCITA", DI JAKOB BOEHME, E DEL "CONCILIO VATICANO II". *
Una nota margine di una riflessione del prof. Flavio Piero Cuniberto:
L’ANNO E L’ANELLO
(24 novembre 2024, Solennità di Cristo, Re dell’Universo).
La corona è il coronamento dell’Anno liturgico, che si chiude, come la corona, ad anello, celebrando nella sua preziosità scintillante la perfezione circolare dell’Alfa e dell’Omega, della fine che coincide con l’inizio (l’aprirsi aurorale del nuovo Anno, con l’Avvento, dopo l’ultima domenica del tempo ordinario).
L’apparente ripetizione - di sempre nuovi anelli - è l’effetto dello strabismo creaturale, che vede come ritorno dell’identico il rampollare delle infinite forme (l’universo) dentro il Cerchio Eterno.
Il Patriarca Enoch, che "camminò con Dio", visse 365 anni e "non conobbe la morte".
P.S. Lo spostamento della Solennità all’ultima domenica dell’A.L. è tra le pochissime innovazioni del Vaticano II su cui - si direbbe - ha aleggiato lo Spirito della profezia: su quasi tutte le altre ha soffiato, in contrasto drammatico, tutt’altro spirito.
Flavio Piero Cuniberto (Facebook (ripresa parziale - senza immagine)
* MEMORIA DELLA "PRIMA RINASCITA", DI JAKOB BOEHME, E DEL "CONCILIO VATICANO II".
SICCOME CHI GUIDA IL "GRANDE GIOCO" E’ IL FAMOSO "SATOR AREPO" ("L’AMOR CHE MOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE"), FORSE, è bene ricordare, chiarissimo prof. Flavio Piero Cuniberto, che la istituzione della "Solennità di Cristo, Re dell’Universo" (nel senso della tradizione paolina e cosmoteandrica), di #oggi, #24novembre 2024, "risale" a Papa Pio XI, all’anno Giubilare 1925.
A PROPOSITO DI #ANELLO, FORSE, E’ IL CASO DI RESTITUIRE "L’ANELLO DEL PESCATORE" A GIUSEPPE (1223).
Federico La Sala
PIANETATERRA, DISAGIO NELLA #CIVILTA’ (1929) E "COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (S. #FREUD, 1937).
Una nota sul tema della questione antropologica e sul #corpomistico dell’#uomosupremo, nel trecentesimo anniversario della nascita di Immanuel Kant (1724-2024).
ALCUNE RIFLESSIONI ICONOLOGICHE SU DUE BACI CHE HANNO SEGNATO L’IMMAGINARIO E LA STORIA DELL’#EUROPA. TRADIZIONE, "TRADUZIONE", E RAPPRESENTAZIONE ARTISTICA...
IL BACIO DELL’APOSTOLO PIETRO E DELL’«APOSTOLO» PAOLO, ICONOGRAFICAMENTE E FILOLOGICAMENTE, RICHIAMA IL PROBLEMATICO "NODO" DEL BACIO DI GIUDA A GESU’ RAPPRESENTATO DA GIOTTO E, SIMBOLICAMENTE E STORICAMENTE, LA NASCITA DEL #PAOLINISMO E DELLA RELIGIONE IMPERIALISTICA DELLO "IN HOC SIGNO VINCES" DI COSTANTINO.
ARTE, FILOLOGIA, STORIOGRAFIA, E "PROPAGANDA E FEDE". Sicuramente le indicazioni date da Gesù all’apostolo Pietro per "organizzare" la vita della comunità cristiana non erano né filologicamente né evangelicamente queste di Paolo di Tarso: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il #capo è #Cristo, e capo della #donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
Questa dichiarazione di #cosmoteandria assoluta va molto più indietro delle stesse dichiarazioni rintracciabili nella tradizione religiosa greca di Zeus, di Apollo, e di Atena (Eschilo, Sofocle, ed Euripide) e così, e fondamentalmente, dopo la "donazione" di Pietro a Paolo, si apre la strada alla "donazione" decisiva, quella detta di Costantino e al suo "algoritmico" programma di imperialismo teologico-politico (Nicea 325-2025).
«È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"» (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010).
NOTE:
BIOETICA
Utero in affitto sia reato universale: il 19 giugno in aula la proposta di legge
di Marina Casini (AgenSir, 19 Giugno 2023)
Arriva in aula il 19 giugno la proposta di legge che definisce l’utero in affitto (maternità surrogata) reato universale e che prevede la perseguibilità del cittadino italiano che all’estero ricorre a questa pratica. Sebbene la legge 40 del 2004 sanzioni giustamente questa pratica, la proposta - in linea con quanto richiesto nella scorsa legislatura da settanta associazioni facenti capo al Network “Ditelo sui tetti” - si è resa tuttavia necessaria per disincentivare l’espatrio di chi vuole aggirare l’ostacolo salvo poi rimpatriare a cose fatte chiedendo di essere riconosciuto genitore del bambino così ottenuto.
Che l’affitto di utero sia una pratica che altera le relazioni riducendo a cose donne e bambini è matura acquisizione raggiunta da molti:
una pratica legata ad una distorsione organizzata e pianificata della maternità, della paternità, della filiazione, inserite in una logica produttivistica, in una catena di montaggio aperta allo scarto (aborto volontario previsto dal contratto) di bambini eventualmente non rispondenti alle aspettative di salute o di troppo in caso di gravidanze gemellari.
E’ una pratica di sfruttamento mercantile (dove chi trae maggior vantaggio economico sono le cliniche, gli intermediari, i consulenti legali), di pretesi diritti inesistenti che mutilano i veri diritti; una pratica che deturpa la dimensione del dono caricaturandola di dolciastro altruismo - “gestazione solidale”, “gestazione per altri”, “gestazione di sostegno”, “in quella torsione linguistica così cara a diversi attuali filoni di pensiero, mossi dalla ricerca di consensi pubblici, che ne amplifichino benevolmente la crudezza dei messaggi” (Paola Ricci Sindoni) - ,
e fa piacere che su un tema così antropologicamente forte si trovi sintonia anche con i più (apparentemente) lontani da una visione personalista ontologicamente fondata.
Vedremo come si svilupperà il dibattito parlamentare. La proposta è comunque supportata da autorevoli documenti giuridici. L’articolo 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, vieta di fare del corpo umano e delle sue parti una fonte di lucro, la maternità surrogata è condannata dal Parlamento Europeo (risoluzione del 17 dicembre 2015) perché “compromette la dignità della donna, dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usati come una merce”, e secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 272/2017, confermata dalla n. 33/2021) “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”. La Convenzione sui diritti del bambino (ratificata dall’Italia) in base al “principio del prevalente interesse del minore” riconosce per ogni bambino, nella misura del possibile, il diritto a conoscere i propri genitori, ad essere da loro allevato, a preservare la propria identità comprensiva delle relazioni familiari.
Va da sé che l’auspicio sia che la proposta diventi legge a tutti gli effetti e dunque parte dell’ordinamento giuridico italiano.
La speranza, tuttavia, è che non sia un punto di arrivo, ma una tappa nel cammino di riflessione, che va portato a tutti i livelli, sul senso del figlio, tale dal concepimento, della maternità e della paternità.
Non basta dire “no” all’utero in affitto ̶ comunque lo si voglia diversamente definire, maternità surrogata o gestazione per altri o altro ancora ̶ bisogna dire “sì” all’uguale e inerente dignità di ogni essere umano, quindi sin dal momento in cui ogni essere umano inizia ad esistere in quel “big bang” chiamato concepimento. Solo questo mette al riparo da abusi, discriminazioni, sfruttamenti e prepotenze di ogni tipo, e solo da qui possiamo gettare solide basi per un più alto livello di civiltà e costruire sempre più pienamente e autenticamente la fraternità e la pace.
La sintesi Cei. Sinodo: più ascolto e accoglienza, ecco cosa dicono le Chiese locali
Tra i nodi anche il ruolo delle donne, la capacità di inclusione, la corresponsabilità dei laici, l’attenzione alle nuove fragilità. Nel documento indicati 10 nuclei prioritari. Il testo integrale
di Mimmo Muolo (Avvenire, giovedì 18 agosto 2022)
Il distillato di circa 50.000 gruppi sinodali, che hanno coinvolto mezzo milione di persone. Un lavoro coordinato da più di 400 referenti diocesani insieme alle loro équipe. Il tutto confluito in 200 sintesi diocesane e 19 elaborate da altri gruppi, per un totale di più di 1.500 pagine pervenute alla Cei a fine giugno. C’è tutto questo nella Sintesi nazionale della fase diocesana del Sinodo 2021-2023 “Per una Chiesa sinodale: Comunione, partecipazione e missione” che la Presidenza della Conferenza episcopale italiana ha consegnato il 15 agosto alla Segreteria Generale del Sinodo (in vista della fase universale in programma nel 2023) e che da ieri è online sui siti camminosinodale.chiesacattolica.it e www.chiesacattolica.it.
Un documento frutto dunque di un ascolto capillare del popolo di Dio (parrocchie e diocesi, gruppi, movimenti e associazioni) naturalmente armonizzato con il Cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia, che sta interessando sempre di più i diversi territori con proposte e progetti. «La Sintesi - viene perciò sottolineato - offre anche una panoramica del primo anno di quel Cammino».
Ascoltare. Va colmato il «debito di ascolto come Chiesa e nella Chiesa, verso una molteplicità di soggetti». I giovani, che non chiedono che si faccia qualcosa per loro, ma di essere ascoltati; le vittime degli abusi sessuali e di coscienza, crimini per cui la Chiesa prova vergogna e pentimento ed è determinata a promuovere relazioni e ambienti sicuri nel presente e nel futuro; le vittime di tutte le forme di ingiustizia, in particolare della criminalità organizzata; i territori, di cui imparare ad accogliere il grido, grazie all’apporto di competenze specifiche e all’impegno di “stare dentro” a un luogo e alla sua storia». L’ascolto, infatti, «chiede di far cadere i pregiudizi, di rinunciare alla pretesa di sapere sempre che cosa dire, di imparare a riconoscere e accogliere la complessità e la pluralità. E perciò diventa «già annuncio della buona notizia del Vangelo». «Il Signore si lascia incontrare nella vita ordinaria e nell’esistenza di ciascuno, ed è lì che chiede di essere riconosciuto».
Accogliere. La Sintesi chiede di «superare la distinzione “dentro-fuori”». Si parla di «ministero di prossimità». «Vivere l’accoglienza significa armonizzare il desiderio di una “Chiesa in uscita” con quello di una “Chiesa che sa far entrare”, a partire dalla celebrazione dell’Eucaristia». Di conseguenza «si riconosce il bisogno di toccare ferite e dare voce a questioni che spesso si evitano». Tante sono le differenze che oggi chiedono accoglienza: «generazionali (i giovani che dicono di sentirsi giudicati, poco compresi, poco accolti per le loro idee e poco liberi di poterle esprimere; gli anziani da custodire e da valorizzare); generate da storie ferite (le persone separate, divorziate, vittime di scandali, carcerate); di genere (le donne e la loro valorizzazione nei processi decisionali) e orientamento sessuale (le persone Lgbt+ con i loro genitori); culturali (ad esempio, legate ai fenomeni migratori, interni e internazionali) e sociali (disuguaglianze, acuite dalla pandemia; disabilità ed emarginazione)».
Relazioni. «Le persone vengono prima delle cose da fare e dei ruoli». È il principio risuonato più volte nella consultazione. «I sacerdoti, per primi, sono chiamati a essere “maestri di relazione”». Ma anche loro vanno accompagnati dalle comunità. E tuttavia «le relazioni hanno bisogno di tempo e di cura costante: sono un bene fragile. Vanno accettate fatiche e sconfitte». L’incontro con le persone non va vissuto come un corollario, ma come il centro dell’azione pastorale, per «riconoscere e prendersi cura delle diverse forme di solitudine e di coloro che vivono situazioni di fragilità e marginalità».
Celebrare. La celebrazione eucaristica è e rimane “fonte e culmine” della vita cristiana e, per la maggioranza delle persone, è l’unico momento di partecipazione alla comunità. Tuttavia, la Sintesi registra anche «una distanza tra la comunicazione della Parola e la vita, una scarsa cura delle celebrazioni e un basso coinvolgimento emotivo ed esistenziale». Di fronte a «“liturgie smorte” o ridotte a spettacolo», si avverte l’esigenza di ridare alla liturgia sobrietà e decoro per riscoprirne tutta la bellezza che tocca in profondità le nostre vite. Da riscoprire è anche il valore della pietà popolare, depurandola da «potenziali ambiguità».
Comunicazione. «Risulta diffusa la percezione di una Chiesa che trasmette l’immagine di un Dio giudice più che del Padre misericordioso». Per cui serve un linguaggioi «non discriminatorio, meno improntato alla rigidità, ma più aperto alle domande di senso». Specie «per rendere la Chiesa più accessibile, più comprensibile e più attraente per i giovani e i “lontani”, più capace di trasmettere la gioia del Vangelo». Si chiede di prestare attenzione agli ambienti digitali, ma «senza assumere la logica degli influencer». Inoltre è necessaria la trasparenza, la cui mancanza «ha favorito insabbiamenti e omissioni su questioni cruciali quali la gestione delle risorse economiche e gli abusi di coscienza e sessuali».
Condividere. La corresponsabilità appare come il vero antidoto alla dicotomia presbitero-laico. «La Chiesa appare troppo “pretocentrica” - riconosce la Sintesi - e questo deresponsabilizza». I laici sono «relegati spesso a un ruolo meramente esecutivo e funzionale». Attenzione poi all’emargnazione delle donne che non consente «alla voce femminile di esprimersi e di contare». Nche le religiose e le consacrate, «spesso si sentono utilizzate soltanto come “manodopera pastorale”». Da migliorare il funzionamento degli organismi di partecipazione. «Diverse comunità ne sono prive, mentre in molti casi sono ridotti a una formalità».
Dialogo. Il confronto quotidiano con il mondo del lavoro, della scuola e della formazione, gli ambienti sociali e culturali, gli aspetti cruciali della globalizzazione fa emergere la consapevolezza che «la fede non è più il punto di riferimento centrale per la vita di tante persone: per molti il Vangelo non serve a vivere». Ma «i semi del Verbo sono presenti in ogni contesto». E bisogna imparare a dialogare: «Il processo sinodale ha svelato che molte realtà sociali, amministrative e culturali nutrono il desiderio di un confronto più assiduo e di una collaborazione più sistematica con le realtà ecclesiali. Una Chiesa sinodale è consapevole di dover imparare a camminare insieme con tutti, anche con chi non si riconosce in essa».
Casa. Bisogna evitare di trasformare le parrocchie e le comunità in fan club, di cui chi è fuori fatica a percepire il senso. Più che una casa, la comunità viene pensata come un centro erogazione servizi, più o meno organizzato. «La Chiesa-casa non ha porte che si chiudono, ma un perimetro che si allarga di continuo».
Passaggi di vita «Una comunità cristiana che vuole camminare insieme è chiamata a interrogarsi sulla propria capacità di stare a fianco delle persone nel corso della loro vita, e di accompagnarle a vivere in autenticità la propria umanità e la propria fede in rapporto alle diverse età e situazioni». Perciò la sintesi chiede «di ripensare i percorsi di accompagnamento perché siano a misura di tutti: delle famiglie, dei più fragili, delle persone con disabilità e di quanti si sentono emarginati o esclusi. Anche il camminino dell’iniziazione cristiana ha bisogno di transitare alla logica dell’accompagnamento».
Metodo «Per dare forma e concretezza al processo sinodale è stato proposto un metodo di ascolto delineato secondo i principi della conversazione spirituale», con i suoi tre passi: la presa di parola da parte di ciascuno, così che nessuno resti ai margini; l’ascolto della parola di ognuno e delle risonanze che essa produce; l’identificazione dei frutti dell’ascolto e dei passi da compiere insieme». Non far spegnere l’entusiasmo suscitato da questa metodologia sarà una delle sfide per continuare il cammino. Specie nella fase in cui i dieci ambiti verranno raggruppati lungo tre assi, definiti “cantieri sinodali”: quello della strada e del villaggio (l’ascolto dei mondi vitali), quello dell’ospitalità e della casa (la qualità delle relazioni e le strutture ecclesiali) e quello delle diaconie e della formazione spirituale.
COME NASCONO I BAMBINI? LA “RISPOSTA” DELLA TRADIZIONE CATTOLICA NELLA RAPPRESENTAZIONE ARTISTICA... *
SOLLECITANDO CON QUESTA “RIPRESA” UNA LODEVOLE E RINNOVATA ATTENZIONE AL TEMA DELLA “ANNUNCIAZIONE” NELLA RAPPRESENTAZIONE ARTISTICA E RICORDANDO CHE L’EVENTO “rappresenta il momento in cui l’arcangelo Gabriele annuncia a Maria il concepimento di Gesù e la sua incarnazione [...] il 25 marzo, precisamente nove mesi prima della Natività di Cristo”, e, che “Iconograficamente la composizione vede protagonisti la Vergine, la colomba dello Spirito Santo e l’angelo annunciante”, FORSE, è UTILE riconsiderare come nel “corso dei secoli è cambiato il modo di rappresentare il tema” E ANCORA, se si vuole, cominciare a riesaminare con attenzione proprio il “mosaico dell’Annunciazione” di Pietro Cavallini (del 1291 - vedi, sopra: la seconda figura dell’articolo) e, poi, proseguire con le opere specifiche degli artisti “fiamminghi quali Van der Weyden, Campin, i quali dipingono la Vergine colta nella sua quotidianità domestica all’arrivo dell’angelo Gabriele” - e osservare con attenzione, IN PARTICOLARE, l’immagine del pannello centrale della “ANNUNCIAZIONE” (https://it.wikipedia.org/wiki/Robert_Campin#/media/File:Robert_Campin_011.jpg) del “Trittico di Mérode” (1427) di Robert Campin (https://it.wikipedia.org/wiki/Robert_Campin).
Proseguendo e, non dimenticando di riflettere anche sulla rilevanza per gli artisti del lavoro del cardinale Gabriele Paleotti sulle immagini sacre (“Discorso intorno alle immagini sacre e profane”, del 1582), è opportuno arrivare all’attuale presente storico (il prossimo 25 marzo è anche il giorno della prima Giornata dedicata all’opera e alla memoria di Dante - il “Dantedì”) e ricordare quanto “poco fa”, proprio all’inizio del Terzo Millennio dopo Cristo, il CARDINALE CASTRILLON HOYOS (proprio come un artista del 1200 o del 1400) dichiarò alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio” ("la Repubblica" del 17 novembre 2000, p. 35).
Forse, in questo “Anno speciale di San Giuseppe” indetto da papa Francesco (cfr. “DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” .. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/10/de-domo-david-39-autori-per-i-400-anni-della-confraternita-di-san-giuseppe-di-nardo/#comment-262319), sarà possibile sapere come nascono i bambini e le bambine e sarà possibile avere un’altra rappresentazione artistica della nostra stessa nascita?! Con Dante, non c’è affatto da dubitare: “L’amore muove il sole e le altre stelle” - e anche la Terra!
Buon lavoro...
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Il caso. «Madri e padri? Irrinunciabili». Anche sui documenti, parola di psicologo
Regalia: differenze anche nominali indispensabili per la costruzione dell’identità dei figli. Nella bozza del decreto della ministra Lamorgese si parlerà semplicemente di "genitori"
di Luciano Moia (Avvenire, venerdì 15 gennaio 2021)
Meglio scrivere "genitori" invece di madre e padre sulle carte d’identità o sui moduli scolastici dei ragazzi al di sotto dei 14 anni? Oppure "genitori 1 e 2"? Potrebbe apparire una differenza di poco conto, ma non è così. Sarà comunque indispensabile attendere il parere del garante della privacy e poi la decisione della Conferenza Stato-Regioni per capire la struttura del decreto del ministero dell’Interno destinato a cancellare, per la seconda volta in pochi anni, le parole padre e madre dalle carte d’identità elettroniche dei minori di 14 anni per far posto a un più generico "genitori".
Mercoledì le agenzie di stampa e le comunicazioni diffuse dopo il question time a cui il ministro Luciana Lamorgese ha risposto alla Camera, lasciavano intendere che le tradizionali denominazioni di madre e padre sarebbero state sacrificate sull’altare delle richieste europee e per rispettare le "criticità tecniche" segnalate dal garante della privacy. Di conseguenza sarebbe stata ripristinata l’anonima classificazione numerica dei genitori che già aveva fatto tanto discutere quando era stata introdotta nel 2015 dal governo Renzi.
Ma ieri la segreteria della ministra Lamorgese ha precisato che nella bozza del decreto non c’è al momento alcun riferimento numerico. Niente "genitore 1 e 2" ma semplicemente "genitori" o "tutori" nel caso di assenza dei primi. In un allegato del decreto si sottolinea anche le necessità di indicare nome e cognome dei genitori stessi. Ora, una madre e un padre biologici sono naturalmente genitori. Quindi il cambio lessicale non incide sull’identità e sui ruoli. Mentre nel caso delle famiglie arcobaleno maternità e paternità possono essere sia biologiche, sia "di intenzione".
Per questo motivo il garante della privacy ha sottolineato «forti criticità dal punto di vista della protezione dei dati e della tutela dei minori, nel caso in cui i soggetti che esercitano la responsabilità genitoriale non siano riconducibili alla figura materna o paterna».
Ma è proprio così? Esistono davvero criticità nel riferimento esplicito alla madre e al padre nel caso di famiglie in cui uno dei due partner della coppia non fondi il suo ruolo su un dato biologico? «La volontà di non riconoscere la peculiarità della funzione materna e paterna al punto da non nominarla, è una scelta che deve interrogare», osserva Camillo Regalia, docente di psicologia sociale alla Cattolica e direttore del Centro di ateneo studi e ricerche sulla famiglia. «Nominare la madre e il padre non deve far paura. Dal punto di vista della costruzione identitaria, sacrificare il riferimento personale per richiamarsi genericamente al concetto di genitori non è certo positivo».
A parere del docente non è questa la strada corretta per legittimare forme di genitorialità non biologica, quasi che, dove invece esiste una genitorialità evidente e chiara, si possa aprire una contrapposizione. Non dev’essere così, ma è evidente che ci sia anche una componente ideologica nel Regolamento europeo in materia di dati personali a cui il nostro quadro normativo deve adeguarsi, come spiegato dalla ministra Lamorgese, oscurando i nomi di madre e di padre.
«Quando si parla di famiglie arcobaleno occorre essere assolutamente rispettosi. In molte situazioni questi nuclei mostrano un impegno educativo lodevole anche se - sottolinea ancora Regalia - le difficoltà rimangono e non dobbiamo avere timore di parlarne. Il grande equivoco è quello di pensare che si possa parlare di funzioni genitorali indipendentemente dal fatto che i ruoli siano biologicamente determinati. Facciamo un esempio per chiarire meglio: una madre single può assolvere anche a una funzione paterna? Evidentemente sì, ma avrà maggiori difficoltà e farà più fatica. Lo stesso per una coppia omogenitoriale. Sono situazioni in cui si aggiungono dati problematici a una realtà, quella del ruolo genitoriale, che è già complesso di per sé».
Aspetti da affrontare senza toni da battaglia, ma guardando la realtà per quello che è, visto che il confronto esasperato sui problemi antropologici non ha altro effetto se non quello di rendere tutto confusivo e ideologico. «In ogni caso decidere di rinunciare ai nomi di padre e madre per lasciare solo "genitori" - conclude il direttore del Centro di ateneo della Cattolica - significa rinunciare alle differenze per privilegiare la vaghezza dell’indistinto. E questa non è certamente una scelta che aiuta a risolvere le situazioni. Se l’obiettivo è quello di costruire un’alleanza genitoriale forte per il bene del proprio figlio, è importante, in ogni situazione, non dimenticare le differenze neppure sul piano lessicale».
Papa Francesco indica l’ultima carta per cambiare il paradigma dell’umano
Fratelli tutti. Poiché è sull’amore, questa è un’enciclica laica, di una straordinaria laicità, perché l’amore non si lascia irretire in un solo stampo, in un unico codice
di Raniero La Valle (il manifesto, 07.10.2020)
È una lettera sconcertante e potente questa che papa Francesco, facendosi “trasformare” dal dolore del mondo nei lunghi giorni della pandemia, ha scritto a una società che invece mira a costruirsi “voltando le spalle al dolore”.
Per questo la figura emblematica che fa l’identità di questa enciclica, prima ancora che quella di Francesco d’Assisi, è quella del Samaritano, che ci pone di fronte a una scelta stringente: davanti all’uomo ferito (e oggi sempre di più ci sono persone ferite, tutti i popoli sono feriti) ci sono solo tre possibilità: o noi siamo i briganti, e come tali armiamo la società dell’esclusione e dell’iniquità, o siamo quelli dell’indifferenza che passano oltre immersi nelle loro faccende e nelle loro religioni, o riconosciamo l’uomo caduto e ci facciamo carico del suo dolore: e dobbiamo farlo non solo con il nostro amore privato, ma col nostro amore politico, perché dobbiamo pure far sì che ci sia una locanda a cui affidare la vittima, e istituzioni che giungano là dove il denaro non compra e il mercato non arriva.
Ci si poteva chiedere che cosa avesse ancora da dire papa Francesco dopo sette anni di così eloquenti gesti e parole, cominciati a Lampedusa e culminati ad Abu Dhabi nell’incontro in cui si è proclamato con l’Islam che “se è uccisa una persona è uccisa l’umanità intera”, ragione per cui non sono più possibili né guerre né pena di morte.
E per Francesco neanche l’ergastolo, che “è una pena di morte nascosta”, e tanto meno le esecuzioni extragiudiziarie degli squadroni della morte e dei servizi segreti. Ebbene, la risposta sul perché dell’enciclica è che ormai non si tratta di operare qualche ritocco qua e là, ma si tratta di cambiare il paradigma dell’umano, che regge tutte le nostre culture e i nostri ordinamenti: si tratta di passare da una società di soci a una comunità di fratelli.
Perciò questa seconda lettera (l’altra è stata la Laudato sì, mentre la prima era in realtà di Ratzinger) non è un’enciclica sociale; solo una volta il papa si fa sfuggire di aver scritto un’”enciclica sociale”; in realtà essa non ha nessuna somiglianza con il “Compendio della dottrina sociale della Chiesa” fatto pubblicare nel 2004 da papa Wojtyla, in cui si pretendeva di definire per filo e per segno tutto ciò che si doveva fare nella società.
Questa invece è un’enciclica sull’amore perché passare da soci a figli vuol dire passare dalla ricerca dell’utile all’amore senza ragione: i migranti non si devono accogliere perché possono essere utili, ma perché sono persone, e i disabili e gli anziani non si devono scartare perché una società dello scarto è essa stessa inumana.
Poiché è sull’amore, questa è un’enciclica laica, anzi di una straordinaria laicità, perché l’amore non si lascia irretire in un solo stampo, in una sola proposta, in un unico codice. È impressionante come papa Francesco lasci aperte sempre altre possibilità, altre considerazioni del reale, altre strade possibili, perfino dinanzi al peccato e all’errore; sempre è invocata la pluralità, mai il relativismo, sempre il gusto delle differenze, dell’inedito, del non ancora compreso; il poliedro, mai la torre di Babele, dalla pretesa unificante.
Ci vuole fantasia per costruire la società fraterna e non è facile passare dal “legame di coppia e di amicizia” all’accoglienza verso tutti e all’”amicizia sociale”. Alle volte sembra di leggere una lezione di laicità al mondo, alle culture fissiste, come il liberismo, che fa della proprietà privata, che è “un diritto secondario”, un valore primario e assoluto, mentre originario e prioritario è il diritto all’uso comune dei beni creati per tutti; come c’è una lezione al populismo e al nazionalismo, incapaci di farsi interpellare da ciò che è diverso, di aprirsi all’universalità, chiusi come sono nei loro angusti recinti come in “un museo folkloristico di eremiti localisti”; il male è che così si perdono proprio beni irrinunciabili come la libertà o la nazione: l’economia che si sostituisce alla politica non ha messo fine alla storia ma ruba la libertà; e con la demagogia il rischio è che si perda il concetto di popolo, “mito” e istituzione insieme, a cui non si può rinunziare perché altrimenti si rinunzia alla stessa democrazia.
La stessa fraternità, dice Francesco, va strutturata in un’organizzazione mondiale garantista e efficiente, sotto “il dominio incontrastato del diritto”, anche se un progetto per lo sviluppo di tutta l’umanità “oggi suona come un delirio”.
Mentre l’enciclica si distribuiva in piazza san Pietro ed era tolto l’embargo, nelle chiese si leggeva, tra le letture del giorno, questa frase del profeta Isaia: “Egli (il Signore) si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi”. Sembrava un giudizio scritto per l’oggi, mentre Francesco è assediato, fin dentro al tempio, da mercanti e falsi difensori della fede.
È forse questo il segreto di questa enciclica: c’è, per un mondo malato, dove “tutto sembra dissolversi e perdere consistenza”, da giocare l’ultima carta, cambiare i soci in fratelli. Si potrà poi essere anche cattivi fratelli, incapaci di memoria, di pietà, di perdono, però tutti si riconosceranno investiti della infinita dignità dell’umano, questa verità che non muta, accessibile a tutti e obbligante per tutti.
Ma per essere fratelli ci vuole un padre. Perciò tutto il ministero di papa Francesco è volto a “narrare” al mondo la misericordia del Padre; lui che è il primo pastore della religione del Figlio, si mette nei panni del Figlio (com’è del resto suo compito) per recuperare la religione del Padre, per dare agli uomini un Padre in cui si riconoscano finalmente fratelli. Una cosa così “religiosa” che la voleva perfino la Rivoluzione francese; solo che, dice ora papa Francesco, se la fraternità non si esercita veramente anche la libertà e l’uguaglianza sono perdute. E il mondo, ora, sarebbe perduto con loro.
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE.
Un commento a De Domo David. 39 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò
PROVANDO E RIPROVANDO. LA STELLA E IL NARDO... Ricordando quanto sia determinante e fondamentale, oggi, ripensare sul piano antropologico (andrologico e ginecologico) e teologico la figura della “sacra famiglia” e di san Giuseppe (si cfr. i commenti a "Ggimentu, gimmientu e ggimintare" di A. Polito, Fondazione Terra d’Otranto, 06.07.2018), e “come nascono i bambini”, non posso non PLAUDIRE alla realizzazione del “convegno e del libro per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò”, con tutti i suoi molteplici contributi!!!
SUL TEMA DELLA «GIUSEPPOLOGIA», MI SIA LECITO, si cfr.: GESU’ “CRISTO”, GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE (“CHARITAS”) DI GIUSEPPE E DI MARIA!!!
Federico La Sala
Cosa significa Gesù per me
di Mohandas Karamchand Gandhi *
Benché io abbia dedicato gran parte della mia vita allo studio della religione e alla discussione con i capi religiosi di tutte le fedi, riconosco molto bene di non poter non sembrare presuntuoso nel momento in cui mi accingo a scrivere di Gesù Cristo e a cercare di spiegare ciò che Lui significa per me. (...)
... Egli è stato sicuramente il più alto esempio di chi ha desiderato di dare tutto senza chiedere in cambio niente e senza interessarsi a quale sarebbe stato il credo che avrebbe professato il ricevente. Sono sicuro che se Lui in questo momento vivesse tra gli uomini, Egli benedirebbe le vite di molti di coloro che forse non hanno mai sentito il Suo nome, se soltanto le loro vite incarnassero le virtù delle quali Lui è stato l’esempio vivente sulla terra, la virtù di amare il prossimo come se stessi e del fare del bene e della carità tra i propri simili.
Allora, cosa può significare per me Gesù? Per me Egli è stato uno dei più grandi maestri che l’umanità abbia mai conosciuto.
Secondo i Suoi credenti Egli è stato l’Unigenito Figlio di Dio. Ma il fatto che io accetti o meno questa convinzione può far sì che Gesù abbia maggiore o minore influenza nella mia vita? È forse che tutta la grandezza dei Suoi insegnamenti e della Sua dottrina devono essermi vietati? Non posso crederci.
Per me ciò implica una nascita spirituale. In altre parole, la mia interpretazione è che nella vita di Gesù vi è la chiave della Sua vicinanza a Dio e che Egli espresse, come nessun altro ha saputo fare, lo spirito e la volontà di Dio. È in questo senso che io Lo vedo e Lo riconosco come Figlio di Dio.
(...)
E poiché la vita di Gesù ha quel senso e quella trascendenza ai quali io ho alluso, credo che Egli appartenga non soltanto al cristianesimo ma al mondo intero, a tutte le razze e a tutti i popoli, poco importa sotto quale bandiera, nome o dottrina essi possano lavorare o professare una fede o adorare un dio ereditato dai propri avi.[1]
*
[1] Mohandas Karamchand Gandhi, Cosa significa Gesù per me, «Modern Review», ottobre 1941. Pubblicato in Mohandas Karamchand Gandhi, La forza della verità. Scritti etici e politici, Edizioni Sonda, Torino 1991, vol. I, pp. 458-460 .
PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI - GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE...
GESU’, GIUSEPPE, SACRA FAMIGLIA?! RESTITUIRE L’ANELLO DEL PESCATORE A GIUSEPPE... E ANNUNCIARE LA BUONA NOTIZIA!!! PER LA CHIESA CATTOLICA, SAN GIUSEPPE E’ ANCORA UN "GOJ", UNO STRANIERO. La ’buona’ novella di Luigi Pirandello
PER UNA NUOVA TEOLOGIA-POLITICA E PER UNA NUOVA CHIESA. L’INDICAZIONE DI GIOVANNI XXIII E DI GIOVANNI PAOLO II: LA RESTITUZIONE DELL’ANELLO DEL PESCATORE A GIUSEPPE.
MESSAGGIO EVANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER (E DI TUTTI I PAPI).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
«L’Eucaristia è il centro e la forma della vita della Chiesa» Papa Francesco:
38285 CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. Per quanto possa sembrare paradossale, le donne sono le grandi assenti dal Sinodo dei vescovi per la famiglia in corso in Vaticano. E la necessità di una loro presenza e di un rilancio del loro ruolo, nella Chiesa in primo luogo, è stata espressa ed avvertita acutamente non solo all’esterno dell’evento sinodale, ma anche durante gli interventi.
Scalpore ha suscitato, infatti, la proposta avanzata dal vescovo canadese di Gatineau (Québec), già presidente della Conferenza episcopale, mons. Paul-André Durocher, che non solo nel corso della prima conferenza stampa del Sinodo aveva mostrato di volersi dissociare dall’analisi conservatrice e chiusa dell’ungherese card. Péter Erdö, ma nel suo intervento, nel corso della I Congregazione generale, ha ipotizzato per le donne l’accesso al diaconato e all’omelia. E ancora: sottolineando l’attuale situazione di violenza domestica di cui le donne sono vittime, ha auspicato una parola forte del Sinodo sul tema.
«Le statistiche più recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità - ha detto - rivelano questo fatto sconvolgente: ancora oggi, circa un terzo delle donne nel mondo sono vittime di violenze coniugali». A partire da questi dati, ha proseguito, è necessario che «questo Sinodo affermi chiaramente che un’interpretazione corretta delle Scritture non permette mai di giustificare il dominio dell’uomo sulla donna. In particolare, questo Sinodo dovrebbe affermare che i passaggi in cui San Paolo parla della sottomissione della donna al marito non possono giustificare il dominio dell’uomo sulla donna, e ancor meno la violenza nei suoi riguardi».
Ma bisogna andare più lontano, ha affermato il vescovo canadese. Per manifestare la pari dignità di donne e uomini nella Chiesa, Durocher propone al Sinodo tre «piste di azione»: in primo luogo, «che questo Sinodo consideri la possibilità di consentire a uomini e donne sposati, ben formati e accompagnati, di prendere la parola alle omelie della Messa, al fine di testimoniare il legame fra la Parola proclamata e la loro vita di sposi e di genitori»; poi, «che al fine di riconoscere l’uguale capacità delle donne di assumere posizioni decisionali nella Chiesa, questo Sinodo raccomandi di nominare delle donne ai posti che possano occupare nella Curia romana e nelle nostre Curie diocesane». Infine, «riguardo al diaconato permanente, che questo Sinodo raccomandi l’avvio di un processo che possa eventualmente aprire alle donne l’accesso a questo ordine che, come dice la tradizione, non è orientato al sacerdozio, ma al ministero».
Un approccio analogo è quello di mons. Claude Rault, vescovo di Laghouat-Ghardaia (Algeria, Paese rappresentato al Sinodo da mons. Jean-Paul Vesco, vescovo di Orano), il quale, intervistato da Il Regno (9/10) sui temi sinodali in occasione del tour di presentazione del suo ultimo libro, ha sottolineato che «fintantoché la donna nella Chiesa non avrà accesso ai luoghi nei quali si prendono le decisioni, la Chiesa sarà solo a metà».
Le proposte di Durocher hanno incontrato il consenso della Women Ordination Conference (Woc), che da anni si batte per il sacerdozio femminile. «Applaudiamo l’arcivescovo per aver avanzato la proposta [del diaconato] ad un organismo votante composto di soli uomini e per aver sottolineato il legame tra la “degradazione” delle donne nella Chiesa e nella società e la violenza contro le donne nel mondo », è il commento della Woc. Il “dominio” sulle donne «non è mai accettabile e finché le donne non saranno trattate come pari la nostra Chiesa perpetuerà una disuguaglianza contraria al Vangelo».
L’inclusione delle donne nel diaconato, prosegue la Woc, non è nulla di nuovo ed è «un atto più che dovuto da tempo»: rappresenterebbe un ritorno della Chiesa «alle sue antiche radici, quando vi erano diaconi uomini e donne. E se in alcune parti della Chiesa orientale il diaconato femminile è vivo anche oggi, sappiamo che in Occidente fu soppresso solo sulla base dei pregiudizi contro le donne».
Tra le mura vaticane, invece, una certa freddezza: «Donne diacono? È da vedere, perché c’è di mezzo la sacramentalità», ha detto a RepTv, il canale video de La Repubblica (8/10), l’arcivescovo di Ancona-Osimo card. Edoardo Menichelli. «Per il resto, la collocazione nella vita della Chiesa è invece più che auspicabile, ma è già cominciata. Se si pensa che in una Congregazione della Santa Sede il Sottosegretario, cioè la terza autorità, è una donna, credo che questa sia già una buona risposta».
Dove sono le donne?
Sull’assenza delle donne all’interno del Sinodo e nella Chiesa cattolica si è pronunciato anche p. Tony Flannery, redentorista irlandese, tra i fondatori dell’Association of Catholic Priests. In un appello pubblicato sul suo blog (5/10) ha infatti invitato ad aprire una discussione sulla questione del sacerdozio femminile, chiedendo ai sacerdoti che condividono questa idea di farsi avanti (scrivendogli all’indirizzo flannerytony@gmail.com).
E anche dai valdesi arriva qualche critica. «Il Sinodo che si occuperà dei temi della famiglia vede un soggetto del tutto assente: le donne», ha scritto la teologa valdese Letizia Tomassone in un editoriale pubblicato su Nev. «Solo 13 presenze, di cui tre religiose nominate e non elette, e tutte senza possibilità di voto». «È necessario che le diversità siano ascoltate e non messe a tacere o demonizzate e che costituiscano la base e la linfa del magistero cattolico».
Un’assenza che riguarda anche la rappresentanza delle Chiese non cattoliche al Sinodo, come evidenziato dal pastore metodista Tim Macquiban (Nev, 8/10): «È una spiacevole ed evidente realtà che tutti i votanti siano uomini e riflette il triste sbilanciamento di genere della leadership delle Chiese in generale, sia cattoliche che non cattoliche». L’anno scorso al Sinodo straordinario, rileva Macquiban, c’era almeno una donna tra i rappresentanti non cattolici.
Di estrema attualità, dunque, la recentissima pubblicazione del libro che raccoglie 40 interventi scritti da altrettante teologhe di ogni provenienza geografica - dal titolo Catholic Women Speak: Bringing Our Gifts to the Table (v. Adista Notizie n. 33/15) - che costituisce il primo frutto di un progetto che ha visto confrontarsi centinaia di donne cattoliche da ogni parte del mondo grazie a un forum online (www.catholicwomenspeak. com).
(ludovica eugenio)
* ADISTA Notizie, 17 ottobre 2015 - n. 35
«No ai “cattolici ma non troppo”. Attenti a egoismo e potere»
Il Papa a Santa Marta: «Dio dona con gratuità, tanto grande che ci fa paura»; con Lui «il contraccambio non serve»; la fiducia non piena nel Signore «ci rimpiccolisce»
di Domenico Agasso jr (La Stampa, 4/11/2014)
Roma Il Signore dona con gratuità, ecco perché nella legge del Regno di Dio il «contraccambio non serve». Ma la Sua gratuità provoca paura, «è tanto grande che ci fa paura». Papa Francesco nell’omelia della Messa mattutina a Casa Santa Marta - sintetizzata da Radio Vaticana - ha avvertito che, a volte, per egoismo o voglia di potere si rifiuta la festa a cui il Signore invita gratuitamente. A volte, ha avvertito, ci si fida di Dio «ma non troppo».
Un uomo dà una festa, ma gli invitati trovano delle scuse per non andare: il Pontefice ha sviluppato la sua omelia partendo da questa parabola, che fa pensare, ha detto, perché «a tutti piace andare a una festa, piace essere invitati»; ma in questo banchetto «c’era qualcosa» che a tre invitati, «che sono un esempio di tanti, non piaceva».
Uno dice che deve vedere il suo campo, ha voglia di vederlo per sentirsi «un po’ potente», «la vanità, l’orgoglio, il potere e preferisce quello piuttosto che rimanere seduto come uno tra tanti». Un altro ha comprato cinque buoi, quindi è concentrato sugli affari e non vuole «perdere tempo» con altra gente. L’ultimo infine si scusa dicendo di essere sposato e non vuole portare la sposa alla festa.
«No - ha detto il Papa - voleva l’affetto per se stesso: l’egoismo». «Alla fine - ha proseguito - tutti e tre hanno una preferenza per se stessi, non per condividere una festa: non sanno cosa sia una festa».
Sempre, ha ammonito Papa Bergoglio, «c’è l’interesse, c’è quello che Gesù» ha spiegato come «il contraccambio»: «Se l’invito fosse stato, per esempio: “Venite, che ho due o tre amici affaristi che vengono da un altro Paese, possiamo fare qualcosa insieme”, sicuramente nessuno si sarebbe scusato. Ma quello che spaventava loro, era la gratuità. Essere uno come gli altri, lì? Proprio l’egoismo, essere al centro di tutto... È tanto difficile ascoltare la voce di Gesù, la voce di Dio, quando uno gira intorno a se stesso: non ha orizzonte, perché l’orizzonte è lui stesso. E dietro a questo c’è un’altra cosa, più profonda: c’è la paura della gratuità. Abbiamo paura della gratuità di Dio. È tanto grande che ci fa paura».
Questo, ha detto, avviene «perché le esperienze della vita, tante volte ci hanno fatto soffrire» come succede ai discepoli di Emmaus che si allontanano da Gerusalemme o a Tommaso che vuole toccare per credere. Quando «l’offerta è tanta - ha detto, riprendendo un proverbio popolare - persino il Santo sospetta», perché «la gratuità è troppa». «E quando Dio ci offre un banchetto così», ha affermato Francesco, pensiamo sia «meglio non immischiarsi»: «Siamo più sicuri nei nostri peccati, nei nostri limiti, ma siamo a casa nostra; uscire da casa nostra per andare all’invito di Dio, a casa di Dio, con gli altri? No. Ho paura. E tutti noi cristiani abbiamo questa paura: nascosta, dentro... ma non troppo. Cattolici, ma non troppo. Fiduciosi nel Signore, ma non troppo. Questo “ma non troppo”, segna la nostra vita, ci fa piccoli, no?, ci rimpiccolisce».
«Una cosa che mi fa pensare - ha aggiunto il Papa - è che, quando il servo riferì tutto questo al suo padrone, il padrone» si adira perché è stato disprezzato. E manda a chiamare tutti i poveri, gli storpi, per le piazze e le vie della città. Il Signore chiede al servo che costringa le persone a entrare alla festa. «Tante volte - ha commentato Francesco - il Signore deve fare con noi lo stesso: con le prove, tante prove»: «Costringili, che’ qui sarà la festa. La gratuità. Costringe quel cuore, quell’anima a credere che c’è gratuità in Dio, che il dono di Dio è gratis, che la salvezza non si compra: è un grande regalo, che l’amore di Dio... è il regalo più grande! Questa è la gratuità. E noi abbiamo un po’ di paura e per questo pensiamo che la santità si faccia con le cose nostre e alla lunga diventiamo un po’ pelagiani eh! La santità, la salvezza è gratuità».
Gesù, ha evidenziato il Pontefice, «ha pagato la festa, con la sua umiliazione fino alla morte, morte di Croce. E questa è la grande gratuità». Quando si osserva il Crocifisso, ha detto ancora, pensiamo che «questa è l’entrata alla festa»: «Sì, Signore, sono peccatore, ho tante cose, ma guardo Te e vado alla festa del Padre. Mi fido. Non rimarrò deluso, perché Tu hai pagato tutto».
Oggi «la Chiesa ci chiede di non avere paura della gratuità di Dio»; soltanto, «noi dobbiamo aprire il cuore - ha concluso - fare da parte nostra tutto quello che possiamo; ma la grande festa la farà Lui».
Il Papa ai parlamentari: “Attenti a non abbandonare il popolo”
Bergoglio ha celebrato questa mattina una messa con 298 deputati e 176 senatori. "I peccatori saranno perdonati, i corrotti no"
di Iacopo Scaramuzzi (La Stampa, 27/03/2014)
Città del Vaticano. Una messa semplice, senza fronzoli né protocollo straordinario, con una breve omelia pronunciata a braccio. Papa Francesco ha celebrato messa stamane alle sette per i parlamentari italiani. C’erano quasi cinquecento parlamentari, nove ministri, i presidenti di Camera e Senato (ma non il premier Matteo Renzi).
Una presenza imponente, al punto che la messa, che doveva tenersi inizialmente nelle Grotte vaticane, è stata invece celebrata nella basilica vaticana a causa dell’alto numero di partecipanti. Il Papa argentino, per il resto, ha presenziato la celebrazione eucaristica come ogni mattina nella casa Santa Marta dove risiede. Stesso linguaggio durante la predicazione, stessa asciuttezza di stile, tematiche tipicamente bergogliane (la corruzione, il rischio di allontanarsi dalla misericordia di Dio, il linguaggio evangelico sui “sepolcri imbiancati”), giornalisti e telecamere non previsti. E alla fine, nel percorso verso l’uscita, si è soffermato a salutare solo Laura Boldrini, Pietro Grasso e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Graziano del Rio, per poi rientrare a casa e preparare l’udienza al presidente Usa Barack Obama.
Al tempo di Gesù - è il tema dell’omelia riportato dalla Radio vaticana - c’era una classe dirigente che si era allontanata dal popolo, lo aveva “abbandonato”, incapace di altro se non di seguire la propria ideologia e di scivolare verso la corruzione. Interessi di partito, lotte interne. Le energie di chi comandava ai tempi di Gesù erano per queste cose al punto che quando il Messia si palesa ai loro occhi non lo riconoscono, anzi lo accusano di essere un guaritore della schiera di Satana.
La prima lettura, tratta dal Libro di Geremia, mostra il profeta dare voce al “lamento di Dio” verso una generazione che, osserva il Papa, non ha accolto i suoi messaggeri e che invece si giustifica per i suoi peccati. “Mi hanno voltato le spalle”, ha citato Papa Francesco, commentando: “Questo è il dolore del Signore, il dolore di Dio”.
E questa realtà, prosegue, è presente anche nel Vangelo del giorno, quella di una cecità nei riguardi di Dio soprattutto da parte dei leader del popolo: “Il cuore di questa gente, di questo gruppetto con il tempo si era indurito tanto, tanto, tanto che era impossibile sentire la voce del Signore. E da peccatori, sono scivolati, sono diventati corrotti. E’ tanto difficile che un corrotto riesca a tornare indietro. Il peccatore, sì, perché il Signore è misericordioso e ci aspetta tutti. Ma il corrotto è fissato nelle sue cose, e questi erano corrotti. E per questo si giustificano, perché Gesù, con la sua semplicità, ma con la sua forza di Dio, dava loro fastidio”.
Persone, ha proseguito Papa Francesco a quanto riportato sempre dalla Radio vaticana, che “hanno sbagliato strada. Hanno fatto resistenza alla salvezza di amore del Signore e così sono scivolati dalla fede, da una teologia di fede a una teologia del dovere”: “Hanno rifiutato l’amore del Signore e questo rifiuto ha fatto di loro che fossero su una strada che non era quella della dialettica della libertà che offriva il Signore, ma quella della logica della necessità, dove non c’è posto per il Signore. Nella dialettica della libertà c’è il Signore buono, che ci ama, ci ama tanto! Invece, nella logica della necessità non c’è posto per Dio: si deve fare, si deve fare, si deve... Sono diventati comportamentali. Uomini di buone maniere, ma di cattive abitudini. Gesù li chiama, a loro, ‘sepolcri imbiancati’”.
La Quaresima, ha concluso Papa Francesco, ricorda che “Dio ci ama tutti” e che dobbiamo “fare lo sforzo di aprirci” a lui: “In questa strada della Quaresima ci farà bene, a tutti noi, pensare a questo invito del Signore all’amore, a questa dialettica della libertà dove c’è l’amore, e domandarci, tutti: ‘Ma, io sono su questa strada? Ho il pericolo di giustificarmi e andare per un’altra strada?’. Una strada congiunturale, perché non porta a nessuna promessa ... E preghiamo il Signore che ci dia la grazia di andare sempre per la strada della salvezza, di aprirci alla salvezza che soltanto viene da Dio, dalla fede, non da quello che proponevano questi ‘dottori del dovere’, che avevano perso la fede a reggevano il popolo con questa teologia pastorale del dovere”.
Alla messa erano presenti 176 senatori, 298 deputati, alcuni europarlamentari ed ex parlamentari, e poi, oltre Boldrini (che ha twittato: "Messa con Papa Francesco, suo messaggio sferzata a classe dirigente che non deve trincerarsi, ma essere capace di ascoltare e dare risposte"), Grasso e Del Rio, i ministri Alfano (Interno), Boschi (Riforme e Rapporti con il Parlamento), Madia (Pubblica amministrazione), Pinotti (Difesa), Lupi (Infrastrutture e Trasporti), Giannini (Istruzione), Lorenzin (Sanità), Orlando (Giustizia).
Interpellati dai giornalisti presenti all’uscita, alcuni parlamentari hanno commentato brevemente l’omelia del Papa. “Il Papa ha fatto una predica sulla necessità di stare vicini al popolo”, ha detto Del Rio. “E’ stata messa semplice ed essenziale, un inno alla preghiera”, secondo Roberto Formigoni (Ncd). “Il Papa ci ha dato un messaggio duro e semplice. Ha redarguito la politica dicendo che siamo tutti peccatori”, per Maria Stella Gelmini (Fi). Su Twitter Renato Farina ha riportato alcune frasi dell’omelia. Non era presente, sebbene nei giorni scorsi fosse stata ipotizzata sui giornali la presenza del presidente del Consiglio Matteo Renzi, che peraltro non è un parlamentare, per il quale il Palazzo apostolico e Palazzo Chigi stanno organizzando una udienza ad hoc.
DECRETO
San Giuseppe, un modello sempre attuale
Il suo nome nelle Preghiere eucaristiche
di Matteo Liut (Avvenire, 19 giugno 2013)
È san Giuseppe, umile custode di un tesoro prezioso, il modello da incarnare con sempre maggiore efficacia nel mondo di oggi. Questo mandato alla Chiesa universale è alla base della decisione di inserire il nome dello sposo della Vergine Madre di Dio nella seconda, nella terza e nella quarta Preghiera eucaristica, estendendo così anche a questi testi più moderni quanto avviene già per la prima Preghiera eucaristica, il Canone Romano. Così dopo le parole «con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio» d’ora in poi bisognerà sempre aggiungere anche «con san Giuseppe, suo sposo». La decisione è stata annunciata ieri dalla Sala stampa vaticana, che ha pubblicato in diverse lingue un decreto emesso dalla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei Sacramenti.
Un documento che riporta la data dello scorso 1° maggio e le firme del cardinale Antonio Cañizares Llovera e dell’arcivescovo Arthur Roche, rispettivamente prefetto e segretario del Dicastero vaticano. L’indicazione non è frutto di una decisione dell’ultimo minuto, ma, secondo quanto riporta lo stesso decreto, è stata voluta da Benedetto XVI e ora realizzata da papa Francesco. «Nella Chiesa cattolica i fedeli hanno sempre manifestato ininterrotta devozione per san Giuseppe - si legge nel documento - e ne hanno onorato solennemente e costantemente la memoria di sposo castissimo della Madre di Dio e patrono celeste di tutta la Chiesa, al punto che già il beato Giovanni XXIII, durante il Sacrosanto Concilio ecumenico vaticano II, decretò che ne fosse aggiunto il nome nell’antichissimo Canone Romano».
Benedetto XVI, spiega ancora il decreto, «ha voluto accogliere e benevolmente approvare i devotissimi auspici giunti per iscritto da molteplici luoghi, che ora il sommo pontefice Francesco ha confermato, considerando la pienezza della comunione dei santi che, un tempo pellegrini insieme a noi nel mondo, ci conducono a Cristo e a lui ci uniscono». Un gesto, quindi, che rende ancora più forte la continuità tra i pontificati di Joseph Ratzinger e di Jorge Mario Bergoglio: il primo, infatti, ha più volte ricordato la sua profonda devozione al «proprio santo», il secondo porta nel proprio stemma (da vescovo, cardinale e pontefice) il nardo, simbolo dello sposo di Maria. Inoltre il pontificato del Papa argentino è stato ufficialmente inaugurato con la Messa d’inizio del ministero petrino proprio il 19 marzo, giorno in cui la Chiesa festeggia san Giuseppe. In lui, ha detto Francesco nell’omelia quel giorno, «vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo! Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato!».
Parole cui fa eco in parte anche la spiegazione contenuta nel decreto diffuso ieri: san Giuseppe - vi si legge - «aderendo pienamente agli inizi dei misteri dell’umana salvezza, è divenuto modello esemplare di quella generosa umiltà che il cristianesimo solleva a grandi destini e testimone di quelle virtù comuni, umane e semplici, necessarie perché gli uomini siano onesti e autentici seguaci di Cristo. Per mezzo di esse quel Giusto, che si è preso amorevole cura della Madre di Dio e si è dedicato con gioioso impegno all’educazione di Gesù Cristo, è divenuto il custode dei più preziosi tesori di Dio Padre» ed è stato venerato nei secoli «quale sostegno di quel corpo mistico che è la Chiesa». Una Chiesa che oggi vuole ripartire proprio dal suo esempio.
Matteo Liut
PAPA FRANCESCO / I SIMBOLI
-Conservato il motto,
l’anello sarà d’argento *
La celebrazione di domani partirà dalla tomba di San Pietro, dove ci saranno preparati l’anello del pescatore e il pallio, i due segni del ministero petrino, che verranno consegnati al Papa. Il pallio è consegnato dal cardinale protodiacono Jean-Louis Tauran. Il cardinale primo dell’ordine dei presbiteri, Godfried Daneels, farà una preghiera e il cardinale decano, il primo dell’ordine dei vescovi, Angelo Sodano, gli consegnerà l’anello del pescatore. Lo ha riferito Padre Federico Lombardi.
L’anello del pescatore scelto da Papa Bergoglio che gli verrà consegnato domani è in argento dorato. Padre Lombardi ha spiegato che il modello dell’anello era stato dato dall’artista Enrico Manfrini al segretario di Paolo VI, mons. Macchi. In questi giorni è stato proposto al papa dal maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie, monsignor Guido Marini, insieme con altri due modelli. Il Papa ha scelto, fra i tre propostigli, quello dell’artista scomparso a 87 anni nel 2004 a Milano, conosciuta anche come "lo scultore dei papi". Nell’anello c’è l’immagine di San Pietro con le chiavi.
Papa Francesco ha inoltre deciso di conservare il suo stemma episcopale e il motto ’miserando atque eligendo", tratto dalla vocazione di San Matteo ("Vide Gesù un pubblicano e siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: Seguimi".)
Il pallio che domani verrà consegnato e Papa Francesco "è lo stesso di Benedetto XVI". Lo ha detto il direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi, nel briefing con i giornalisti. Il pallio è la fascia di lana bianca con le croci rosse che simboleggia il Buon Pastore e, insieme all’anello del pescatore, è uno dei due simboli del ministero petrino.
* Avvenire, 18 marzo 2013
di Luca Kocci (il manifesto, 17 marzo 2013)
Con l’ Angelus in piazza san Pietro, questa mattina, ci sarà il primo vero bagno di folla di papa Bergoglio. In attesa di martedì quando, con la messa di inizio pontificato, è atteso a Roma un milioni di persone, con oltre 100 capi di Stato e di governo.
Intanto, nelle occasioni pubbliche di questi giorni, Bergoglio si conferma papa mediatico e innovatore, perlomeno nei gesti e nelle parole. «Un rottamatore che sta smontando pezzo dopo pezzo il cerimoniale moderno dei pontefici», dice lo storico Alberto Melloni.
Ieri, per esempio, alla fine dell’udienza ai 5mila giornalisti che hanno seguito il conclave, il papa ha eliminato la benedizione solenne, che Ratzinger faceva spesso in latino. «Dato che molti di voi non appartengono alla Chiesa e non sono credenti - ha detto in spagnolo -, imparto la benedizione, in silenzio, rispettando la coscienza di ciascuno».
Bergoglio ha anche svelato come sono andate le cose per la scelta del nome Francesco. Appena superato il quorum del 77 voti, il suo vicino di posto in conclave, il francescano brasiliano Hummes, gli ha detto «non dimenticare i poveri». Subito, spiega Bergoglio, «ho pensato a Francesco d’Assisi, l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato, e in questo momento noi non abbiamo una buona relazione con il creato».
E ha confessato anche il suo desiderio di «una Chiesa povera e per i poveri». Un’affermazione decisamente in controtendenza rispetto al trionfalismo trasmesso dagli ultimi due pontificati di Wojtyla e Ratzinger.
Che tuttavia, facendo un po’ di esegesi, rivela una visione diversa da quella conciliare: papa Roncalli parlò di «Chiesa dei poveri», quella di Bergoglio è una Chiesa «per i poveri», in cui quindi la componente paternalistica e caritatevole sembra prevalere rispetto a quella di liberazione.
Arrivano anche i primi atti di governo del nuovo papa, con la conferma, scontata, dei capi dei dicasteri curiali e vaticani «donec aliter provideatur», cioè fino a che non si provveda altrimenti.
Tuttavia, nel comunicato della sala stampa, c’è una precisazione non scontata: «Il santo padre desidera riservarsi un certo tempo per la riflessione, la preghiera e il dialogo, prima di qualunque nomina o conferma definitiva».
Non andò così con Ratzinger il quale, due giorni dopo la sua elezione a papa, confermò come segretario di Stato il cardinal Sodano, citandolo espressamente, e lasciandolo al suo posto per oltre un anno, fino al raggiungimento dell’età pensionabile. E così fece con molti altri, a partire dai due sostituti della Segreteria di Stato, per gli Affari generali e per i Rapporti con gli Stati (i ministri degli Interni e degli Esteri).
Sembrerebbe invece che Bergoglio - perlomeno a questo fa pensare l’inciso del comunicato ufficiale - voglia prendersi ancora qualche settimana di tempo per poi procedere ad un ricambio robusto e generalizzato dei vertici della curia e del governatorato, cominciando proprio dalla Segreteria di Stato di Bertone.
Saranno proprio queste nomine a rivelare se veramente quello di Bergoglio sarà un pontificato di rottura e quale direzione potrà prendere, al di là dei gesti e delle parole apparentemente “rivoluzionarie” di questi giorni.
Domani ci sarà la prima udienza del papa con un capo di Stato: la presidente argentina Cristina Kirchner. E fra i due i rapporti sono tutt’altro che pacifici: Bergoglio, da presidente della Conferenza episcopale argentina (fino al 2011) e da vescovo di Buenos Aires, non è mai stato un suo sostenitore.
MESSAGGIO DELL’EVANGELO ("DEUS CHARITAS EST": 1 Gv. 4.8), MESSAGGIO DEL POSSESSORE DELL’"ANELLO DEL PESCATORE" ("DEUS CARITAS EST": BENEDETTO XVI, 2006), E TEOLOGIA POLITICA DELL’"UOMO SUPREMO" ("DOMINUS IESUS", 2000):
Il battesimo
di G.Dossetti (dalla Omelia del sabato di Pasqua - 1970)
“Una sola cosa diciamo: un ulteriore commento lo faremo in un atto di potenza, tra pochi istanti, con la celebrazione del rito del battesimo che è rito di potenza, con il quale nel nome del Signore, in Cristo risorto, per la potenza dello Spirito, la comunità della Chiesa che siamo tutti noi genera alla vita divina un nuovo figlio.
Battezzeremo adesso un piccolo con la nuova acqua battesimale fecondata dalla potenza dello Spirito del Signore risorto. E’ questa, per eccellenza, l’ora messianica, nella quale viene compiuta veramente la nuova creazione. Come l’antica creazione, come il primo mondo uscito all’inizio dalle mani di Dio e violato poi dal peccato, aveva un capo e delle membra, Adamo e i suoi discendenti, così il nuovo mondo, la nuova creazione scaturita da questa notte pasquale, ha un nuovo capo e nuove membra: il capo, il Cristo risorto; le membra, i figli rigenerati dall’acqua del battesimo fecondata dalla potenza del suo Spirito effuso attraverso la sua passione e la sua risurrezione.
E noi ci dobbiamo sempre più abituare - ed ecco il commento nel rito di potenza che compiremo adesso - a vedere questa notte pasquale non solo come la notte in cui Cristo è risorto, ma la notte in cui viene al mondo un uomo nuovo, un uomo diverso da quello che viene generato secondo la carne e il sangue.
Il bimbo che fra poco battezzeremo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, generato dai suoi genitori è carne e soffio vitale, ma generato dall’acqua scaturita dal costato di Cristo, nella potenza del battesimo della sua morte e della sua risurrezione, è carne e Spirito Santo. Il suo destino umano sarebbe la morte, il destino divino che viene suggellato su di lui dal risorto presente tra noi e tra noi operante è la vita e la vita divina.
Ecco allora quello che non noi, ma il Signore presente tra di noi opererà tra poco.”
PAROLA A RISCHIO
- Risalire gli abissi
- La salvezza è per tutti. Alla portata di tutti.
- Perché è sorriso, liberazione, gioia.
di Giovanni Mazzillo (Teologo) *
G come gioia, come Gesù, respiro di gioia per tutti gli infelici della terra. Parliamo di Gesù, il cui corrispondente nome greco Iesoûs deriva direttamente dall’originale ebraico Je(ho)šhu e significa JHWH salva, per precisare immediatamente che il termine salvezza oggi non significa gran che per i nostri contemporanei, e di conseguenza risuona poco interessante persino quel nome, pur originariamente portatore di una gioia immensa e inaudita. Ciò avviene non solo per l’inevitabile logorio delle parole più usate e talora abusate, ma per il fatto che ha perso rilevanza e pertanto significato il valore stesso della “salvezza”.
Salvezza
Salvezza da chi e/o da che cosa? Appunto, è questo il primo problema. La salvezza appare di primo acchito un concetto immediatamente derivato dal superamento di una situazione negativa, Si salva, o come succede in questo caso, viene salvato, qualcuno che si trova in una situazione di pericolo. Il pericolo di perdere qualcosa, di perdere se stesso. Di essere cancellato, di sparire, appunto come sparisce da un computer un testo non “salvato” o un’immagine non messa al sicuro. Ma essere salvati è per noi persone umane, e pertanto non riducibili a una traccia di codificazione binaria o algoritmica, molto di più che conservare un’impronta e una presenza. Coerentemente con la nostra realtà dinamica e relazionale, essere salvati significa avere un luogo, un senso, una rilevanza nel contesto di una realtà che giustifica, sorregge, garantisce il mantenimento e la crescita qualitativa, e pertanto il conseguente riconoscimento di un originario, inalienabile, imprescindibile valore personale.
La domanda «Chi o che cosa si può dire oggi salvato?» esige pertanto una primordiale differenziazione. Altro è il concetto di ciò che è salvato (cioè il dato messo al sicuro), ben altro è l’essere umano salvato. Questi non è solo garantito in ciò che ha di più proprio e pertanto è distinto dal mero “dato”, che invece è una sorta di file compilato (non per nulla in tedesco proprio il file è chiamato Datei, leggi datai, cioè «rea-ltà data»). L’essere umano è tale solo in un incontro, in una relazione. La persona è tutta nelle relazioni delle quali vive. Proprio la relazionalità sorregge il senso e la gioia del suo esistere.
L’annuncio di Gesù, già nella sua venuta in questo nostro mondo, è l’annuncio di una relazionalità umana felicemente riuscita. Nel Vangelo è direttamente collegato alla Grazia, termine che esprime tutto ciò e anche qualcosa di più.
Nell’annuncio della sua nascita, diversamente da quanto appare nella traduzione latina, e in quella italiana da essa derivata, nella preghiera più popolare che ci sia, Maria è salutata non con il saluto che si dava all’imperatore, alle autorità o anche agli amici con l’esclamativo «Ave!», bensì con l’invito a rallegrarsi, cioè a gioire (chaîre): a entrare in un circuito di esultanza per un dono gratuito e inatteso. Colei che è piena di grazia (kecharitōménē) è invitata a rallegrarsi perché tutto in lei è frutto ed espressione della «grazia» (cháris), cioè di un dono amorevole quanto sorprendente, che sarà presto annuncio di gioia per tutto il popolo e per ogni uomo: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù...”. L’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia...» (Lc 1,30-31; 2,10-11).
Il resto del Vangelo, soprattutto quello di Luca, evidenzia la gioia improvvisa e incontenibile che contagia quanti vengono a contatto con Ješhu. A cominciare da Elisabetta e dal suo bambino, che le esulta nel grembo, il futuro Battista. Così esultano ancora due anziani che sembrano essere rimasti in vita per mantenere viva la speranza d’Israele: Simeone e Anna, o i pastori; mentre nel racconto di Matteo, viene detto che i Magi “provarono una grandissima gioia” nel rivedere la stella che indicava il luogo della natività di Gesù.
La stessa gioia è testimoniata dai semplici e dagli umili, dagli infelici e dai peccatori che si sentono aiutati, capiti, perdonati. A gioire sono ancora i bambini e le donne, classi tradizionalmente neglette dalla piena partecipazione alla grazia collegata alle tradizionali benedizioni di Dio. Insomma il cuore del Vangelo è la lieta notizia annunciata ai bisognosi e agli infelici della terra. Il Dio che si dona totalmente, è il Dio che dona illimitatamente la gioia agli uomini. E perché la nostra gioia fosse piena (Gv 15,11), il Figlio di Dio è arrivato umanamente a perdere se stesso.
Perché avessimo una gioia che nessuno avrebbe mai più potuto toglierci, ha permesso che fosse tolta a lui la vita, per riprenderla di nuovo, ma con la conoscenza ormai nella sua carne e nella sua psiche di cosa significhi la morte umana. Di cosa voglia dire la gioia di vivere, di vivere non con il naturale sorriso con cui vive ogni creatura per la stessa gioia dell’esistere, ma di provare e diffondere la gioia di chi conosce la sofferenza e non resta inchiodato alla sofferenza. O al limite, di chi, nonostante le ferite e talora i chiodi mai interamente rimossi della sofferenza, sa sorridere della vita, perché questa è ormai rischiarata da colui che vince la morte e la depressione della sofferenza.
La gioia è dunque uno dei nomi della salvezza, ma di una salvezza che assume di volta in volta nomi nuovi e nomi antichi: riscatto, liberazione, sensatezza, leggerezza dell’esistere... Se la parola non fosse tanto inflazionata, si potrebbe dire che la salvezza altro non è che la felicità. È la felicità nel suo senso etimologico: come abbondanza e fertilità. Possiamo tradurre: come vita sensata che raggiunge il suo scopo e nasce da relazioni benevole, tendenti al bene altrui, trovando negli altri la propria gioia e comunicandola con relazioni che fanno crescere se stessi e gli altri.
In quanto tale, la felicità è simile alla pace e ne è la forma storica: è star bene con sé e con gli altri, con il proprio passato e con il proprio futuro. Perché, soprattutto oggi, c’è bisogno paradossalmente più di ricostruire il futuro che il passato o il presente. Per poterlo fare c’è bisogno di quella gioia consapevole che non si arrende e che non si ripiega su se stessa. Si ritrova nel futuro di una convivenza che non nasconde, ma sa riconoscere e superare i conflitti attraverso uno sguardo d’amore verso ciò che ci è intorno. È uno guardo che viene da lontano e tuttavia tocca la nostra umanità, questa mia e questa tua umanità, quella assunta, attraversata e come divinizzata da quel Gesù che continuamente dà senso a ogni tentativo di superare la violenza con l’amore. È l’unico a dar senso a ogni discorso di pace, anche questo che hai appena finito di leggere.
* MOSAICO DI PACE, LUGLIO 2012
La celebrazione nel cuore dell’estate della festa dell’Assunzione
Maria, parola-segno di consolazione e speranza
di Mauro Cozzoli (Avvenire, 12 agosto 2012
Nel cuore dell’estate la liturgia ci fa celebrare la festa della Assunzione di Maria. È un segno dell’accompagnamento della Chiesa, che con la sua liturgia ritma i tempi della nostra vita, anche i tempi di vacanza. Tempi mai vuoti ma particolarmente propizi - perché liberi da incombenze e preoccupazioni lavorative - per elevare lo sguardo e prendersi cura di sé, della propria vita interiore, della propria anima. Elevare lo sguardo ai segni della grazia, che non mancano, ma hanno bisogno di occhi attenti per essere riconosciuti e accolti. Riconoscerli e accoglierli per arginare quel logorio etico-spirituale che gli affanni del quotidiano alimentano e dilatano. Logorio provato come senso di smarrimento, insignificanza, insoddisfazione, estraneità, apatia. Il segno dei segni - il segno primordiale e centrale della grazia - è Cristo, la sua umanità. Poi - ci dice san Paolo - «quelli che sono di Cristo». E «di Cristo» è prima di tutto sua madre.
Di qui l’attenzione privilegiata della Chiesa a Maria, per imparare da lei, la nuova Eva: figura dell’umanità rinnovata. Icona di perfetta umanità, in rapporto a quei limiti esistenziali da cui non c’è auto-liberazione (redenzione a opera dell’uomo) ma soltanto liberazione dall’alto, a opera della grazia. E Maria - come la dice il vangelo - è la «piena di grazia», nella quale «grandi cose ha fatto l’Onnipotente». Così da essere additata dal Concilio Vaticano II come «eccellentissimo modello», cui guardare per sapere chi siamo e chi siamo destinati ad essere.
I due grandi limiti da cui non c’è auto-liberazione e che angosciano ineludibilmente l’animo umano sono la morte e il peccato, dai quali Maria - per singolare privilegio divino - è stata preservata. Per cui la Chiesa la riconosce e la proclama "Immacolata" e "Assunta". Non per nulla le due grandi solennità mariane sono «l’Immacolata concezione» e «l’Assunzione al Cielo». Due festività che, attraverso la devozione e la pietà popolare, hanno acquisito valenza e spessore sociale e culturale nella nostra gente. Così da sentirsi incoraggiata e sospinta a guardare e accostarsi a Maria per affrontare e amare la vita e non soccombere al tormento della colpa e allo sgomento della fine. In una socio-cultura (e socio-economia) del disincanto, che abbandona gli animi alla mestizia della disillusione, abbiamo bisogno di segni trasparenti e attraenti di umanità.
Segni in cui riconoscerci per continuare o tornare a credere nella vita, specialmente quando questa si fa buia e la tentazione opprimente. Non parole-teorie, ancor meno parole "a perdere". Ma parole-persone: parole-segni di vita che aprono alla fiducia e alla speranza. Maria è questa parola, riflesso primo e singolare della «Parola fatta carne» in lei e attraverso di lei. Parola-segno, che la fede, l’arte e la cultura fin dalle origini hanno elevato all’ammirazione e all’invocazione dei fedeli. E di cui gli uomini e le donne del nostro tempo hanno rinnovato bisogno, per dare senso e valore a una vita sempre più esposta alla vanità e all’effimero.
Cosa possiamo sperare? - è una delle tre grandi domande formulate da Immanuel Kant all’inizio della modernità. Volgi lo sguardo a Maria, all’evento di grazia della sua assunzione al Cielo, ci dice la Chiesa in questa vacatio estiva. Vedrai una umanità riconciliata, in cui la libertà («Eccomi») ha incontrato la grazia («Hai trovato grazia presso Dio»), e il cui esito è l’assunzione alla pienezza di vita (il Cielo). Un’assunzione in totalità unificata di anima e corpo, che contraddice tutti i manicheismi e gli gnosticismi antichi e moderni. L’assunzione di Maria è indice della stima e della premura più grande per il corpo, nella quale per prima si percepisce il pro nobis della risurrezione di Cristo: «risurrezione della carne». Questa novità il vangelo e la tradizione della Chiesa la coniugano al femminile, fatta risplendere - «di generazione in generazione» - dalla bellezza, bontà e verità di vita di Maria. La sua femminilità, liberata dal peccato e dalla morte, è per tutti, donne e uomini, - come la dice il Concilio e la proclama la liturgia - «segno di consolazione e di sicura speranza».
Mauro Cozzoli
L’arcivescovo di Bologna celebra messa in occasione di San Giuseppe lavoratore in un’azienda a Pianoro. E chiede "decisioni sagge e forti" da parte del potere politico
"La persona trascende ogni sistema che essa stessa ha prodotto. Servono decisioni sapienti e forti. Non possiamo dimenticare certo che la situazione attuale ha messo lo Stato di fronte a vere e proprie limitazioni della sua sovranità. Tuttavia questa congiuntura deve portarci a non sottovalutare la necessità di istituzioni politiche solide e ad un ripensamento e rinnovata valutazione del potere politico".
E’ il passaggio centrale dell’omelia, in occasione della Festa di S. Giuseppe lavoratore, pronunciata dal cardinale Carlo Caffarra durante una messa tenuta oggi nell’azienda Marchesini Group a Pianoro.
Secondo l’arcivescovo di Bologna, "la stella polare della dignità della persona deve orientare tutti ad affermare, difendere, perseguire quale priorità assoluta l’obiettivo dell’accesso al lavoro e del suo mantenimento, per tutti. Sarebbe segno di miopia anche da parte della semplice ragione economica, pensare e decidere di rendere il Paese più competitivo a livello interno ed internazionale negando quella priorità. Non mi devo addentrare, il Vescovo non lo deve fare, nella modalità anche legislativa per salvaguardare la priorità suddetta. Chiedo solo di guardare ai ’costi umani’, che sono già sotto gli occhi di tutti, quando quella salvaguardia è disattesa. E i costi umani finiscono sempre per essere anche fra l’altro costi economici".
"La stella polare della dignità della persona - ha aggiunto Caffarra - esige da parte di tutti una grande opera di sapienza. La matrice culturale di cui è ancora in larga misura impastata la dottrina dell’economia e dello Stato, quella utilitaristica, deve essere abbandonata: troppi danni essa ha causato. Sulla base di quella matrice l’Occidente ha costruito una casa per l’uomo nella quale questi non può vivere una buona vita. E’ una casa sempre più inospitale".
* la Repubblica/Bologna, 01 maggio 2012
di Roberto Monteforte (l’Unità, 24 novembre 2011)
Grandi emergenze sociali. Cataclismi e disastri naturali. Ma anche le difficoltà quotidiane da fronteggiare quando si è all’estremo. Quando si è stretti nella morsa degli usurai o quando improvvisamente ci si scopre poveri. Quando si è persa la casa e gli affetti e con loro la dignità e l’umanità. Per chi vive queste situazioni drammaticamente «consuete» in questi tempi di crisi, incontrare la Caritas significa trovare un ricovero, una risposta al bisogno immediato, avere di fronte qualcuno disposto con competenza di ascoltare e prendersi cura. È un’occasione per risalire la china dell’emarginazione sociale. E stato così per tanti in questi anni. Qualcosa di più della semplice assistenza e di diverso dall’elemosina. Un presidio di umanità. Sia per chi ha usufruito dei servizi, sia per quell’esercito di volontari che hanno arricchito di senso loro vita.
LA SCELTA DEI POVERI
È un merito della Chiesa italiana. La Caritas è un suo organismo. Sono trascorsi 40 anni, era il 28 settembre 1972, da quando Papa Paolo VI, la istituì. Il mandato era preciso. «Al di sopra dell’aspetto puramente materiale della vostra attività, deve emergere la sua prevalente funzione pedagogica» chiedeva il pontefice. Era così che papa Montini dava applicazione al Concilio Vaticano II. Così la Chiesa rimodulava il suo rapporto con la società italiana per affermare anche nel campo della politica e del sociale, le ragioni del servizio all’uomo. Con un profilo preciso. La Caritas non accetta nessuna delega sulle problematiche sociali, né dalle istituzioni ecclesiali, né da quelle pubbliche. Funzione pedagogica vuole dire agire perché si faccia contagiosa la vicinanza agli ultimi.
Fino a segnare i comportamenti sociali e le scelte politiche. Compresa la sensibilità della Chiesa, anch’essa da «convertire». Un compito sicuramente scomodo in tempi come questi, segnati dall’«egoismo sociale». Lo ha ricordato nei giorni scorsi a Fiuggi al 35˚ Congresso nazionale delle Caritas diocesane nel 40˚ della fondazione il vescovo di Lodi, monsignor Giuseppe Merisi, presidente di Caritas Italiana, di fronte ai 600 delegati delle 220 strutture diocesane. Tanto è oggi ramificata la Caritas sul territorio.
Una presenza spesso scomoda per il potere e per le istituzioni. Un testimone straordinario di questa fedeltà al Vangelo e all’uomo è stato nella Roma degli anni ‘80 monsignor Luigi Di Liegro. Il primo direttore della Caritas diocesana era in prima linea dove scoppiavano le emergenze: tra i senza casa che avevano occupato i locali abbandonati della Pantanella, tra i malati di Aids, tra i poveri e i barboni cui assicurava un tetto, un pasto caldo, assistenza sanitaria e accoglienza. Di Liegro invitava a guardare alle cause del disagio, alle ingiustizie che offendevano l’uomo. Senza timore ha denunciato chi speculava sulle aree e sul lavoro. Perché considerava la fedeltà al Vangelo più forte del potere economico e politico, della difesa degli interessi dei potenti.
«Non assistenza, ma giustizia» invocava con fervore. Ha pagato il prezzo dell’incomprensione e dell’isolamento, ma la sua testimonianza ha reso credibile la Chiesa di Roma e ha dato frutto. Ha consentito che maturasse una nuova consapevolezza dell’impegno sociale e politico del credente. Si è rotto con il collateralismo con la Dc. La Caritas si è ramificata nelle parrocchie. Ha operato nelle zone di frontiera più difficili. Giovani, minori, immigrati, donne in difficoltà, anziani soli ed oggi sempre più i «nuovi poveri»: «gente normale», di ceto medio, precipitata improvvisamente nel disagio.
Sono le nuove emergenze che da tempo Caritas Italia denuncia con i suoi dossier: quello sull’imigrazione realizzato con Migrantes dal 1991 e il Rapporto sulle povertà realizzato con la Fondazione Zancan.Emerge un paese sempre più povero anche di diritti. Sono materiale prezioso per affrontare i nodi del disagio sociale. È il frutto di un lavoro capillare realizzato dalle 220 Caritas diocesane con i «centri di ascolto», gli «Osservatori delle povertà» e i «laboratori» delle parrocchie e gli oltre 14 mila servizi socio-sanitari. Oltre a registrare i dati si denunciano responsabilità. Lo scontro con la politica, come con la Lega, si fa anche diretto quando sono messi in discussione i diritti fondamentali dell’individuo.
RIPARARE IL MONDO. LA CRISI EPOCALE DELLA CHIESA ’CATTOLICA’ E LA LEZIONE DI SIGMUND FREUD.
Benedetto XVI ha fallito
i cattolici perdono la fiducia
di HANS KÜNG *
Negli anni 1962-1965 Joseph Ratzinger - oggi Benedetto XVI - ed io eravamo i due più giovani teologi del Concilio. Oggi siamo i più anziani, e i soli ancora in piena attività. Ho sempre inteso il mio impegno teologico come un servizio alla Chiesa. Per questo, mosso da preoccupazione per la crisi di fiducia in cui versa questa nostra Chiesa, la più profonda che si ricordi dai tempi della Riforma ad oggi, mi rivolgo a voi, in occasione del quinto anniversario dell’elezione di papa Benedetto al soglio pontificio, con una lettera aperta. È questo infatti l’unico mezzo di cui dispongo per mettermi in contatto con voi.
Avevo apprezzato molto a suo tempo l’invito di papa Benedetto, che malgrado la mia posizione critica nei suoi riguardi mi accordò, poco dopo l’inizio del suo pontificato, un colloquio di quattro ore, che si svolse in modo amichevole. Ne avevo tratto la speranza che Joseph Ratzinger, già mio collega all’università di Tübingen, avrebbe trovato comunque la via verso un ulteriore rinnovamento della Chiesa e un’intesa ecumenica, nello spirito del Concilio Vaticano II. Purtroppo le mie speranze, così come quelle di tante e tanti credenti che vivono con impegno la fede cattolica, non si sono avverate; ho avuto modo di farlo sapere più di una volta a papa Benedetto nella corrispondenza che ho avuto con lui.
Indubbiamente egli non ha mai mancato di adempiere con scrupolo agli impegni quotidiani del papato, e inoltre ci ha fatto dono di tre giovevoli encicliche sulla fede, la speranza e l’amore. Ma a fronte della maggiore sfida del nostro tempo il suo pontificato si dimostra ogni giorno di più come un’ulteriore occasione perduta, per non aver saputo cogliere una serie di opportunità:
- È mancato il ravvicinamento alle Chiese evangeliche, non considerate neppure come Chiese nel senso proprio del termine: da qui l’impossiblità di un riconoscimento delle sue autorità e della celebrazione comune dell’Eucaristia.
È mancata la continuità del dialogo con gli ebrei: il papa ha reintrodotto l’uso preconciliare della preghiera per l’illuminazione degli ebrei; ha accolto nella Chiesa alcuni vescovi notoriamente scismatici e antisemiti; sostiene la beatificazione di Pio XII; e prende in seria considerazione l’ebraismo solo in quanto radice storica del cristianesimo, e non già come comunità di fede che tuttora persegue il proprio cammino di salvezza. In tutto il mondo gli ebrei hanno espresso sdegno per le parole del Predicatore della Casa Pontificia, che in occasione della liturgia del venerdì santo ha paragonato le critiche rivolte al papa alle persecuzioni antisemite.
Con i musulmani si è mancato di portare avanti un dialogo improntato alla fiducia. Sintomatico in questo senso è il discorso pronunciato dal papa a Ratisbona: mal consigliato, Benedetto XVI ha dato dell’islam un’immagine caricaturale, descrivendolo come una religione disumana e violenta e alimentando così la diffidenza tra i musulmani.
È mancata la riconciliazione con i nativi dell’America Latina: in tutta serietà, il papa ha sostenuto che quei popoli colonizzati "anelassero" ad accogliere la religione dei conquistatori europei.
Non si è colta l’opportunità di venire in aiuto alle popolazioni dell’Africa nella lotta contro la sovrappopolazione e l’AIDS, assecondando la contraccezione e l’uso del preservativo.
Non si è colta l’opportunità di riconciliarsi con la scienza moderna, riconoscendo senza ambiguità la teoria dell’evoluzione e aderendo, seppure con le debite differenziazioni, alle nuove prospettive della ricerca, ad esempio sulle cellule staminali.
Si è mancato di adottare infine, all’interno stesso del Vaticano, lo spirito del Concilio Vaticano II come bussola di orientamento della Chiesa cattolica, portando avanti le sue riforme.
Quest’ultimo punto, stimatissimi vescovi, riveste un’importanza cruciale. Questo papa non ha mai smesso di relativizzare i testi del Concilio, interpretandoli in senso regressivo e contrario allo spirito dei Padri conciliari, e giungendo addirittura a contrapporsi espressamente al Concilio ecumenico, il quale rappresenta, in base al diritto canonico, l’autorità suprema della Chiesa cattolica:
ha accolto nella Chiesa cattolica, senza precondizione alcuna, i vescovi tradizionalisti della Fraternità di S. Pio X, ordinati illegalmente al di fuori della Chiesa cattolica, che hanno ricusato il Concilio su alcuni dei suoi punti essenziali;
ha promosso con ogni mezzo la messa medievale tridentina, e occasionalmente celebra egli stesso l’Eucaristia in latino, volgendo le spalle ai fedeli;
non realizza l’intesa con la Chiesa anglicana prevista nei documenti ecumenici ufficiali (ARCIC), ma cerca invece di attirare i preti anglicani sposati verso la Chiesa cattolica romana rinunciando all’obbligo del celibato.
ha potenziato, a livello mondiale, le forze anticonciliari all’interno della Chiesa attraverso la nomina di alti responsabili anticonciliari (ad es.: Segreteria di Stato, Congregazione per la Liturgia) e di vescovi reazionari.
Papa Benedetto XVI sembra allontanarsi sempre più dalla grande maggioranza del popolo della Chiesa, il quale peraltro è già di per sé portato a disinteressarsi di quanto avviene a Roma, e nel migliore dei casi si identifica con la propria parrocchia o con il vescovo locale.
So bene che anche molti di voi soffrono di questa situazione: la politica anticonciliare del papa ha il pieno appoggio della Curia romana, che cerca di soffocare le critiche nell’episcopato e in seno alla Chiesa, e di screditare i dissenzienti con ogni mezzo. A Roma si cerca di accreditare, con rinnovate esibizioni di sfarzo barocco e manifestazioni di grande impatto mediatico, l’immagine di una Chiesa forte, con un "vicario di Cristo" assolutista, che riunisce nelle proprie mani i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Ma la politica di restaurazione di Benedetto XVI è fallita. Le sue pubbliche apparizioni, i suoi viaggi, i suoi documenti non sono serviti a influenzare nel senso della dottrina romana le idee della maggioranza dei cattolici su varie questioni controverse, e in particolare sulla morale sessuale. Neppure i suoi incontri con i giovani, in larga misura membri di gruppi carismatici di orientamento conservatore, hanno potuto frenare le defezioni dalla Chiesa, o incrementare le vocazioni al sacerdozio.
Nella vostra qualità di vescovi voi siete certo i primi a risentire dolorosamente dalla rinuncia di decine di migliaia di sacerdoti, che dall’epoca del Concilio ad oggi si sono dimessi dai loro incarichi soprattutto a causa della legge sul celibato. Il problema delle nuove leve non riguarda solo i preti ma anche gli ordini religiosi, le suore, i laici consacrati: il decremento è sia quantitativo che qualitativo. La rassegnazione e la frustrazione si diffondono tra il clero, e soprattutto tra i suoi esponenti più attivi; tanti si sentono abbandonati nel loro disagio, e soffrono a causa della Chiesa. In molte delle vostre diocesi è verosimilmente in aumento il numero delle chiese deserte, dei seminari e dei presbiteri vuoti. In molti Paesi, col preteso di una riforma ecclesiastica, si decide l’accorpamento di molte parrocchie, spesso contro la loro volontà, per costituire gigantesche "unità pastorali" affidate a un piccolo numero di preti oberati da un carico eccessivo di lavoro.
E da ultimo, ai tanti segnali della crisi in atto viene ad aggiungersi lo spaventoso scandalo degli abusi commessi da membri del clero su migliaia di bambini e adolescenti, negli Stati Uniti, in Irlanda, in Germania e altrove; e a tutto questo si accompagna una crisi di leadership, una crisi di fiducia senza precedenti. Non si può sottacere il fatto che il sistema mondiale di occultamento degli abusi sessuali del clero rispondesse alle disposizioni della Congregazione romana per la Dottrina della fede (guidata tra il 1981 e il 2005 dal cardinale Ratzinger), che fin dal pontificato di Giovanni Paolo II raccoglieva, nel più rigoroso segreto, la documentazione su questi casi. In data 18 maggio 2001 Joseph Ratzinger diramò a tutti i vescovi una lettera dai toni solenni sui delitti più gravi ("Epistula de delictis gravioribus"), imponendo nel caso di abusi il "secretum pontificium", la cui violazione è punita dalla la Chiesa con severe sanzioni. E’ dunque a ragione che molti hanno chiesto un personale "mea culpa" al prefetto di allora, oggi papa Benedetto XVI. Il quale però non ha colto per farlo l’occasione della settimana santa, ma al contrario ha fatto attestare "urbi et orbi", la domenica di Pasqua, la sua innocenza al cardinale decano.
Per la Chiesa cattolica le conseguenze di tutti gli scandali emersi sono devastanti, come hanno confermato alcuni dei suoi maggiori esponenti. Il sospetto generalizzato colpisce ormai indiscriminatamente innumerevoli educatori e pastori di grande impegno e di condotta ineccepibile. Sta a voi, stimatissimi vescovi, chiedervi quale sarà il futuro delle vostre diocesi e quello della nostra Chiesa. Non è mia intenzione proporvi qui un programma di riforme.
L’ho già fatto più d’una volta, sia prima che dopo il Concilio. Mi limiterò invece a sottoporvi qui sei proposte, condivise - ne sono convinto - da milioni di cattolici che non hanno voce.
1. Non tacete. Il silenzio a fronte di tanti gravissimi abusi vi rende corresponsabili. Al contrario, ogni qualvolta ritenete che determinate leggi, disposizioni o misure abbiano effetti controproducenti, dovreste dichiararlo pubblicamente. Non scrivete lettere a Roma per fare atto di sottomissione e devozione, ma per esigere riforme!
2. Ponete mano a iniziative riformatrici. Tanti, nella Chiesa e nell’episcopato, si lamentano di Roma, senza però mai prendere un’iniziativa. Ma se oggi in questa o quella diocesi o comunità i parrocchiani disertano la messa, se l’opera pastorale risulta inefficace, se manca l’apertura verso i problemi e i mali del mondo, se la cooperazione ecumenica si riduce a un minimo, non si possono scaricare tutte le colpe su Roma. Tutti, dal vescovo al prete o al laico, devono impegnarsi per il rinnovamento della Chiesa nel proprio ambiente di vita, piccolo o grande che sia. Molte cose straordinarie, nelle comunità e più in generale in seno alla Chiesa, sono nate dall’iniziativa di singole persone o di piccoli gruppi. Spetta a voi, nella vostra qualità di vescovi, il compito di promuovere e sostenere simili iniziative, così come quello di rispondere, soprattutto in questo momento, alle giustificate lagnanze dei fedeli.
3. Agire collegialmente. Il Concilio ha decretato, dopo un focoso dibattito e contro la tenace opposizione curiale, la collegialità dei papi e dei vescovi, in analogia alla storia degli apostoli: lo stesso Pietro non agiva al di fuori del collegio degli apostoli. Ma nel periodo post-conciliare il papa e la curia hanno ignorato questa fondamentale decisione conciliare. Fin da quando, a soli due anni dal Concilio e senza alcuna consultazione con l’episcopato, Paolo VI promulgò un’enciclica in difesa della discussa legge sul celibato, la politica e il magistero pontificio ripresero a funzionare secondo il vecchio stile non collegiale. Nella stessa liturgia il papa si presenta come un autocrate, davanti al quale i vescovi, dei quali volentieri si circonda, figurano come comparse senza diritti e senza voce. Perciò, stimatissimi vescovi, non dovreste agire solo individualmente, bensì in comune con altri vescovi, con i preti, con le donne e gli uomini che formano il popolo della Chiesa.
4. L’obbedienza assoluta si deve solo a Dio. Voi tutti, al momento della solenne consacrazione alla dignità episcopale, avete giurato obbedienza incondizionata al papa. Tuttavia sapete anche che l’obbedienza assoluta è dovuta non già al papa, ma soltanto a Dio. Perciò non dovete vedere in quel giuramento a un ostacolo tale da impedirvi di dire la verità sull’attuale crisi della Chiesa, della vostra diocesi e del vostro Paese. Seguite l’esempio dell’apostolo Paolo, che si oppose a Pietro "a viso aperto, perché evidentemente aveva torto" (Gal. 2,11). Può essere legittimo fare pressione sulle autorità romane, in uno spirito di fratellanza cristiana, laddove queste non aderiscano allo spirito del Vangelo e della loro missione. Numerosi traguardi - come l’uso delle lingue nazionali nella liturgia, le nuove disposizioni sui matrimoni misti, l’adesione alla tolleranza, alla democrazia, ai diritti umani, all’intesa ecumenica e molti altri ancora hanno potuto essere raggiunti soltanto grazie a una costante e tenace pressione dal basso.
5. Perseguire soluzioni regionali: il Vaticano si mostra spesso sordo alle giustificate richieste dei vescovi, dei preti e dei laici. Ragione di più per puntare con intelligenza a soluzioni regionali. Come ben sapete, un problema particolarmente delicato è costituito dalla legge sul celibato, una norma di origine medievale, la quale a ragione è ora messa in discussione a livello mondiale nel contesto dello scandalo suscitato dagli abusi. Un cambiamento in contrapposizione con Roma appare pressoché impossibile; ma non per questo si è condannati alla passività. Un prete che dopo seria riflessione abbia maturato l’intenzione di sposarsi non dovrebbe essere costretto a dimettersi automaticamente dal suo incarico, se potesse contare sul sostegno del suo vescovo e della sua comunità. Una singola Conferenza episcopale potrebbe aprire la strada procedendo a una soluzione regionale. Meglio sarebbe tuttavia mirare a una soluzione globale per la Chiesa nel suo insieme. Perciò
6. si chieda la convocazione di un Concilio: se per arrivare alla riforma liturgica, alla libertà religiosa, all’ecumenismo e al dialogo interreligioso c’è stato bisogno di un Concilio, lo stesso vale oggi a fronte dei problemi che si pongono in termini tanto drammatici. Un secolo prima della Riforma, il Concilio di Costanza aveva deciso la convocazione di un concilio ogni cinque anni: decisione che fu però disattesa dalla Curia romana, la quale anche oggi farà indubbiamente di tutto per evitare un concilio dal quale non può che temere una limitazione dei propri poteri. È responsabilità di tutti voi riuscire a far passare la proposta di un concilio, o quanto meno di un’assemblea episcopale rappresentativa.
Questo, a fronte di una Chiesa in crisi, è l’appello che rivolgo a voi, stimatissimi vescovi: vi invito a gettare sulla bilancia il peso della vostra autorità episcopale, rivalutata dal Concilio. Nella difficile situazione che stiamo vivendo, gli occhi del mondo sono rivolti a voi. Innumerevoli sono i cattolici che hanno perso la fiducia nella loro Chiesa; e il solo modo per contribuire a ripristinarla è quello di affrontare onestamente e apertamente i problemi, per adottare le riforme che ne conseguono. Chiedo a voi, nel più totale rispetto, di fare la vostra parte, ove possibile in collaborazione con altri vescovi, ma se necessario anche soli, con apostolica "franchezza" (At 4,29.31). Date un segno di speranza ai vostri fedeli, date una prospettiva alla nostra Chiesa.
Vi saluto nella comunione della fede cristiana.
* la Repubblica, 15 aprile 2010
Venerdì Benedetto XVI firmerà la lettera pastorale per gli irlandesi "scossi da una situazione dolorosa"
L’ammissione di colpa di Sean Brady: "Mi vergogno per non aver detto nulla. Rifletterò sul mio ruolo"
Pedofilia, il Papa: "Guarire le ferite"
Primate d’Irlanda si scusa: "Ho taciuto"
Merkel al Parlamento: "Gli abusi sessuali sui minori sono un dramma che affligge la società Necessario fare chiarezza, ma senza puntare il dito su un solo gruppo"
BERLINO - Dalla Germania all’Irlanda, si torna a parlare degli scandali dei preti pedofili che negli ultimi tempi hanno travolto ambienti della Chiesa cattolica. Oggi il Papa ha annunciato che venerdì prossimo firmerà una lettera per i fedeli irlandesi scossi dagli episodi di pedofilia, nella speranza che possa essere di aiuto nel "processo di pentimento, guarigione e rinnovamento". E nel giorno di San Patrizio ha parlato anche il capo della Chiesa cattolica irlandese, il cardinale Sean Brady, che ha fatto le sue scuse per non aver avvertito la polizia dei comportamenti di un sacerdote pedofilo a metà anni Settanta. Brady, rivolgendosi ai fedeli, ha anche detto che "rifletterà" sul suo ruolo nel futuro. Per quanto riguarda la Germania, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha condannato duramente gli abusi sui minori, invitando però a non demonizzare un unico gruppo, perché "la pedofilia è un problema abominevole che tocca tutta la società e non solo la Chiesa cattolica".
La lettera del Papa agli irlandesi. Il Papa ha annunciato che questo venerdì, giorno di San Giuseppe, firmerà la lettera ai fedeli irlandesi sui casi degli abusi sessuali sui bambini. "Come sapete - ha detto il Papa salutando i pellegrini irlandesi nella festa di San Patrizio - negli ultimi mesi la Chiesa in Irlanda è stata severamente scossa in conseguenza della crisi degli abusi sui minori". "Come segno della mia profonda preoccupazione - ha aggiunto - ho scritto una lettera pastorale che tratta di questa dolorosa situazione. La firmerò nella solennità di San Giuseppe, il guardiano della Sacra Famiglia e patrono della Chiesa universale, e la manderò presto". "Vi chiedo - ha concluso il Pontefice - di leggerla voi stessi, con cuore aperto e spirito di fede. La mia speranza è che aiuti nel processo di pentimento, guarigione e rinnovamento".
Le scusa di Sean Brady. "Questa settimana mi è tornato davanti un episodio doloroso del mio passato", ha detto il cardinale Brady. "Ho ascoltato la reazione della gente al mio ruolo negli eventi di 35 anni fa. Voglio dire a chiunque sia stato ferito da qualsiasi mancanza da parte mia che gli chiedo perdono con tutto il cuore. Chiedo perdono a coloro che sentono che li ho delusi. Guardando indietro, mi vergogno di non aver sempre tenuto fede ai valori che professo e in cui credo’’. Per il porporato, la Chiesa d’Irlanda deve ’’continuare ad affrontare l’enorme dolore causato dall’abuso di bambini da parte di alcuni preti e religiosi e dalla risposta disperatamente inadeguata a questi abusi nel passato’’. ’’Come San Patrizio e San Pietro - ha proseguito - noi vescovi, successori degli apostoli nella Chiesa d’Irlanda, dobbiamo oggi riconoscere i nostri errori. L’integrità della nostra testimonianza del Vangelo ci sfida a confessare e a assumerci la responsabilità per ogni errore nella gestione o per ogni copertura degli abusi sui minori. Per il bene dei sopravvissuti, per il bene dei fedeli cattolici e dei preti e dei religiosi di questo Paese, dobbiamo mettere fine allo stillicidio quotidiano di rivelazioni di errori".
Merkel: "Problema che affligge tutta la società". "Il dramma degli abusi sessuali sui minori è un problema abominevole che si è ripetuto in numerosi settori della società", e dunque non riguarda solo il Vaticano. Lo ha detto oggi la cancelliera tedesca Angela Merkel, dopo l’emersione di una serie di casi di pedofilia avvenuti negli istituti scolastici. "Non ha senso - ha spiegato Merkel al Bundestag, la Camera bassa del Parlamento tedesco - puntare il dito su un solo gruppo, anche se i primi casi sono emersi nella Chiesa cattolica". La conferenza episcopale tedesca, da parte sua, si è impegnata a far luce sullo scandalo dei preti pedofili in Germania.
"C’è solo una possibilità affinché la nostra società venga a capo di questi casi - ha detto Merkel - fare chiarezza e appurare la verità su ciò che è successo". La cancelliera ha inoltre sottolineato che si deve parlare anche dei termini di prescrizione per questo tipo di reati e dei risarcimenti alle vittime. "Questa è una prova per la società", ha poi sottolineato, spiegando che "la gente che ha fatto queste esperienze terribili" deve almeno poter "ricevere un pezzo di risarcimento".
Denunce di abusi nel coro dei Piccoli Cantori di Vienna. Nel mentre crescono le denunce di abusi sessuali e fisici avvenuti all’interno del rinomato coro dei Piccoli Cantori di Vienna negli anni Ottanta. Dopo le rivelazioni di un giornale austriaco, la direzione del coro - che è un’istituzione privata e non dipende dalla Chiesa - ha istituito una linea telefonica per raccogliere ulteriori testimonianze. Da allora altri otto ex allievi del coro hanno fornito le loro testimonianze. Secondo il quotidiano Der Standard, i ragazzi avrebbero subito "forti pressioni" e "umiliazioni permanenti" e nelle accuse il coro viene paragonato a un "campo di concentramento". La responsabile del servizio telefonico, Tina Breckwoldt, non ha specificato la natura degli abusi segnalati, né se le vittime fossero bambini o adulti. Le denunce finora pubblicate dalla stampa riguardano due ex membri del coro, oggi adulti, che hanno raccontato di essere stati vittime di violenze sessuali.
* la Repubblica, 17 marzo 2010
Il dialogo tra le religioni non è possibile. La fede non si può mettere tra parentesi *
Caro Senatore Pera, in questi giorni ho potuto leggere il Suo nuovo libro Perché dobbiamo dirci cristiani. Era per me una lettura affascinante. Con una conoscenza stupenda delle fonti e con una logica cogente Ella analizza l’essenza del liberalismo a partire dai suoi fondamenti, mostrando che all’essenza del liberalismo appartiene il suo radicamento nell’immagine cristiana di Dio: la sua relazione con Dio di cui l’uomo è immagine e da cui abbiamo ricevuto il dono della libertà. Con una logica inconfutabile Ella fa vedere che il liberalismo perde la sua base e distrugge se stesso se abbandona questo suo fondamento. Non meno impressionato sono stato dalla Sua analisi della libertà e dall’analisi della multiculturalità in cui Ella mostra la contraddittorietà interna di questo concetto e quindi la sua impossibilità politica e culturale. Di importanza fondamentale è la Sua analisi di ciò che possono essere l’Europa e una Costituzione europea in cui l’Europa non si trasformi in una realtà cosmopolita, ma trovi, a partire dal suo fondamento cristiano-liberale, la sua propria identità. Particolarmente significativa è per me anche la Sua analisi dei concetti di dialogo interreligioso e interculturale.
Ella spiega con grande chiarezza che un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo. Mentre su quest’ultima un vero dialogo non è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede, occorre affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo. Qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari. Del contributo circa il significato di tutto questo per la crisi contemporanea dell’etica trovo importante ciò che Ella dice sulla parabola dell’etica liberale. Ella mostra che il liberalismo, senza cessare di essere liberalismoma, al contrario, per essere fedele a se stesso, può collegarsi con una dottrina del bene, in particolare quella cristiana che gli è congenere, offrendo così veramente un contributo al superamento della crisi. Con la sua sobria razionalità, la sua ampia informazione filosofica e la forza della sua argomentazione, il presente libro è, a mio parere, di fondamentale importanza in quest’ora dell’Europa e del mondo. Spero che trovi larga accoglienza e aiuti a dare al dibattito politico, al di là dei problemi urgenti, quella profondità senza la quale non possiamo superare la sfida del nostro momento storico. Grato per la Sua opera Le auguro di cuore la benedizione di Dio.
Benedetto XVI
* Corriere della Sera, 23 novembre 2008
Il dittatore pensava di poter contare sulla tradizione cristiana
Hitler, la chiesa e l’antisemitismo
La rarità di pubbliche voci di dissenso ecclesiastico verso la politica antiebraica confermavano ai nazisti che non ci sarebbe stata opposizione dell’episcopato
di Giovanni Miccoli (la Repubblica, 28.11.2008)
Il resoconto che monsignor Berning, vescovo di Osnabreck, scrisse per i suoi confratelli su ciò che Hitler aveva detto della «questione ebraica» nel corso di un incontro con una delegazione episcopale il 26 aprile 1933, attesta una sorta di sintonia di fondo con settori non irrilevanti del mondo cattolico (...):
«Hitler parlò con calore e calma, qua e là pieno di fervore. Contro la Chiesa non una parola, solo apprezzamento per i vescovi. Sono stato attaccato per il mio modo di trattare la questione ebraica. Per 1.500 anni la Chiesa ha considerato gli ebrei come esseri nocivi, li ha esiliati nel ghetto eccetera, in quanto ha riconosciuto ciò che gli ebrei sono. Al tempo del liberalismo non si è più visto questo pericolo. Io risalgo nel tempo e faccio ciò che si è fatto per 1.500 anni. Io non metto la razza al di sopra della religione, ma vedo nei membri di questa razza esseri nocivi per lo Stato e la Chiesa, e forse fornisco così al cristianesimo il più grande servizio; da qui il loro allontanamento dall’insegnamento e dagli impieghi statali».
Hitler non mentiva ma era solo reticente quando affermava di non mettere la razza al di sopra della religione: ne faceva infatti una componente costitutiva di essa, pur ironizzando sulle fumisterie dell’ideologia völkisch. Né aveva difficoltà a richiamarsi alla tradizione ecclesiastica per le misure adottate contro gli ebrei. (...) Non a caso Karl Lueger e le agitazioni di massa promosse contro gli ebrei a Vienna dai cristiano-sociali figurano nel Mein Kampf tra i suoi modelli, anche se il loro limite restava per lui di aver fondato il loro antisemitismo non sulla razza ma su una visione religiosa. E probabile che egli pensasse davvero di poter in qualche modo contare, nella lotta contro gli ebrei, sulla tradizione antiebraica cristiana. (...)
Il calcolo, entro certi limiti, non era sbagliato. Non è privo di significato il fatto che monsignor Berning non trovò difficoltà né avanzò obiezioni di fronte alle affermazioni e ai propositi di Hitler. (...) quei propositi non erano certo tali da poterlo particolarmente inquietare: per decenni voci autorevoli della pubblicistica cattolica avevano avanzato proposte non dissimili.
La rarità di pubbliche ed esplicite voci di dissenso da parte della Chiesa nei confronti della politica antiebraica (...) non potevano non confermare Hitler e i dirigenti nazisti nell’opinione che, su tali questioni, nessuna seria opposizione sarebbe venuta loro dall’episcopato. In quei primi mesi del potere nazista la Santa Sede e la Chiesa cattolica tedesca si mostrarono dunque concentrate soprattutto a tutelare la propria condizione in Germania.
(...) Non va dimenticato il ripetuto, esplicito riconoscimento espresso da Pio XI nei confronti di Hitler dopo la sua nomina a cancelliere il 30 gennaio 1933 e già prima della vittoria elettorale del 5 marzo: «Hitler è il primo e unico uomo di Stato che parla pubblicamente contro i bolscevichi. Finora era stato unicamente il papa». Meriterebbe da questo punto di vista analizzare con cura le informazioni contraddittorie sul nazionalsocialismo e le sue imprese che nei primissimi anni Trenta e anche dopo la sua conquista del potere pervenivano alla segreteria di Stato e di cui la documentazione vaticana offre ricca testimonianza. (...)
Spiaceva che con gli ebrei e l’ebraismo si colpissero e si rifiutassero capisaldi della tradizione cristiana come il Vecchio Testamento, spiacevano certi metodi di lotta, spiaceva soprattutto che le misure adottate si fondassero su premesse ideologiche che si ispiravano ad un razzismo estremo, sostanzialmente incompatibile con il credo cristiano. Nelle famose prediche dell’Avvento del 1933 il cardinale Faulhaber scese perciò in campo a difesa del Vecchio Testamento e della tradizione cristiana, Rosenberg e il suo Mythus des XX. Jahrhunderts, così come i maestri del neopaganesimo germanico, divennero il bersaglio di molta pubblicistica cattolica. Ma ci si guardò bene dal coinvolgere nella polemica e nella condanna l’antisemitismo.
Non erano del resto pochi a ritenere che, se vi era un antisemitismo razzistico vietato ai cattolici, ne esisteva un altro, spirituale ed etico («geistiger und ethischer»), che era «stretto dovere di coscienza di ogni cristiano consapevole», come scrisse il vescovo di Linz, monsignor Gfvllner, nel gennaio 1933, in una pastorale che ebbe larga diffusione negli ambienti cattolici europei.