L’EUROPA, IL CROLLO DEL MURO DI BERLINO, E L’ITALIA ...

FRANCESCO COSSIGA, A VENT’ANNI DALLA SUA PRIMA "PICCONATA". Un’intervista all’ex-capo dello Stato italiano di Marzio Breda - a cura di Federico La Sala

«Mi ero fatto patrocinatore di un salto nel futuro, ma ero troppo in anticipo (...) non ce la feci».
domenica 2 agosto 2009.
 
[...] È passata una generazione da quando Francesco Cossiga lanciò il primo segnale della svolta che sarebbe sfociata nella traumatica «era del piccone». Il 9 novem­bre 1989 era crollato il Muro di Berlino e l’allora presidente della Repubblica giudi­cò l’evento un’occasione liberatoria an­che per l’Italia. Di cui approfittare subito. Insomma: era il momento di rimuovere quel «fattore K» che aveva relegato il Pci fuori dalla stanza dei bottoni costringen­doci a «un’alternanza di governi senza al­ternative al governo» e di riformare in profondità le istituzioni. Per il suo avverti­mento il capo dello Stato usò il messag­gio di fine anno. «Sono cambiate tante co­se all’Est... siamo a un nuovo punto di par­tenza, anche noi italiani abbiamo bisogno del vento della libertà» [...]

L’intervista

-  L’ex capo dello Stato: facevo il matto per poter dire la verità

-  Cossiga vent’anni dopo le picconate
-  «Potessi tornare indietro starei zitto»

-  «Dissi che servivano le riforme ma nella Dc nessuno capì e neanche nel Pci, tranne D’Alema» *

ROMA - A vent’anni dalla sua pri­ma picconata, rifarebbe tutto, presiden­te Cossiga?

«No, proprio no. Non ne valeva la pe­na. Se potessi tornare indietro, me ne sta­rei zitto e buono. Se allora mi fossi com­portato così, probabilmente mi avrebbe­ro rieletto, e c’era una quota di mondo po­litico che lo voleva. Ma ero incazzato co­me una belva e non potevo tacere».

Sarebbe dunque stato meglio lascia­re le cose come stavano, visto quello che è venuto dopo?

«A parte il fatto che una Seconda Re­pubblica non è mai nata e l’ibrido che c’è oggi sta ormai morendo, chissà che cosa sarà la Terza. Pensando ai vecchi tempi, il dualismo Dc-Pci funzionava molto me­glio del bipolarismo barbarico di adesso, se non altro perché un accordo lo si trova­va sempre. Mentre ora ci si scontra quoti­dianamente con la bava alla bocca, senza combinare niente di buono».

È passata una generazione da quando Francesco Cossiga lanciò il primo segnale della svolta che sarebbe sfociata nella traumatica «era del piccone». Il 9 novem­bre 1989 era crollato il Muro di Berlino e l’allora presidente della Repubblica giudi­cò l’evento un’occasione liberatoria an­che per l’Italia. Di cui approfittare subito. Insomma: era il momento di rimuovere quel «fattore K» che aveva relegato il Pci fuori dalla stanza dei bottoni costringen­doci a «un’alternanza di governi senza al­ternative al governo» e di riformare in profondità le istituzioni. Per il suo avverti­mento il capo dello Stato usò il messag­gio di fine anno. «Sono cambiate tante co­se all’Est... siamo a un nuovo punto di par­tenza, anche noi italiani abbiamo bisogno del vento della libertà».

Qualcuno definì «enigmatico» il mes­saggio...

«Invece era chiarissimo. Spiegavo che il Muro era caduto addosso pure a noi. Che bisognava abolire la conventio ad excludendum verso i comunisti, chiudere la ’guerra fredda interna’ ed emancipare il cosiddetto arco costituzionale. Denun­ciavo che il sistema non reggeva più. Che serviva una rigenerazione istituzionale, un secondo tempo per la Repubblica. E la­sciavo intendere che, se non avessimo fat­to nulla, ci avrebbero preso a pietrate per le strade».

Era, insomma, una profezia della ca­tastrofe.

«Sì. Venne da me Antonio Gava, un po­tente della Dc, il mio partito, per chieder­mi che cosa volessi mai. Tentai di dirglie­lo e non capì. Ma anche nel Pci-Pds il di­scorso fu giudicato criptico: tranne D’Ale­ma, nessuno capiva. Avevano sempre vis­suto all’opposizione e sull’opposizione, non era facile per loro pensare di assumer­si responsabilità di governo. Più comodo sospettarmi e, più tardi, attaccarmi».

E lei ha ricambiato con gli interessi. Fu allora che cominciò la sua seconda vita?

«Ci furono varie tappe: il discorso del Capodanno 1989, un intervento a Edim­burgo nel quale approfondivo l’urgenza di ’ampliare l’ambito della democrazia’ cancellando l’interdetto politico verso il Pci, e infine il mio messaggio alle Came­re. Erano gli anni del patto tra Craxi, An­dreotti e Forlani, il Caf. Sollecitavo la gran­de riforma di cui c’era bisogno per schiva­re la crisi che stava per esplodere. Andre­otti, all’epoca premier, rifiutò di controfir­mare il documento per la presentazione in Parlamento perché, si difese, non lo condivideva. Lo firmò il ministro della Giustizia Martelli. Fu il momento più dif­ficile, per me. Sembravano tutti ciechi».

Cossiga «l’incompreso»: è la sua eter­na autodifesa.

«Purtroppo era così. Tornò al Quirina­le il povero Gava. ’Francesco, ma cosa vuoi? Perché ti agiti tanto per questa rifor­ma? Abbiamo lavorato benissimo per qua­rant’anni con questo sistema, possiamo farlo per altri quaranta’. Socialisti, libera­li, repubblicani votarono a favore e, nell’ ex Pci, il costituzionalista Barbera. Tutti gli altri sostenevano che il mio era un pro­getto ad alto rischio, quasi eversivo. Non sapevano che ad aiutarmi a stendere il messaggio erano stati Amato e Martinaz­zoli » .

Nessuno dei due certo accusabile di «frenesie autoritarie». Ma quella stagione fu un incrocio di complot­ti. Lei parlava di una congiura per spodestarla dal Colle, tirarono fuo­ri Gladio.

«Dissero che ero il tutore di quella struttura clandestina euro­pea chiamata Stay Behind, e da noi Gladio, accusata di mille nefandezze. Era comodo prendersela con me, nono­stante avessi avuto un ruolo poco più che marginale. Ero il Cossiga ’amerikano’ e le uniche firme trovate sui documenti era­no mie, anche se chi autorizzò per primo l’accordo con la Cia e con gli inglesi fu Mo­ro insieme a Taviani, con la consulenza di Enrico Mattei. Senza contare che tutti i presidenti del Consiglio sapevano. Ho do­mandato ad Andreotti perché avesse rive­lato il segreto e mi ha risposto che, cessa­ta la guerra fredda, non c’era più motivo di tacere. Una volta il premier inglese Major mi chiese: ’Era proprio necessario dirlo?’. Beh, lasciamo perdere...».

Gladio fu un capitolo dell’«intrigo» per farla dimettere?

«Ci fu anche una cena a casa di Euge­nio Scalfari alla quale era presente, tra gli altri, il gran borghese del Pri, Visentini. Si parlava di me e a un certo punto Scalfari disse: ’Se non riusciamo a metterlo sotto impeachment, facciamo almeno votare una mozione al Parlamento perché sia sot­toposto a perizia psichiatrica’. Mi voleva­no mandare a casa con la camicia di forza. Visentini raccontò la cosa al liberale Altis­simo, che mi telefonò subito. A quel pun­to, potevo mai stare zitto?»

E infatti, come tutti ricordano, non tacque.

«Dicevano che ero in preda a una ’tem­pesta neuro-vegetativa’. In realtà facevo il matto per poter dire la verità, come il fool del teatro elisabettiano. Ero incazzato perché non mi capivano né i comunisti né la Dc, per la quale restavo un irregola­re... Ero incazzato come il sardo che sono, e lei sa che ho antenati pastori, testardi e durissimi » .

Certe sue esternazioni restano memo­rabili per le stilettate incendiarie verso i suoi nemici.

«Di alcune, premeditati atti di legitti­ma difesa, ho chiesto scusa. Per esempio mi sono pentito della definizione di ’zom­bie con i baffi’ ad Achille Occhetto».

Lo shock era che lei bombardava il quartier generale, come aveva fatto Mao durante la rivoluzione culturale in Cina.

«Precisamente. E il quartier generale, che era il vertice della Dc, non capiva nul­la » .

Nessun altro pentimento, oggi?

«Mi ero fatto patrocinatore di un salto nel futuro, ma ero troppo in anticipo. Ta­viani, nelle sue memorie, scrive che sarei stato un buon politico se avessi pensato meno al passato e al futuro, concentran­domi sul presente. Ecco il mio errore: vo­levo liberare un sistema bloccato, ma ho fatto il passo più lungo della gamba. E il cerchio che avevo aperto nell’89 si è chiu­so solo molto dopo, con il traghettamen­to dei post-comunisti al governo, quando creai un partito transitorio proprio per questo scopo, l’Udr, e proposi al mio suc­cessore al Quirinale, Scalfaro, di affidare a D’Alema l’incarico di formare il governo. Il passaggio era completato. Quella sera andai a cena con Berlusconi (senza la D’Addario, beninteso) e cercai di convin­cerlo ad astenersi, ciò che sarebbe stato il mio capolavoro... non ce la feci».

Presidente Cossiga, se lei ha contribu­ito a emancipare gli ex comunisti, ha vi­sto però cadere nel vuoto la sua richie­sta di grandi riforme.

«E’ così. Sono stati vent’anni sprecati e la mia storia resta soltanto una testimo­nianza a uso degli storici. Le riforme non hanno voluto farle. Il giorno in cui Berlu­sconi mi anticipò che voleva presentare la sua riforma della Costituzione, quella bocciata dal referendum, gli dissi: perché non prendi la proposta uscita dalla Bica­merale di D’Alema e la presenti tale e qua­le? Lì dentro c’è tutto: l’assetto semipre­sidenziale dello Stato, l’elezione diret­ta del presidente della Repubblica, la divisione delle carriere in magistra­tura, la riforma della stessa Corte costituzionale... tu presentala e vo­glio vedere come farà il centrosini­stra a non votarla».

Marzio Breda

* Corriere della Sera, 02 agosto 2009


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