L’avanguardia che innervosì il ’900...

IL FUTURISMO. VISTO CHE E’ IL CENTENARIO ... ALCUNE NOTE - di Bonito Oliva, Kandinsky, Gobetti, Perniola.

giovedì 15 gennaio 2009.
 

[...] I proclami di Marinetti si susseguono con intensità crescente, fino a inondare, con la tipica verve linguistica e lo spirito pungente che caratterizza la formazione, ogni aspetto del vivere civile e ogni forma di espressione artistica: dal romanzo al teatro, dalla poesia alla danza, dalla fotografia all’architettura, dal cinema alla moda, dalla radio al design, dalla tipografia alla musica, dalla cucina alla politica, al concetto di donna e quello di amore, approdando, in un documento stilato a quattro mani da Balla e Depero, all’estrema ipotesi di una Ricostruzione futurista dell’Universo.

Nel tentativo di agguantare la vita e di trasformarla attraverso l’arte, il Futurismo si fa nervoso, "caffeina d’Europa", nei suoi manifesti sprizza insonnia, impazienza, irruenza, vitalismo, superomismo, conflittualità. Fino a cadere sciaguratamente nelle braccia del Regime, nell’impossibile tentativo dell’immaginazione al potere attraverso l’estetizzazione della politica e del quotidiano [...]



-  Quel che resta del futurismo

-  L’avanguardia che innervosì il ’900

-  Il manifesto fu pubblicato sulla "Gazzetta dell’Emilia" il 5 febbraio del 1909 e poi su "Le Figaro".
-  Velocità e azione le parole d’ordine. Ma fra gli esiti ci fu anche il fascismo

-  Figli di quell’onda lunga sono anche Burri e Fontana Schifano e Warhol Bill Viola e Gehry
-  Una rivoluzione spesso appannata dai comportamenti degli stessi futuristi

di Achille Bonito Oliva (la Repubblica, 14.01.2009)

Sicuramente tra tutte le Avanguardie il Futurismo è stato il movimento più nervoso del Novecento, un secolo nervoso per eccellenza. Si evince dal primo manifesto di Filippo Tommaso Marinetti, pubblicato il 5 febbraio 1909 sulla Gazzetta dell’Emilia, e apparso il 20 febbraio sulle pagine del quotidiano francese Le Figaro, che esplode come una violenta deflagrazione sullo sfondo di un’Italia contadina e analfabeta, ancora abbondantemente assopita tra scampoli e retaggi di una cultura tardo-romantica, ottocentesca. Velocità, dinamismo, azione, modernità, il mito della macchina e del progresso, insieme al disprezzo per la tradizione e l’accademismo, costituiscono i nuovi valori dello Sturm und drang, impeto e assalto, futurista: per il rinnovamento della società italiana e il superamento delle vecchie ideologie attraverso l’impiego massiccio e bulimico del manifesto, forma di militarizzazione della parola usata come proclama e dichiarazione di guerra contro il mondo passatista.

Accanto a Marinetti, vero e proprio deus ex machina del movimento, compaiono sulla scena Balla, Boccioni, Carrà, Severini, Russolo, che attribuiscono al movimento, concepito originariamente come letterario, una propria concreta fisionomia artistica.

Tra il 1910 e il 1914 vedono la luce, solo per citare alcuni fondamentali scritti, il Manifesto dei pittori Futuristi, il Manifesto dei Musicisti Futuristi, Il Manifesto della Scultura Futurista e il Manifesto della Scultura Futurista.

I proclami di Marinetti si susseguono con intensità crescente, fino a inondare, con la tipica verve linguistica e lo spirito pungente che caratterizza la formazione, ogni aspetto del vivere civile e ogni forma di espressione artistica: dal romanzo al teatro, dalla poesia alla danza, dalla fotografia all’architettura, dal cinema alla moda, dalla radio al design, dalla tipografia alla musica, dalla cucina alla politica, al concetto di donna e quello di amore, approdando, in un documento stilato a quattro mani da Balla e Depero, all’estrema ipotesi di una Ricostruzione futurista dell’Universo.

Nel tentativo di agguantare la vita e di trasformarla attraverso l’arte, il Futurismo si fa nervoso, "caffeina d’Europa", nei suoi manifesti sprizza insonnia, impazienza, irruenza, vitalismo, superomismo, conflittualità. Fino a cadere sciaguratamente nelle braccia del Regime, nell’impossibile tentativo dell’immaginazione al potere attraverso l’estetizzazione della politica e del quotidiano.

La rivoluzione linguistica del Futurismo spesso è stata appannata dagli stessi artisti per uno stile di vita e comportamenti politicamente scomodi e inaccettabili (l’adesione al Fascismo fino alla sua fine) e rimossa dalla critica fino agli anni sessanta.

I manifesti futuristi senza dubbio esprimono principalmente idealità di comportamento, indicate attraverso pubblici proclami e poi magari contraddetti nel quotidiano e nella propria vita privata. Il superamento di ogni modica quantità, l’amore per il pericolo e l’azzardo, l’apologia della macchina e dell’industria, la pubblicazione del primo Manifesto su un quotidiano della città più cosmopolita d’Europa, ci segnalano una modernissima ansietà di comunicazione: oltrepassare il recinto del linguaggio e bucare l’immaginario collettivo di una società di massa magari disattenta.

È facile fare i conti con le Avanguardie storiche. Insonnia futurista contro sogno surrealista, vitalismo contro platonismo dell’astrazione, esplosione contro scomposizione cubista, nichilismo attivo contro anarchia dadaista, euforia contro lamento espressionista.

D’altronde anche Antonio Gramsci si pose la domanda sull’onda anomala del Futurismo: «Marinetti rivoluzionario?» (Ordine Nuovo, 5 giugno 1921). Gramsci scriveva: «I futuristi hanno svolto questo compito nel campo della cultura borghese: hanno distrutto, senza preoccuparsi se le nuove creazioni, prodotte dalla loro attività, fossero nel complesso, una opera superiore a quella distrutta: hanno avuto fiducia in sé stessi, nella foga delle energie giovani, hanno avuto la concezione netta e chiara che l’epoca nostra, l’epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa doveva avere nuove forme di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio: hanno avuto questa concezione nettamente rivoluzionaria, assolutamente marxista».

Smentita tragicamente tale asserzione sul piano politico, la si può confermare invece su quello culturale e condividere la sentenza finale dell’articolo di Gramsci: «I futuristi, nel loro campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari».

Visto che è l’anniversario, a cento anni dalla sua nascita, chiediamoci: che cosa è rimasto del Futurismo, fino a dove è arrivato il suo tsunami? Sicuramente il Futurismo è stata un’onda lunga che ha investito sul piano della sperimentazione linguistica molte generazioni di artisti. Pensiamo al polimaterismo di Alberto Burri e di Robert Raushenberg, al continuum spazio-temporale del taglio di Fontana, alla pittura urbana di Stuart Davis, alla Pop Art americana, alla velocità pittorica di Schifano e al dandismo di massa di Warhol, all’eclatanza iconografica di Cattelan, alla multimedialità di Kentridge, ai video di Bill Viola, all’energia dei materiali nell’Arte povera con la sua discesa dalla parete e l’occupazione dello spazio quotidiano, ai linguaggi pittorici figurativi di Chia e a quelli astratti di Nicola De Maria nella Transavanguardia, alla musica concreta, elettronica e a quella di Cage, agli ologrammi di Bruce Nauman, all’happening e alle azioni di Fluxus, a Dan Flavin, a Frank Gehry. E che dire della pubblicità, dei videoclip di Michael Jackson, dei graffiti di Basquiat , ed infine della "nouvelle cousine" di Ferran Adrià che ha introdotto un’attenzione chimica nell’elaborazione di nuovi piatti?

Ma sicuramente l’ansietas della comunicazione è la grande eredità del Futurismo, interamente puntata sul mondo, al limite del fondamentalismo estetico e proclamata quasi sempre a volume alto, nell’impossibile tentativo di dare un presente immediato al nostro futuro.


Le riserve dell’artista russo sui futuristi

Kandinsky, l’arte è sacra

di Vassilij Kandinsky (la Repubblica, 14.01.2009)

Kandinsky a Franz Marc (Sui Futuristi) 1908.

«La teoria è una cosa ma il ’talento’ è cosa ben diversa. Nella musica il talento è normale, un dato certo: raramente l’artista li comprende entrambi; per esempio Schoenberg. Inoltre i "manifesti" completi ...sono disordine senza precedenti, che apparentemente può svilupparsi solo dalle teste degli italiani. Molto più concretamente, invece, i nostri manifesti risultano essere sempre organici e più costruttivi. Insomma, l’arte è oggettivamente una cosa sacra di cui non si può disporre in modo così superficiale. E i futuristi giocano pericolosamente con le idee più importanti che si affacciano oggi nel dominio dell’arte, prendendole un po’ qui e un po’ là. Tutto ciò senza ponderazione, senza riflessione. Sono così superficiali...».

A Franz Marc (Su van Gogh) 1913

«che dire sulla nuova arte? L’unica, nuova e interessante forma d’arte, veramente viva, è rappresentata dalle opere di un giovane olandese che qualche volta ho incontrato. Si tratta di un certo van Goghï».

A Herwarth Walden (Sui Futuristi e sulla linea)

«Le loro opere sono composizioni accademiche. Ciò si evince anche dalla disposizione schematica che troviamo nei musei. E ciò fa capire, anche, quanto poco i musei abbiano compreso dei futuristi. I musei concorreranno a confondere le idee. Questo schematismo, li pone in una erronea dimensione, cosa che nessun maestro può permettere... La linea ha da sempre rappresentato per me una domanda davvero difficile intorno al dominio dell’arte. Ha costituito momenti di dubbio, fatica. I miei occhi sono severi. La spensieratezza, la leggerezza e la fretta sono caratteristiche fondamentali per molti artisti oggi. In ragione di ciò credo, anzi sostengo fortemente che i futuristi abbiano rovinato ciò che in loro poteva esserci di buono».

Le lettere inedite sono tratte dal catalogo di "Illuminazioni" (Electa, a cura di Ester Coen), traduzione e cura di Francesca Bolino


Un testo raro di Piero Gobetti sul fondatore del movimento

"Marinetti? insulso"

di Piero Gobetti (la Repubblica, 14.01.2009)

Chi conosce Marinetti ha l’impressione di un uomo impotente a riflettere. Non può vivere che di rumori e di trovate insulse. La sua più grande scoperta artistica è il teatro di varietà, la sua religione il tattilismo. Ma toglietelo dal palcoscenico, sottraetelo agli artifici delle luci e trovare un debole, un minorato. Nulla di più penoso che un colloquio con Marinetti da solo a solo. Non ha niente da dirvi: i suoi silenzi danno un senso di disagio e di pietà.

Egli ha bisogno degli intona-rumori, della grancassa, di un codazzo di adulatori pacchiani e di servi zelanti che gli facciano da coro, che lo sollevino dalla sua povera malinconia, che lo aiutino ad esaltarsi. Ecco il segreto della sua banda: essa gli dà una garanzia di continuità della sua mistificazione.

Non è successo altrove che gli armati gregari sostituissero la fede assente? Corte e pretoriani, umanisti e camicie nere furono sempre consolatori e custodi dei regimi improvvisati con arte e difesi contro i pretendenti.

Così è del pari lo stile di Marinetti. I Manifesti, scritti in linguaggio cristiano, mostrano la vivacità dell’orso che balla, e più la tenace pedanteria di un professore tedesco. Sono insistenti, noiosi, divisi in capitoli e in paragrafi, scolastici come un catechismo, schematici come un trattato. Quando poi egli si abbandona all’onda del lirismo, allora le parole in libertà, le proposizioni asintattiche, ritraggono la sua anima vuota e sconnessa, le sue doti di osservatore semplicista, devoto al più grossolano impressionismo, incapace di una continuità lirica e di una personalità grammaticale. (...)

Quando l’arte è così vicina alla politica; quando gli intona-rumori diventano da un giorno all’altro squadristi; come non pensa il Duce ad assicurarsi da un pretendente? La rappresentazione non potrà mutarsi all’improvviso in comizio? Non bisogna dimenticare che Marinetti è rimasto anticlericale, antimonarchico. Non ci darà egli il superfascismo?

Brano tratto dall’"Opera Critica"


I limiti di un movimento che si propose come rivoluzionario

L’oscurantismo del nuovo

di Mario Perniola (la Repubblica, 14.01.2009)

È noto che il grande scrittore giapponese Mori Ogai tradusse in giapponese il Manifesto del Futurismo di Marinetti, uscito sul giornale francese Le Figaro il 20 febbraio 1909, poche settimane dopo la sua pubblicazione. Meno noto è invece che la sua versione adoperò caratteri d’origine cinese rari e già allora caduti in disuso. Più o meno inconsciamente, egli si attenne alla strategia di modernizzazione adottata dal Giappone nel 1868, secondo cui questa deve avvenire attraverso una conciliazione tra il nuovo e il vecchio, senza che i due termini opposti vengano mai a conflitto.

Paradossalmente un testo estremamente iconoclastico e sovversivo, che anticipa lo stile spettacolare e violento della pubblicità e della comunicazione massmediatica attuale, era trasformato in qualcosa la cui comprensione richiedeva la conoscenza del passato.

Questo curioso episodio è per noi molto significativo perché ci induce a riflettere sulla china autodistruttiva e devastatrice presa dalla mentalità occidentale, quando ha cominciato a credere che il nuovo fosse per definizione migliore del vecchio.

Tale convinzione, le cui origini affondano nel Barocco e nella sua esaltazione della meraviglia come precetto estetico primario, ha trovato il suo culmine nel Novecento, che appunto è stato il secolo futuristico per eccellenza.

Nel momento in cui la maggior parte del mondo si trova dinanzi alla necessità di modernizzarsi per non essere ancora una volta colonizzato dall’Occidente, vale la pena di mettere in dubbio il pregiudizio futuristico, secondo il quale la novità, solo perché tale, è a priori superiore a ciò che è già conosciuto e sperimentato.

Ora non si tratta in nessun modo di sposare il tradizionalismo e il passatismo, ma soltanto di chiedersi come la versione traviata della modernità e del progresso, sostenuta da Marinetti con «violenza travolgente e incendiaria» (secondo le parole del suo Manifesto) sia potuta diventare egemonica, relegando nelle anticaglie e nei vecchiumi non solo il sapere, ma perfino la coerenza e la logica.

Giova sottolineare che questo tralignamento non è affatto una conseguenza del pensiero moderno. Il Rinascimento è stato in tutte le sue manifestazioni un ritorno alla cultura antica e della sua concezione del mondo. Anche la Riforma si è configurata come un ritorno alle fonti della religiosità. Quanto alle Rivoluzioni politico-sociali per eccellenza, quella americana e quella francese, esse iniziarono come restaurazioni "dell’antico ordine di cose" contro i soprusi del governo coloniale inglese e contro il dispotismo della monarchia francese.

Marx esortava a non considerare Hegel come un "cane morto" e la psicoanalisi è basata sui miti dell’antica Grecia. Perfino Guy Debord, che passa come uno dei più radicali ispiratori della contestazione studentesca del Sessantotto, è intriso di cultura classica e non è mai venuto meno nella sua vita come nei suoi scritti al "grande stile" degli antichi e dell’animatore della Fronda, de Retz.

Il futurismo è stato una forma di oscurantismo al massimo grado aggressivo, che ha contagiato per tutto il Novecento tutti i movimenti di massa e fuorviato non pochi leader politici. Oggi, la sua eredità mi sembra che si manifesti soprattutto nell’antipolitica del "Vaffanculo!", la quale costituisce un fenomeno molto differente dal populismo, dal qualunquismo e dal moltitudinismo: questa è connessa più con la bolla futuristica derivante dall’uso aberrante di Internet che con qualsiasi tipo di ideologia. Al neofuturismo degli "incazzati in pigiama" è ancora preferibile il "no future" del movimento Punk


Rispondere all'articolo

Forum