La fortezza della paranoia
di Moni Ovadia (l’Unità, 05.06.2010)
L’assetto psicologico che caratterizza i leader dell’attuale governo israeliano è ben rappresentato da una sola frase che il suo ministro della difesa Ehud Barak, il soldato più decorato della storia di Israele, ha pronunciato in occasione del discorso di congratulazione agli uomini del commando che hanno bloccato la Freedom Flottilla con un massacro:«...qui [in Medio Oriente] non c’è pietà per i deboli e non si da una seconda chance a chi non si difende».
Eccola qui la Israele-fortezza delle vittime che ha in mente un politico con questa terribile visione. Andando di questo passo forse potrebbe proporre di istituire una Rupe Tarpea per i deboli come i refusnik, i soldati e gli ufficiali renitenti che sono pronti a dare la vita per il loro paese ma non sono disposti a massacrare civili a casa d’altri, o come lo scrittore Amos Oz perché sostiene che l’uso della forza è lecito solo a scopi puramente difensivi e non per colonizzare e schiacciare militarmente un intero popolo, o come Manuela Dviri scrittrice israeliana che ha perso un figlio in Libano per queste parole: «dopo tutto quell’assedio (della striscia di Gaza) figlio dell’ossessione militare e politica al dio della sicurezza, ci costringe a vivere, noi stessi, in un infinito stato d’assedio, chiusi in un invisibile fortino, isolati e condannati dai popoli. Adesso dicono che bisogna spiegare al mondo le nostre ragioni...non c’è nulla da spiegare. C’è solo da fare. C’è da ritirarsi finalmente, e per sempre, dai territori. E da Gaza!»
Purtroppo queste parole non toccheranno né i cuori né le menti di questi ottusi governanti e dei loro fan acritici in Israele e nel mondo che vedono in Israele la vittima anche quando il suo esercito occupa e opprime e suoi cittadini colonizzano e rubano terre e vita ai palestinesi. A noi gente di pace e dialogo per rispondere a questa paranoia basta un nome: Itzkhak Rabin.
Indignati a corrente alternata
di Moni Ovadia (l’Unità, 12 giugno 2010)
Ogni persona coniuga la propria identità universale di essere umano con molteplici altri percorsi identitari individuali e collettivi che possono dipendere da condizioni esistenziali acquisite o da scelte di vita. Talora questi percorsi imboccano la via della pietrificazione e danno vita ad ideologie rigide che confliggono anche violentemente con l’identità universale. E’ il caso del nazionalismo o del fanatismo religioso.
Vi sono invece percorsi identitari particolari che si declinano all’origine con imperativi etici fondanti dei valori universali. L’ebraismo nasce con questo assillo. I suoi pilastri sono il rifiuto di ogni idolatria, l’amore universale, l’amore per lo straniero, per la libertà, la giustizia sociale, la redenzione dell’umile e dell’oppresso, la condanna della violenza. L’ebraismo non si limita solo a questi principi, ma sicuramente non è possibile parlare di ebraismo fuori dal rispetto sacrale per essi. E’ per avere osato coniugare un’identità particolare con diritti universali che l’ebreo nella storia ha pagato uno dei più grandi tributi di sangue e di sofferenza pagato da una minoranza.
Oggi troppi ebrei sono disposti a negoziare quei supremi valori che fanno dell’ebraismo uno dei più sconvolgenti modelli di vita mai partoriti dall’umanità per ottenere il consenso strumentale alla politica minuscola e sciagurata dell’attuale governo israeliano e non come capziosamente pretendono, alla sicurezza dello Stato d’Israele. Nel nostro Paese per esempio molti esponenti dell’ebraismo adorano il governo Berlusconi e girano la testa per non vedere i suoi provvedimenti discriminatori di stampo nazista come l’ultimo della giunta veneta che voleva escludere dai trapianti disabili, down e tentati suicidi. Questi ebrei filogovernativi hanno brevettato l’indignazione alternata.
Israele - Riflessione
«Sulla strada per diventarlo»
di Piero Stefani *
Nell’immediato secondo dopoguerra lo storico francese Jules Isaac, che aveva visto sterminata nei lager gran parte della sua famiglia, pubblicò un libro intitolato Gesù e Israele (Marietti, 2001). Esso si proponeva di contribuire a estirpare il pregiudizio antiebraico all’interno della Chiesa cattolica. Il testo, costruito per argomenti, dopo aver sottolineato l’appartenenza di Gesù al popolo d’Israele e l’origine ebraica del cristianesimo, inizia a confutare le varie accuse antigiudaiche, a cominciare da quella secondo cui la dispersione del popolo ebraico rappresenta una punizione divina per aver rifiutato il vangelo e per aver messo a morte Gesù. In realtà, afferma Isaac, la diaspora ha un’origine molto più antica: già all’inizio del I secolo d. C. la maggior parte degli ebrei viveva fuori della terra d’Israele. Si tratta di una semplice verità storica; eppure il pregiudizio cristiano, che ben sapeva della grande, antica comunità ebraica di Alessandria e della predicazione evangelica nelle sinagoghe dei paesi mediterranei, continuava a ripetere: fino al 70, il popolo d’Israele era indipendente, poi, persa (per punizione divina) la patria, iniziò la triste diaspora.
Il sionismo ha creato molti miti nazionali. Eventi prima trascurati nella tradizione ebraica (per es. Masada) sono stati eroicizzati; la diaspora è stata considerata spesso in modo cupo; tuttavia alcuni dati storici continuavano a imporsi. Non è vero che tutto è cominciato con il 70, né sul fronte del prima, né su quello del dopo: la seconda guerra giudaica terminò solo nel 135 e la “paganizzazione” di Gerusalemme a opera di Adriano ebbe luogo soltanto allora. Tuttavia, almeno all’interno dell’attuale dirigenza dell’ebraismo italiano, anche i riferimenti agli inizi del II sec. sembrano ormai particolari trascurabili. Non è raro perciò assistere a una paradossale, quanto consapevole, riproposizione del pregiudizio antiebraico (eccezione fatta, si intende, delle motivazioni teologiche). «I fattori che rendono veramente speciale la presenza ebraica in Italia sono molteplici. Innanzi tutto la sua antichità poiché la sua origine risale a 2 mila 200 anni fa, al periodo della Roma repubblicana, oltre due secoli e mezzo prima di quel fatale anno 70 che vide la distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte dell’imperatore Tito e l’inizio della diaspora, la dispersione degli ebrei nel bacino del Mediterraneo e nei tre continenti» (Renzo Gattegna). La frase accosta due termini incompatibili: gli ebrei vivono in diaspora prima che essa cominci. Si potrebbe obiettare che si trattava di piccoli frange. Tuttavia, come si è detto, si trattava di ben altre dimensioni: già nel primo secolo - senza che intervenissero particolari coercizioni esterne - la maggioranza del popolo ebraico viveva fuori della terra d’Israele.
L’invenzione di miti storici è parte organica della costruzione di ogni identità collettiva. Spesso importa poco se essi siano palesemente falsi sul piano dei fatti. Per affermarsi, il regime di cristianità fu obbligato a inventare il mito della punizione ebraica e a esasperare la cessazione del culto sacrificale del Tempio di Gerusalemme; per buona parte dell’ideologia sionista è inevitabile riferirsi alla visione della patria perduta e riconquistata. Il pericolo più alto che si annida nella retorica di un ritorno all’antica indipendenza, è di presentare lo Stato d’Israele come fatalmente costituito in base all’intreccio di due componenti: l’essere a un tempo ebraico e democratico. È una contraddizione di fondo che grava su di esso fin dalla sua nascita nel 1948 e che ha reso tuttora impossibile - assieme a molti altri fattori - la soluzione del nodo israelo-palestinese. Non si tratta solo di problemi istituzionali e civili di non poco conto legati al confronto interno tra religiosi e laici; quanto è in gioco è il modo stesso di presentarsi come stato. Prospettarsi come «Stato ebraico» significa rendere la componente demografica un problema costituzionale e politico ineliminabile. Se i territori occupati nella guerra del 1967 non sono stati mai annessi in modo definitivo è solo perché tale operazione avrebbe impedito di mantenere a Israele anche solo la parvenza di essere sia ebraico sia democratico. Tuttavia, sull’altro versante, la non volontà di dar luogo, in tempi storicamente ragionevoli, a uno stato palestinese indipendente ha trascinato Israele in una contraddizione da cui non è più uscito: da più di quarant’anni la sua indipendenza nazionale si regge anche in virtù della negazione di quella di un altro popolo. Tutti gli scadimenti etici e politici israeliani derivano, in ultima analisi, da questo nodo.
Un grande intellettuale israeliano del Novecento - da sempre sionista - Y. Leibowitz dichiarò in un’intervista nel 1988: «“Le sue posizioni relative ai territori occupati sono basate su una valutazione puramente pragmatica, razionale, strategica, economica, sociologica, politica di questo stato di cose?” “Politica. Detesto il fascismo. E lo Stato d’Israele, mantenendo una dominazione violenta sopra un’altra nazione diverrà necessariamente fascista. Non lo è ancora. Possediamo un alto grado di libertà di stampa e di libertà di parola. A tutt’oggi lo Stato non è ancora fascista. Ma è sulla strada per diventarlo» (Il Regno documenti 1,1989, p. 62).
Più di vent’anni dopo siamo in realtà allo stesso punto, «è sulla via per diventarlo», il che è, a un tempo, conferma e smentita delle previsioni di allora. Per comprendere adeguatamente questa qualifica bisogna però tener presente cosa Leibowitz intendesse per fascismo: si trattava innanzitutto di una posizione che attribuisce all’esistenza dello stato un valore in se stesso. Nella fattispecie, ciò lo renderebbe non già (come per l’originaria ispirazione della maggior parte del sionismo) «Stato degli ebrei», ma appunto integralmente «Stato ebraico». Una conseguenza di ciò è che la difesa dello stato diventa valore supremo in base al quale tutto diviene lecito. Tutto si giustifica in virtù della sicurezza, il diritto è quindi sistematicamente calpestato. Con ogni probabilità è già irrimediabilmente tardi, né all’orizzonte si vedono tendenze che vanno in questa direzione; rimane comunque un passaggio imprescindibile alla pacificazione dell’area: il fatto che Israele cessi, una volta per tutte, di essere «Stato ebraico» per diventare solo democratico.
Piero Stefani
* Il Dialogo Sabato 05 Giugno,2010 Ore: 18:09
LA TERRA CHE DIO DIEDE A ISRAELE LA TERRA che Dio diede a Israele era molto bella. Quando Mosè mandò degli uomini in avanscoperta per esplorare la Terra Promessa e prelevare campioni dei suoi prodotti, essi tornarono con fichi, melagrane e un grappolo d’uva così grosso che dovette essere trasportato su una sbarra da due uomini! Sebbene per mancanza di fede tornassero indietro spaventati, in effetti riferirono che ‘nel paese scorreva latte e miele’. Proprio prima di entrare infine nel paese, il portavoce di Geova assicurò al popolo: “Geova tuo Dio sta per introdurti in un buon paese, un paese di valli di torrenti d’acqua, di sorgenti e di acque degli abissi che scaturiscono nella pianura della valle e nella regione montagnosa, un paese di frumento e orzo e viti e fichi e melograni, un paese di olivi da olio e di miele, . . . nel quale non ti mancherà nulla, un paese le cui pietre sono ferro e dai cui monti caverai il rame”. Ancora oggi il paese continua a produrre in abbondanza. La bellezza e lo splendore di quell’antico paese della promessa ci interessano da vicino. Perché? Perché le profezie messianiche si servono dell’abbondanza con cui Geova benedisse l’antico Israele per illustrare ciò che Dio farà per tutto il genere umano sotto il regno di Gesù Cristo, il “Principe della pace”.
NAZIONI CHE OCCUPAVANO LA TERRA CHE DIO DIEDE A ISRAELE QUANDO Geova diede a Israele la terra che aveva promesso ad Abraamo, essa era occupata da nazioni moralmente degradate. La Bibbia dice esplicitamente che Dio decretò la distruzione di queste nazioni malvage e che incaricò gli israeliti quali giustizieri. Molti criticano questa azione. Altri riconoscono umilmente che gli uomini imperfetti non hanno certo il diritto di ergersi a giudici di Dio. Queste persone desiderano capire perché Dio agì in un certo modo. Cosa apprendono? Questo racconto storico dimostra chiaramente che tutti i popoli sono responsabili davanti a Geova Dio, il Creatore dell’uomo, sia che professino di credere in Lui o no. Dimostra anche che Dio, pur essendo paziente, non chiude gli occhi davanti alla trasgressione. (Ge 15:16) Il racconto fa capire bene che agli occhi di Geova la responsabilità dei figli piccoli ricade sui genitori; egli non solleva i genitori da questa responsabilità e non dà loro motivo di illudersi che le loro azioni influiranno solo su di loro. Mostra pure che tutti quelli che abbandonano la condotta errata e si volgono all’adorazione di Geova possono essere risparmiati dalla distruzione. - Gsè 6:25; 9:3-10:11. La Bibbia identifica chiaramente le pratiche malvage degli abitanti di Canaan. L’Halley’s Bible Handbook (1964, p. 161) osserva: “Gli archeologi che scavano fra le rovine delle città cananee si chiedono perché Dio non li abbia distrutti prima”. La lezione è chiara: Geova non tollera la malvagità per sempre.
NAZIONI CHE AGGREDIRONO ISRAELE
ISRAELE era circondato da nazioni nemiche decise a impossessarsi del suo territorio. Sarebbe stato fagocitato da esse? Finché rimase fedele, Israele ebbe la meglio. “Geova stesso combatteva per Israele”. - Gsè 10:14. Se ne ebbe una prova lampante sotto il regno di Giosafat . Le forze congiunte di Ammon, Moab e del monte Seir mossero contro Giuda. Giosafat chiese aiuto a Geova: ‘Ecco che vengono a cacciarci dal tuo possedimento che tu ci hai fatto possedere. O nostro Dio, non eseguirai il giudizio su di loro?’ Certo! A Giuda furono rivolte queste rassicuranti parole: “La battaglia non è vostra, ma di Dio”. Geova confuse i nemici, facendo in modo che si uccidessero fra loro. . Alla fine, dopo aver combattuto per secoli a favore di Israele, Geova lasciò che nazioni nemiche lo conquistassero. Nel 740 a.E.V. gli assiri posero fine al regno delle dieci tribù “perché i figli d’Israele avevano peccato contro Geova”. Poi, nel 607 a.E.V., il regno delle due tribù fu distrutto dai babilonesi per la sua disubbidienza. Questo periodo della storia di Israele mette in risalto l’importanza di ubbidire a Geova.
Per quanto riguarda il nome di Dio, invece di mettervi i segni vocalici giusti, nella maggioranza dei casi vi misero altri segni vocalici per ricordare al lettore di leggere ’Adhonày. Da ciò derivò la grafia Iehouah, diventata poi “Geova”, la tradizionale pronuncia del nome di Dio in italiano.
Quale pronuncia userete?“Yahweh”.
Da dove hanno origine invece le pronunce “Jahveh”, “Yahweh”, e simili? Si tratta di forme suggerite da studiosi moderni nel tentativo di ricostruire la pronuncia originale del nome di Dio.
Come esempio principale, prendiamo il nome di Gesù. In effetti nessun uomo lo sa con certezza, anche se forse lo chiamavano Yeshua (o forse Yehoshua). Una cosa è certa: non lo chiamavano Gesù.
(con rispetto e gratitudine...riverenziale e con tutto il bene del mondo....dal vostro (emigrato Integrato)
AVE saluti cari.