L’intervento del filosofo domani ai "Classici" di Bologna
La logica del Denaro e l’esistenza di Dio
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 06.05.2009
Con questo testo di si inaugura domani a Bologna nell’Aula Magna di Santa Lucia l’ottava edizione della manifestazione "I Classici", dedicata quest’anno al tema del denaro col titolo "Regina pecunia"
L’impossibilità di stabilire il confine tra i consumi superflui e quelli necessari.
Regina pecunia... ma di quale "pecunia" parliamo? Di quella nel cui stesso nome risuona la relazione alla sostanzialità della cosa, al possesso del "pecus", del capo di bestiame, dell’animale domestico, che il "pastore" custodisce gelosamente? Questa "pecunia" è stata detronizzata da tempo. Tutte le proprietà della cosa in quanto valore di scambio si presentano nel denaro scisse dalla loro forma naturale. Il denaro rende ora omogeneo in quanto merce tutto ciò che per natura è differente. "La comune bagascia del genere umano" rende-uno il cuore di Antonio e i cani, gli asini, gli schiavi e i palazzi dei suoi zelanti amici. Shakespeare docet, Marx discit.
Ma il denaro si distingue radicalmente dall’antica pecunia non solo perché de-sostanzializza il mondo, ma anche perché esclude ogni avarizia. Se lo tieni fermo "evapora". L’avaro vorrebbe che il suo denaro non si "solidificasse" mai, lo vorrebbe "liquido" sempre, e che proprio in tale forma potesse moltiplicarsi. Ma ciò è impossibile. Il denaro, per riprodursi, ha bisogno di "sparire" di nuovo nel valore d’uso, trasformandosi in merce. Il denaro deve "morire" per "rinascere". La "mistica" di questo denaro è stata spiegata da Marx una volta per sempre.
Ma ciò che forse non è stato bene appreso dalla lezione marxiana è l’immanente e insuperabile contraddizione di tale dialettica. Se il denaro deve "gettare" sempre nuove merci fuori di sé "come combustibile nel fuoco" (Marx), e dunque creare e ri-creare bisogni, nulla assicura che tali merci possano di nuovo traformarsi in valori. Il soggetto che consumando la merce fa "rinascere" il denaro non è lo stesso che lo "arrischia" nella produzione. Da qui la tendenza o la "tentazione" insuperabile a non "solidificarlo", a tentare di moltiplicarlo senza farlo uscire dalla sua "astrazione". Ma non esiste alcuna "miniera" dove il denaro possa custodirsi senza annullarsi. Così come non vi è alcun "mercato" che garantisca il suo ritorno "a casa", più forte e più pronto a nuove avventure.
Il denaro è segno di crisi. Anche per l’individuo. Gli enti-merce di cui è l’universale equivalente sono tutti perituri. Lui solo appare come l’indistruttibile. E dunque il desiderio per lui non può placarsi nel possesso. Il denaro produce un illimitato desiderio, che nessuno dei prodotti in cui si incarna potrà mai soddisfare. Il pastore poteva "restar-contento" del suo pecus. Mai lo potrà chi possiede denaro ed è costretto a "gettarlo" nella circolazione, a "perderlo " per cercare di ritrovarlo, né lo potrà chi, grazie alla infinita potenza del denaro, non acquista che la "miseria" di queste effimere merci.
Tuttavia è necessario parlare dell’essenza metafisica del denaro senza alcun moralismo e lontani da ogni reazionario disprezzo. È vero che il processo di circolazione che il denaro genera produce la perenne insoddisfazione del consumo, ma è vero anche che in ciò si rappresenta la mia autonomia, la "libertà" della persona rispetto a ogni misura o legge universali di felicità o benessere. Soltanto io posso sapere quanto esso mi sia costato e soltanto io posso sapere quale grado di benessere mi dia l’acquisto e il consumo che esso consente. Non esistono misure obiettive di felicità, né esiste la possibilità di determinare in assoluto dove corra il discrimine tra bisogni necessari e superflui.
Certo, nulla di essenziale può esprimersi nel desiderio individuale, e perciò nulla di essenziale può essere perseguito attraverso la potenza universale del denaro. Ma lungi dal portare alla conclusione vetero-moralista: "il denaro non conta", "non può renderci felici", etc., ciò non rappresenta che quella "legge individuale", che Georg Simmel ha illustrato nel suo magnum opus La filosofia del denaro, pubblicato nel 1900, pietra miliare del contemporaneo: nulla può imporci la "misura" del nostro essere felici. Il denaro è universale proprio nel suo esprimere l’impossibilità di una tale "misura" e l’inessenzialità del nostro desiderio, "liberandoci" così dalla "superbia" di ergerlo in qualche modo a norma o modello. Sullo specchio del denaro si rivela soltanto l’infinità del desiderio. E questo soltanto ci è comune. Ma come il denaro, per divenire, deve "morire" nella individualità determinata della merce, così l’infinità del desiderio per vivere deve incarnarsi nella inessenzialità del mio essere felice o in-felice.
Questa paradossale onnipotenza del denaro mai risolvibile in atto, sempre incompiuta, può essere intesa come "mondanizzazione" del dio giudaico-cristiano? Ancora Simmel lo riteneva certo. Dovremmo oggi essere diventati tutti più cauti nell’applicare ovunque come passe-partout l’idea di secolarizzazione. L’onnipotenza infinita dell’immagine del denaro è quella di un poter tutto comprare. Ma questo è appunto actu irrealizzabile. E tutto ciò che è comprabile è inessenziale.
L’onnipotenza divina, invece, si "svuota" di sé per poter tutto qui-e-ora amare. Anche l’amare non è mai alla meta, mai "contento", ma non perché trapassi da consumo a consumo; all’opposto: perché il suo "amato" è oltre ogni logica del possesso e del consumo. Il suo scambio è puro dono, mentre il denaro "funziona" soltanto in quella relazione dove nulla di "gratuito" intervenga. "Ciò è qualcosa di gratuito", così parla il denaro - e intende: "ciò è qualcosa di insensato, di illogico, di inutile". Tuttavia la sua potenza deve alla fine riconoscere quella "legge individuale" che afferma l’inessenzialità del desiderio e del consumo che essa consente. E così, paradossalmente, per negativo, il denaro stesso fa cenno a quell’"inutile" della gratuità del dono dove si custodisce l’inconsumabile e indistruttibile, che continuiamo malgrado tutto ad avvertire in noi, "al cuore" stesso della nostra perenne ricerca e del suo continuo fallire.
Solo un Dio (relativista) ci può salvare
Nel mondo multiculturale, il divino non si può pensare come “verità”
Si intitola «Addio alla verità» il nuovo libro di Gianni Vattimo, che raccoglie alcuni saggi di religione, etica e politica scritti negli ultimi anni, di cui anticipiamo in questa pagina uno stralcio, dal capitolo «Un Dio relativista». Il volume (pp. 144, e13) sarà in libreria da domani per l’editore Meltemi, presso il quale è in corso di pubblicazione l’opera omnia del filosofo.
di Gianni Vattimo *
Trasformare la battuta di Heidegger nell’intervista allo Spiegel facendogli dire che «ormai solo un Dio (relativista) ci può salvare» non è solo un provocatorio gioco di parole. Heidegger stesso, se avesse potuto fare l’esperienza delle rovine che il fondamentalismo religioso - vero o preteso che sia - sta producendo nel nostro mondo, forse sarebbe d’accordo. Per mitigare il carattere scandaloso della battuta, potremmo trasformare il «relativista» in «chenotico» (che si abbassa e si umilia per amor nostro): un Dio più esplicitamente conforme all’immagine che ne possiamo avere, oggi, come cristiani.
Anche l’«ormai», nell’affermazione di Heidegger, ci sembra essenziale. Un Dio relativista, o chenotico, è quello che «si dà» a noi, oggi, a questo punto della storia della salvezza, e dunque anche a questo punto della storia della Chiesa, di quella cattolica e di quelle cristiane, nel mondo della globalizzazione realizzata. Dobbiamo sottolineare il legame con l’oggi perché, per noi come per Heidegger, il Dio che ci può salvare non è un’entità metafisica data oggettivamente come sempre uguale, che noi dovremmo solo «riscoprire», in una specie di meditazione cartesiana che ce ne dovrebbe mostrare l’indubitabile «esistenza».
Oggi possiamo porci il problema di Dio solo in questo momento specifico della storia della salvezza, e cioè in relazione a come la Chiesa e il cristianesimo si danno nella nostra esperienza quotidiana. Ora, l’esperienza quotidiana che noi facciamo della storia della salvezza ha da fare con il fondamentalismo. Non soltanto con quello dei cosiddetti terroristi islamici, ma anzitutto con il fondamentalismo che, anche come reazione alla lotta di liberazione dei popoli ex coloniali, si afferma sempre più nella stessa religione occidentale. Di fronte all’affermarsi crescente di fenomeni di secolarizzazione, la Chiesa, non solo in Italia, avanza pretese di riconoscimento della propria autorità sempre più pressanti, e ciò in nome del fatto che a essa, dalla stessa rivelazione cristiana, sarebbe affidato il compito di difendere l’autentica «natura» dell’uomo e delle istituzioni civili.
Non è esagerato dire - per quanti «aggiornamenti» ci siano stati su questo tema - che la Chiesa è ancora ferma al processo di Galileo. È vero che non cerca più di leggere nella Bibbia la descrizione del cosmo e le leggi del moto degli astri; ma parla ancora correntemente di una «antropologia biblica», a cui le leggi civili dovrebbero conformarsi per non tradire la «natura» dell’uomo. Di qui vengono le lotte contro il divorzio, l’aborto, le unioni omosessuali, e poi la diffidenza verso ogni manipolazione genetica anche solo a scopo terapeutico. E oggi le ragioni di chi abbandona il cristianesimo sono sempre più legate alla pretesa ecclesiastica di conoscere la «vera» natura del mondo, dell’uomo, della società.
A questa pretesa si lega il sempre rinnovato dibattito su creazionismo e anti-creazionismo, che è un tema analogo a quello del processo a Galileo; giacché si tratta pur sempre della volontà di affermare che il Dio di Gesù è l’autore del mondo materiale, e dunque la fonte delle leggi che lo regolano, una sorta di supremo orologiaio che, tra l’altro, ha sempre bisogno di una teodicea, perché non solo non dovrebbe poter fare miracoli, ma soprattutto dovrebbe spiegarci perché permette tanti mali nel mondo. Da questo punto di vista, le riflessioni della teologia ebraica dopo Auschwitz dovrebbero insegnare qualcosa ai teologi cristiani: non solo che Dio non può essere onnipotente e buono nello stesso tempo, ma anche e soprattutto che forse non si può più pensarlo come il demiurgo platonico, come il produttore del mondo materiale e dunque responsabile supremo del suo (talvolta pessimo) funzionamento.
Parlare di un Dio «chenotico», o «relativista», significa prendere atto che l’epoca della Bibbia come deposito di «sapere» vero perché garantito dall’autorità divina è del tutto passata. E che questo non è un male a cui cercare di adattarsi in attesa di poterlo combattere più decisamente, ma fa parte della stessa storia della salvezza. È l’incarnazione intesa come kenosis che si realizza oggi in modo più pieno in quanto la dottrina perde tanti elementi di superstizione che l’hanno caratterizzata nel passato, lontano e recente. E la superstizione più grave e pericolosa consiste nel credere che la fede sia «conoscenza» oggettiva; anzitutto di Dio, e poi delle leggi del «creato», da cui derivare tutte le norme della vita individuale e collettiva.
Vista in questa luce, la kenosis, che è il senso stesso del cristianesimo, significa che la salvezza consiste anzitutto nel rompere l’identità tra Dio e l’ordine del mondo reale. In definitiva, nel distinguere Dio dall’essere (quello della metafisica greca) inteso come oggettività, razionalità necessaria, fondamento. Un Dio «diverso» dall’essere metafisico non può più essere il Dio della verità definitiva e assoluta che non ammette alcuna diversità dottrinale. Per questo lo si può chiamare un Dio «relativista». Un Dio «debole», se si vuole, che non svela la nostra debolezza per affermarsi (contro le aspettative razionali, con il mistero a cui dovremmo sottometterci, con la disciplina ecclesiastica che dovremmo accettare) a propria volta come luminoso, onnipotente, sovrano, tremendo, secondo i tratti propri del personaggio (minaccioso e rassicurante) della religiosità naturale-metafisica. È all’esperienza di un Dio diverso da questo che i cristiani sono chiamati nel mondo della esplicita molteplicità delle culture, a cui non si può più contrapporre, violando il precetto della carità, la pretesa di pensare il divino come assolutezza e come «verità».
Gianni Vattimo
* La Stampa, 11 maggio 2009
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Così fu aggiunta al Decalogo una regola in più
di Armando Torno (Corriere della Sera, 22 ottobre 2011)
Esce l’ultimo volume, undicesimo della serie dedicata a «I Comandamenti», dell’editrice il Mulino. Il titolo Ama il prossimo tuo ricorda il supremo comandamento cristiano. Firmano il libro Enzo Bianchi e Massimo Cacciari. Il primo tratta nel suo saggio «Farsi prossimo con amore», il secondo analizza la «Drammatica della prossimità». Ed è dallo scritto di Cacciari che pubblichiamo un estratto nel quale il filosofo ricostruisce l’itinerario di amore (e di giustizia) che porta il cristiano a non odiare il nemico.
Diremo innanzitutto che il termine ebraico ricordato da Cacciari rea’ indica colui che è un compagno di gruppo, non scelto (può essere di etnia o un vicino appartenente a quelle dimensioni che ci precedono, come la famiglia, il clan, il popolo, il territorio).
Parola abbastanza generica, non troppo utilizzata nei libri profetici dove si preferisce il concreto, è però ben presente nella Bibbia, soprattutto nella formulazione del Decalogo. In esso quanto si riferisce al dovere sociale ha sempre come oggetto il prossimo. Per esempio, il divieto di uccidere o di commettere adulterio si riferisce al prossimo che sta alla fine di tutte le formulazioni.
Ora, l’avere unito questi due momenti sintetici, ovvero «Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Deuteronomio 6,5) e «Amerai il prossimo come te stesso» (Levitico 19,18), è la sintesi del Decalogo e di tutta la Tôrah.
Non a caso queste due dimensioni fondamentali delle «dieci parole» usano - e lo fanno soltanto questi due versetti - la formula «e amerai», we’ahavtà in ebraico. L’amore verso Dio della prima parte abbraccia la seconda, rivolta agli altri. I due amori tra l’altro, nella dimensione verticale e in quella orizzontale, si incrociano nel mezzo del Decalogo nel comandamento del sabato. Che diventa il baricentro della vita spirituale, teso tra Dio e il prossimo.
Aggiungere a questo progetto de il Mulino un comandamento è stata una sottolineatura doverosa. Non a caso esso rappresenta la sintesi dei cinque riguardanti il prossimo. Cacciari, scrivendo il percorso dell’amore verso gli altri, sino al nemico, ha anche offerto una sorta di genealogia della rivoluzione cristiana. Le cui radici sono ebraiche. Per questo l’ultima parola del Decalogo è «re’èka», ovvero «il tuo prossimo».
Perché il «prossimo tuo» ha rivoluzionato la fede
Il testo qui pubblicato è tratto dal saggio di Enzo Bianchi e Massimo Cacciari, «Ama il prossimo tuo» (pp. 144, 12), undicesimo e ultimo volume della collana «I Comandamenti» edita da il Mulino.
di Massimo Cacciari (Corriere della Sera, 22 ottobre 2011)
È necessario iniziare dai testi decisivi in cui risuona il mandatum novum: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e tutta la tua anima e tutte le tue forze e tutta la tua mente, e amerai il prossimo tuo come te stesso» (Luca 10,27). Il verbo agapán viene usato per indicare sia l’amore che è dovuto al Theós, che quello verso il prossimo, plesios. Anche la traduzione latina, proximus, rende bene l’importanza del termine: proximus è infatti un superlativo.
Non può trattarsi di un semplice «vicino». Il plesios in quanto proximus ci riguarda con una intensità che nessuna vicinanza, nessuna contingente contiguità potrebbero raggiungere. Neppure si tratta, certo, di una voce inspiegabilmente nuova, venuta da qualche misterioso altrove. Anche questo mandatum è pleroma, non katalysis della Legge, salvezza del nomos stesso nel suo radicale rinnovarsi.
Il precetto del pieno rispetto dei diritti dell’ospite, così come del compagno, dell’alleato, dell’amico era stato affermato, infatti, con pieno vigore dai profeti - e tuttavia il rea‘ del Primo Patto, che i Settanta traducono per lo più con plesios, anche quando designa lo straniero, lo concepisce sempre come legato a noi, o dal simbolo dell’ospitalità, o da rapporti di reciproca fiducia, garantiti da patti e forieri di accordi utili alle parti. Il timbro del mandatum evangelico «eccede» completamente questa dimensione. Già il fatto di accostare immediatamente l’amore per il Signore a quello per il prossimo costituirebbe vera novitas, anche se plesios qui traducesse esattamente rea‘.
Ciò che veniva comandato insieme ad altri doveri, qui completa addirittura la Prima Parola! Il Logos che sta a fondamento dell’intera vita di Israele non si esprimerebbe compiutamente, resterebbe imperfetto, se non significasse in se stesso amore per il prossimo. È evidente che plesios è chiamato, allora, in questo contesto, ad assumere una pregnanza in-audita - ma, ancor più, è evidente che la visione stessa di Dio muta per questa sua straordinaria prossimità al plesios.
Solo in un punto, forse, nel Primo Patto si giunge ad un’intuizione analoga - ed è del più grande significato che ciò avvenga in Giobbe. L’intero dramma di Giobbe potrebbe essere così interpretato: questo egli chiede, non che gli vengano risparmiati i supplizi (semmai le chiacchiere degli advocati Dei), ma che Dio gli si mostri rea‘, plesios, proximus (16,21): «come un mortale fa col suo rea‘ (plesion autoú)» egli vuole incontrarlo faccia a faccia e difendere l’uomo davanti a Lui.
Anche Mosè parlava col Signore come un uomo parla al suo rea‘ (Esodo 3,11), ma la scena in Giobbe è radicalmente mutata: in Esodo appare evidente la forma dell’accordo, anzi: dell’alleanza imperitura; rea‘ esprime qui una prossimità attuale e incontestabile; per Giobbe, invece, il Signore dovrebbe farsi rea‘; egli reclama che la relazione tra il mortale e il suo Dio divenga una relazione tra prossimi.
Si potrebbe però sostenere che Giobbe esiga la compagnia, l’amicizia, la vicinanza di Dio nel senso
di quella fiduciosa reciprocità, che il termine rea‘ sostanzialmente esprime. Egli vuole amare il suo
Signore come il prossimo, nell’aspetto del prossimo, ma ciò non equivale affatto a amare il prossimo
come il Signore. E se ciò avviene, è evidente che il significato che attribuivamo a rea‘, e al plesios
dei LXX, viene rivoluzionato. È stato detto: «Amerai il tuo prossimo (agapeseis ton plesion soú)»
ma vi è stato anche detto: odierai il nemico, odierai chi non è con te nel vincolo delle leggi
dell’ospitalità, nel senso più ampio del termine. Ma questo non lo sanno forse anche i gentili?
«Questo però io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per chi vi perseguita». In Luca il paradosso dell’estrema vicinanza tra amore per Dio e amore per il prossimo; in Matteo quello della relazione che viene a stabilirsi tra plesios e echthrós, tra proximus e inimicus. Il nemico non può essere amato sul fondamento di un patto, né in vista di qualche utile, né sperando reciprocità. E tuttavia va amato come plesios. Nel termine viene compresa, cioè, la massima lontananza. Prossimo, «superlativamente» prossimo, è lo stesso nemico (l’hospes che non solo si dichiara apertamente hostis, ma addirittura inimicus, echthrós).
Ama il prossimo tuo
Il decimo comandamento che illumina «tutta la Legge e i Profeti» secondo Enzo Bianchi e Massimo Cacciari
Con l’agape l’impossibile è la misura dell’amore
"Un appello costante a uscire da se stessi, ogni uomo considerato prossimo per l’altro uomo Oltre il concetto greco di philia, che non esclude che sia meglio fare il bene che riceverlo"
Enzo Bianchi Massimo Cacciari AMA IL PROSSIMO TUO Il Mulino, pp.141, 12
di Federico Vercellone (La Stampa/TuttoLibri, 21.01.2012)
C’è un comandamento che riassume compiutamente l’insegnamento di Gesù, ed è l’ultimo: «Ama il prossimo tuo». Il decimo comandamento realizza il mandatum novum, suggella il nuovo patto tra Dio e il suo popolo. Quello che così si configura è un cammino che travolge i confini. Su questa via il cristianesimo si configura come religione universale. A ricordarcelo sono Enzo Bianchi e Massimo Cacciari in Ama il prossimo tuo, il magnifico libretto dedicato al decimo comandamento che hanno scritto per Il Mulino. Il volume si compone di due saggi. Il primo, di Enzo Bianchi, è intitolato Farsi prossimo come amore, e il secondo di Cacciari, Drammatica della prossimità. I testi compendiano il versante storico-religioso e teologico e quello filosofico della questione. Enzo Bianchi ci guida attraverso la tradizione ebraica e quella cristiana. Il decimo è un comandamento che suona sempre come una sfida; e lo è forse a maggior ragione in un’età come la nostra che è stata definita anche come l’epoca della «morte del prossimo». L’amore, ricorda Enzo Bianchi, è un appello costante a uscire da se stessi; e il comandamento ammonisce, come ricordava già S. Girolamo, che ogni uomo va considerato prossimo per l’altro uomo. L’insegnamento ad amare il prossimo come te stesso, nell’Antico Testamento, compare nel Levitico: «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19,18). Non abbiamo a che fare con una concezione individualistica dell’ amore, poiché, come si evince dal contesto, l’intento del passo del Levitico è quello di fare di Israele una comunità giusta e solidale fra i suoi membri. Ciò nondimeno avviene nel quadro di un’equilibrata interazione tra responsabilità individuale e dimensione collettiva Al di là del modo in cui si può intendere nella Bibbia ebraica il comandamento, non è possibile non riscontrare come il mandatum novum rappresenti una delle grandi fratture prodotte da Gesù nei confronti del giudaismo, uno dei punti in cui egli si allontana dalla religione dei padri per esprimere una nuova interpretazione della Legge fondata sull’ermeneutica dell’ amore. Come insegna il Vangelo di Matteo, il decimo comandamento diventa il punto di vista attraverso il quale bisogna leggere la Bibbia, un fuoco che illumina «tutta la Legge e i Profeti», un esempio incarnato da Gesù che fa della sua vita un capolavoro d’amore. «Da questo», dice il Vangelo di Giovanni, «tutti sapranno che siete miei discepoli».
Tutto ciò è assolutamente drammatico. Abbiamo a che fare, come magistralmente sottolinea Massimo Cacciari, con un sentimento del tutto paradossale, «con una compassione che non conosce gelosia, e che non ha altro scopo che liberare l’amato». Ogni traduzione risulta arrischiata nel confronto con il contenuto assolutamente paradossale del messaggio evangelico.
Con il decimo comandamento si va ben oltre il concetto greco di philia, che non esclude che sia meglio fare il bene che riceverlo. Con il cristianesimo abbiamo a che fare con un passo che va decisamente oltre ogni amore antico. Quello che qui si annunzia è l’agape, l’amore che non ha innanzi tutto da fare con le relazioni umane ma con il rapporto che Dio intrattiene con se stesso attraverso il Figlio. In quanto il Padre si realizza nell’unità con il Figlio abbiamo a che fare con un amore che sfonda ogni limite, per accogliere entro di sé la sofferenza che affligge l’amato. E’ un amore che sceglie dunque l’impossibile come propria misura. E mostra così che l’amore è ogni volta un obolo infinito che riconosce l’altro prima di noi stessi. Che lo assegna alla sua singolarità assoluta. Realizzandosi l’amore del prossimo si dimostra di volta in volta come il più potente degli impossibili.
18 maggio 2009, par John Mazzei DIO... Qualunque cosa adorata può essere definita un dio, in quanto l’adoratore gli attribuisce potere maggiore del proprio e lo venera. Perfino il proprio appetito può essere un dio. (Ro 16:18; Flp 3:18, 19) La Bibbia menziona molti dèi (Sl 86:8; 1Co 8:5, 6), ma indica che gli dèi delle nazioni sono dèi senza valore. - Sl 96:5; vedi DEI E DEE.
I termini ebraici. Uno dei termini ebraici tradotti “Dio” è ’El, che probabilmente significa “potente; forte”. (Ge 14:18) Ricorre riferito a Geova, ad altri dèi e a uomini. Inoltre è molto usato nei nomi composti, come Eliseo (“Dio è salvezza”) e Michele (“chi è simile a Dio?”). Alcune volte ’El è preceduto dall’articolo determinativo (ha’Èl, lett. “il Dio”) con riferimento a Geova, distinguendolo così dagli altri dèi. - Ge 46:3; 2Sa 22:31; vedi NM, appendice, pp. 1569-70. In Isaia 9:6 Gesù Cristo è chiamato profeticamente ’El Gibbòhr, “Dio potente” (non ’El Shaddài [Dio Onnipotente], usato in riferimento a Geova in Genesi 17:1). Il termine ’elohìm è usato anche a proposito di dèi idolatrici. A volte significa semplicemente “dèi”. (Eso 12:12; 20:23) Altre volte è un plurale di maestà e si riferisce a un unico dio (o dea). Comunque quegli dèi chiaramente non erano delle trinità. - 1Sa 5:7b (Dagon); 1Re 11:5 (la “dea” Astoret); Da 1:2b (Marduk). In Salmo 82:1, 6, ’elohìm si riferisce a uomini, giudici umani d’Israele. Gesù citò questo Salmo in Giovanni 10:34, 35. Erano dèi in quanto rappresentanti e portavoce di Geova. Similmente a Mosè fu detto che doveva servire come “Dio” per Aaronne e per Faraone. - Eso 4:16, nt.; 7:1. Molte volte nelle Scritture ’Elohìm si trova anche preceduto dall’articolo determinativo ha. (Ge 5:22) Dell’uso di ha’Elohìm, F. Zorell dice: “Nelle Sacre Scritture particolarmente il solo vero Dio, Jahve, è designato da questo vocabolo; . . . ‘Jahve è il [solo vero] Dio’ De 4:35; 4:39; Gsè 22:34; 2Sa 7:28; 1Re 8:60 ecc.”. - Lexicon Hebraicum Veteris Testamenti, Roma, 1984, p. 54; quadre dell’autore.
Il termine greco. Di solito l’equivalente greco di ’El ed ’Elohìm nella Settanta è theòs, il termine che sta per “Dio” o “dio” nelle Scritture Greche Cristiane. Geova, il vero Dio. Il vero Dio non è un Dio senza nome. Il suo nome è Geova. (De 6:4; Sl 83:18) È Dio perché ha creato tutte le cose. (Ge 1:1; Ri 4:11) Il vero Dio è reale (Gv 7:28), è una persona (At 3:19; Eb 9:24) e non un’impersonale legge della natura che operi senza un legislatore vivente né una forza cieca che agisca attraverso una serie di eventi accidentali dando casualmente origine alle cose. Nell’edizione del 1956 l’Encyclopedia Americana (vol. XII, p. 743) alla voce “Dio” osservava: “Secondo il criterio cristiano, maomettano ed ebraico, l’Essere Supremo, la Causa Prima e, in senso generale, com’è considerato attualmente in tutto il mondo civile, un essere spirituale, autoesistente, eterno e assolutamente libero e onnipotente, distinto dalla materia che ha creato in molte forme, e che conserva e domina. Non sembra che ci sia stato un periodo della storia umana in cui l’umanità non credesse in un autore soprannaturale e governatore dell’universo”.
Prove dell’esistenza dell’“Iddio vivente”. L’esistenza di Dio è dimostrata dall’ordine, dalla potenza e dalla complessità della creazione, sia a livello macroscopico che microscopico, e dai rapporti che egli ha avuto col suo popolo nel corso della storia. Esaminando quello che si potrebbe chiamare il Libro della creazione divina, gli scienziati imparano molte cose. Si può imparare da un libro solo se il suo autore gli ha dedicato meditazione e preparazione intelligente. A differenza degli dèi senza vita delle nazioni, Geova è “l’Iddio vivente”.
La Bibbia spiega che Geova Dio è vivente da tempo indefinito a tempo indefinito, per sempre
Infinito, ma avvicinabile. Il vero Dio è infinito e al di là della piena comprensione dell’uomo.
: “Ogni dono buono e ogni regalo perfetto viene dall’alto, poiché scende dal Padre delle luci celestiali, e presso di lui non c’è variazione del volgimento d’ombra”.
“Tutte le cose sono nude e apertamente esposte agli occhi” di Dio, “Colui che annuncia dal principio il termine”. (Eb 4:13; Isa 46:10, 11; 1Sa 2:3) La sua potenza e conoscenza si estendono ovunque, abbracciando ogni parte dell’universo.
Il vero Dio è spirito, non carne
La sua posizione. Geova è il Supremo Sovrano dell’universo, il Re eterno.
La sua giustizia e gloria. Il vero Dio è un Dio giusto.
Il suo proposito. Dio ha un proposito che attuerà e che non può essere frustrato.
Nessuno esisteva prima di Geova; perciò egli ha priorità su tutti.
Un Dio comunicativo. Nutrendo grande amore per le sue creature, Dio dà loro ampia opportunità di conoscere lui e i suoi propositi. Tre volte la sua stessa voce è stata udita da uomini sulla terra.
“Un Dio che esige esclusiva devozione”. “Benché ci siano quelli che sono chiamati ‘dèi’, sia in cielo che sulla terra, come ci sono molti ‘dèi’ e molti ‘signori’, effettivamente c’è per noi un solo Dio, il Padre”.
Uno dei potenti chiamati “dèi” nella Bibbia è Gesù Cristo, che è “l’unigenito dio”. Ma egli stesso disse chiaramente: “Devi adorare Geova il tuo Dio, e a lui solo devi rendere sacro servizio”.
(Malachia 3:6) “Poiché io sono Geova;YHWH=Yahve’ non sono cambiato. E voi siete figli di Giacobbe; non siete giunti alla vostra fine. VERRA" FRA NON MOLTO...in questa stessa nostra generazione; senza meno e ombra di dubbio.
(Malachia 3:17-18) “E certamente diverranno miei”, ha detto Geova degli eserciti, “nel giorno in cui produrrò una speciale proprietà. E di sicuro mostrerò loro compassione, proprio come un uomo mostra compassione al figlio suo che lo serve. 18 E voi certamente vedrete di nuovo [la distinzione] fra il giusto e il malvagio, fra chi serve Dio e chi non lo ha servito”.
Scusate devo scappare abbiamo un’assemblea...Con tutto il bene del mondo allo staff di (LA VOCE DI FIORE) Da La Sala A Vattimo a Emiliano e Tiano e Maria....Se vale la pena fatemi dire...Non Mollate poiche’ chi miollera’ saranno proprio loro che cadranno come fichi molli e abbandonati!!!
Ps. dimenticavo F, Saverio Ciao
Professore!!! ci scrivi piu’ spesso e con la stessa grinta e determinazione nel dare prova che il suo argomento mette in risalto...Le Profezie; in questi ultimi giorni di questo malvaggio sistema di cose ...mettono in risalto e hanno l’adempimento che: la falsa religione Babbilonia la Grande la meritrice che ha’ sempre cavalcato la bestia di colore scarllatto...fara’ una brutta fine...sbranata dalla bestia stessa (I politicanti ) che si stufferanno di lei...comunque aime’ anche la politica stessa sasa’ distrutta da Dio stesso ad Armaghedon...comunque professor lei !senza ombra di dubbio fara’ la il suo meglio per combattere come anche tutti noi combattiamo questa stessa organizzazione che adora il dio che non dovrebbe adorare...Ciao (con tutto il bene del mondo da un emigrato integrato; classe 1945; essendo stato sparato per sparire!!!