[...] Certamente Cei e Vaticano sono decisi a dettare a Monti la linea di maggiori finanziamenti alle scuole cattoliche e dell’adeguamento della legislazione in tema di testamento biologico, fecondazione e pillole contraccettive e abortive alla dottrina dei valori non negoziabili. Così come è avvenuto durante l’era Berlusconi. Pretese e sogni si mescolano. Il sentimento popolare va in realtà da un’altra parte [...]
Cattolici, ma un po’ più laici
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2011)
Dalla Spagna a Palazzo Chigi spira un vento di riscossa cattolica. A Madrid i democristiani spagnoli del Partito popolare riconquistano il potere. In Italia una nutrita pattuglia cattolica è approdata nei giorni scorsi al governo con grande visibilità. A prima vista sembra un effetto del revival della religione, manifestatosi già sul finire del Novecento durante il lungo pontificato wojtyliano, e non manca Oltretevere chi assapori l’illusione di un maggiore spazio di manovra neotemporalista.
Certamente Cei e Vaticano sono decisi a dettare a Monti la linea di maggiori finanziamenti alle scuole cattoliche e dell’adeguamento della legislazione in tema di testamento biologico, fecondazione e pillole contraccettive e abortive alla dottrina dei valori non negoziabili. Così come è avvenuto durante l’era Berlusconi. Pretese e sogni si mescolano. Il sentimento popolare va in realtà da un’altra parte. Già negli anni scorsi, analizzando i flussi elettorali in Italia, si è appurato concretamente che il cittadino compie la sua scelta nelle urne principalmente in base ai temi, che toccano più da vicino la sua esistenza quotidiana: il lavoro, la crisi economica, il welfare. I cosiddetti temi eticamente sensibili - sistematicamente agitati dalle gerarchie ecclesiastiche e dalle cerchie politiche più opportuniste - sono in fondo alla scala delle urgenze. Perché i fedeli cattolici qui e altrove sono convinti che certi problemi vadano affrontati e risolti nell’intimo della propria coscienza.
IN SPAGNA, dunque, il Partito popolare ha in cima all’agenda il deficit pubblico, lo spread a 470 e una disoccupazione giovanile al 20 per cento. Al di là di questo va, tuttavia, notato che già negli anni passati il partito di Mariano Rajoy ha mostrato spesso disagio per le furibonde campagne antigovernative scatenate dalla parte più conservatrice della gerarchia ecclesiastica in nome della “vita” e della tradizione cattolica. Meno che mai Rajoy, che negli anni scorsi si era già meritato i rimbrotti di Giuliano Ferrara per non essere abbastanza ratzingeriano, ha voluto portare in campagna elettorale temi come l’aborto e l’omosessualità.
È probabile che il nuovo governo interverrà contro alcune forzature di Zapatero come la concessione dell’aborto alle minori senza informare i genitori o l’indicazione di parlare di coniuge A e coniuge B invece che usare i termini “marito” e “moglie”. Molti ritengono certo anche un cambiamento della legge sui matrimoni omosessuali. Ma nel complesso l’impianto laico della legislazione è destinato a rimanere perché questo vuole la società spagnola nel suo complesso. Il governo democristiano non toccherà il diritto all’aborto e le coppie omosessuali potranno naturalmente usufruire di una normativa sulle unioni civili. La Madrid “bianca” sarà quindi più avanzata di Roma.
Anche in Italia la situazione è molto più fluida di quanto possa apparire a prima vista. Quasi nessuno ha notato che, intervenendo giorni fa al convegno del movimento “Scienza e Vita” su bioetica e politica, il segretario del Pd Bersani - nonostante la presenza del cardinale Bagnasco, che aveva ripresentato le tavole dei principi non negoziabili - ha indicato una linea diversa: basata sul dovere delle democrazie di negoziare le “soluzioni” dei problemi, lasciando ad ognuno di credere nei principi generali cui sente di ispirarsi. Bersani ha anche respinto fermamente l’idea che essere non credente o diversamente credente significhi mancare di etica. “Ci sono persone che sono morte per un’etica (non trascendente), non dimentichiamolo”, ha sottolineato con orgoglio. Sul piano politico immediato il segretario del Pd ha chiesto di cambiare l’attuale legge sulle “Dichiarazioni anticipate di trattamento” e praticamente di fare una legge diversa sul testamento biologico.
LA COSA interessante è che, parlando subito dopo di lui e dopo il segretario Pdl Alfano (steso sulla linea del Vaticano), il leader dell’Udc Casini - pur dando per scontato l’approvazione della legge sul fine vita - ha bollato di “miopia totale” quanti usano la bioetica “per dividere”. Rispetto alla linea degli atei devoti o rinati alla fede, trionfante nel regime berlusconiano e guardata con compiacimento dalla gerarchia ecclesiastica, Casini ha lanciato un allarme: “Stiamo molto attenti al legislatore che forzando si espone al cambiamento in ogni legislatura”.
Casini guarda lontano. Il “partito nazionale” ispirato al popolarismo europeo, che ha in mente, non può ridursi a essere mera cinghia di trasmissione dell’ideologia dei valori non negoziabili. Non c’è alcun dubbio, infatti, sulla constatazione (confermata da ricerche svolte a più riprese) che in caso di referendum sul testamento biologico i cittadini messi dinanzi al quesito secco - “volete la norma che esautora il paziente e affida ogni potere al medico o volete che siano rispettate le decisioni del paziente e dei suoi familiari per evitare l’accanimento di trattamenti medici non voluti”? - sceglierebbero la seconda. In altre parole la dottrina dei valori non negoziabili, imposta in politica, si rivela una gabbia non praticabile per le società contemporanee. Tocca ai cattolici a Palazzo Chigi praticare autonomia per soluzioni adatte alla realtà sociale italiana. Utile sarebbe stato che nella formazione del governo si fosse tenuto conto anche di un’area di pensiero laica rappresentata, esemplificando, da personalità come Rodotà e Zagrebelsky. È un peccato non averlo fatto.
Bergoglio ai medici: «Diffondete la cultura della vita»
di Luca Kocci (il manifesto, 21 settembre 2013)
Dopo aver letto l’intervista di Bergoglio pubblicata giovedì da Civiltà cattolica, molti hanno parlato di un papa rivoluzionario («Le parole rivoluzionarie del Papa», titolava in prima pagina il Corriere della sera). Ascoltando invece il discorso che ieri Francesco ha rivolto ai ginecologi cattolici ricevuti in Vaticano - tutte incentrate sul tema della difesa della vita e della lotta contro l’aborto -, sembrava di sentire le parole di Ratzinger, pacate nei toni, identiche nei contenuti.
Eppure il pensiero di Bergoglio non è sdoppiato ma unico, e fino ad ora tiene insieme i due aspetti: l’addio ai toni da crociata dei suoi predecessori contro gli infedeli relativisti e la conferma degli aspetti fondamentali della dottrina cattolica («Pop e conservatore» titolava il manifesto all’indomani dell’elezione al soglio pontificio).
Una pastorale meno rigida e più inclusiva nei confronti dei “lontani” sembra essere la vera novità di questi primi mesi. Insieme ad una riforma della Curia e degli organismi finanziari che forse verrà nei prossimi mesi. E c’è da aspettarsi che entrambe saranno ostacolate dai settori più conservatori.
A questo proposito, oggi potrebbe essere annunciata la nomina del prefetto della Congregazione per il clero (il dicastero che si occupa dei preti di tutto il mondo): va via il cardinale ratzingeriano e ultraconservatore Mauro Piacenza (molto legato al card. Bertone, segretario di Stato uscente), che andrà alla Penitenzieria apostolica, il tribunale che si occupa di indulgenze e confessioni.
Al suo posto arriva l’arcivescovo Beniamino Stella, un diplomatico come il nuovo segretario di Stato entrante Pietro Parolin, in passato nunzio a Cuba e in Colombia, ora presidente della Pontificia accademia ecclesiastica, la scuola di formazione dei diplomatici della Santa sede. Lo spoil system continua. Il magistero sui «principi non negoziabili» però non si incrina, come dimostra il discorso di ieri ai ginecologi: la battaglia contro l’aborto resta la “linea del Piave”.
Constatiamo «i progressi della medicina», ma «riscontriamo il pericolo che il medico smarrisca la propria identità di servitore della vita», ha detto Bergoglio. Colpa del «disorientamento culturale» che «ha intaccato» anche «la medicina», per cui «pur essendo per loro natura al servizio della vita, le professioni sanitarie sono indotte a volte a non rispettare la vita stessa». «Si attribuiscono alla persona nuovi diritti, a volte anche presunti diritti», aggiunge, e «non sempre si tutela la vita come valore primario». «Ogni bambino non nato ma condannato ingiustamente ad essere abortito - affonda Bergoglio - ha il volto di Gesù Cristo».
C’è poi l’appello ai medici ad essere «testimoni e diffusori di questa cultura della vita» all’interno delle strutture sanitarie: «I reparti di ginecologia sono luoghi privilegiati di testimonianza e di evangelizzazione».
Il papa non la nomina, ma l’invito all’obiezione di coscienza pare evidente. E a ribadire l’inamovibilità dei principi non negoziabili è anche il convegno internazionale sulla famiglia che si conclude oggi in Vaticano.
Mons. Paglia, “ministro” della famiglia, auspica la redazione di una Carta internazionale dei diritti della famiglia per difenderla dalle «usurpazioni» e dagli «attacchi violentissimi» cui è sottoposta. E il presidente dei giuristi cattolici, D’Agostino bolla come «famiglia sintetica» tutti i tipi di unione che non siano quelle fra uomo e donna fondate sul matrimonio: frutto di uno «spirito malato», non basate su un progetto «ma sull’immediatezza dei sentimenti», senza futuro.
In mattinata, nella quotidiana messa a Santa Marta, Bergoglio ha avuto un’uscita delle sue, a testimonianza della sua capacità di tenere insieme dottrina e popolo. «L’avidità del denaro è la radice di tutti mali», ha detto nella breve omelia, aggiungendo subito: «E questo non è comunismo, è Vangelo». E così ha riequilibrato quanto aveva detto a Civiltà cattolica: «Non sono mai stato di destra».
STORIA DELLA CHIESA
Giovanni Filoramo indaga sul periodo tra la conversione di Costantino e Teodosio quando la trasformazione in religione di Stato tramutò la croce in simbolo di potere
Cristiani da martiri a persecutori
di Massimo Firpo (Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2011) *
«Chi di spada ferisce di spada perisce», si legge nel vangelo (Matteo 26, 52), e così anche che nessuno ardisca sradicare la zizzania fino al tempo del raccolto (Matteo 13, 30). Ma nel vangelo di Luca (14, 23) si legge anche «costringili a entrare», san Paolo ordina di scacciare «di mezzo a voi quel malvagio» (I Corinzi 5, 13) e lo stesso Gesù proclama di non essere venuto «a portare la pace, ma una spada» (Matteo 10, 34). Si potrebbero elencare altri luoghi evangelici che nel corso della storia hanno offerto contrastanti argomenti ai (pochi) fautori del rifiuto di ogni violenza in materia religiosa, così come ai sostenitori del contrario, e cioè del diritto-dovere di imporre agli altri la vera fede - qualunque essa sia - di cui ci si erge a interpreti e tutori.
Del che offre conferma la spettacolare disinvoltura con cui i teologi di tutte le confessioni hanno usato la Bibbia per far dire al Padre eterno ciò che le contingenze politiche rendevano opportuno che egli dicesse, ora per rivendicare ora per negare la tolleranza religiosa a seconda del carattere minoritario o maggioritario della propria Chiesa, cattolica o protestante che fosse. Dai pogrom antiebraici alle persecuzioni degli eretici fino alla torri di New York non si contano le schiere di fanatici convinti di agire in nome del loro Dio e legittimati in tal senso da qualche autorità religiosa.
Solo con il Vaticano II, del resto, la Chiesa cattolica ha riconosciuto come inderogabile diritto umano quella libertà di coscienza che ancora nel 1864 il Sillabo di Pio IX aveva definito come un folle «delirio», mero sinonimo di «libertà di perdizione». Ben venga, naturalmente, e onore al merito di coloro che hanno saputo cambiare le proprie opinioni, dando prova ancora una volta di un relativismo storico che, piaccia o non piaccia, è iscritto nella storia del cristianesimo stesso e della sua capacità di adeguarsi al mutare dei tempi.
Sono solo alcune fra le tante riflessioni che scaturiscono da questo denso libro, in cui viene ricostruito il rapido evolversi della nuova religione da Costantino a Teodosio, tra la conversione dell’imperatore vittorioso a ponte Milvio nel 312 grazie alla croce (in hoc signo vinces) e gli editti che, a partire da quello di Tessalonica del 380, imposero la fede di Cristo come unica religione ammessa nei confini dell’impero.
Fu allora che si determinò la trasformazione della croce da simbolo di martirio e di redenzione in simbolo di potere utilizzato dalle autorità politiche ed ecclesiastiche per la «conquista di corpi e di anime». Fu allora che le parole di Cristo «il mio regno non è di questo mondo» (Giovanni 18, 36) - che nell’età dei Lumi avrebbero suggerito a Voltaire amari commenti sulle tenaci commistioni tra Stato e Chiesa - trovarono una clamorosa smentita nel poderoso affermarsi del nuovo monoteismo trinitario che soppiantò il paganesimo.
Fu allora che la Chiesa - costantiniana o teodosiana che dir si voglia - fondò un potere destinato a durare e a rinsaldarsi nel corso dei secoli, recando impressi sino a oggi i segni di una granitica «autorappresentazione identitaria» che non solo consentiva, ma imponeva la coercizione nei confronti di renitenti alla conversione, dissidenti, scismatici, e con essa il ricorso al braccio secolare di un’autorità civile ormai piegata al primato della fede e della teologia.
È in questo nodo tanto aggrovigliato quanto decisivo della storia dell’Occidente che Filoramo accompagna il lettore con rigorosa competenza e non comune capacità narrativa, tale da consentire anche ai profani di orientarsi nelle convulse trasformazioni della fine del mondo antico, fatte non solo di vicende politiche e militari, ma soprattutto di conflitti di culture, di profonde crisi economiche e sociali, di ridefinizioni radicali di poteri e di ruoli, di nuovi popoli e nuove fedi.
La decadenza politico-militare dell’Impero, lo sfaldarsi della sua unità, il dilagare della violenza nella vita quotidiana di tutti fecero da sfondo al radicarsi del cristianesimo, al definirsi del suo impianto dottrinale tra aspre controversie teologiche, eresie, lotte intestine, destinate a intrecciarsi sempre più strettamente con le questioni politiche.
Con l’indebolirsi dell’autorità statuale, infatti, i vescovi vennero assumendo un ruolo pubblico riconosciuto dai redditi, dai privilegi e dai compiti loro assegnati dalla legislazione costantiniana (con il loro prevedibile corredo di simonia, rivalità, scontriviolenti eccetera), mentre gli imperatori si impegnavano sempre più energicamente nelle controversie religiose per garantire un necessario carattere unitario a quella che si accingeva a diventare una religione di Stato. Se Costantino poteva convocare il concilio di Nicea del 325 prima ancora di essere battezzato, pochi decenni dopo sant’Ambrogio era in grado di teorizzare il principio che l’imperatore è nella Chiesa, e non sopra la Chiesa.
Si impose in tal modo una nuova teologia politica, fondata sulla supremazia del sacerdozio sul regno, che invano l’imperatore Giuliano (l’Apostata) cercò di scongiurare nel suo breve regno con una restaurazione dell’antica religione che finì solo con l’incentivare le persecuzioni contro i pagani dopo la sua morte. Mentre anche la violenza diventava un metodo di conversione, le sottili questioni dogmatiche, le lotte antiereticali, il confronto con la filosofia greca imponevano l’inedita autorità dei teologi (figure sconosciute ai culti precedenti) e davano vita al magistero dei primi grandi padri della Chiesa.
Con i decreti conciliari una precisa ortodossia dottrinale si imponeva come legge dello Stato, e di conseguenza l’eresia (alla quale lo scisma veniva omologato) si configurava come un reato politico minaccioso per la stabilità dello Stato. Il Codice teodosiano promulgato nel 438 sancì definitivamente questa criminalizzazione del dissenso religioso. Nel frattempo anche le tenaci persistenze pagane diventavano oggetto di crociata e di conquista da parte «di vescovi zelanti e turbe fanatiche di monaci cristiani» per sostituire il nuovo al vecchio spazio sacro, distruggere gli antichi idoli, insediare le chiese sui templi.
In meno di ottant’anni la Chiesa dei martiri si trasformò nella Chiesa dei persecutori, le pecorelle di Cristo si riconobbero nei fautori di un’aggressiva ierocrazia e la frattura fra la città di Dio e la città dell’uomo teorizzata da sant’Agostino venne ricomponendosi nella cornice asimmetrica di un potere civile fattosi sacro e di una Chiesa fattasi potere (ma fonte della propria e dell’altrui sacralità), i cui rapporti strutturalmente conflittuali sarebbero stati ridefiniti senza tregua dalle vicende storiche (e dai teologi) dei secoli futuri.
Grandi e decisive vicende di secoli lontani, senza dubbio, che tuttavia aiutano a comprendere - conclude Filoramo - alcuni aspetti dell’odierno riproporsi, pur in forma diversa, di una «concezione ierocratica della Chiesa, con conseguenze preoccupanti, a cominciare dalla violazione della libertà di coscienza dei fedeli in nome del rispetto dei supremi interessi legati ai valori non negoziabili».
* Giovanni Filoramo, La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecutori, Laterza, Roma-Bari, pagg.456, e. 24,00.
di Corrado Augias la Repubblica” del 25 novembre 2011
Caro Augias,
l’incontro a Todi di varie componenti cattoliche ha avuto conseguenze, il nuovo
governo ne risente in modo evidente. Niente da eccepire sulla capacità di gestire l’emergenza;
qualche dubbio invece sul ticket da pagare alle gerarchie vaticane sui cosiddetti "valori non
negoziabili" che, stringi stringi, sono testamento biologico, aborto e Pacs. Non vedo come si possa
trovare un accordo: o si ribadisce il diritto individuale su inizio e fine vita fondato su una
definizione precisa su cosa sia o non sia la vita o si cade ineluttabilmente nel fatto che qualcuno si
arroga il diritto di decidere per gli altri su basi confessionali. Stesso discorso sul matrimonio: o è
un contratto, e quindi le parti contraenti sono due cittadini davanti a un pubblico ufficiale, o è un
sacramento, e allora parla la fede. O decide lo Stato o decide la Chiesa. In un caso c’è la cultura
laica che non impone a nessuno di divorziare, né di abortire, né di sposarsi con chi non si vuole e
nemmeno di decidere che il proprio tempo è finito. Dall’altro quella religiosa che invece impone a
tutti di "non" divorziare, di "non" abortire, di "non" sposare chi si vuole e di rimanere "in vita"
anche quando, ormai, di vita umana non c’è più niente. Dov’è il compromesso possibile?
Fabio Della Pergola f.dellapergola@gmail.com
Il punto infatti è delicatissimo e segna il confine tra uno Stato laico e uno Stato confessionale. Stato laico significa che le leggi devono rispondere a criteri di bene comune, il che esclude sia leggi studiate ad personam , di cui abbiamo fatto ripetuta e triste esperienza, sia leggi che riposino su un dogma di fede e dunque escludano o confliggano con la coscienza di chi a quella fede non appartiene.
Questo è il punto ripeto delicatissimo. Infatti è su questo punto che Romano Prodi, definendosi a suo tempo «cattolico adulto», perse l’appoggio della gerarchia vaticana. Mancato appoggio che gli è stato fatale così come lo è stato poche settimane fa, per diverse ragioni, a Berlusconi. Come ricordava domenica Eugenio Scalfari, «la gerarchia» vaticana «è un potere esterno rispetto allo Stato laico e democratico».
La Chiesa può esortare chi si dice suo fedele a non divorziare (con risultati peraltro non brillanti, come s’è visto) ma non può costringere i cittadini a non divorziare ostacolando il varo d’uno strumento legislativo che lo permetta. Può suggerire a chi crede certe norme per la fecondazione assistita, ma non può costringere un intero Paese dentro le maglie di un provvedimento ideologico (Legge 40/2004), infatti largamente disatteso, come ognun sa.
Dov’è il compromesso possibile? chiede il signor Della Pergola. È nella coscienza dei politici di fede cattolica ai quali, da cittadini, spetta l’onere di farsi carico anche della coscienza di chi cattolico non è.
Il SONNO PROFONDO DEI GIUDICI COSTITUZIONALISTI, LA "LOGICA" DEL MENTITORE E IL GOLPISTICO TRIONFO DEL PARTITO DI "FORZA ITALIA".
LA BORSA VALORI.
Perché gli ideali non sono assoluti ma figli di un’epoca
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 22 novembre 2011)
Si può dissentire radicalmente sulle premesse e consentire pienamente sulle conclusioni? È la domanda che ci si pone al termine della lettura dell’ultimo, profondo, appassionato, angosciato ma non rassegnato libro di Roberta De Monticelli, La questione civile - Sul buon uso dell’indignazione (Raffaello Cortina Editore).
Il tema è la giustizia, massima virtù sociale; lo scopo è il risveglio alla giustizia attraverso "esercizi di disgusto". L’impianto è filosofico. Il discorso si svolge da Platone e Aristotele, indugia su quello che sembra il preferito, Immanuel Kant, per arrivare a Simone Weil e a Bobbio. Ma, la riflessione spazia: antropologia, psicologia, teologia, giurisprudenza, letteratura. Tutto può essere messo a frutto e fatto reagire, al di sopra delle divisioni disciplinari. Trattandosi di filosofia pratica, cioè orientata all’azione sul suo oggetto - la giustizia -, inevitabile è incontrare di continuo le brutture, le oscenità, le meschinità, gli arrivismi, l’ipocrisia, l’illegalità, la corruzione, le prepotenze, le viltà e il servilismo, cioè la catastrofe etica della nostra società.
Il libro, con una certa sorpresa del lettore, non inizia dalla giustizia. Vi arriva attraverso la bellezza. Bellezza e giustizia: che rapporto c’è? Dicendo bellezza, non si deve pensare a estetismo, snobismo, collezionismo d’arte e cose di questo genere. Se bellezza è armonia e proporzione dei rapporti - di elementi figurativi, architettonici, poetici e musicali, e anche sociali - allora possiamo dire che la bellezza è forma visibile della giustizia. Il rapporto è stretto, inscindibile. Vale l’eterna massima della filosofia scolastica: iustum, bonum, verum et pulchrum convertuntur. Queste qualità dell ’esistenza vivono l’una nell’altra. Non occorre intuizione metafisica per capirne i nessi. Risultano ancora più chiari rovesciando il positivo in negativo: l’ingiustizia è cattiva; il cattivo è falso; il falso è brutto. Si può arrivare alla giustizia a partire dalla bellezza, ma si sarebbe potuto anche dal bonum o dal verum. A partire da uno, si arriva agli altri.
Fin qui, tutto bene. Il passo successivo è da discutere. Giustizia, bontà, verità e bellezza sono "valori", "cose che valgono", non in termini economici, (non c’è un mercato dei valori secondo la legge della domanda e dell’offerta), ma in termini morali. Sono il lato positivo, prezioso, della vita. A meno di pervertimento in bruta animalità, dove vige il fatto compiuto, cioè la "giustizia del più forte", non ne possiamo fare a meno. Potremmo perfino dire che li chiamiamo valori, ma sono necessità, secondo il motto di Kant: se non c’è posto per la giustizia sulla terra, non ha senso la vita degli uomini.
De Monticelli dà grande importanza alla questione del fondamento. È convinta che i valori siano "dati", non perché li si possa constatare e ammirare in sé e per sé. Nel teatro greco, per esempio, "La Pace" si presentava come una fanciulla, avvolta in un peplo trasparente, e tutti esclamavano: "come è bella!". Di lei si poteva dire: "Come è bella!" perché la bellezza le era incorporata e gli spettatori ne facevano esperienza. Dunque, "i fatti stessi si qualificano come beni e come mali" (belli o brutti, giusti o ingiusti, ecc.) e a noi non resta che prendere atto del loro valore, come constatazione. Ne è convinta De Monticelli e chi, come Platone, crede che esista "la bellezza" che si riflette in "le cose belle". Se fosse così, sarebbe possibile fondare la morale in termini oggettivi: le cose belle sono belle perché portano in sé la bellezza, non perché l’attribuiamo loro, secondo la nostra concezione. Insomma: è bello ciò che è bello, non ciò che piace: piace perché è bello, non viceversa (lo stesso, per gli altri valori).
Come possiamo non insorgere - leggiamo nel libro - di fronte alle casette a schiera che deturpano le colline senesi dipinte da Simone Martini? Non è questo, oggettivamente, un insulto al bello, e dirlo non è forse una constatazione di fatto? "Nerone era crudele", non è la stessa cosa? Andiamo oltre: Adolf Hitler era un essere degenerato. Chi non sarebbe d’accordo? Dunque il brutto è incorporato nelle casette a schiera del Senese; la crudeltà, in Nerone; la degenerazione, in Hitler. Ripeto: chi non sarebbe d’accordo? Ma perché siamo d’accordo? Sono "le cose" (le villette, Nerone, Hitler) che parlano a noi, o siamo noi che parliamo a e di loro?
Siamo al problema del fondamento. Al "monismo" essenzialista - fatti e valori sono tutt’uno - si oppone la separazione "dualista": ciò che è non è detto che debba o non debba essere. Un muro separa i fatti dai valori: gli uni non "convertuntur" affatto negli altri. Riconsideriamo l’esempio estremo di Hitler. Ora (e, purtroppo, nemmeno da tutti) si ritiene sia stato uno dei massimi flagelli dell’umanità, ma non allora. C’era chi lo riteneva un nuovo messia, perfino tra gli uomini di chiesa. Per milioni di persone, in Germania e altrove, era il salvatore della civiltà europea contro la barbarie asiatica, impersonata dal comunismo sovietico. In nome del "valore" superiore della civiltà occidentale, si è stati perfino disposti a chiudere gli occhi davanti alla shoah: evidentemente, la difesa della vita degli ebrei si riteneva un non-valore, o un valore minore, di fronte ad altri valori, come il capitalismo o la religione cristiana.
C’era un valore assoluto, obiettivo, e, se sì, qual era? No, non c’era. C’era invece una lotta mortale tra valori soggettivi e relativi, con le rispettive armate schierate su fronti opposti. Noi sappiamo, ora, come sarebbe stato giusto, buono, vero, e bello schierarsi. Ma, come osservatori, dobbiamo ammettere che entrambe le parti, allora, ritenevano di combattere la buona battaglia e che ciascuna delle due vedeva incorporate nelle armi dell’altra il male, e nelle proprie il bene.
Dunque, è più probabile che la condizione esistenziale degli esseri umani non sia quella assunta da De Monticelli. Per lei, il valore delle cose, positivo o negativo, si manifesta nella loro esistenza. Dunque la precede. Per chi non pensa metafisicamente, invece, è l’esistenza che precede i valori. Il che è come dire ch’essi non sono dati ma sono i viventi a doverli dare; vengono dalla nostra libertà e responsabilità e non li troveremo fuori, ma in noi.
Sappiamo che entrambe le posizioni, monismo e dualismo, sono aperte a grandi rischi. Non sono quindi i rischi, gli argomenti per propendere per l’uno o per l’altro. La metafisica dei valori espone al dogmatismo, quando la loro gestione finisca, come è possibile, nelle mani di autorità etiche: stato, partito-chiesa, chiesa. L’anti-metafisica espone all’indifferenza o al soggettivismo estremo e distruttivo, quando prevale l’idea che le questioni di valore non abbiano senso o siano affari da gestire ciascuno per sé.
Piuttosto, riprendendo l’interrogativo iniziale, che è quello davvero importante per il vivere comune, possiamo dire che, quali che siano le opinioni circa il fondamento, sui contenuti si può perfettamente convenire. Gli uni riterranno di andar scoprendo valori; gli altri, di andar creandoli. Da punti di partenza diversi si può giungere alla medesima meta e, cosa consolante, si può, anzi si deve, operare insieme. A condizione di isolare le ali estreme: i dogmatici e i nichilisti. Per riprendere il titolo del libro di De Monticelli: a queste condizioni, far buon uso della comune indignazione è possibile.
La scelta di Vittorio Bachelet
di Angelo Paoluzi (Europa, 22 novembre 2011)
Un discorso del cardinale Martini del 1995 contestava il ruolo di un moderatismo cattolico come stampella di regime e si rifaceva alla «vocazione ad una società avanzata» della dottrina sociale della Chiesa; una «socialità di tipo relazionale, che punta sui diritti delle persone, delle comunità, a cominciare dalla famiglia, e dei gruppi sociali e infine dello Stato di tutti...».
Non riguarda direttamente il protagonista della monografia dedicata da Angelo Bertani a Vittorio Bachelet, ma si iscrive in un contesto nel quale attorno al personaggio si snoda una riflessione più generale. A partire dal titolo: Bachelet. Testimoniare da cristiani nella vita e nella politica (La Scuola, Brescia 2011, 156 pagine, 9 euro). Il curatore - che già in altre occasioni si è interessato di Bachelet - aggiunge oggi alcune valutazioni su un momento storico, come l’attuale.
«Oggi - scrive Bertani - i cattolici si chiedono come fare ad essere più presenti nella società. L’interrogativo è complesso e persino ambiguo, ma una risposta c’è: fare come Bachelet. Educare, aiutare a crescere tanti cittadini credenti, laici cristiani come Vittorio Bachelet. Non è facile, ma forse non ci proviamo neppure perché troppo alta e disinteressata appare la loro testimonianza, troppo pericolosa la loro libertà, poco redditizia la loro militanza».
Ma nelle cinquanta pagine dell’introduzione, un terzo del volumetto, su alcuni testi illuminanti del «messaggio educativo» di Bachelet (esemplare nella sua «antropologia della mitezza») c’è la chiave di lettura di qualcuno che «ci ha aiutato a uscire dal cristianesimo di cristianità: quello che si affidava al conformismo e all’intimidazione, all’abitudine, alle strutture, alle leggi. E a camminare verso un cristianesimo della coscienza e dell’amore, di comunione e di carità, dell’evangelo e del Concilio».
Troviamo ancora, nell’introduzione, una ricchezza di riferimenti: ecco che spuntano Giuseppe Dossetti, Aldo Moro, padre Adolfo Bachelet, il gesuita fratello maggiore di Vittorio: non per il gusto della citazione appropriata ma con il criterio della perennità che quelle parole attribuiscono ai valori.
E se è un raffinato riferimento quello al testo di una lettera inviata dal cardinale Ercole Consalvi nell’anno di grazia 1800 all’allora ambasciatore del Vaticano (non si chiamavano ancora nunzi) a Parigi, monsignor Annibale della Genga - il futuro Leone XII -, e nella quale era avveniristicamente contenuta l’esortazione a rendersi conto che la rivoluzione francese c’era stata, è meritorio, come fa Bertani, ricordare, civicamente parlando, la trama di riconciliazione tessuta da Adolfo Bachelet con alcuni protagonisti delle sanguinose vicende degli anni settanta.
Il «nucleo incandescente del linguaggio evangelico » viene evocato nel rapporto Dossetti-Bachelet, anche se con esiti diversi. Bertani torna inoltre più volte sulla esemplare testimonianza espressa dalla famiglia di Vittorio Bachelet; e riporta alcuni passi di una intervista nella quale, a vent’anni dalla morte, il figlio Giovanni rifletteva sul significato di quel sacrificio che, ricorda, è stata « l’occasione, pur tristissima, di mettere alla prova quello che diceva papa Giovanni: anche se qualcuno dice di essere nostro nemico, e si comporta come tale, noi non ci sentiamo nemici di nessuno».
Si rammenteranno le parole di Giovanni che, il giorno delle esequie del padre, inducevano al perdono e nello stesso tempo alla giustizia in difesa della democrazia: «Vogliamo pregare per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, nelle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri».
Con questo spirito si potranno leggere gli otto interventi contenuti nella seconda parte del libro, che disegnano un percorso culturale e spirituale. Del quale è stato un tornante la «scelta religiosa» impressa all’Azione cattolica in anni di grande tensione: «Scelta religiosa - affermava Bachelet che ne era stato il gestore - è anche, allora capacità di aiutare i cristiani a vivere la loro vita di fede in una concreta situazione storica, ad essere “anima del mondo”, cioè fermento, seme positivo per la salvezza ultima, ma anche servizio di carità non solo nei rapporti personali, ma nella costruzione di una città comune in cui si siano meno poveri, meno oppressi, meno gente che ha fame».
Angelo Paoluzi
BERTONE SCONFESSA LA NOTA DI GIUSTIZIA E PACE SULLA CRISI. E "BLINDA" LA CURIA
di Agenzia Adista n. 86 - 26 Novembre 2011 *
36403. CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. Un’ulteriore accelerazione del processo di accentramento del potere avviato negli ultimi anni. Un sistema per riportare sotto controllo ogni eventuale spinta centrifuga da parte dei dicasteri vaticani. Ma anche un sistema per evitare gaffes ed imbarazzi, che negli ultimi anni non sono mancati Oltretevere, per disorganizzazione, mancanza di comunicazione e forse anche per qualche volontaria “omessa vigilanza” da parte di qualche ecclesiastico o responsabile di Curia che intendeva mettere in cattiva luce l’operato del Segretario di Stato.
Una di queste ragioni, o tutte insieme, sono probabilmente all’origine della decisione del Segretario di Stato vaticano, il card. Tarcisio Bertone, di non permettere più a nessun ufficio della Curia romana di pubblicare o diffondere documenti prima che essi abbiano ricevuto il preventivo controllo e autorizzazione da parte della Segreteria di Stato.
La decisione, resa nota da Sandro Magister (chiesa.espressonline.it, 10/11), è arrivata alla fine di un piccolo summit convocato in segreteria di Stato nei giorni scorsi. Casus belli, il documento sulla crisi finanziaria mondiale di cui il segretario di Stato ha lamentato di non essere stato informato fino all’ultimo momento.
Il 24 ottobre scorso, infatti, in Vaticano, nell’Aula Giovanni Paolo II della Sala Stampa della Santa Sede, si era tenuta una conferenza stampa di presentazione di una Nota del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace intitolata: “Per una riforma del sistema finanziario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale” (v. Adista n. 82/11). Nel documento, che voleva costituire un contributo di idee e proposte per il vertice del G20 di Cannes, che si sarebbe svolto il successivo 3 e 4 novembre, il Pontificio Consiglio chiede l’istituzione di un’autorità pubblica mondiale che svolga le funzioni di una sorta di “Banca Centrale Mondiale” per regolare «il flusso e il sistema degli scambi monetari»; «la tassazione delle transazioni finanziarie, mediante aliquote eque»; la ricapitalizzare delle banche «anche con fondi pubblici condizionando il sostegno a comportamenti “virtuosi” e finalizzati a sviluppare l’economia reale». Inoltre, il documento individua le cause della crisi in «un liberismo economico senza regole e senza controlli», e in tre ideologie che hanno «un effetto devastante»: l’utilitarismo, l’individualismo e la tecnocrazia.
Insomma, a leggere la Nota, poteva apparire che il Vaticano chiedesse misure di tassazione delle transazioni finanziarie sul modello della “Tobin Tax”, che è stata evocata anche durante il G20 (ne hanno fatto cenno Obama e Sarkozy), ma senza alcun seguito. Come nessun seguito hanno avuto le altre proposte contenute nel documento, sostanzialmente smentite dall’esito del vertice di Cannes. Una circostanza, unita al sostanziale approccio “progressista” del documento, che deve aver indotto Bertone a correre ai ripari. Attraverso la decisione di filtrare più attentamente i documenti in “uscita” dalle Congregazioni, dai dicasteri e dagli uffici di Curia. Ma anche attraverso un articolo che Ettore Gotti Tedeschi (presidente dello Ior, ed economista cattolico di destra molto vicino al Segretario di Stato) ha firmato sull’Osservatore Romano del 7/11, dando della crisi, e della sua possibile soluzione, una interpretazione assai diversa dal documento del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, che non viene peraltro mai citato.
Ma dietro la decisione di Bertone potrebbe esserci anche l’esigenza di smentire un documento in cui si critica esplicitamente l’approccio tecnocratico delle istituzioni monetarie e degli organismi internazionali, che poteva suonare come una implicita critica a Mario Monti ed al nuovo esecutivo da lui varato, in cui la Chiesa cattolica è riuscita a inserire molti suoi uomini in ruoli di primissimo piano (v. notizie su questo stesso numero).
Del resto, appare difficile immaginare che in Segreteria di Stato non sapessero nulla della genesi della Nota del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Segretario di quel dicastero è infatti mons. Mario Toso, salesiano come Bertone, che lo ha prima portato in Vaticano e poi consacrato vescovo. È Toso ad aver organizzato ed animato, per conto di Bertone, una serie di incontri, durante l’estate, per la nascita di una nuova aggregazione di ispirazione cristiana. Sempre Toso, tra gli uomini di fiducia collocati da Bertone nei posti chiave della Curia e degli organismi di controllo della Santa Sede (v. Adista n. 65/11). Difficile quindi che egli non abbia avuto modo di informare Bertone della stesura di un documento così importante. La smentita ex post del documento, è invece funzionale a smarcare la Segreteria di Stato da contenuti che stridono con gli scenari che si stanno delineando nelle ultime settimane. E costituisce un ottimo pretesto per un ulteriore giro di vite sull’autonomia dei singoli dicasteri e uffici di Curia. Accelerando un processo di centralizzazione in atto da mesi. (valerio gigante)
Articolo tratto da
ADISTA
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* Il Dialogo, Martedì 22 Novembre 2011