BUONA NOVELLA: "DIO NON E’ CATTOLICO" (Carlo Maria Martini). DIO E’ AMORE (Charitas), NON MAMMONA (Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006).

CACCIARI E VATTIMO CONTRO IL CATTOLICISMO DI PAPA RATZINGER. Il Dio ("Charitas") di Gesù non è il Dio ("Caritas") del Denaro e della carità (elemosina) della gerarchia del cattolicesimo-romano - a cura di Federico La Sala

Il testo dell’intervento di Cacciari alla manifestazione "I Classici" e uno stralcio di un capitolo di "Addio alla verità" di Gianni Vattimo
sabato 16 maggio 2009.
 


L’intervento del filosofo domani ai "Classici" di Bologna

La logica del Denaro e l’esistenza di Dio

di Massimo Cacciari (la Repubblica, 06.05.2009

-  Con questo testo di si inaugura domani a Bologna nell’Aula Magna di Santa Lucia l’ottava edizione della manifestazione "I Classici", dedicata quest’anno al tema del denaro col titolo "Regina pecunia"

-  L’impossibilità di stabilire il confine tra i consumi superflui e quelli necessari.

Regina pecunia... ma di quale "pecunia" parliamo? Di quella nel cui stesso nome risuona la relazione alla sostanzialità della cosa, al possesso del "pecus", del capo di bestiame, dell’animale domestico, che il "pastore" custodisce gelosamente? Questa "pecunia" è stata detronizzata da tempo. Tutte le proprietà della cosa in quanto valore di scambio si presentano nel denaro scisse dalla loro forma naturale. Il denaro rende ora omogeneo in quanto merce tutto ciò che per natura è differente. "La comune bagascia del genere umano" rende-uno il cuore di Antonio e i cani, gli asini, gli schiavi e i palazzi dei suoi zelanti amici. Shakespeare docet, Marx discit.

Ma il denaro si distingue radicalmente dall’antica pecunia non solo perché de-sostanzializza il mondo, ma anche perché esclude ogni avarizia. Se lo tieni fermo "evapora". L’avaro vorrebbe che il suo denaro non si "solidificasse" mai, lo vorrebbe "liquido" sempre, e che proprio in tale forma potesse moltiplicarsi. Ma ciò è impossibile. Il denaro, per riprodursi, ha bisogno di "sparire" di nuovo nel valore d’uso, trasformandosi in merce. Il denaro deve "morire" per "rinascere". La "mistica" di questo denaro è stata spiegata da Marx una volta per sempre.

Ma ciò che forse non è stato bene appreso dalla lezione marxiana è l’immanente e insuperabile contraddizione di tale dialettica. Se il denaro deve "gettare" sempre nuove merci fuori di sé "come combustibile nel fuoco" (Marx), e dunque creare e ri-creare bisogni, nulla assicura che tali merci possano di nuovo traformarsi in valori. Il soggetto che consumando la merce fa "rinascere" il denaro non è lo stesso che lo "arrischia" nella produzione. Da qui la tendenza o la "tentazione" insuperabile a non "solidificarlo", a tentare di moltiplicarlo senza farlo uscire dalla sua "astrazione". Ma non esiste alcuna "miniera" dove il denaro possa custodirsi senza annullarsi. Così come non vi è alcun "mercato" che garantisca il suo ritorno "a casa", più forte e più pronto a nuove avventure.

Il denaro è segno di crisi. Anche per l’individuo. Gli enti-merce di cui è l’universale equivalente sono tutti perituri. Lui solo appare come l’indistruttibile. E dunque il desiderio per lui non può placarsi nel possesso. Il denaro produce un illimitato desiderio, che nessuno dei prodotti in cui si incarna potrà mai soddisfare. Il pastore poteva "restar-contento" del suo pecus. Mai lo potrà chi possiede denaro ed è costretto a "gettarlo" nella circolazione, a "perderlo " per cercare di ritrovarlo, né lo potrà chi, grazie alla infinita potenza del denaro, non acquista che la "miseria" di queste effimere merci.

Tuttavia è necessario parlare dell’essenza metafisica del denaro senza alcun moralismo e lontani da ogni reazionario disprezzo. È vero che il processo di circolazione che il denaro genera produce la perenne insoddisfazione del consumo, ma è vero anche che in ciò si rappresenta la mia autonomia, la "libertà" della persona rispetto a ogni misura o legge universali di felicità o benessere. Soltanto io posso sapere quanto esso mi sia costato e soltanto io posso sapere quale grado di benessere mi dia l’acquisto e il consumo che esso consente. Non esistono misure obiettive di felicità, né esiste la possibilità di determinare in assoluto dove corra il discrimine tra bisogni necessari e superflui.

Certo, nulla di essenziale può esprimersi nel desiderio individuale, e perciò nulla di essenziale può essere perseguito attraverso la potenza universale del denaro. Ma lungi dal portare alla conclusione vetero-moralista: "il denaro non conta", "non può renderci felici", etc., ciò non rappresenta che quella "legge individuale", che Georg Simmel ha illustrato nel suo magnum opus La filosofia del denaro, pubblicato nel 1900, pietra miliare del contemporaneo: nulla può imporci la "misura" del nostro essere felici. Il denaro è universale proprio nel suo esprimere l’impossibilità di una tale "misura" e l’inessenzialità del nostro desiderio, "liberandoci" così dalla "superbia" di ergerlo in qualche modo a norma o modello. Sullo specchio del denaro si rivela soltanto l’infinità del desiderio. E questo soltanto ci è comune. Ma come il denaro, per divenire, deve "morire" nella individualità determinata della merce, così l’infinità del desiderio per vivere deve incarnarsi nella inessenzialità del mio essere felice o in-felice.

Questa paradossale onnipotenza del denaro mai risolvibile in atto, sempre incompiuta, può essere intesa come "mondanizzazione" del dio giudaico-cristiano? Ancora Simmel lo riteneva certo. Dovremmo oggi essere diventati tutti più cauti nell’applicare ovunque come passe-partout l’idea di secolarizzazione. L’onnipotenza infinita dell’immagine del denaro è quella di un poter tutto comprare. Ma questo è appunto actu irrealizzabile. E tutto ciò che è comprabile è inessenziale.

L’onnipotenza divina, invece, si "svuota" di sé per poter tutto qui-e-ora amare. Anche l’amare non è mai alla meta, mai "contento", ma non perché trapassi da consumo a consumo; all’opposto: perché il suo "amato" è oltre ogni logica del possesso e del consumo. Il suo scambio è puro dono, mentre il denaro "funziona" soltanto in quella relazione dove nulla di "gratuito" intervenga. "Ciò è qualcosa di gratuito", così parla il denaro - e intende: "ciò è qualcosa di insensato, di illogico, di inutile". Tuttavia la sua potenza deve alla fine riconoscere quella "legge individuale" che afferma l’inessenzialità del desiderio e del consumo che essa consente. E così, paradossalmente, per negativo, il denaro stesso fa cenno a quell’"inutile" della gratuità del dono dove si custodisce l’inconsumabile e indistruttibile, che continuiamo malgrado tutto ad avvertire in noi, "al cuore" stesso della nostra perenne ricerca e del suo continuo fallire.



Solo un Dio (relativista) ci può salvare

Nel mondo multiculturale, il divino non si può pensare come “verità

Si intitola «Addio alla verità» il nuovo libro di Gianni Vattimo, che raccoglie alcuni saggi di religione, etica e politica scritti negli ultimi anni, di cui anticipiamo in questa pagina uno stralcio, dal capitolo «Un Dio relativista». Il volume (pp. 144, e13) sarà in libreria da domani per l’editore Meltemi, presso il quale è in corso di pubblicazione l’opera omnia del filosofo.

di Gianni Vattimo *

Trasformare la battuta di Heidegger nell’intervista allo Spiegel facendogli dire che «ormai solo un Dio (relativista) ci può salvare» non è solo un provocatorio gioco di parole. Heidegger stesso, se avesse potuto fare l’esperienza delle rovine che il fondamentalismo religioso - vero o preteso che sia - sta producendo nel nostro mondo, forse sarebbe d’accordo. Per mitigare il carattere scandaloso della battuta, potremmo trasformare il «relativista» in «chenotico» (che si abbassa e si umilia per amor nostro): un Dio più esplicitamente conforme all’immagine che ne possiamo avere, oggi, come cristiani.

Anche l’«ormai», nell’affermazione di Heidegger, ci sembra essenziale. Un Dio relativista, o chenotico, è quello che «si dà» a noi, oggi, a questo punto della storia della salvezza, e dunque anche a questo punto della storia della Chiesa, di quella cattolica e di quelle cristiane, nel mondo della globalizzazione realizzata. Dobbiamo sottolineare il legame con l’oggi perché, per noi come per Heidegger, il Dio che ci può salvare non è un’entità metafisica data oggettivamente come sempre uguale, che noi dovremmo solo «riscoprire», in una specie di meditazione cartesiana che ce ne dovrebbe mostrare l’indubitabile «esistenza».

Oggi possiamo porci il problema di Dio solo in questo momento specifico della storia della salvezza, e cioè in relazione a come la Chiesa e il cristianesimo si danno nella nostra esperienza quotidiana. Ora, l’esperienza quotidiana che noi facciamo della storia della salvezza ha da fare con il fondamentalismo. Non soltanto con quello dei cosiddetti terroristi islamici, ma anzitutto con il fondamentalismo che, anche come reazione alla lotta di liberazione dei popoli ex coloniali, si afferma sempre più nella stessa religione occidentale. Di fronte all’affermarsi crescente di fenomeni di secolarizzazione, la Chiesa, non solo in Italia, avanza pretese di riconoscimento della propria autorità sempre più pressanti, e ciò in nome del fatto che a essa, dalla stessa rivelazione cristiana, sarebbe affidato il compito di difendere l’autentica «natura» dell’uomo e delle istituzioni civili.

Non è esagerato dire - per quanti «aggiornamenti» ci siano stati su questo tema - che la Chiesa è ancora ferma al processo di Galileo. È vero che non cerca più di leggere nella Bibbia la descrizione del cosmo e le leggi del moto degli astri; ma parla ancora correntemente di una «antropologia biblica», a cui le leggi civili dovrebbero conformarsi per non tradire la «natura» dell’uomo. Di qui vengono le lotte contro il divorzio, l’aborto, le unioni omosessuali, e poi la diffidenza verso ogni manipolazione genetica anche solo a scopo terapeutico. E oggi le ragioni di chi abbandona il cristianesimo sono sempre più legate alla pretesa ecclesiastica di conoscere la «vera» natura del mondo, dell’uomo, della società.

A questa pretesa si lega il sempre rinnovato dibattito su creazionismo e anti-creazionismo, che è un tema analogo a quello del processo a Galileo; giacché si tratta pur sempre della volontà di affermare che il Dio di Gesù è l’autore del mondo materiale, e dunque la fonte delle leggi che lo regolano, una sorta di supremo orologiaio che, tra l’altro, ha sempre bisogno di una teodicea, perché non solo non dovrebbe poter fare miracoli, ma soprattutto dovrebbe spiegarci perché permette tanti mali nel mondo. Da questo punto di vista, le riflessioni della teologia ebraica dopo Auschwitz dovrebbero insegnare qualcosa ai teologi cristiani: non solo che Dio non può essere onnipotente e buono nello stesso tempo, ma anche e soprattutto che forse non si può più pensarlo come il demiurgo platonico, come il produttore del mondo materiale e dunque responsabile supremo del suo (talvolta pessimo) funzionamento.

Parlare di un Dio «chenotico», o «relativista», significa prendere atto che l’epoca della Bibbia come deposito di «sapere» vero perché garantito dall’autorità divina è del tutto passata. E che questo non è un male a cui cercare di adattarsi in attesa di poterlo combattere più decisamente, ma fa parte della stessa storia della salvezza. È l’incarnazione intesa come kenosis che si realizza oggi in modo più pieno in quanto la dottrina perde tanti elementi di superstizione che l’hanno caratterizzata nel passato, lontano e recente. E la superstizione più grave e pericolosa consiste nel credere che la fede sia «conoscenza» oggettiva; anzitutto di Dio, e poi delle leggi del «creato», da cui derivare tutte le norme della vita individuale e collettiva.

Vista in questa luce, la kenosis, che è il senso stesso del cristianesimo, significa che la salvezza consiste anzitutto nel rompere l’identità tra Dio e l’ordine del mondo reale. In definitiva, nel distinguere Dio dall’essere (quello della metafisica greca) inteso come oggettività, razionalità necessaria, fondamento. Un Dio «diverso» dall’essere metafisico non può più essere il Dio della verità definitiva e assoluta che non ammette alcuna diversità dottrinale. Per questo lo si può chiamare un Dio «relativista». Un Dio «debole», se si vuole, che non svela la nostra debolezza per affermarsi (contro le aspettative razionali, con il mistero a cui dovremmo sottometterci, con la disciplina ecclesiastica che dovremmo accettare) a propria volta come luminoso, onnipotente, sovrano, tremendo, secondo i tratti propri del personaggio (minaccioso e rassicurante) della religiosità naturale-metafisica. È all’esperienza di un Dio diverso da questo che i cristiani sono chiamati nel mondo della esplicita molteplicità delle culture, a cui non si può più contrapporre, violando il precetto della carità, la pretesa di pensare il divino come assolutezza e come «verità».

Gianni Vattimo

* La Stampa, 11 maggio 2009


SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:

-  LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!

-  DAL DISAGIO ALLA CRISI DELLA CIVILTA’: FINE DEL "ROMANZO FAMILIARE" EDIPICO DELLA CULTURA CATTOLICO-ROMANA.

-  L’ULTIMO PAPA CEDE IL PASSO A ZARATHUSTRA: "CHI AMA, AMA AL DI LA’ DEL PREMIO E DELLA RIVALSA". Una pagina di Nietzsche

-  PLATONE E NOI, OGGI.

-  "X"- FILOSOFIA. A FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA

-  Ragione ("Logos") e Amore ("Charitas"). Per la critica dell’economia politica ..... e della teologia "mammonica" ("Deus caritas est", 2006)
-  L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"


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