[...] I proclami di Marinetti si susseguono con intensità crescente, fino a inondare, con la tipica verve linguistica e lo spirito pungente che caratterizza la formazione, ogni aspetto del vivere civile e ogni forma di espressione artistica: dal romanzo al teatro, dalla poesia alla danza, dalla fotografia all’architettura, dal cinema alla moda, dalla radio al design, dalla tipografia alla musica, dalla cucina alla politica, al concetto di donna e quello di amore, approdando, in un documento stilato a quattro mani da Balla e Depero, all’estrema ipotesi di una Ricostruzione futurista dell’Universo.
Nel tentativo di agguantare la vita e di trasformarla attraverso l’arte, il Futurismo si fa nervoso, "caffeina d’Europa", nei suoi manifesti sprizza insonnia, impazienza, irruenza, vitalismo, superomismo, conflittualità. Fino a cadere sciaguratamente nelle braccia del Regime, nell’impossibile tentativo dell’immaginazione al potere attraverso l’estetizzazione della politica e del quotidiano [...]
L’avanguardia che innervosì il ’900
Il manifesto fu pubblicato sulla "Gazzetta dell’Emilia" il 5 febbraio del 1909 e poi su "Le Figaro".
Velocità e azione le parole d’ordine. Ma fra gli esiti ci fu anche il fascismo
Figli di quell’onda lunga sono anche Burri e Fontana Schifano e Warhol Bill Viola e Gehry
Una rivoluzione spesso appannata dai comportamenti degli stessi futuristi
di Achille Bonito Oliva (la Repubblica, 14.01.2009)
Sicuramente tra tutte le Avanguardie il Futurismo è stato il movimento più nervoso del Novecento, un secolo nervoso per eccellenza. Si evince dal primo manifesto di Filippo Tommaso Marinetti, pubblicato il 5 febbraio 1909 sulla Gazzetta dell’Emilia, e apparso il 20 febbraio sulle pagine del quotidiano francese Le Figaro, che esplode come una violenta deflagrazione sullo sfondo di un’Italia contadina e analfabeta, ancora abbondantemente assopita tra scampoli e retaggi di una cultura tardo-romantica, ottocentesca. Velocità, dinamismo, azione, modernità, il mito della macchina e del progresso, insieme al disprezzo per la tradizione e l’accademismo, costituiscono i nuovi valori dello Sturm und drang, impeto e assalto, futurista: per il rinnovamento della società italiana e il superamento delle vecchie ideologie attraverso l’impiego massiccio e bulimico del manifesto, forma di militarizzazione della parola usata come proclama e dichiarazione di guerra contro il mondo passatista.
Accanto a Marinetti, vero e proprio deus ex machina del movimento, compaiono sulla scena Balla, Boccioni, Carrà, Severini, Russolo, che attribuiscono al movimento, concepito originariamente come letterario, una propria concreta fisionomia artistica.
Tra il 1910 e il 1914 vedono la luce, solo per citare alcuni fondamentali scritti, il Manifesto dei pittori Futuristi, il Manifesto dei Musicisti Futuristi, Il Manifesto della Scultura Futurista e il Manifesto della Scultura Futurista.
I proclami di Marinetti si susseguono con intensità crescente, fino a inondare, con la tipica verve linguistica e lo spirito pungente che caratterizza la formazione, ogni aspetto del vivere civile e ogni forma di espressione artistica: dal romanzo al teatro, dalla poesia alla danza, dalla fotografia all’architettura, dal cinema alla moda, dalla radio al design, dalla tipografia alla musica, dalla cucina alla politica, al concetto di donna e quello di amore, approdando, in un documento stilato a quattro mani da Balla e Depero, all’estrema ipotesi di una Ricostruzione futurista dell’Universo.
Nel tentativo di agguantare la vita e di trasformarla attraverso l’arte, il Futurismo si fa nervoso, "caffeina d’Europa", nei suoi manifesti sprizza insonnia, impazienza, irruenza, vitalismo, superomismo, conflittualità. Fino a cadere sciaguratamente nelle braccia del Regime, nell’impossibile tentativo dell’immaginazione al potere attraverso l’estetizzazione della politica e del quotidiano.
La rivoluzione linguistica del Futurismo spesso è stata appannata dagli stessi artisti per uno stile di vita e comportamenti politicamente scomodi e inaccettabili (l’adesione al Fascismo fino alla sua fine) e rimossa dalla critica fino agli anni sessanta.
I manifesti futuristi senza dubbio esprimono principalmente idealità di comportamento, indicate attraverso pubblici proclami e poi magari contraddetti nel quotidiano e nella propria vita privata. Il superamento di ogni modica quantità, l’amore per il pericolo e l’azzardo, l’apologia della macchina e dell’industria, la pubblicazione del primo Manifesto su un quotidiano della città più cosmopolita d’Europa, ci segnalano una modernissima ansietà di comunicazione: oltrepassare il recinto del linguaggio e bucare l’immaginario collettivo di una società di massa magari disattenta.
È facile fare i conti con le Avanguardie storiche. Insonnia futurista contro sogno surrealista, vitalismo contro platonismo dell’astrazione, esplosione contro scomposizione cubista, nichilismo attivo contro anarchia dadaista, euforia contro lamento espressionista.
D’altronde anche Antonio Gramsci si pose la domanda sull’onda anomala del Futurismo: «Marinetti rivoluzionario?» (Ordine Nuovo, 5 giugno 1921). Gramsci scriveva: «I futuristi hanno svolto questo compito nel campo della cultura borghese: hanno distrutto, senza preoccuparsi se le nuove creazioni, prodotte dalla loro attività, fossero nel complesso, una opera superiore a quella distrutta: hanno avuto fiducia in sé stessi, nella foga delle energie giovani, hanno avuto la concezione netta e chiara che l’epoca nostra, l’epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa doveva avere nuove forme di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio: hanno avuto questa concezione nettamente rivoluzionaria, assolutamente marxista».
Smentita tragicamente tale asserzione sul piano politico, la si può confermare invece su quello culturale e condividere la sentenza finale dell’articolo di Gramsci: «I futuristi, nel loro campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari».
Visto che è l’anniversario, a cento anni dalla sua nascita, chiediamoci: che cosa è rimasto del Futurismo, fino a dove è arrivato il suo tsunami? Sicuramente il Futurismo è stata un’onda lunga che ha investito sul piano della sperimentazione linguistica molte generazioni di artisti. Pensiamo al polimaterismo di Alberto Burri e di Robert Raushenberg, al continuum spazio-temporale del taglio di Fontana, alla pittura urbana di Stuart Davis, alla Pop Art americana, alla velocità pittorica di Schifano e al dandismo di massa di Warhol, all’eclatanza iconografica di Cattelan, alla multimedialità di Kentridge, ai video di Bill Viola, all’energia dei materiali nell’Arte povera con la sua discesa dalla parete e l’occupazione dello spazio quotidiano, ai linguaggi pittorici figurativi di Chia e a quelli astratti di Nicola De Maria nella Transavanguardia, alla musica concreta, elettronica e a quella di Cage, agli ologrammi di Bruce Nauman, all’happening e alle azioni di Fluxus, a Dan Flavin, a Frank Gehry. E che dire della pubblicità, dei videoclip di Michael Jackson, dei graffiti di Basquiat , ed infine della "nouvelle cousine" di Ferran Adrià che ha introdotto un’attenzione chimica nell’elaborazione di nuovi piatti?
Ma sicuramente l’ansietas della comunicazione è la grande eredità del Futurismo, interamente puntata sul mondo, al limite del fondamentalismo estetico e proclamata quasi sempre a volume alto, nell’impossibile tentativo di dare un presente immediato al nostro futuro.
Le riserve dell’artista russo sui futuristi
Kandinsky, l’arte è sacra
di Vassilij Kandinsky (la Repubblica, 14.01.2009)
Kandinsky a Franz Marc (Sui Futuristi) 1908.
«La teoria è una cosa ma il ’talento’ è cosa ben diversa. Nella musica il talento è normale, un dato certo: raramente l’artista li comprende entrambi; per esempio Schoenberg. Inoltre i "manifesti" completi ...sono disordine senza precedenti, che apparentemente può svilupparsi solo dalle teste degli italiani. Molto più concretamente, invece, i nostri manifesti risultano essere sempre organici e più costruttivi. Insomma, l’arte è oggettivamente una cosa sacra di cui non si può disporre in modo così superficiale. E i futuristi giocano pericolosamente con le idee più importanti che si affacciano oggi nel dominio dell’arte, prendendole un po’ qui e un po’ là. Tutto ciò senza ponderazione, senza riflessione. Sono così superficiali...».
A Franz Marc (Su van Gogh) 1913
«che dire sulla nuova arte? L’unica, nuova e interessante forma d’arte, veramente viva, è rappresentata dalle opere di un giovane olandese che qualche volta ho incontrato. Si tratta di un certo van Goghï».
A Herwarth Walden (Sui Futuristi e sulla linea)
«Le loro opere sono composizioni accademiche. Ciò si evince anche dalla disposizione schematica che troviamo nei musei. E ciò fa capire, anche, quanto poco i musei abbiano compreso dei futuristi. I musei concorreranno a confondere le idee. Questo schematismo, li pone in una erronea dimensione, cosa che nessun maestro può permettere... La linea ha da sempre rappresentato per me una domanda davvero difficile intorno al dominio dell’arte. Ha costituito momenti di dubbio, fatica. I miei occhi sono severi. La spensieratezza, la leggerezza e la fretta sono caratteristiche fondamentali per molti artisti oggi. In ragione di ciò credo, anzi sostengo fortemente che i futuristi abbiano rovinato ciò che in loro poteva esserci di buono».
Le lettere inedite sono tratte dal catalogo di "Illuminazioni" (Electa, a cura di Ester Coen), traduzione e cura di Francesca Bolino
Un testo raro di Piero Gobetti sul fondatore del movimento
"Marinetti? insulso"
di Piero Gobetti (la Repubblica, 14.01.2009)
Chi conosce Marinetti ha l’impressione di un uomo impotente a riflettere. Non può vivere che di rumori e di trovate insulse. La sua più grande scoperta artistica è il teatro di varietà, la sua religione il tattilismo. Ma toglietelo dal palcoscenico, sottraetelo agli artifici delle luci e trovare un debole, un minorato. Nulla di più penoso che un colloquio con Marinetti da solo a solo. Non ha niente da dirvi: i suoi silenzi danno un senso di disagio e di pietà.
Egli ha bisogno degli intona-rumori, della grancassa, di un codazzo di adulatori pacchiani e di servi zelanti che gli facciano da coro, che lo sollevino dalla sua povera malinconia, che lo aiutino ad esaltarsi. Ecco il segreto della sua banda: essa gli dà una garanzia di continuità della sua mistificazione.
Non è successo altrove che gli armati gregari sostituissero la fede assente? Corte e pretoriani, umanisti e camicie nere furono sempre consolatori e custodi dei regimi improvvisati con arte e difesi contro i pretendenti.
Così è del pari lo stile di Marinetti. I Manifesti, scritti in linguaggio cristiano, mostrano la vivacità dell’orso che balla, e più la tenace pedanteria di un professore tedesco. Sono insistenti, noiosi, divisi in capitoli e in paragrafi, scolastici come un catechismo, schematici come un trattato. Quando poi egli si abbandona all’onda del lirismo, allora le parole in libertà, le proposizioni asintattiche, ritraggono la sua anima vuota e sconnessa, le sue doti di osservatore semplicista, devoto al più grossolano impressionismo, incapace di una continuità lirica e di una personalità grammaticale. (...)
Quando l’arte è così vicina alla politica; quando gli intona-rumori diventano da un giorno all’altro squadristi; come non pensa il Duce ad assicurarsi da un pretendente? La rappresentazione non potrà mutarsi all’improvviso in comizio? Non bisogna dimenticare che Marinetti è rimasto anticlericale, antimonarchico. Non ci darà egli il superfascismo?
Brano tratto dall’"Opera Critica"
L’oscurantismo del nuovo
di Mario Perniola (la Repubblica, 14.01.2009)
È noto che il grande scrittore giapponese Mori Ogai tradusse in giapponese il Manifesto del Futurismo di Marinetti, uscito sul giornale francese Le Figaro il 20 febbraio 1909, poche settimane dopo la sua pubblicazione. Meno noto è invece che la sua versione adoperò caratteri d’origine cinese rari e già allora caduti in disuso. Più o meno inconsciamente, egli si attenne alla strategia di modernizzazione adottata dal Giappone nel 1868, secondo cui questa deve avvenire attraverso una conciliazione tra il nuovo e il vecchio, senza che i due termini opposti vengano mai a conflitto.
Paradossalmente un testo estremamente iconoclastico e sovversivo, che anticipa lo stile spettacolare e violento della pubblicità e della comunicazione massmediatica attuale, era trasformato in qualcosa la cui comprensione richiedeva la conoscenza del passato.
Questo curioso episodio è per noi molto significativo perché ci induce a riflettere sulla china autodistruttiva e devastatrice presa dalla mentalità occidentale, quando ha cominciato a credere che il nuovo fosse per definizione migliore del vecchio.
Tale convinzione, le cui origini affondano nel Barocco e nella sua esaltazione della meraviglia come precetto estetico primario, ha trovato il suo culmine nel Novecento, che appunto è stato il secolo futuristico per eccellenza.
Nel momento in cui la maggior parte del mondo si trova dinanzi alla necessità di modernizzarsi per non essere ancora una volta colonizzato dall’Occidente, vale la pena di mettere in dubbio il pregiudizio futuristico, secondo il quale la novità, solo perché tale, è a priori superiore a ciò che è già conosciuto e sperimentato.
Ora non si tratta in nessun modo di sposare il tradizionalismo e il passatismo, ma soltanto di chiedersi come la versione traviata della modernità e del progresso, sostenuta da Marinetti con «violenza travolgente e incendiaria» (secondo le parole del suo Manifesto) sia potuta diventare egemonica, relegando nelle anticaglie e nei vecchiumi non solo il sapere, ma perfino la coerenza e la logica.
Giova sottolineare che questo tralignamento non è affatto una conseguenza del pensiero moderno. Il Rinascimento è stato in tutte le sue manifestazioni un ritorno alla cultura antica e della sua concezione del mondo. Anche la Riforma si è configurata come un ritorno alle fonti della religiosità. Quanto alle Rivoluzioni politico-sociali per eccellenza, quella americana e quella francese, esse iniziarono come restaurazioni "dell’antico ordine di cose" contro i soprusi del governo coloniale inglese e contro il dispotismo della monarchia francese.
Marx esortava a non considerare Hegel come un "cane morto" e la psicoanalisi è basata sui miti dell’antica Grecia. Perfino Guy Debord, che passa come uno dei più radicali ispiratori della contestazione studentesca del Sessantotto, è intriso di cultura classica e non è mai venuto meno nella sua vita come nei suoi scritti al "grande stile" degli antichi e dell’animatore della Fronda, de Retz.
Il futurismo è stato una forma di oscurantismo al massimo grado aggressivo, che ha contagiato per tutto il Novecento tutti i movimenti di massa e fuorviato non pochi leader politici. Oggi, la sua eredità mi sembra che si manifesti soprattutto nell’antipolitica del "Vaffanculo!", la quale costituisce un fenomeno molto differente dal populismo, dal qualunquismo e dal moltitudinismo: questa è connessa più con la bolla futuristica derivante dall’uso aberrante di Internet che con qualsiasi tipo di ideologia. Al neofuturismo degli "incazzati in pigiama" è ancora preferibile il "no future" del movimento Punk
Futurismo
Le mille facce dell’avanguardia
Dopo Milano e Parigi anche Roma celebra il centenario del movimento con la grande rassegna alle Scuderie del Quirinale
Le analogie e le differenze tra l’esposizione di oggi e quella famosa del 1912
Tra i tanti, Carrà Boccioni, Balla e gli "invitati" parigini Duchamp Picasso e Delaunay
di Cesare De Seta (la Repubblica, 16.02.2009)
Il Futurismo è tra i pochi eventi del Novecento che pone l’Italia in prima fila e il centenario ha dato la stura a molte mostre. Una moneta, quella del futurismo, che il nostro paese avrebbe dovuto saper spendere da protagonista: sia perché i maggiori studiosi del movimento sono italiani, sia perché avevamo un "diritto di prelazione" da far valere.
Il Centre Pompidou ha preceduto tutti con la mostra "Le Futurisme à Paris", ora alle Scuderie del Quirinale (in apertura il 20 febbraio). La mostra, per la cura di Didier Ottinger, fin dal titolo - "Avanguardia - Avanguardie" - ha un’articolazione saccente e debole per il modo in cui i futuristi vengono affogati in un cubismo+futurismo=cubofuturismo, come Ottinger titola il saggio d’apertura. Marinetti, Boccioni, Severini e Carrà, girando per la mostra, si torcerebbero dalla rabbia: perché non sopportarono d’esser giudicati epigoni dei cubisti e in effetti non lo furono.
Non a caso la mostra si apre nel nome di Picasso e Braque, di Delaunay e Metzinger, di Léger e Gleizes. Ciò non toglie che gli amici francesi abbiano messo assieme, con apprezzabile tempestività, una selezione eccellente di tele di Boccioni, Severini, Carrà, Russolo, mentre Balla è mortificato con solo due tele. Nessuno nega che i futuristi si inseriscono in un terreno già arato dal cubismo, ma la mostra alla galleria Bernheim-Jeune del febbraio 1912 fu solo un momento dell’articolata politica di lancio orchestrata da Marinetti con gran talento.
Che le opere futuriste fossero una novità assoluta lo testimonia il fatto che esse scandalizzarono i parigini e i giornali francesi contemporanei dicono delle reazioni violente sia di pubblico che di critica. La rivoluzionaria serie de Gli stati d’animo di Boccioni sono del 1911, e scarse relazioni hanno con l’Adamo-cubista: le radici stesse della pittura di Boccioni sono radicalmente diverse (Officine a Porta Romana, L’idolo moderno, 1910-1911), come quelle di Carrà (Il funerale dell’anarchico Galli, Sobbalzi di carrozza, La donna al caffè, Ciò che mi ha detto il tram degli stessi anni). Le tematiche futuriste della città, della velocità, della simultaneità sono per larga parte estranee al milieu parigino: sono una tale novità che creano disagio anche a uno spregiudicato occhio come quello di Apollinaire.
L’edizione delle Scuderie, commissario Ester Coen, ha il merito di aver eliminato molte tele non pertinenti e di aver puntato decisamente sul futurismo col qualificato serto di tele già ricordate. Complessivamente una settantina di opere, con preziose aggiunte, su 115 esposte a Parigi: un freddo dato notarile, significativo. In premessa al catalogo (Electa) Antonio Paolucci saggiamente scrive che per il futurismo «più che di arte italiana è giusto parlare di varianti italiane di fenomeni globali e policentrici»: tra gli invitati parigini, riuniti al secondo piano, i Delaunay con la Tour Eiffel e su tutti il geniale Marcel Duchamp del Nu descendant l’escalier: questi sì strettamente collegati alla ricerca sul moto dinamico.
Una periodizzazione completamente diversa ha la mostra milanese al Palazzo Reale, a cura di Giovanni Lista e Ada Masoero (catalogo Skira), che si spinge agli anni Trenta, con il capitolo dell’Aereopittura (Tato, Prampolini, Diulgheroff, Dottori) e un finale dedicato a "L’eredità del futurismo" (Fontana, Burri, Dorazio, Schifano). La mostra milanese è una sventagliata a tutto campo e ha il vantaggio, rispetto e contro la mostra parigina e romana, di avere una sezione introduttiva dedicata alla grande tradizione lombarda di fine Ottocento. È pure vero che i futuristi sbeffeggiarono i pittori «montagnisti e laghettisti», ma per capire le radici di Carrà, ma dello stesso Boccioni e di Balla, è impossibile prescindere dalla pittura simbolista e divisionista (Previati, Segantini, Pellizza) che ebbe peso ben maggiore dei cubisti nella formazione dei futuristi. Perché, e la mostra lo ribadisce, Marinetti ebbe sì un’indelebile formazione francese, ma operò sempre a Milano e la metropoli dell’industria e della tecnica fu il grande crogiolo della modernità. Gino Severini a Parigi fin dal 1906, con puntate di Soffici e Boccioni, fu più direttamente influenzato dal cubismo, ma con un’originalità compositiva e cromatica di sicura tenuta.
Scandita in diverse sezioni la mostra milanese sfiora anche "Metafisica" - a cui approdò Carrà intorno al 1916 - che fu il vero controcanto al futurismo. Si fatica a inserire Sironi tra i futuristi, ma pure l’esordio fu in quel solco, come per Funi: poi entrambi approdarono sulle rive limacciose di "Novecento". Il movimento irradiò i suoi tentacoli fino a Firenze ("Lacerba" è un nodo essenziale), a Roma, Torino, Napoli, ma anche in centri minori e aree di ricerca che vanno emergendo, come il caso Bologna con la mostra a Palazzo Saraceni a cura di Beatrice Buscaroli.
La grande vitalità dell’avanguardia futurista fu quella di aver pervaso la fotografia e il cinema (i Bragaglia), la musica e il teatro (Pratella, Russolo, Cangiullo), le arti decorative, la pubblicità e la moda (Balla, Depero, Prampolini, Dottori). Al paroliberismo concorsero letterati (Paolo Buzzi, Palazzeschi, Cavacchioli, Govoni, Altomare, Folgore) e pittori sia del primo che del secondo futurismo: a questa ricerca sperimentale è dedicata un’altra mostra, a cura di Luigi Sansone (catalogo Motta), alla Fondazione Stelline di Milano. Essa pone in prima linea Marinetti su cui è appena uscita una densa monografia (Mondadori) di Giordano Bruno Guerri e il volume di Vladimir Pavloviè nella bella collana Mart inediti.
Il museo d’arte di Lugano fa eco con una mostra dedicata a "La dinamo futurista": un omaggio a Boccioni nei disegni del toscano Primo Conti per la Donna che venne dal mare. Un profilo del movimento sul versante ideologico e politico è quello di Emilio Gentile edito da Laterza.
Il grande assente nei fuochi d’artificio futuristi (se si escludono una decina di acquerelli a Milano) è Antonio Sant’Elia, e davvero non si spiega visto ché l’architetto comasco fu per i futuristi una bandiera e uscì persino un periodico col suo nome: le immagini santeliane sono icone fondamentali della modernità a cui Le Corbusier attinse a piene mani, ma mai lo citò nei suoi scritti. More parisiano!
L’avanguardia che non c’è più
Le élite nella società liquido-moderna
L’analisi del sociologo: è tramontata l’epoca della differenza tra cultura "alta" e "bassa"
I movimenti del ’900 avevano una missione: far aprire gli occhi su nuovi mondi
Per i "trend-setter" possono convivere l’iPod e il rugby accanto al balletto e il gotico vittoriano
Anticipiamo parte dell’articolo di che apre il prossimo numero del "Terzo Occhio" tutto dedicato al Novecento e al mito della modernità, col Futurismo in primo piano
di Zygmunt Bauman (la Repubblica, 19.01.2009)
I concetti di "being in a vanguard" (in inglese) o "en avant-garde" (in francese), coniati originariamente nel linguaggio e dalla pratica militare, e in seguito trapiantati, come metafora, in altri settori della vita, significano più di un mero "essere avanti" in prima linea, avanzati più lontano di quanto gli altri riescano a essere; implicano tracciare una nuova via, rendere transitabile una strada, prendere una testa di ponte che lo aprirebbe alla circolazione; in breve, suggeriscono di mostrare, di aprire e di liberare la strada affinché gli altri entrino e vadano avanti. Tutti questi suggerimenti e queste implicazioni si basano su un presupposto a volte esplicito a volte tacito: che ci siano alcuni "altri" (se lo sappiano già oppure se finora non ci avessero mai pensato) che dovrebbero essere desiderosi ed entusiasti di seguire, non appena l’avanguardia abbia terminato il suo lavoro preparatorio di ricognizione. (...)
Oltre al presupposto di preparare/liberare/mostrare il percorso, il concetto dell’"avanguardia" comporta la visione di un movimento in avanti - di progresso. Per queste due ragioni, i futuristi, gli impressionisti, i cubisti, i fauvisti, i surrealisti, i dadaisti, gli espressionisti astratti o no, e numerosi altri movimenti artistici degli eccitanti tempi inclini al futuristico, erano pienamente nei loro diritti quando hanno preso in prestito l’idea di avanguardia per descrivere la loro posizione e dichiarare i loro intenti. Per le stesse due ragioni, tuttavia, attribuire o adottare la metafora dell’"avanguardia" per descrivere o auto-definire delle novità artistiche ai nostri tempi, potrebbe solo voler dire rubare i meriti di qualcun altro, nella speranza che nel frattempo i ladri si approprino dei bei ricordi della gloria passata.
I movimenti avanguardisti di un tempo (più precisamente, dell’inizio e della metà del XX secolo - i periodi precedenti il passaggio dallo stato "solido" a quello "liquido") si consideravano al contempo plenipotenziari e veicoli, ma soprattutto unità avanzata del progresso con una missione cruciale da compiere: aiutare i loro simili a uscire dal rivestimento d’acciaio della tradizione stantia, esausta e sempre più sterile nel quale erano stati rinchiusi, e aprire i loro occhi su nuovi modi, finora inesplorati e ancora rifuggiti, non solo di comprendere l’arte, ma anche di stare nel mondo. (...)
E l’avanguardia credeva, come avrebbero dovuto credere quando il culto del progresso era ancora la religione ascendente e la fede nelle ferree leggi della storia non era ancora quasi mai stata interrogata, di avere la storia dalla sua parte. La storia andava avanti e indietro, e così facevano le arti, le truppe avanzate della cultura umana. Le vele della storia stavano aspettando che spirasse il vento dagli studi e dai laboratori d’arte. Più forte è questo vento, più veloce andrà la storia...
Niente di ciò che è stato detto sopra riguardo alle arti resta ancora vero nella nostra società liquido-moderna di consumatori.
Stephen Fry, un attore britannico popolarissimo sempre sul palcoscenico, al cinema e in televisione, rinomato per la sua arguzia e il suo talento di narratore, modello vivente dello stile di vita che gli aspiranti membri dell’élite artistico-culturale vorrebbero tanto abbracciare, è un ospite molto desiderato in qualsiasi salotto intellettuale londinese e in qualsiasi party che ambisca al rango di "favola della città", e un indirizzo molto ambito nella rubrica di qualsiasi network con una ragionevole pretesa di prestigio e di rilievo; in breve, una persona dall’enorme influenza sulle menti di qualsiasi cosa possa essere definita l’attuale "élite culturale". Nel cercare di spiegare il fenomenale successo del sito web Facebook, l’ottimo giornale British Sunday notava che "la folla" dei suoi utenti, insolitamente per i siti di social network, «includeva tantissimi tipi famosi» e suggeriva che ciò accadesse perché «in che altro modo potresti chiedere a Stephen Fry di diventare tuo amico?».
Stephen Fry, una celebrità rispettata da chiunque voglia essere qualcuno nel mondo degli intenditori delle ultime mode culturali, ha sentito la necessità di spiegare e giustificare ai lettori del Guardian perché sia accettabile per una persona come lui, acclamata come modello delle più raffinate e sublimi credenziali culturali, infilarsi una volta a settimana i panni di "fissato", dedicando la sua rubrica all’ultimo gingillo elettronico: congegni che si ritiene appartengano alla cultura "popolare" (in passato, in tempi felicemente ignari del "politicamente corretto", conosciuto come "cultura di massa") piuttosto che al suo superiore/detrattore alto o intellettuale (le denominazioni "alto" e "intellettuale" non sono più utilizzate nell’attuale gergo del politically correct, tranne che come insulto, con derisione e tra virgolette).
Fry comincia la sua dichiarazione con una confessione: «I dispositivi digitali scuotono il mio mondo. Questo potrebbe essere considerato da alcuni come una tragica ammissione. Non il balletto, l’opera, il mondo naturale, Stephen? Non la letteratura, il teatro o la politica mondiale?». E si affretta a prevenire le potenziali accuse: «Beh, la gente può andare matta per tutte le cose digitali e ancora leggere i libri, può andare all’opera e guardare una partita di cricket e richiedere i biglietti dei Led Zeppelin senza andare in frantumi (...). Ti piace la cucina tailandese? E che c’è che non va con quella italiana? Ehi, calma. Mi piacciono entrambi. Sì. Si può fare. Mi possono piacere il rugby e i musical di Stephen Sondeim; l’alto gotico-vittoriano e le installazioni di Damien Hirst. Herb Alpert e Tijuana Brass e i pezzi per pianoforte di Hindemith; gli inni inglesi e Richard Dawkins; le prime edizioni di Norman Douglas e l’iPod; il biliardo, le freccette e il balletto (...). (Una) passione per gli aggeggi non mi rende restio alla carta, alla pelle e al legno, ai Natali vecchio stile, ai film di Preston Sturges e le passeggiate in campagna».
Alcuni limiti sono ancora rispettati, e oltrepassarli è da incauti. In toto, comunque, questa pubblica confessione e dichiarazione supplica di essere letta come una decisa sfida al concetto di Pierre Bourdineau di "distinzione", come principale posta in gioco nella battaglia delle arti, concetto che ha governato e ottimizzato la nostra concezione delle arti e più generalmente della "cultura" durante gli ultimi tre decenni.
Stephen Fry ha la reputazione di essere un trend-setter, ma è anche il più attendibile portavoce (e la personificazione vivente) delle mode; ci si può fidare del fatto che parla non solo a nome suo, ma anche a nome dei centinaia di migliaia di militanti e dei milioni di aspiranti membri dell’"élite culturale" - persone che conoscono la differenza tra comme il faut e comme il ne faut pas, e che sono le prime a notare il momento in cui quella differenza diventa diversa da ciò che era un momento prima. E non ha sbagliato neanche questa volta. Secondo uno studio scritto da Andy McSmith e pubblicato nell’edizione on-line dell’Independent, autorevoli accademici riuniti nella più autorevole università - Oxford - hanno proclamato che «l’élite culturale non esiste».
A questo punto McSmith, cercando un titolo adeguatamente pungente e stimolate, non ha comunque trovato quello adatto: ciò che John Goldthorpe, uno dei più rispettati ricercatori di scienze sociali di Oxford, e la sua équipe di 13 ricercatori hanno dedotto dai dati raccolti nel Regno Unito, in Cile, in Ungheria, in Israele, nei Paesi Bassi e negli Stati Uniti, è che non si possono più trovare persone superiori che si distinguano da altre, a loro inferiori, andando all’opera e ammirando qualsiasi cosa sia stata attualmente marchiata come "arti alte", mentre arricciano il naso con «qualsiasi cosa di volgare quanto i brani pop o la televisione generalista».
Il leopardo dell’élite culturale è molto vivo e graffiante, ha solo cambiato le sue macchie, che possono essere chiamate - da quando Richard A. Petersen della Vanderbilt University ha coniato nel 1992 la parola "onnivoracità" - opera e brani pop, "arti alte" e televisione generalista; un pezzetto da qui, un pezzetto da là; ora questo, ora quello. Come si è recentemente espresso Petersen: «Assistiamo a un cambiamento nella politica della classe elitaria, da quegli intellettuali che disdegnano snobisticamente tutta la cultura popolare bassa, plebea o di massa, a quegli intellettuali che consumano in modo onnivoro una vasta gamma di forme d’arte popolari oltre che intellettuali». (...)
La cultura liquido-moderna non ha "persone" da "coltivare", piuttosto dei clienti da sedurre. E diversamente dal suo predecessore "solido-moderno", non desidera più fare in modo, alla fine ma il prima possibile, di terminare il lavoro. Il suo lavoro consiste ora nel rendere la propria sopravvivenza permanente, rendendo temporali tutti gli aspetti della vita dei suoi vecchi pupilli, ora rinati come clienti.