[...] non esiste neanche Parlamento, chiesa o tribunale che possa decidere sulla persona, quando valuta della propria vita. Solo io posso decidere cosa è degno per me. Soltanto la coscienza del singolo individuo può valutare il senso o il non senso di un accanimento terapeutico o il peso di una spirale di trattamenti dolorosi e alla fine inutili. È ciò che Eluana aveva ben presente. Tenere in vita con la spada della legge è altrettanto crudele che toglierla. È insensato contrapporre artificialmente un “partito della vita” e un “partito della morte”. Sono finti partiti [...]
Il silenzio tra la vita e la morte
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 02.12.2010)
Nell’estrema sobrietà del suo gesto Mario Monicelli ci ha consegnato un interrogativo doppio sulla vita e sulla morte. Qual è la sostanza della prima, che la rende degna di essere continuata? Qual è il significato della scelta di affrontare la seconda, volontariamente, precedendo il doloroso disfacimento del corpo? “I morti parlano”, diceva Arthur Schnitzler per indicare che il loro apparente assentarsi costituiva un segno presente per i sopravvissuti. Monicelli, con quel volto scavato segnato dalla barba, così simile al bronzo di un filosofo greco, non lascia dietro di sé un “fatto di cronaca”, ma una questione su cui misurarsi.
La grande assente
LA MORTE è la grande assente dello stile di vita contemporaneo. L’immagine del morente circondato dai suoi cari, cui rivolge l’ultima parola e dai quali riceve l’accompagnamento per il trapasso, appartiene al passato. Scomparsa è la famiglia allargata. Ma, soprattutto, il trend vitalistico della società attuale rimuove ferocemente il morire.
La morte non si deve vedere tranne quando appare sugli schermi televisivi come elemento di eccitazione circense. La morte va allontanata e nascosta nelle stanze di ospedale. Chi è al tramonto viene affidato alla badante, quasi sempre straniera, a maggior ragione simbolo di provenienza da un altro mondo. Chi è morente è ospedalizzato.
Ma poi un Monicelli, con la ricchezza della sua vita, della sua opera, del suo pungente irridere tutto e tutti, si presenta una sera nelle nostre case e costringe tutti a interrogarsi.
Da Tien an men a Eluana
LA PRIMA domanda è: di chi è la vita. Ricordo nel 1989 che i giovani dissidenti cinesi recandosi alla piazza Tien an men per l’ultima fiammata di manifestazioni, destinate a concludersi nel sangue, portavano intorno alle tempie una fascia rossa con scritte, che chiedevano perdono ai genitori perché mettevano a rischio la vita. Li vedevo seguire una carriola, con l’organetto che suonava l’Internazionale, e dinanzi alla battaglia decisiva loro non dimenticavano che la vita era stata un dono ricevuto.
Per il credente la vita è un dono di Dio, sacro. E in nome di questa sacralità accetterà di bere sino alla fine il calice della sofferenza. Per il filosofo, che ha il suo orizzonte etico nell’immanenza, la vita è un miracolo o (come per Leopardi) una sventura, di cui non può che decidere il soggetto. Non si può immeschinire la questione in contese di bande faziose, in un raffazzonato addobbarsi di livree guelfe o ghibelline come i tristi urlatori berlusconiani, che la sera della morte di Eluana Englaro ulularono in Parlamento “assassini”.
Sulla soglia della morte, dove il passo è sospeso verso “là”, ci si può soltanto fermare rispettando la coscienza di chi sta per scegliere. Alcuni punti fermi si possono, però, intravvedere. Non esistono vite non degne di essere vissute. Ogni corpo e ogni psiche martoriati dalla sorte - quale che sia - hanno il diritto di essere seguiti e assistiti. Per questo meritano rispetto le suore misericordine di Como, che per quattordici anni si sono prese cura amorevole di Eluana sperando contro ogni speranza.
Ma non esiste neanche Parlamento, chiesa o tribunale che possa decidere sulla persona, quando valuta della propria vita. Solo io posso decidere cosa è degno per me. Soltanto la coscienza del singolo individuo può valutare il senso o il non senso di un accanimento terapeutico o il peso di una spirale di trattamenti dolorosi e alla fine inutili. È ciò che Eluana aveva ben presente. Tenere in vita con la spada della legge è altrettanto crudele che toglierla. È insensato contrapporre artificialmente un “partito della vita” e un “partito della morte”. Sono finti partiti.
Esiste solo la vita e la morte. E la grandezza o la disperazione del momento della scelta. Poiché scelta e coscienza sono inalienabili, non ha senso pretendere di etichettare le scelte in superiori o sbagliate. Seneca, che affronta la morte per preservare la sua libertà, non è inferiore a san Cipria-no, che affronta i carnefici per non rinnegare il suo Dio. Coraggioso è Welby, che non teme di staccare il sondino. Coraggiosa è Daniela Martini, affetta da Sla, che il suo paese in Valdarno ha adottato per sostenerla nella battaglia contro la malattia. Entrambi vanno aiutati, entrambi vanno sostenuti e accompagnati nel cammino che sentono di fare.
Una comunità da coinvolgere
IL LORO destino, tuttavia, ci coinvolge. Non basta affermare farisaicamente la libertà dell’individuo, abbandonandolo al suo destino. Mary Ann Glendon, già presidente dell’Accademie delle Scienze pontificia (che riunisce notoriamente scienziati credenti e atei), sostiene che il grande nodo del crescente invecchiamento della popolazione in Occidente è di evitare di “spingere” gli anziani a desiderare la morte come soluzione più facile.
Sarebbe la morte indotta, un misfatto ipocrita dei sistemi che premiano solo l’efficienza. Nessuno va lasciato solo, nessuno va lasciato disperato. Vita e morte devono tornare a diventare un evento della comunità, un fatto di noi tutti, se non vogliamo che il liberismo finanziario che ha già causato le catastrofi sociali sotto l’occhio di tutti, si saldi ad un darwinismo liberista, in cui l’iniezione si sostituisce semplicemente al salto nel burrone. A tutti, nelle loro scelte, è giusto stare accanto.
L’altro giorno, quando silenziosamente, Mario Monicelli ha fatto irruzione nelle nostre esistenze, moltissimi a Roma e altrove hanno provato per un attimo l’inquietudine di questi pensieri. A lui e a tanti sconosciuti dobbiamo dare una risposta.
VIDEO: MARIO MONICELLI - RAIPERUNANOTTE
Il modo peggiore di onorare la memoria
di Mariantonietta Colimberti (Europa, 02.12.2010)
Non c’è che dire, ha ragione lui. E ha così ragione, che il suo commento merita di essere riportato per esteso: «Due cose si chiedevano al parlamento, nella seduta di questa mattina: l’omaggio doveroso alla carriera di un grande artista e la pietà silente di fronte al suo ultimo e drammatico gesto. Purtroppo, il coperchio della pietà è saltato in fretta e la memoria condivisa del maestro è stata sommersa dallo scontro tra fazioni: a tristezza si aggiunge tristezza».
Le parole di Andrea Sarubbi - deputato del Pd ed ex giornalista televisivo di trasmissioni religiose, impegnato nel volontariato cattolico, autore con Fabio Granata (Fli) di una proposta di riforma della cittadinanza che finalmente riconosca come italiani i bambini nati nel nostro paese - mettono fin troppo garbatamente l’accento sul misero spettacolo andato in onda ieri a Montecitorio. Dove il giusto tributo che l’aula stava rendendo a Mario Monicelli, dopo l’affettuoso e misurato intervento di Walter Veltroni si è tramutato in una diatriba senza qualità, dove i contendenti si sono comportati come i cani di Pavlov di fronte allo stimolo condizionante.
Ha aperto le ostilità la radicale Rita Bernardini, invitando l’assemblea - che per un attimo si era ritrovata unita nell’applauso all’indirizzo del regista scomparso - a riflettere «su come alcune persone che non ce la fanno più sono costrette a lasciare la vita». In agguato era Paola Binetti. Emergendo dall’oblio nel quale è sprofondata da quando è andata nell’Udc lasciando respirare il Pd, ha tuonato contro lo «spot pro-eutanasia» ed espresso giudizi sulla «disperazione» e lo «smarrimento esistenziale» di Monicelli con un’arroganza e una protervia preoccupanti in una psichiatra e del tutto inadatti alla circostanza.
Alla Bernardini e alla Binetti e agli altri intervenuti a sostegno dell’una o dell’altra fazione vorremmo chiedere: era così difficile, per una volta, dimenticare se stessi e la propria ragione sociale ed evitare di rovinare con polemiche fuori luogo un momento solenne?
Niente guerre di religione sulla morte di Monicelli
di Adriano Sofri (la Repubblica, 02.122010)
Mancava qualcosa, alla riforma della scuola, e ora ci siamo: fuori Lucio Anneo Seneca, dentro Paola Binetti. Ieri ha parlato in Senato di Mario Monicelli come di un uomo disperato. Ha accusato: l’hanno lasciato solo, famiglia e amici. "Il suo è un gesto tremendo di solitudine non di libertà", ha detto. Esistono persone invasate che credono di sapere di che cosa vivano e muoiano gli altri, e giudicano. Ieri in Italia si è litigato e urlato attorno alla morte di un uomo illustre, di 95 anni, malato e lucido. Io non so quali siano stati i pensieri ultimi di Monicelli. Se provo a immaginarlo, esercizio che si fa solo per se stessi, per l’ora della nostra morte, mi figuro che certo non si sia sentito solo e abbandonato, ma che abbia aspettato di essere solo per amore e compassione degli altri.
Il presidente di questa repubblica, salutando il suo antico amico, ha chiesto rispetto per il suo commiato, ha detto: "Se n’è andato con una ultima manifestazione della sua forte personalità, un estremo scatto di volontà che bisogna rispettare". Rispetto, è una parola delicata. La si impiega sempre più spesso come una formula di convenienza: "Con tutto il rispetto...". Il rispetto vero ha bisogno di simpatia. O vorremo costruire la nostra piccola barricata quotidiana anche attorno a questa serata, pro-life e innamorati della morte? Monicelli si è suicidato: non amava la vita? La vita era stata presso di lui per un tempo eccezionalmente lungo, ora la morte gli era addosso. Era ancora libero, di aspettarla o di andarle incontro. Nessuna delle due scelte sarebbe stata più nobile. Ma quella che ha fatto non impone solo rispetto, suscita simpatia. Si capisce, si sente, è fatta della stoffa di cui sono fatti gli umani, quando se ne ricordano. Gli italiani, diceva Monicelli in una conversazione, sono un popolo di perdenti, e amano i miei film perché raccontano i perdenti "con un certo affetto". Ci sono però degli italiani che scambiano perfino chi muore per un perdente.
Sbaglia chi crede di rendere omaggio alla tempra di Monicelli giudicando il suo modo di andarsene come un’ennesima sfida, una provocazione, uno sberleffo e così via. Sfide, sberleffi: chi muore ha altro da fare. All’opposto, si arriva alla vergogna di chiamare questa morte, e l’onore affettuoso che le viene reso, come "uno spot per l’eutanasia". Eutanasia è la parola magica alla rovescia dei nostri giorni. La si spende senza risparmio, abusando del senso e del buon senso. Il buon senso del resto ha indotto tanta gente comune, commossa della morte di un uomo cui era grata, a chiedersi a bassa voce: "Come mai non aveva una pillola?" Non è facile, "avere una pillola", tanto meno se non si amino i sotterfugi. Ma è davvero tanto imprudente e impudente farsi una domanda così?
Mi risponda francamente, eminenza, lei che si arrovella su questi temi. Se un signore così vecchio, così lucido e risoluto, così malato, così paziente e premuroso da aspettare di restare solo, avesse potuto scegliere fra una finestra e un farmaco, sarebbe stato male? E non mi dica, eminenza, che si sarebbe sempre potuto parlare con lui, spiegargli com’è prezioso ogni minuto, ripetergli che la nostra vita non ci appartiene perché è un dono di Dio e Dio ne è geloso, e così via. Ci sono sere e uomini che ne hanno abbastanza delle chiacchiere.
Torniamo al punto da cui siamo partiti. Il senato romano ebbe fra i suoi membri Lucio Anneo Seneca. Ha Paola Binetti.
Intervista a Emanuele Severino
«Quando tutto sarà ormai inutile chiederò di morire»
«Superare le contraddizioni della legge»
di Daniela Monti (Corriere della Sera, 02.12.2010)
MILANO - «Fra due giorni sarà un anno e tre mesi che mia moglie è morta. Un tumore. Ero deciso a farla morire in casa, nella sua casa, anche se a Brescia siamo fortunati: esiste la "Domus Salutis" tenuta dalle Ancelle della Carità. Mi convinsero che era nell’interesse di Esterina tenerla ricoverata per qualche tempo. Poi, considerando il suo stato di salute, avrei deciso se portarla a casa. Dopo un mese costatai che per lei era un bene rimanere lì. Mia moglie si affidava alle mie decisioni, anche perché alla "Domus" si trovava bene. Credo che la competenza di questo istituto si sia mostrata soprattutto nella capacità di dosare in modo adeguato la somministrazione della morfina. Mia moglie andava addormentandosi un poco alla volta. Quando videro che ogni alimentazione per via endovenosa sarebbe stata inutile, la sospesero. Loro, io e i miei figli le davamo un po’ d’acqua, che beveva volentieri. Esterina è morta senza soffrire - per quanto noi possiamo saperne».
Il filosofo Emanuele Severino, 81 anni, parla al telefono dalla sua casa di Brescia. «Ho già detto a suor Giusy - che con il professore Zaninetta guida la Domus ed è a sua volta docente all’Università Cattolica - che quando toccherà a me, vorrò andare da loro per morire come è morta mia moglie. Si è detta d’accordo. Ma c’è chi non sopporta di morire in questo modo. Non c’è ovunque una Domus come quella di Brescia. C’è invece una legislazione in base alla quale è possibile incriminare i medici per omicidio quando si ritiene che essi abbiano sospeso un’assistenza che ancora non era accanimento terapeutico. Chi stabilisce quando esso incomincia? Che fare quando i medici hanno paura o si adeguano in coscienza alle direttive della Chiesa o mascherano con queste direttive la loro paura per altro legittima?».
Lei condanna il gesto di Mario Monicelli?
«Condannare non fa parte della logica del mio discorso filosofico. Mi sembra d’altra parte che abbia più della nobiltà che del suo contrario. Ho sempre trovato contraddittoria una legislazione che non punisce il suicidio non riuscito, tentato da chi aveva la capacità di compierlo; e invece punisce il medico che rispetto a uno che non abbia la capacità di farlo (è il caso Welby) lo aiuta ad uccidersi. Con la conseguenza che, quando il medico non intende essere incriminato, il suicidio di questo secondo candidato alla morte è reso impossibile. Questa legislazione impedisce che i cittadini siano uguali di fronte alla legge. Con una legge che invece li rendesse uguali, Monicelli non sarebbe morto in questo modo, doppiamente tragico».
Serviva un gesto così drammatico perché tornasse ad essere pronunciata nelle stanze della politica la parola eutanasia. Perché?
«Perché l’attuale legislazione è tollerata dalla Chiesa, e ci sono molti interessi a non infastidire la Chiesa. E chi, affetto da male irreversibile e ormai incosciente, ha lasciato scritto o comunicato a persone di sua fiducia che quando non fosse più in grado di alimentarsi da solo desidera che anche l’alimentazione artificiale venga sospesa e sia lasciato morire? (È quanto chiederò alla Domus). Si dice che a queste sue disposizioni non si può dar corso perché nulla assicura che nel frattempo l’interessato non abbia cambiato parere. Ma si dimentica che, d’altra parte, non c’è nemmeno nulla che assicuri che, invece, il parere l’ha cambiato. Chi lo assiste si trova quindi dinnanzi a due possibilità equivalenti, e, se non ci sono altri indizi, perché scartare e non far valere l’unico indizio che si ha a disposizione, cioè la volontà che costui ha a suo tempo espresso? Anche per questo il testamento biologico è indispensabile».
Si ha l’impressione che sia faziosa - quasi fanatica - la contrapposizione fra laici e credenti. Non può esistere un terreno che non sposi né la tesi dei primi, né quella dei secondi?
«Anch’io ho la sensazione che ci sia del fanatismo, ma quando uno si trova in mezzo a situazioni di questo tipo è difficile non lasciarsi prendere la mano. Il suicidio è immorale e, oltre che colpa, è reato? Se la maggioranza degli elettori ne fosse convinta dovrebbe però evitare la contraddizione che sopra ho indicato. Se una legge è contraddittoria è anche anticostituzionale - ammesso e non concesso che la nostra Costituzione non contenga contraddizioni».
Intervista a Giovanni Reale
«La risposta la dà già Platone, la vita non è proprietà nostra»
«Male dell’anima, ma non si condanna l’uomo»
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 02.12.2010)
CITTÀ DEL VATICANO - «Vede, il male del nostro tempo l’aveva drammaticamente anticipato Jean-Paul Sartre più di sessant’anni fa: "L’inferno sono gli altri". L’incapacità di vedere l’altro, di capirlo, di accoglierlo. E di amarlo». Il filosofo Giovanni Reale, tra i massimi studiosi del pensiero antico, l’uomo al quale Wojtyla affidò i propri scritti filosofici e poetici, ha appena curato per Bompiani la pubblicazione del Commento al Vangelo di Giovanni di Sant’Agostino. E parte da qui, per riflettere sul suicidio di Mario Monicelli e le polemiche che lo hanno seguito: «Pensi all’episodio dell’adultera. Quelli che vogliono lapidarla l’hanno pensata bene, sono sicuri che la risposta di Gesù sarà sbagliata: se dice sì, ne esce distrutta la sua figura di uomo buono; se dice no, lo condannano per aver violato la legge. Ma lui dice: chi è senza peccato scagli la prima pietra. E quando tutti se ne sono andati si rivolge alla donna: va’, e non peccare più». Perché ne parla, professore? «Perché in troppi si avverte una trasformazione paradigmatica delle due posizioni, libertà di scelta e difesa a oltranza della vita. Una riduzione del problema in un senso o nell ’altro che fa cadere in errore entrambi. E crea l’impossibilità di una communicatio idiomatum, di ogni confronto».
Il presidente Napolitano ha parlato di «un estremo scatto di volontà che bisogna rispettare».
«Sì, questo è giusto: il rispetto. Che non significa né condanna né approvazione: ma capire l’altro, la sua sofferenza, anche se l’altro non ha la fede, la prospettiva di Cristo. Capire l’altro. Soffrire con lui. Senza mai condannare: non si giudica la persona, il Vangelo dice di amare anche il tuo nemico! Semmai, si giudica il comportamento».
E il suicidio?
«Lo ritengo un male dell’anima. Qui tocchiamo un problema dell’uomo contemporaneo: l’irreligiosità, la perdita del legame col divino ,del senso della sacralità della vita. La risposta più bella la offre Platone, nel Fedone: la vita non è di tua proprietà, ti è stata data, solo il dio può decidere quando togliertela».
Ma alla fine del «Fedone», Socrate beve il «pharmacon», la cicuta...
«Perché scappare sarebbe una violenza: o riesco a convincere i giudici oppure, per coerenza, accetto la condanna. Platone è il primo a parlare di sacralità della vita. Più tardi, nella Repubblica, dirà che chi è molto malato non deve pesare sullo Stato: ma si mette dal punto di vista della politica, e la politica non può avere il senso della sacralità, sta in una dimensione più bassa. Di qui le contraddizioni dei Parlamenti, quando vogliono legiferare su vita e morte».
Anche fuori dal Parlamento, in verità, la confusione è tanta. Ha seguito le polemiche per la presenza della vedova Welby e di Beppino Englaro a «Vieni via con me?»
«Parlavo di riduzionismo e di errori: la tecnica cresciuta a dismisura ha inglobato anche il sacro e il religioso. Prendiamo il caso Welby: non è stata eutanasia, è chiarissimo. Parlarne è un errore di ermeneutica. Lo dissi anche allora: diverso è darsi la morte o, invece, accettare la morte inevitabile. Guai a trasferire la "sacralità" dalla vita alla tecnica! Quell’uomo era rimasto ostaggio di un macchina. Ma Dio ha creato la natura, non la tecnica: quella è un prodotto dell’uomo. E nel caso di Welby, come per Eluana, era sacrosanto dare ragione alla natura». E quelli che vanno avanti? «Non è che io neghi il diritto di chi resiste. Però non lo si può imporre a nessuna persona. Anche se qualche prelato è caduto nell’errore, vittima del paradigma scientistico-tecnologico».
La Chiesa sbagliò a negare i funerali a Welby?
«Certo che sì: l’amore doveva prevalere. Ma non è stata la Chiesa, che ha un’esperienza grandiosa. Ha sbagliato chi lo decise, e non per cattiveria: è caduto vittima del paradigma scientistico».
Il cardinale Ravasi ha ricordato come sui «temi ultimi» si debba «riproporre ininterrottamente la questione». È possibile il dialogo?
«Sì, anche se molto difficile. Occorre che le parti riconoscano anzitutto la sacralità o almeno il rispetto della vita, sapendo che la sofferenza e la morte ne sono parte e ci riguardano tutti. Camus, che si diceva ateo, dava la risposta più profonda all’"uomo in rivolta" contro il dolore e la morte: non possiamo più prendercela con Dio, perché si è fatto uomo e ha preso su di sé i nostri mali».