[...] In pillole la riforma stabilisce: se il licenziamento è dovuto a ragioni discriminatorie (sesso, religione, razza ecc.) il giudice lo annulla e il lavoratore viene reintegrato. Se la causa è disciplinare e il licenziamento giudicato illegittimo, spetta al giudice stabilire se il lavoratore viene reintegrato in azienda o riceve un indennizzo (tra 15 e 27 mensilità). Il problema è il terzo caso, quello più sensibile, introdotto dalla riforma, il licenziamento economico individuale. L’azienda licenzia perché dice che non può più permettersi il lavoratore in questione o per “ragioni tecniche o organizzative”, l’interessato ricorre e vince. Il giudice, quindi, stabilisce che il licenziamento economico era illegittimo, ma secondo la riforma Fornero può solo assegnare un indennizzo. Ma questo non è logico: se la causa non era economica, allora deve trattarsi di una delle altre due ragioni, o motivi disciplinari o discriminazioni. E quindi il giudice dovrebbe poter sancire anche il reintegro. Invece non può, e questo espone la legge a rischi di costituzionalità [...]
Il direttivo ha deciso all’unanimità la mobilitazione. «Il governo attacca i lavoratori»
Il segretario: «La modifica dell’articolo 18 cambia i rapporti di forza a vantaggio delle imprese»
La Cgil proclama lo sciopero
Camusso: la partita non è chiusa
Il giorno dopo il «via libera» alla riforma del mercato del lavoro, la Cgil convoca il suo Direttivo. -
Mobilitazione di 16 ore di sciopero e campagna d’informazione a tappeto. Camusso: la partita art.18 è aperta
di Massimo Franchi (l’Unità, 22.03.2012)
Mai nella storia della Cgil erano state indette 16 ore di sciopero. Il via libera a larghissima maggioranza ( 95 favorevoli, 2 contrari, 13 astenuti) del Direttivo di Corso Italia conferma la straordinarietà della situazione. La riforma del lavoro firmata Monti e Fornero produce la reazione ferma della Cgil e di Susanna Camusso, una sorta di dichiarazione di battaglia a tutto campo contro l’esecutivo attuale.
Occhi stanchi, sintomo di una notte agitata, e voce più roca del solito, il segretario generale pesa le parole ma attacca a testa bassa: «Il governo scarica sui lavoratori, sui pensionati e sui pensionandi i costi delle operazioni che si vanno facendo», «non è minimamente interessato alla coesione sociale come dimostra la scelta di non concludere la trattativa».
La ricostruzione del «giorno dell’accordo separato», «della fine della concertazione», «dell’isolamento della Cgil» (come sostengono tanti commentatori) parte da una semplice constatazione di «incoerenza» delle parole di Monti: «Continua a dire che l’articolo 18 non era al centro della riforma, ma allora non si capisce perché aveva bisogno di un pronunciamento proprio su questo aspetto». La spiegazione è semplice: «Il messaggio che vuole portare in giro per l’Asia (per il tour governativo che parte sabato, ndr) è che nel nostro Paese si può licenziare liberamente».
LIBERTÀ DI LICENZIAMENTO
Sull’articolo 18 dunque non siamo davanti ad una «semplice manutenzione», ma alla «scelta di cancellare lo strumento di deterrenza verso i licenziamenti: si cambiano i rapporti di potere nei luoghi di lavoro e si mette a rischio licenziamento i lavoratori più deboli». Il messaggio al governo è preciso: «La partita non è chiusa, il Parlamento intervenga e modifichi la norma». L’invito è rivolto a «tutta la politica», e dunque non solo alla sinistra, «è di domandarsi se si può approvare una norma che cambia così profondamente le condizioni dei lavoratori». Il tema è quindi quello della «riconquista del reintegro».
L’analisi del resto della riforma è approfondita e non manca di sottolineare gli aspetti positivi. «Sulla lotta alla precarietà, al netto dell’assalto che il sistema delle imprese sta portando avanti in queste ore, i passi avanti sono importanti anche se una sola forma contrattuale sarà, forse, cancellata (il contratto di associazione in compartecipazione che rimarrà per i soli familiari, ndr).
Più negativo il commento sul capitolo ammortizzatori: «L’universalità promessa per la Cassa integrazione e per il cosiddetto Aspi non c’è» e in quest’ultimo caso la mancanza pesa di più perché «il governo che parla sempre di giovani si è totalmente dimenticato di tutti i lavoratori para-subordinati».
L’impegno preso per oggi è quello di partecipare al tavolo fissato per le 16 nella sede tecnica del ministero del Welfare di via Flavia. «Come promesso consegneremo al governo il documento messo a punto dal nostro Direttivo», annuncia Camusso. Anche se non si fanno illusioni sulla possibilità che il governo possa fare alcuna marcia indietro: «È stato Monti a dire che il testo sull’articolo 18 è blindato».
INVITO A CISL E UIL
Lo strappo di martedì ha comunque messo in discussione i rapporti con gli altri sindacati. Messe da parte le accuse con un unico accenno («è stato un gravissimo errore che Cisl e Uil abbiano interrotto un’iniziativa unitaria»), come le critiche avanzate da alcuni «ad essere fidati troppo di Bonanni», il segretario della Cgil rivolge un appello alla Cisl e alla Uil per «costruire una proposta unitaria di cambiamento che metta al riparo i lavoratori». Convinti che sia Bonanni che Angeletti sanno che anche i loro iscritti si uniranno alle proteste in difesa dell’articolo 18.
In mattinata era toccato a Fulvio Fammoni, segretario confederale il cui mandato scadrà ad aprile, proporre al Parlamentino Cgil «una forma di mobilitazione lunga ed articolata». «Non sarà ha spiegato Fammoni la fiammata che si esaurirà in un giorno che il governo ha messo in conto».
Oltre alle 16 ore di sciopero (8 per assemblee e altre otto, in un’unica giornata, con manifestazioni territoriali), anche una «petizione popolare per raccogliere milioni di firme ed iniziative specifiche con i giovani per contrastare le norme sbagliate sul precariato, l’avvio del lavoro con la Consulta giuridica per i percorsi legali (ricorsi) e una campagna nazionale «a tappeto» di informazione».
Nel lungo direttivo non sono mancate posizioni critiche. La minoranza della “Cgil che vogliamo” guidata da Gianni Rinaldini aveva presentato un testo alternativo ancora più duro contro il governo Monti. Poi si è arrivati ad un testo condiviso.
Fornero più a destra di B.
La riforma dell’art. 18 è più dura di quella Berusconi del 2002
Pdl, Udc e Quirinale hanno fretta di approvarla
di Stefano Feltri (il Fatto, 22.03.2012)
Il Pdl quasi non ci crede, a volte le cose vanno meglio di ogni aspettativa: non bastava il Pd spappolato, ora c’è anche un comunista con cui prendersela, Oliviero Diliberto fotografato assieme a una militante con la maglietta “Fornero al cimitero” (“Anche con Marco Biagi cominciò cosi”, ci va già duro Roberto Maroni, Lega, da Facebook). Niente di meglio per blindare la riforma del lavoro, anzi, i pareri raccolti nel confronto con le parti sociali che oggi verrà ufficialmente chiuso. Ma il presidente del Consiglio Mario Monti lo ha già detto martedì: “Sull’articolo 18 la questione è chiusa”.
IL POPOLO DELLE libertà non chiede altro. Silvio Berlusconi tace, Angelino Alfano pure. Se in Parlamento va bene il Partito democratico si spacca a sinistra, se va male riesce a modificare un po’ la riforma del lavoro irritando il governo e mandando in crisi i supermontiani tipo Enrico Letta. “Nessuno ha più diritto di veto. Andiamo avanti con decisione”, freme Maurizio Lupi, del Pdl. Per non parlare di Maurizio Sacconi, ex ministro del Welfare eterno avversario della Cgil, che dice: “Siamo forse prossimi a realizzare l’ultimo miglio, il più faticoso, delle riforme del lavoro di questi anni”.
In effetti la riforma Monti per certi aspetti è più drastica di quella tentata da Berlusconi nel 2002, con Maroni al ministero del Welfare: cambiava l’articolo 18, ma soltanto per un periodo sperimentale di quattro anni, risarcimento al posto del reintegro per i licenziamenti indebiti, tranne per quelli discriminatori, deroghe per le trasformazioni da precari a stabilizzati che restavano licenziabili.
MONTI E IL MINISTRO Elsa Fornero vanno molto oltre, questa volta la riforma è strutturale, non un esperimento. E pensare che a dicembre l’economista torinese al Corriere della Sera diceva: “Non ci sono totem e quindi invito i sindacati a fare discussioni intellettualmente oneste”. Poi correggeva: “Il mio era un invito al dialogo senza preclusioni e senza tabù, totem o sacralità intoccabili”. E invece è andata peggio di quello che i sindacati temevano a fine 2011.
“La vera motivazione di questo intervento è modificare i licenziamenti disciplinari, se un’azienda ha un dipendente che ritiene un piantagrane, oggi l’impresa non riesce a liberarsene. Ma l’evidenza dice che in Italia le imprese, quando ne hanno bisogno, licenziano eccome, nella crisi del 1993 per esempio il calo dell’occupazione fu molto netto”, spiega Fabiano Schivardi, economista dell’Università di Cagliari che su lavoce.info è stato molto critico sul luogo comune secondo cui l’articolo 18 condanna al nanismo le imprese italiane che restano sotto i 15 dipendenti.
C’è un piccolo problema, nota Schivardi, nella riforma. Un vizio logico che potrebbe essere utile gancio per il Partito democratico che ha un disperato bisogno di ottenere qualche modifica.
In pillole la riforma stabilisce: se il licenziamento è dovuto a ragioni discriminatorie (sesso, religione, razza ecc.) il giudice lo annulla e il lavoratore viene reintegrato. Se la causa è disciplinare e il licenziamento giudicato illegittimo, spetta al giudice stabilire se il lavoratore viene reintegrato in azienda o riceve un indennizzo (tra 15 e 27 mensilità). Il problema è il terzo caso, quello più sensibile, introdotto dalla riforma, il licenziamento economico individuale. L’azienda licenzia perché dice che non può più permettersi il lavoratore in questione o per “ragioni tecniche o organizzative”, l’interessato ricorre e vince. Il giudice, quindi, stabilisce che il licenziamento economico era illegittimo, ma secondo la riforma Fornero può solo assegnare un indennizzo. Ma questo non è logico: se la causa non era economica, allora deve trattarsi di una delle altre due ragioni, o motivi disciplinari o discriminazioni. E quindi il giudice dovrebbe poter sancire anche il reintegro. Invece non può, e questo espone la legge a rischi di costituzionalità.
“La riforma non puo’ essere identificata solamenteconl’articolo18”, premette Giorgio Napolitano. Il capo dello Stato, tra tutti, sembra quello più ansioso di arrivare in fretta all’approvazione in Parlamento.
Ma le tante novità positive che riguardano i precari sembrano interessare poco, sia alla Cgil che ai partiti. Fine degli stage gratuiti dopo la laurea, limite all’uso dei contratti a progetto e a termine, limite di sei mesi per usare le finte partite Iva (formalmente professionisti, di fatto dipendenti), dopo i quali l’azienda è costretta all’assunzione. I precari, elettoralmente parlando, non interessano a nessuno, soltanto Monti dice che tutte le riforme sono rivolte ai giovani.
La partita degli ammortizzatori sociali è sospesa: finché il governo non esplicita quanti soldi stanzia per il passaggio dalla cassa integrazione all’Aspi, l’Assicurazione sociale per l’impiego, resta il rebus. Si sta parlando di un aumento della protezione, di spalmare le tutele attuali o di un taglio? Mistero. Ma queste sono quisquilie, ormai. Siamo tornati a 10 anni fa, con l’articolo 18 al centro della scena politica, la Cgil pronta allo sciopero generale, la destra che predica la competizione con la Cina. Unica differenza: questa volta il Pd è nella maggioranza di governo che cancella l’articolo 18.
Sciopero generale
La Cgil all’angolo è costretta ad attaccare
di Salvatore Cannavò (il Fatto, 22.03.2012)
La Cgil è costretta a salire di nuovo sulle barricate. La determinazione di Monti a modificare strutturalmente l’articolo 18 e ad affossare la concertazione hanno lasciato il sindacato di Susanna Camus-so senza sponde. E per il momento a prevalere è il sindacato di lotta.
Dal Direttivo nazionale riunito ieri per tutta la giornata vengono fuori ben 16 ore di sciopero, 8 per le assemblee e altre otto in un’unica giornata di sciopero generale da decidere in relazione all’iter parlamentare; assemblee ovunque, una petizione per raccogliere milioni di firme, una campagna nazionale a tappeto.
La Cgil si mette pancia a terra per raggiungere un solo obiettivo, illustrato da Susanna Camusso: “La riconquista del reintegro”. Perché la riforma “colpisce i lavoratori” e il governo è interessato a inviare un solo messaggio: “In Italia si può licenziare”.
Dieci anni fa - la ricorrenza è domani, 23 marzo - lo stesso sindacato portò a Roma, al Circo Massimo, circa tre milioni di persone e il segretario di allora, Sergio Cofferati, bloccò il tentativo del governo Berlusconi - il ministro era Roberto Maroni - di modificare l’articolo 18. Quella riforma era più blanda di quella avanzata da Monti, ma oggi la Cgil non sembra avere la forza di allora anche se la rabbia per lo smacco subito è evidente. “Sull’articolo 18, continua Camusso, Monti non ha mai voluto mediare” ma questa riforma “non porterà nemmeno un posto di lavoro in più”. E dunque ci si prepara a una fase di scontro per cercare di rientrare in gioco.
MA, INSIEME al profilo di lotta, la Cgil ha anche un’anima trattativista e la prospettiva di finire all’angolo in compagnia della sola Fiom - che ieri ha definito “una follia” la cancellazione dell’articolo 18 dicendosi “pronta a tutto” - non piace a molti. Ed ecco che nello stesso direttivo delle 16 ore di sciopero si è sviluppata una accesa discussione sull’obiettivo di questo sciopero.
Difendere l’attuale norma dello Statuto dei lavoratori al grido di “l’articolo 18 non si tocca” oppure cambiare le scelte del governo e cercare di attestarsi su una formulazione almeno migliorativa di quella proposta da Monti e Fornero? Nella sua relazione, il segretario confederale Fulvio Fammoni ha proposto la seconda soluzione facendo capire che sarebbe un risultato ottenere anche per il licenziamento economico l’opzione tra reintegro e indennizzo stabilita dal giudice.
E il segretario dei Chimici, Alberto Morselli è stato più chiaro: Serve una proposta della Cgil da portare al tavolo già domani (oggi, ndr). Una proposta che risulterebbe comunque utile anche al confronto parlamentare”. La questione, alla fine, resta quella del delicatissimo rapporto con il Pd.
In conferenza stampa Camusso non ha voluto dire nulla sul partito di Bersani: “E’ già faticoso dire che cosa facciamo noi, non possiamo caricarci di cosa deve fare il Pd”. In realtà i due soggetti sono intrecciati perché Bersani ha bisogno ancora di un appiglio per cercare di difendere in Parlamento la possibilità di un “miglioramento” della riforma non tanto per convincere Monti ma per convincere il suo stesso partito.
Ma su questo punto si è scatenato un fuoco di fila di interventi contrari: la sinistra di Cremaschi e Rinaldini, naturalmente Landini, la Funzione pubblica di Rossana Dettori, la Cgil di Torino, quella emiliana, i Trasporti e in particolare la Scuola con Mimmo Pantaleo.
Alla fine Maurizio Landini e Nicola Nicolosi (della maggioranza) si vedono respingere con 30 voti a favore contro 73 un emendamento che chiede di difendere l’articolo 18 così com’è. Il documento finale viene approvato con 95 voti a favore 13 astenuti e 2 contrari (l’area di Cremaschi) un risultato comunque apprezzato dalla maggioranza che decide di investire su una mobilitazione che “ricostruisca la deterrenza” dell’articolo 18 e quindi provi a riconquistare la reintegra. Potrebbe essere il “modello tedesco” che lascia al giudice la possibilità di scegliere tra indennizzo e reintegro.
A lasciare aperta la possibilità di una trattativa ancora da completare è anche la Uil che ha tenuto ieri la sua direzione nazionale lasciando “sospeso” il giudizio sulla riforma in attesa di alcune modifiche. In particolare la possibilità per le rappresentanze sindacali di intervenire sui motivi che stanno alla base dei licenziamenti economici.
NON È la possibilità del reintegro che chiede la Cgil ma lascia spazio per una dialettica con il Parlamento. Anche Bonanni dice che il Parlamento “può migliorare” le norme e che “se il Parlamento ci chiede una mano gliela diamo”. Insomma, Cgil e Pd cercheranno di aiutarsi l’un l’altra ma non è detto che riescano a farlo. Per ora non resta che la lotta.
Fornero: “Il lavoro non è un diritto”. *
“Stiamo cercando di proteggere le persone, e non il loro posto di lavoro. Deve cambiare l’atteggiamento delle persone. Il lavoro non è un diritto, deve essere guadagnato, anche attraverso sacrifici”. Su questa frase, affidata dal ministro del Lavoro Elsa Fornero al Wall Street Journal (“Work isn’t a right; it has to be earned, including through sacrifice”), si è scatenata la bufera. Le reazioni politiche hanno circondato la titolare del Welfare e così la Fornero è stata costretta a precisare: “Il diritto al lavoro non può essere messo in discussione perché è riconosciuto dalla Costituzione”.
La precisazione non è ufficiale. Ma fonti del dicastero precisano che nell’intervista la Fornero ha fatto riferimento “alla tutela del lavoratore nel mercato e non a quella del singolo posto di lavoro, come sempre sottolineato in ogni circostanza”. Insomma: il diritto è del lavoro, non del posto di lavoro. Ma non è bastato per placare la reazione dei partiti, in particolare quelli di opposizione. Antonio Di Pietro ha parlato di asineria politica, la Lega si chiede se il ministro abbia giurato su Topolino, il segretario di Rifondazione Ferrero le definisce parole aberranti.
“A quanto pare - ironizza il leader dell’Italia dei Valori sul suo blog - la badessa Fornero ha riscritto, tutta da sola e senza chiedere il permesso a nessuno, l’articolo 1 della Costituzione. Cara professoressa, questa è un’asineria bella e buona”. “La nostra Costituzione - continua Di Pietro - dice l’esatto contrario. Secondo la Carta, infatti, il lavoro è un diritto, così come lo è l’essere messi in grado di condurre una vita dignitosa in cambio del lavoro prestato. Questo governo, invece, continua a comportarsi come se l’articolo 1 della nostra Costituzione dicesse che l’Italia, anziché ‘una Repubblica democratica, fondata sul lavoro’, sia ‘una Repubblica oligarchica, fondata sulle banche e sulle caste’. Prima di capovolgere così il principio fondamentale della Repubblica, non sarebbe opportuno che i professori Monti e Fornero consultassero gli italiani per capire se sono d’accordo?”.
All’arrembaggio anche la Lega con il senatore Gianvittore Vaccari: “Il lavoro è un diritto. Il ministro Fornero ha giurato sulla Costituzione o su Topolino?”. “Napolitano richiami al suo dovere il ministro del Lavoro” aggiunge il senatore ricordando, oltre all’articolo 1, anche l’articolo 4 della Carta: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Probabilmente, conclude Vaccari, “la Fornero ha dimestichezza con troppi testi ma con pochi luoghi di lavoro”.
Le parole della Fornero sono “aberranti” secondi il segretario di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero che rincara la dose: ”La riforma che il governo sta blindando in queste ore con la fiducia alla Camera è un provvedimento pessimo, altro che buono: via libera ai licenziamenti con la demolizione dell’articolo 18 e precarietà per tutti”. E annuncia un referendum per ristabilire la vecchia forma dell’articolo 18.
“La prossima correzione sarà ‘il posto è un diritto, non il salario’ - attacca il responsabile Lavoro di Sel, Gennaro Migliore - La ministra ‘del non lavoro’ Fornero usa bene le parole per illustrare ai mercati il suo decreto”. “Un tempo si chiedeva ‘lavorare meno per lavorare tutti’, oggi con il decreto Fornero si passa a ‘lavorare? Dipende se sei figlio di papà e mamma’. Chi approverà il decreto del non lavoro romperà il patto di solidarietà costruito in cinquant’anni di lotte”. “Il ministro del Lavoro - chiosa Angelo Bonelli, presidente dei Verdi - dovrebbe contare fino a dieci prima di parlare o inciampare in stupidaggini come quella sul diritto al lavoro”.
Interviene anche il Pd, con il capogruppo in commissione Bilancio Pierpaolo Beretta: “‘Quella approvata oggi e’ una buona riforma, fortemente innovativa. E mi auguro che il governo spieghi questo agli italiani e agli interlocutori istituzionali, piuttosto che enfatizzarne gli aspetti di dissenso e sminuirne il significato con dichiarazioni controproducenti. Per noi il lavoro è un diritto. Mai pensato che i diritti siano senza fatiche e sacrifici. Peraltro, chi lavora onestamente lo sa bene. Ma guai a pensare che merito e competenza, che debbono essere alla base di una sana cultura del lavoro, possano attenuare il principio che ciascuno possa poter lavorare, e per questa via emanciparsi come persona e come cittadino”.
Infatti, tra le nubi della tempesta sulla gaffe, la Camera approverà entro oggi la riforma del mercato del lavoro. Proprio l’articolo che prevede il “nuovo” articolo 18 è stato approvato con i voti di fiducia di ieri. In vista del voto definitivo la Fornero si è recata a Palazzo Chigi per incontrare il presidente del Consiglio Mario Monti. L’approvazione avviene di corsa proprio per richiesta esplicita del presidente del Consiglio che vuole presentarsi al tavolo del Consiglio dell’Unione Europea di domani presentando quelli che ha definito i “progressi dell’Italia”, tra i quali appunto la riforma del lavoro.
Il provvedimento esce quindi da Montecitorio senza alcuna modifica rispetto alla versione approvata dal Senato. “Continuo a considerare questa riforma una buona riforma” ha spiegato la Fornero oggi. Ma ha ribadito che “il governo è disposto a fare cambiamenti”. I partiti, che hanno concesso la delega all’esecutivo non senza malumori, si aspettano ora che sulla questione degli esodati, sugli ammortizzatori e sulla flessibilità in entrata, l’esecutivo intervenga “al più presto”. Protestano i sindacati, con la Cgil che organizza a piazza Montecitorio un ‘grande presidio’ contro un provvedimento che giudica “dannoso”.
Contestazioni in piazza in occasione degli stati generali del Sociale a Roma, dov’è intervenuta la stessa Fornero: un gruppo di manifestanti ha lanciato pile elettriche, zucchine e uova contro gli agenti della Guardia di Finanza. Qui il ministro ha ripetuto che la riforma va fatta partire perché ha novità importanti per i giovani.
I sindacati ribadiscono la loro contrarietà alla riforma: la Cgil è scesa in piazza in tutta Italia, mentre secondo Raffaele Bonanni della Cisl, “non risponde a quello che si era detto dall’inizio, e cioè che da queste norme ci sarebbero stati più posti di lavoro”. Anzi, aggiunge, “meno si tocca il testo e meglio è, perché lo si vuole toccare solo per peggiorarlo”.“Il governo ha avuto un dialogo di circa tre mesi con le parti sociali per arrivare a un documento condiviso, da tutte le parti sociali tranne la Cgil” è la risposta del ministro del Lavoro.
* Il Fatto quotidiano online, 27 giugno 2012
La Fornero dopo la gaffe annulla il convegno sull’occupazione
Lavoro, la Costituzione è già stata calpestata?
Interventi di Furio Colombo e Lorenza Carlassare
Gli articoli della Carta
di Sal. Can. (il Fatto, 29.06.2012)
Il giorno dopo la “gaffe” del “Wall Street Journal”, il ministro Fornero annulla tutti gli impegni. In particolare lascia delusa l’amministrazione milanese, a cominciare dal sindaco Pisapia, che l’aveva voluto ospite d’onore al convegno “Fondata sul Lavoro” in cui sarebbero dovuti intervenire anche i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil e il presidente di Confindustria. -Ma l’appuntamento previsto nel pomeriggio di ieri è saltato per l’indisponibilità del ministro comunicata in mattinata al sindaco di Milano. Un modo per non esporsi dopo le polemiche? Può darsi. Resta il fatto che Elsa Fornero rimane il ministro più contestato dell’esecutivo con un’esposizione mediatica spesso negativa. Il dibattito sul rapporto con la Costituzione, poi, resta del tutto aperto e a questa discussione si agganciano le testimonianze raccolte oggi dal “Fatto Quotidiano”.
Furio Colombo: Lost in translation
Se lo chiedono in molti, non solo in questo giornale. Perchè le "gaffes". O meglio perché appaiono "gaffes" espressioni di pensiero che sono state dette e ridette da quando esistono i think tank vicini alle imprese e lontane dal lavoro, in cui l’unico tema di discussione è sempre e soltanto il costo del lavoro?
Vorrei intervenire in questa disputa ricordando che Elsa Fornero non è affatto la voce più "a destra" che si sia ascoltata in Italia, dal tempo in cui il socialista Brodolini riuscì a scrivere e a far approvare lo Statuto dei Lavoratori. È molto più estrema e sgraziata la voce della Confindustria di Squinzi che parla di "boiata", ma solo perché non si licenzia abbastanza. -Aveva spazio per agire diversamente la Fornero (ovvero Monti)? Credo di no. Monti va a discutere, ma prima gli hanno detto che cosa doveva esserci in valigia. C’è roba che a noi non serve, ma la richiesta è stata perentoria.
Il fatto è che Fornero è un docente e non un politico. Il politico avrebbe forse fatto capire lo stato di necessità. L’intellettuale si batte per avere quella parte di ragione che pensa di avere. Faccio notare che frasi come la sua sono state pronunciate in questo Paese da tutte le voci di Confindustria, con imprenditori vecchi e giovani da decenni. Però mai l’on. Di Pietro ha commentato parole identiche a quelle di Fornero quando tutto il mondo conservatore italiano le ha pronunciate ai livelli più alti.
Quanto al contrasto stridente tra certe frasi della Fornero e la Costituzione, ho visto che l’articolo de "Il Fatto" (26 giugno) ha già fatto notare l’errore di traduzione. “Job” vuol dire specifico posto di lavoro, e di esso si può dire che te lo devi meritare senza violare la Costituzione. “Work” è il lavoro sia come descrizione del fare una cosa, sia come descrizione di un vasto settore della vita organizzata.
A quanto pare Fornero voleva dire “job” e ha detto (o le hanno fatto dire) “work”. Dunque la discussione con lei e su di lei, come quella con Monti e su Monti, va riportata nell’ambito di una conversazione meno stravolta, persino se quella italiana, oggi, e ormai da troppo tempo, è una vita stravolta.
Lorenza Carlassare: Colpa delle norme in contrasto
L’art.1 proclama la Repubblica “fondata sul lavoro” e già la collocazione assume valore simbolico. La formula, sottolinea Mortati, intende “invertire il valore ai due termini del rapporto proprietà-lavoro, conferendo la preminenza a quest’ultimo sul primo”. Tutelando il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni” l’art.35 intende riferirsi al lavoro non solo manuale, ma anche spirituale e morale. L’art.4 oltre a riconoscere il diritto al lavoro impone alla Repubblica di promuovere le condizioni che lo rendono effettivo. Non è un’inutile proclamazione, ma ha conseguenze giuridiche precise. La Corte lo ha detto chiaramente. E’ un diritto sociale che obbliga lo Stato a una politica di sviluppo economico indirizzata a determinare “una situazione di fatto tale da aprire concretamente alla generalità dei cittadini la possibilità di procurarsi un posto di lavoro” (sent.61/ 1965, 105/1963). Neppure sulla conservazione del posto l’art.4 è privo di effetti: se il diritto al lavoro non è diritto ad ottenere un’occupazione, “ciò non esclude che per i rapporti già costituiti si imponga un’adeguata protezione del lavoratore nei confronti del datore di lavoro” (Corte costituzionale,sent.45/1965). Così la libertà di recedere dal rapporto a tempo indeterminato era divenuta residuale; ora la situazione si sta rovesciando in una politica che tende ad annientare l’intero sistema sociale previsto in Costituzione: ma questa parte è fondamentale nel disegno di una Costituzione fondata sulla persona e la sua dignità. Nonostante l’art.36 la retribuzione e i tempi del lavoro sono ignorati: “la durata massima della giornata lavorativa” sembra dilatarsi a dismisura. Siamo - come dice Rodotà al “neomedievalismo istituzionale”. Diritti e garanzie che circondano il lavoro non si possono infrangere: neppure il diritto a “mezzi adeguati” alle esigenze di vita assicurato ai lavoratori, anche in caso di disoccupazione involontaria: l’art. 38 è infatti una norma che da sostanza al diritto al lavoro quando il lavoro non c’è. La Costituzione pone un chiaro ordine di priorità: primo il lavoro, legato alla dignità della persona. Norme in contrasto sono incostituzionali e i giuristi hanno grosse responsabilità.
CARTA CANTA
ART. 1 L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
ART. 4
ART. 35
ART. 36
ART. 37
ART. 38
La Spoon River della crisi
di Adriano Sofri (la Repubblica, 30 marzo 2012)
Il lavoro rende davvero liberi, perdere il lavoro vuol dire perdere la libertà. Vi sarete accorti che il rogo fotografato a Bologna l’altro ieri somiglia a quello del giovane tibetano a Nuova Delhi del giorno prima. E i titoli, a poche pagine di distanza:Il trentesimo tibetano che si è dato fuoco nell’ultimo anno”, “Nel Veneto, già trenta suicidi di imprenditori”. Ieri un operaio edile di origine marocchina si è dato fuoco davanti al municipio di Verona, è stato soccorso in tempo, era "senza stipendio da quattro mesi".
L’altro ieri il piccolo imprenditore edile a Bologna, accanto alla sede delle Commissioni tributarie. Si può andare indietro e trovarne uno al giorno, operai disoccupati, artigiani, imprenditori. Sta diventando l’altra faccia dei bollettini delle morti cosiddette bianche. Caduti sul lavoro, caduti per il lavoro. Una Spoon River della crisi. Giuseppe C., il bolognese di 58 anni di cui hanno raccontato qui asciuttamente Michele Smargiassi e Luigi Spezia, la sua pagina se l ’è scritta da solo. "Caro amore, sono qui che piango. Stamattina sono uscito un po’ presto, ho avuto paura di svegliarti. Chiedo a tutti perdono". Parole pronte per una bella canzone di Lucio Battisti. L ’ha scritto anche al fisco: "Chiedo perdono anche a voi". Una frase terribile, ora che qualche disgraziato ha messo le sue bombe alle porte di Equitalia, e non si può più dire che "bisognerebbe metterci una bomba".
Imprenditori si impiccano, e curano di farlo nei loro capannoni, nel giorno festivo o fuori dall’orario di lavoro. La classe dirigente, le persone di cui ieri si pubblicano i "maxistipendi", le maxipersone di cui si pubblicano gli stipendi - saranno magari altrettanto commosse dell’umanità minuta per questo stillicidio di immolazioni disperate. Il fatto è che ai nostri giorni i poveri e gli impoveriti e soli che si danno fuoco hanno fatto tremare i potenti del mondo più di un esercito di forconi.
Questo contagio di suicidi è infatti un segno di resa e di solitudine, ma non solo. È una rivendicazione estrema di dignità. Fa ricordare, dopo una lunghissima parentesi, quella onorabilità borghese per la quale ci si vergognava di una rovina, anche la più onesta, e si scriveva una lettera di amore e di perdono alla famiglia. Affare di gente all’antica: con tangentopoli, i suicidi furono pochi e soprattutto "di rango", che li dettasse la protesta o la disperazione, mentre un’intera classe dirigente mostrava una pusillanimità incresciosa, ed è stata quella tempra a farla durare, passata la piena, e continuare come e più di prima, salvo non vergognarsene più e non correre più in presidenza a denunciare il cognato. Quella dignità all’antica sembra ritornata negli operai restati senza lavoro, negli imprenditori che si danno del tu coi propri dipendenti e se ne sentono responsabili, negli stranieri che avevano fatto il loro pezzo di salita e si vedono di colpo riprecipitati in fondo.
È questo, la crisi, per tanti: non sapere più come fare, e non rassegnarsi alla destituzione della propria personalità. Perdere il lavoro vuol dire perdere il proprio posto, fisso o no, nel mondo. E non è vero che lo si ceda al prossimo della fila, quel posto sgombrato. Si sono inventati, non so se prima la parola o il fatto, non so se più offensivo il fatto o la parola, gli esodati. Se non ci fossero sindacati e parti politiche e sollecitatori d’opinione a sostenerli, di quale loro gesto si potrebbe stupirsi? È ora, e non durerà a lungo, il tempo di non lasciarli soli: è già un tempo supplementare. Lo sciopero del 13 aprile è un intervento di protezione civile, una scelta fra la dignità solidale e la commiserazione. Le persone che si arrendono, fino al gesto estremo, sentono d’essere abbandonate, "da tutti".
Creditori che la pubblica amministrazione non paga. Imprenditori cui non mancano le commesse ma la fiducia delle banche. Gli uni e gli altri che finiscono in mano agli strozzini. I più grossi se la cavano meglio: hanno i più piccoli cui negare il dovuto. La vicinanza fra morti sul lavoro e morti per il lavoro non è solo simbolica. La crisi spinge a fare in fretta, a risparmiare sulla sicurezza. Costa 100 euro la macchinetta per misurare l’ossigeno nei siti confinati da ripulire, e però gli operai ci si calano lo stesso, i primi a lavorare, gli altri a soccorrerli, e gli uni e gli altri a soffocarci, dipendenti e padroncini. Si muore sotto vecchi trattori rovesciati senza protezione, nonostante leggi e circolari.
Ieri si dava la cifra di un migliaio di suicidi nell’ultimo anno per ragioni economiche legate alla crisi. E in questa situazione volete ancora parlare di articolo 18? Proprio così. Per dire questo, che non è un argomento tecnico, nemmeno di quella tecnica sindacale che ha un importante valore sociale. È un affare di libertà e di dignità delle persone. Delle persone minuscole, della loro libertà con la minuscola. Benvenuti gli appelli a liberarsi dagli ideologismi (una volta o l’altra bisognerà richiedersi che cosa intendiamo per ideologia). Benvenute le cifre che spiegano come siano rari i casi in cui si è applicato il reintegro previsto dall’articolo 18 (e allora perché ci tenete tanto?). Ci saranno pure di qua cuori con un debole per l’ideologia e menti renitenti alle nude cifre, ma le persone che lavorano sentono dire "libertà di licenziare" e pensano che voglia dire libertà di licenziare. Pensano che se i casi sono stati così rari, dev’essere stato anche grazie a quell’articolo 18. E che una volta che lo si sia tolto di mezzo, i casi diventeranno molto meno rari. Che trasferire sulle spalle dell’operaio l’onere di provare che il suo licenziamento "economico" sia pretestuoso, è l ’inversione della prova.
E soprattutto sentono che perdere il lavoro è come vedersi crollare il mondo addosso, a sé e alla propria casa. La rovina: e le 15 mensilità al posto del lavoro non ripagano la rovina, ma le aggiungono l’umiliazione. Sbagliano governi e parlamenti a fare come se questi fossero affari di preti, di pompieri e di assistenti sociali. Il movimento operaio è passato attraverso l’ideologia del lavoro e anche l’ideologia del non-lavoro. Non ci si dà fuoco da soli, chiedendo di lasciare in pace la propria donna, per un’ideologia. Lo si fa per una fede offesa, come i giovani tibetani, o per una destituzione di sé, come un padre di famiglia italiano di 58 anni.
Monti-Fornero. Il lavoro rende liberi
di Walter Peruzzi [26 mar 2012] *
Mario Monti è proprio imprevedibile. Hai appena finito di pensare al suo riguardo il peggio e lui ti spiazza comportandosi ancora peggio di quanto avresti mai pensato. E’ successo il 24 marzo al convegno di Cernobbio della Confcommercio, dove ha dichiarato che Maroni è stato un «ottimo ministro dell’Interno», che lui avrebbe desiderato avere in questo ruolo nel suo governo.
Avete capito bene. Il razzista Roberto Maroni, quello che ha inventato i respingimenti in mare - con omicidio - per cui l’Italia è stata condannata a Strasburgo; quello che ha imposto una detenzione di 18 mesi nei CIE a immigrati incolpevoli di qualsiasi reato; quello del reato di clandestinità e altre norme incostituzionali: ecco quello lì, per Monti, è un «ottimo ministro dell’Interno».
Questo spiega perché l’attuale ministro dell’Interno (una seconda scelta...) e quello all’Integrazione abbiano fatto molte chiacchiere buoniste ma senza cambiare una sola virgola per quanto riguarda le leggi-vergogna del razzista Maroni e applicando perfino la sua disgustosa tassa sul rinnovo dei permessi di soggiorno. Qualcuno può segnalarlo alla variopinta compagnia che tifa Monti? Qualcuno potrebbe segnalarlo, magari, anche a Camusso, ritratta mentre ride indecentemente a una battuta di Monti sempre pronto ad elogiare (ma non ad applicare in fatto di articolo 18) il «modello tedesco»?
Ma forse il modello tedesco che ha ispirato Monti e Fornero nella loro riforma è quello del Terzo Reich, riassunto sul cancello di ingresso a Dachau: Arbeit Macht Frei (Il lavoro rende liberi).
Uno slogan simbolo della nuova Italia di Monti (e di Maroni) che potrebbe ben figurare come logo di Linea notte, La Repubblica, La Padania, ma anche degli altri quotidiani filomontiani (cioè quasi tutti) e del partito unico ABC. Questo paese in crisi ha tanto bisogno d’unità. Walter Peruzzi
* Il Dialogo, Lunedì 26 Marzo,2012
Carlo Smuraglia: «Il reintegro è come l’uguaglianza nella Costituzione»
di Andrea Fabozzi (il manifesto, 22 marzo 2012)
Senatore, componente del Csm oggi presidente dell’Anpi, Smuraglia è autore di numerose opere sul diritto del lavoro. Memoria storica fondamentale per il paese, avverte: "Stiamo tornando indietro"
Partigiano combattente, professore all’Università di Milano, presidente della regione Lombardia, senatore, componente del Csm e oggi presidente nazionale dell’Anpi, Carlo Smuraglia, classe 1923, è soprattutto un maestro del diritto del lavoro. Fondamentale il suo commento allo Statuto dei lavoratori del 1970.
Professore, gli entusiasti di questa annunciata riforma del mercato del lavoro parlano di «fine di un’epoca», l’epoca cioè del «consociativismo». Siamo davvero a un passaggio storico?
Si può parlare di fine di un’epoca ma solo nel senso che si torna indietro. Cancellando a cuor leggero un principio per il quale si è combattuto per anni, e con ragione. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è il frutto di una stagione di lotte, ma anche del fallimento della legge sul licenziamenti del luglio 1966. In quella legge si prevedeva, appunto, che anche nel caso di licenziamento ingiustificato riconosciuto come tale dal giudice, il lavoratore aveva diritto esclusivamente al risarcimento economico. La grande novità dell’articolo 18 fu il diritto al reintegro. Oggi torniamo al ’66.
Quanto fu difficile l’introduzione del principio dell’articolo 18 nello Statuto dei lavoratori?
Ci fu una discussione accesa in parlamento e ci furono forti pressioni contrarie degli industriali, ma fu soprattutto alla luce dell’esperienza precedente che alla fine il ministro Brodolini accettò il principio.
Ma lo Statuto fu votato da socialisti e democristiani, il Pci e il Psiup si astennero.
Le loro obiezioni erano sulla seconda parte dello Statuto, quella che riguardava la rappresentanza sindacale. Non sul reintegro per il quale si può dire che non ci fossero più dubbi addirittura dagli anni Cinquanta, dal dibattito seguito al famoso licenziamento per motivi politici del dirigente Fiat Battista Santhià. Ci fu un importante convegno nel 1955 in cui molti giuslavoristi introdussero il tema del reintegro e poi la legge del ’66 e infine lo Statuto. Ci vollero degli anni e molti scioperi, tornare indietro rispetto a tutto questo significa non capire cosa vuol dire riconsegnare al datore di lavoro la possibilità di licenziare a propria discrezione.
Ma la riforma Fornero prevede ancora il reintegro per il licenziamento discriminatorio.
Mancherebbe, su quello non ci può essere alcun dubbio. Il licenziamento discriminatorio è un atto nullo per un principio giuridico che non dipende neanche dallo Statuto dei lavoratori, ed è evidente che di fronte a un atto nullo resta in vigore la situazione precedente. Naturalmente la riforma di cui parliamo non dice che il datore di lavoro potrà licenziare a suo piacimento, ma temo che gli effetti saranno questi.
Anche nel caso di licenziamento per motivi economici?
Siamo franchi, quando ci sono delle ragioni economiche reali, una crisi aziendale, si tratta sempre di circostanze oggettive. Ma se il datore di lavoro non riesce a provarle e il giudice stabilisce che il licenziamento è infondato, perché mai non si dovrebbe ripristinare il rapporto di lavoro? Torniamo appunto a prima del ’66: sarà possibile liberarsi di un lavoratore pagando. L’imprenditore deciderà solo sulla base dei suoi costi e dei suoi benefici. E dovremmo aggiungere un altro problema.
Quale?
In molti casi persino il diritto al reintegro nel posto di lavoro si è dimostrato insufficiente, per cui più che smantellarlo si sarebbe dovuto renderlo effettivo. Pensi alla vicenda dei lavoratori Fiat a Melfi che l’azienda si è rifiutata di far tornare al loro posto e capirà come ancora oggi il principio trovi difficoltà di applicazione.
Chi parla della fine di un’epoca lo fa anche con riferimento alla mancata concertazione, anche questo è un passaggio epocale?
Mi sorprende che tutti quelli che in questi anni hanno riconosciuto la convenienza della concertazione adesso si rallegrino che sia stata stracciata. Secondo me si tratta di un errore di valutazione, soprattutto da parte del governo che non ricaverà nulla di positivo da questa scelta di rottura. Per venire incontro alle indicazioni di una parte molto liberista dell’Europa, rinuncia alla pace sociale.
La Cgil pagherà l’isolamento?
Dieci anni fa hanno riempito la piazza sull’articolo 18, è impossibile che i lavoratori abbiano cambiato idea. È vero che siamo in crisi ma i principi valgono anche in tempo di crisi. Cominciare a smantellarli è pericoloso perché non si sa mai dove si finisce. È un discorso analogo a quello che si fa sulla Costituzione. Si può cambiare, ma non si può nemmeno immaginare di toccare i principi fondamentali. E l’articolo 18 nel sistema del diritto del lavoro equivale al principio di uguaglianza nella Costituzione.
NON CI STO!
di don Aldo Antonelli
Insomma, per il fatto che i "Professoriapplomb" siano susseguiti alla fiera delle vacche degli osceni profittatori berlusconizzati non può rendermi digeribili i piatti iniqui ed amari che il governo Monti ci dispensa.
Dopo aver ingoiato i rospi, non mi va di ingoiare i cammelli!
E mi urta la strafottenza spocchiosa di una Fornero che recita: "o così o ci mandate a casa!". Stiamo passando dalla padella alla brace. Prima eravamo il paese con i più bassi redditi, ora si aggiunge che siamo il paese con la più alta età pensionabile.
Prima eravamo il paese più corrotto d’Europa (il quarto per la precisione), ora si aggiunge che siamo il paese con la più grande disparità di trattamento tra manager-tecnici-dipendenti-operai! Stiamo dentro un disegno sadico nel quale i vecchi, i pensionati e gli operai vengono scotennati, mentre gli abbienti e gli evasori se la godono indisturbati.
Siamo alla demolizione totale dello Stato Democratico così come è nato dalle lotte del dopoguerra e come è salvaguardato dalle Costituzioni e si pongono le fondamenta di uno stato liberalfascista a piena disposizione delle esigenze del mercato e della finanza.
Scrive Raniero La Valle sul n. 5 di Rocca:
«La necessaria austerità economica, il salutare riordinamento dei conti pubblici stanno diventando in effetti in tutta Europa il paravento dietro il quale si gioca una partita che riguarda la figura stessa dello Stato; i predicatori del «più società meno Stato», dello «Stato minimo», i sostenitori del monopolio privato dell’economia, i denigratori della politica, i liberalizzatori ad oltranza, gli odiatori del fisco sentono arrivato il loro momento, come se fosse a portata di mano una vittoria irreversibile: il processo di restaurazione dello Stato liberale nella sua versione fondamentalista - legge e ordine a garanzia del libero gioco dei ricchi nei mercati - potrebbe oggi trovare il suo compimento. Ciò che nei singoli Stati non era stato possibile per la resistenza opposta dai movimenti sociali e dalle Costituzioni, può oggi realizzarsi nel quadro di un capitalismo elevato a regime istituzionale e politico a livello europeo, dove il potere, sovrano in quanto unico a battere moneta, è esercitato in uno spazio dove la democrazia non arriva, il controllo popolare e rappresentativo non esiste, e la voce dei movimenti non giunge se non per gli echi delle proteste disperate che si scatenano nelle piazze più colpite».
Chi vuole sfasciare il Pd
La Terza Repubblica è servita
Non cessa il pressing sul partito di Bersani che accettando la forzatura del governo rischia di implodere
Mentre prende forma il “partito di Monti” i Democratici si attestano sull’ultima trincea
di Paolo Flores d’Arcais (il Fatto, 23.03.2012)
Il governo di Napolitano ha deciso di fare della mazzata contro lo “Statuto dei lavoratori” il forcipe per dare alla luce la Terza Repubblica. L’articolo 18 è un puro pretesto. Costituisce il baluardo residuo per la dignità del lavoratore, e per questo va difeso con adamantina intransigenza da ogni persona civile, ma i suoi effetti pratici sono da tempo irrisori. Perché allora il governo ne fa una questione ultimativa, di battaglia campale? Perché vuole vincerla apparendo sfacciatamente il “governo dei padroni”, quando tutti i governi dei padroni hanno sempre cercato di dissimulare la propria natura di classe? Perché lo scopo è esattamente questo: umiliare e distruggere quanto resta in Italia di sindacato non americanizzato, non subalterno, non “sindacato giallo”.
La prima e vituperanda Repubblica, dall’egemonia democristiana al Caf, lasciava sopravvivere due vestigia comunque positive: forze sindacali riconosciute come soggetti di concertazione, e la logica sacrosanta dell’arco costituzionale. Quest’ultima è stata abbattuta dal berlusconismo, talché i Gasparri, i La Russa e altri Santanchè sono stati legittimati come parte della vita pubblica e civile, benché il loro mood neo-ex-post fascista resti quello dell’odio per la democrazia nata dalla Resistenza. La prima verrà archiviata ora, se lo sciopero generale proclamato dalla Camusso non vorrà trasformarsi in un nuovo Circo Massimo di rivolta morale nazionale, in cui la Cgil chiami a raccolta accanto ai lavoratori tutte le energie della società civile refrattaria al pensiero unico.
Altrimenti andrà in porto la Terza Repubblica: dal nuovo “arco costituzionale” (che della Costituzione calpesterà non pochi articoli, a partire dal “... fondata sul lavoro”) saranno banditi, come se avessero qualcosa di comune e paragonabile, tanto gli spurghi di razzismo e secessionismo della Lega quanto la volontà di realizzare la Costituzione delle forze che ancora invocano “giustizia e libertà”: Sel, Idv, la minoranza del Pd che non si piegherà alla cura Napolitano, e soprattutto settori sindacali e società civile. Legittimato resterà solo il corpaccione di una mega neo-Dc, più che mai monopolista dei media e più che mai golosa di leggi ad personam e di “basta col concorso esterno”, da Casini ad Alfano (col Putin di Arcore gongolante sullo sfondo). Di cui l’attacco all’articolo 18 è la perfetta conseguenza. Il regresso è servito.
Cofferati: errori anche su atipici e ammortizzatori
"Senza modifiche radicali il Pd dovrà votare contro"
Il governo vuole riorganizzare una cosa che non c’è, il lavoro
Meglio concentrarsi sulla crescita economica
di Giovanna Casadio (la Repubblica, 23.03.2012)
ROMA - «Lotta dura e cambiamenti profondi da parte del governo sulla riforma del lavoro. Se non avverranno il Pd deve votare contro il testo annunciato. Così com’è non può essere votato dai Democratici». Sergio Cofferati, eurodeputato del Pd, è stato il segretario della Cgil che ha portato in piazza tre milioni di lavoratori contro il tentativo di Berlusconi di cancellare l’articolo 18.
Però si annunciano alcune modifiche, non le ritiene sufficienti, onorevole Cofferati?
«Aggiustamenti piccoli non potrebbero bastare. Il Pd deve fare una battaglia determinata in Parlamento, la piazza in questo caso è dei sindacati, della Cgil».
Lei boccia del tutto questa riforma?
«Io penso innanzitutto che la discussione sul mercato del lavoro è fuorviante. Un ragazzo, una ragazza che non hanno lavoro guardano a questo dibattito con sorpresa o contrarietà. Il tema principale è la crescita: siamo in piena recessione, aumenta la disoccupazione e la povertà e il governo Monti impegna le sue energie a discutere la riorganizzazione di una cosa che non c’è. Questa cosa che manca è il lavoro».
Non si sta parlando di questo, di come cioè crearlo?
«È priva di qualsiasi fondamento l’idea che la riorganizzazione del mercato del lavoro possa fare crescere l’economia. Tra il 2002 - quando fermammo la manovra di Berlusconi di cancellare l’articolo 18 - e il 2008 l’economia italiana è cresciuta. Poi è arrivata in Europa la crisi nata negli Usa».
Quindi "no" a questa riforma dell’articolo 18 anche a costo di fare cadere il governo?
«La vita del governo Monti è nelle mani del governo Monti, non della maggioranza che lo sostiene: cambi robustamente il testo e avrà lunga vita».
Cos’altro non le piace di questa riforma?
«Il quadro complessivo è negativo non solo su articolo 18 ma anche sui contratti atipici e sugli ammortizzatori. Nella proposta del governo l’articolo 18 è vanificato perché si dà la possibilità a qualsiasi impresa di licenziare adducendo i motivi economici».
Lo spot della Chiesa spagnola: “Vuoi il posto fisso? Fatti prete” *
Un po’ di luce, verrebbe da dire, calata dall’alto. Con la disoccupazione degli under 25 al 50% la Spagna arranca. Ed è così che il lavoro garantito diventa un miracolo. E la Chiesa spagnola pare essersi attrezzata con una campagna di marketing virale “Te prometo una vida apasionante”. Il messaggio: vuoi un posto fisso? Un contratto a tempo indeterminato? E una vita appassionante? Fatti prete. Il videoclip della Conferenza episcopale spagnola (Cee) per stimolare nuove vocazioni è cliccatissima, è costata 7 mila euro è stata diffusa attraverso YouTube, Facebook e Twitter.
* il Fatto, 23.03.2012
I vescovi: l’uomo non è una merce
Soluzioni condivise
di Roberto Monteforte (l’Unità, 23 marzo 2012)
Non è lo scontro che serve al Paese. Soprattutto in questa fase. Chi può essere così sicuro che con la riforma dell’articolo 18 si risolva il problema della precarietà? Non ci si rende conto di quanto sia grave lo strappo con la Cgil, il maggiore sindacato italiano? E poi il lavoratore «non è una merce da eliminare per questioni di bilancio», ma una persona e come tale da rispettare.
Sono critiche di fondo quelle che monsignor Giancarlo Bregantini, arcivescovo di Campobasso- Bojano, presidente della commissione lavoro alla Cei e con un passato in fabbrica, muove al governo Monti. In un’intervista a Famiglia Cristiana esprime con chiarezza tutte le sue preoccupazioni per gli effetti concreti della riforma Monti-Fornero e soprattutto per la scarsa attenzione data alla dignità dell’uomo. «Con questa riforma la precarietà sarà vinta? O addirittura aumenterà?», si domanda. Parla a titolo personale il responsabile Cei per il lavoro e le questioni sociali, a pochi giorni dall’apertura del Consiglio Permanente dei vescovi.
Ma dopo che le agenzie hanno lanciato la sua intervista, anche la Cei prende ufficialmente
posizione con il suo portavoce, monsignor Domenico Pompili. «La situazione del mondo del lavoro
afferma Pompili - costituisce un assillo costante dei vescovi. La dignità della persona passa per il
lavoro riconosciuto nella sua valenza sociale». «La Conferenza episcopale italiana - conclude -
segue con attenzione le trattative in corso, confidando nel contributo responsabile di tutte le parti in
campo, al fine di raggiungere una soluzione, la più ampiamente condivisa». Così la posizione di
Bregantini trova copertura.
Le sue sono le preoccupazioni della Chiesa che è in prima linea nel fronteggiare la crisi economica e sociale. «I licenziamenti economici - afferma il vescovo - rischiano di generare un clima di paura in tutto il Paese». Teme che nelle aziende e nelle famiglie monti «un’ondata di terrore» per paura di vedersi licenziati per motivazioni economiche o organizzative. E aggiunge: «Una siepe protettiva sui licenziamenti economici bisognava metterla». Da qui il suo appello rivolto soprattutto ai politici perché «si possa creare una rete di diritti e di protezioni più solida».
Invoca coesione. Lasciare fuori la Cgil per questo lo giudica «un grave errore», come pure considerare questo una cosa «data quasi per scontata», come se non fosse «una cosa preziosa» per la riforma del lavoro avere il consenso del primo sindacato italiano. Va tenuto conto, infatti, che «dietro questa fetta di sindacato vi è tutto un mondo importante, cruciale da coinvolgere per camminare verso il futuro». L’altra critica è ai tempi stretti imposti per una riforma di questa portata e quel perentorio «la partita è chiusa» del premier Monti, mentre sarebbe stato necessario aprire il dialogo in Parlamento, nei luoghi di lavoro e nel Paese.
Ma è un tema etico di fondo quello che Bregantini pone di fronte ai licenziamenti «chiamati elegantemente, “flessibilità in uscita”». «Il lavoratore è persona o merce?». «Non lo si può trattare - scandisce - come un prodotto da dismettere, da eliminare per motivi di bilancio, perché resta invenduto». Poi osserva come in politica l’aspetto tecnico stia diventando prevalente su quello etico. Come sia eccessiva la «sintonia» tra profitto e aspetto tecnico.
Un promemoria della Chiesa per il premier Monti e il ministro Fornero e per tutti i cattolici impegnati in politica. Lo rilanciano in molti, da Rosy Bindi a Leonluca Orlando, che chiedono al governo di ascoltare la Cei.
APPELLO ALLE COMUNITA’ CRISTIANE
LA DITTATURA DELLA FINANZA : ABBIAMO TRADITO IL VANGELO?
di Alex Zanotelli *
In questo periodo quaresimale sento l’urgenza di condividere con voi una riflessione sulla ‘tempesta finanziaria’ che sta scuotendo l’Europa , rimettendo tutto in discussione :diritti, democrazia, lavoro....In più arricchendo sempre di più pochi a scapito dei molti impoveriti.Una tempesta che rivela finalmente il vero volto del nostro Sistema: la dittatura della finanza. L’Europa come l’Italia è prigioniera di banche e banchieri. E’ il trionfo della finanza o meglio del Finanzcapitalismo come Luciano Gallino lo definisce :“Il finanzcapitalismo è una mega-macchina ,che è stata sviluppata nel corso degli ultimi decenni, allo scopo di massimizzare e accumulare sotto forma di capitale e insieme di potere, il valore estraibile sia del maggior numero di esseri umani sia degli eco-sistemi.”
Estrarre valore è la parola chiave del Finanzcapitalismo che si contrappone al produrre valore del capitalismo industriale, che abbiamo conosciuto nel dopoguerra. E’ un cambiamento radicale del Sistema!
Il cuore del nuovo Sistema è il Denaro che produce Denaro e poi ancora Denaro. Un Sistema basato sull’azzardo morale, sull’irresponsabilità del capitale , sul debito che genera debito.E’ la cosidetta “Finanza creativa” , con i suoi ‘pacchetti tossici’ dai nomi più strani(sub-prime, derivati,futuri, hedge-funds...) che hanno portato a questa immensa bolla speculativa che si aggira, secondo gli esperti, sul milione di miliardi di dollari! Mentre il PIL mondiale si aggira sui sessantamila miliardi di dollari. Un abisso separa quei due mondi:il reale e lo speculativo. La finanza non corrisponde più all’economia reale. E’ la finanziarizzazione dell’economia.
Per di più le operazioni finanziarie sono ormai compiute non da esseri umani, ma da algoritmi, cioè da cervelloni elettronici che, nel giro di secondi, rispondono alle notizie dei mercati. Nel 2009 queste operazioni, che si concludono nel giro di pochi secondi, senza alcun rapporto con l’economia reale, sono aumentate del 60% del totale. L’import-export di beni e servizi nel mondo è stimato intorno ai 15.000 miliardi di dollari l’anno. Il mercato delle valute ha superato i 4.000 miliardi al giorno: circolano più soldi in quattro giorni sui mercati finanziari che in un anno nell’economia reale. E’ come dire che oltre il 90% degli scambi valutari è pura speculazione.
Penso che tutto questo cozza radicalmente con la tradizione delle scritture ebraiche radicalizzate da Gesù di Nazareth.Un insegnamento, quello di Gesù, che ,uno dei nostri migliori moralisti,don Enrico Chiavacci, nel suo volume Teologia morale e vita economica , riassume in due comandamenti, validi per ogni discepolo:” Cerca di non arricchirti “ e “Se hai, hai per condividere.”
Da questi due comandamenti , Chiavacci ricava due divieti etici: “divieto di ogni attività economica di tipo eslusivamente speculativo” come giocare in borsa con la variante della speculazione valutaria e ” divieto di contratto aleatorio”.Questo ultimo ,Chiavacci lo spiega così :” Ogni forma di azzardo e di rischio di una somma, con il solo scopo di vederla ritornare moltiplicata, senza che ciò implichi attività lavorativa, è pura ricerca di ricchezza ulteriore.” Ne consegue che la filiera del gioco, dal ‘gratta e vinci’ al casinò ,è immorale.
Tutto questo , sostiene sempre Chiavacci ,“ cozza contro tutta la cultura occidentale che è basata sull’avere di più. Nella cultura occidentale la struttura economica è tale che la ricchezza genera ricchezza”.
Noi cristiani d’Occidente dobbiamo chiederci cosa ne abbiamo fatto di questo insegnamento di Gesù in campo economico-finanziario. Forse ha ragione il gesuita p.John Haughey quando afferma :”Noi occidentali leggiamo il vangelo come se non avessimo soldi e usiamo i soldi come se non conoscessimo nulla del Vangelo.” Dobbiamo ammettere che come chiese abbiamo tradito il Vangelo , dimenticando la radicalità dell’insegnamento di Gesù :parole come ” Dio o Mammona,”o il comando al ricco:”Và, vendi quello che hai e dallo ai poveri”.
In un contesto storico come il nostro, dove Mammona è diventato il dio-mercato, le chiese, eredi di una parola forte di Gesù, devono iniziare a proclamarla senza paura e senza sconti nelle assemblee liturgiche come sulla pubblica piazza.
L’attuale crisi finanziaria “ha rivelato comportamenti di egoismo, di cupidigia collettiva e di accaparramento di beni su grande scala-così afferma il recente Documento del Pontificio Consiglio di Giustizia e Pace( Per una riforma del Sistema finanziario e monetario internazionale). Nessuno può rassegnarsi a vedere l’uomo vivere come ‘homo homini lupus’ ”.
Per questo è necessario passare, da parte delle comunità cristiane, dalle parole ai fatti, alle scelte concrete, alla prassi quotidiana:”Non chiunque mi dice: ‘Signore, Signore’ entrerà nel Regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio”.(Matteo, 7,21)
Come Chiese,dobbiamo prima di tutto chiedere perdono per aver tradito il messaggio di Gesù in campo economico-finanziario, partecipando a questa bolla speculativa finanziaria( il grande Casinò mondiale).
Ma pentirsi non è sufficiente, dobbiamo cambiare rotta, sia a livello istituzionale che personale.
A livello istituzionale(diocesi e parrocchie):
promuovendo commissioni etiche per vigilare sulle operazioni bancarie ;
invitando tutti al dovere morale di pagare le tasse;
ritirando i propri soldi da tutte le banche commerciali dedite a fare profitto sui mercati internazionali;
investendo i propri soldi in attività di utilità sociale e ambientale, rifiutandosi di fare soldi con i soldi ;
collocando invece i propri risparmi in cooperative locali o nelle banche di credito cooperativo;
privilegiando la Banca Etica, le MAG (Mutue auto-gestione) o le cooperative finanziarie.
rifiutando le donazioni che provengono da speculazioni finanziarie, soprattutto sul cibo, come ha detto recentemente Benedetto XVI nel suo discorso alla FAO.
A livello personale ogni cristiano ha il dovere morale di controllare:
in quale banca ha depositato i propri risparmi;
se è una” banca armata”, cioè investe soldi in armi;
se partecipa al grande casinò della speculazione finanziaria;
se ha filiali in qualche paradiso fiscale;
se ottiene i profitti da ‘derivati’ o altri ‘pacchetti tossici’.
“Le banche ,che dopo aver distrutto la nostra economia, sono tornate a fare affari- scrive il pastore americano Jim Wallis- devono ricevere un chiaro messaggio che noi troviamo la loro condotta inaccettabile.Rimuovere i nostri soldi può fare loro capire quel messaggio.”
Ha ragione don Enrico Chiavacci ad affermare:”Questa logica dell’avere di più e della massimizzazione del profitto si mantiene attraverso le mille piccole scelte ,frutto di un deliberato condizionamento. Le grandi modificazioni strutturali, assolutamente necessarie, non potranno mai nascere dal nulla:occorre una rivoluzione culturale capillare. Se è vero che l’annuncio cristiano portò all’abolizione della schiavitù, non si vede perché lo stesso annuncio non possa portare a una paragonabile modificazione di mentalità e quindi di strutture. Il dovere di testimonianza, per chi è in grado di sfuggire a una presa totale del condizionamento,è urgente.”
Buona Pasqua di Risurrezione a tutti!
Alex Zanotelli
Napoli,22 marzo 2012
* Il Dialogo, Venerdì 23 Marzo,2012
Ma il consenso è un valore anche in Europa
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 23.03.2012)
Il governo Monti sta commettendo il suo primo serio errore? Certamente ha toccato il punto nevralgico della sua doppia natura «tecnica» e «politica», su cui si è equivocato sino ad oggi.
Dopo l’efficace colpo di mano sulle pensioni giocato tutto sul panico-spread, dopo la deludente debole azione sulle liberalizzazioni, la coppia Monti-Fornero (con il silenzio un po’ strano degli altri presunti membri «forti» del governo) ha tentato la mossa energica della riforma del mercato del lavoro, senza rendersi conto che la posta in gioco è mutata rispetto alle altre iniziative. Non perché i sindacati siano soggetti sociali privilegiati o diversi rispetto agli altri, ma perché l’oggetto della mediazione è di natura diversa. Nella nostra società il concetto stesso di lavoro ha - giustamente - acquistato un significato che va al di là dei suoi indicatori economici.
Da qui l’ambiguità dell’espressione «liberalizzazione del mercato del lavoro», così come viene disinvoltamente recitata nei talk-show. C’è chi la ripete meccanicamente, considerandola la soluzione di tutti i mali sociali, economici e fiscali del paese, confondendola di fatto volentieri con la libertà di licenziamento - come se questa fosse la chiave della crescita. Naturalmente giura che non è vero. Ma è un fatto che da giorni il discorso gira e si incaglia sulle motivazioni e sulle tipologie del licenziamento. Chi diffida di questa impostazione del problema o comunque ne vede i gravi limiti e pericoli si espone al sospetto di essere un veterocomunista.
Nel frattempo tutta la polemica si è sedimentata attorno all’art. 18 e alla sua modifica. E’ giusto ricordare che le iniziative del governo Monti sono molto più ampie e innovative rispetto alle proposte di riforma dell’articolo incriminato. Ma se questo articolo ha acquistato di fatto - piaccia o no - un valore simbolico tanto forte, ci deve essere un motivo. Se si cerca di andare al fondo dei termini della polemica, si ha l’impressione di trovarci talvolta di fronte ad un processo alle intenzioni. Questa non è un’osservazione banale: è messa in gioco la fiducia reciproca tra governo e parti sociali. Si tocca la sostanza del consenso democratico. E’ un fatto politico.
Siamo così al punto nevralgico di questo «strano» governo, tra competenza tecnica e legittimità politica. Mario Monti - per quanto sappiamo sino a questo momento - ha dichiarato che presenterà le sue proposte al Parlamento corredate con un verbale ufficiale in cui sono illustrati i risultati dei contatti avuti nelle settimane scorse con le parti sociali. Non è ancora chiaro invece quale procedura di approvazione sarà adottata. E’ una singolare novità. Soprattutto perché è accompagnata da alcune forti dichiarazioni sulla «fine concertazione». Confesso che non mi è chiaro il senso di questa insistenza. Il comportamento del governo è del tutto legittimo, data la sua natura particolare, senza bisogno che ricorra ad una enfatica presa di distanza dalla concertazione come se fosse sinonimo di cattivo consociativismo o di inciucio politico-sociale.
Non insisto su questo equivoco, salvo far osservare ai tanti tedescofili improvvisati che spuntano ora nel nostro Paese (anche a proposito dell’art. 18) che la concertazione è stato uno dei fondamenti del sistema tedesco che continua a vivere di una cultura e istituzionalizzazione del consenso sociale inconcepibile per la nostra cultura politica. Non si può scegliere dal «modello tedesco» quello che più fa comodo ignorando tutto il resto.
Ma torniamo nel nostro Parlamento che dovrà affrontare anch’esso la sua prima prova seria da quando ha dato il suo sostegno al governo Monti. Il presidente del Consiglio guarda all’Europa - continua a ripeterlo, giustamente soddisfatto dello straordinario guadagno di immagine e di fiducia raggiunto in breve tempo dal nostro Paese. Ma qual è esattamente «l’Europa» a cui si riferisce Monti? La Banca centrale europea, alcuni membri della Commissione europea, la cancelliera Merkel, soddisfatta dei «compiti a casa» fatti sinora dagli italiani? E’ tempo che Monti argomenti meglio la dimensione europea della sua azione di governo, senza riferirsi esclusivamente agli indicatori di mercato, alle Borse o ad altri dati del cui valore relativo lui stesso è ben consapevole.
Mi auguro che Monti, consegnando al Parlamento il suo piano di riforma del lavoro, non affermi che soltanto esso - così come è scritto - ci metterebbe in sintonia con «l’Europa», con il sottinteso che la sua bocciatura ci allontanerebbe dall’Europa stessa. Non è così. Ricordo molto bene che in una dichiarazione delle prime settimane, Monti stesso ha detto che i sacrifici che gli italiani si stavano preparando a sostenere non erano un «diktat» dell’Europa (o della sua banca), ma una necessità oggettiva che rispondeva agli interessi di tutti gli italiani. E questi il loro consenso, sofferto, lo hanno dato. Oggi la problematica del mercato del lavoro è più complicata, ma il criterio dovrebbe essere lo stesso. Non si tratta di mirare ad un accordo «consociativo» che i severi «tecnici» disapprovano. Ma di ricercare una intesa ragionevole accogliendo obiezioni ragionevoli. Suppongo che anche «i tecnici» sappiano quale risorsa straordinaria e insostituibile per l’efficienza del sistema lavorativo sia il consenso sociale.
Battaglia decisiva
di Claudio Sardo (l’Unità, 25.03.2012)
La riforma del mercato del lavoro contiene novità positive e misure, benché parziali, volte a correggere antiche storture (ad esempio sul lavoro femminile). Anche nel contrasto al precariato e in tema di ammortizzatori sociali ci sono segni incoraggianti, da rafforzare in Parlamento. L’articolo 18 non è tutto. Ma il vulnus del governo sull’articolo 18 è così grave da oscurare quel che di buono c’è nella riforma. Per questo va cambiato. La gravità sta innanzitutto nel merito: se il licenziamento per motivi economici, per quanto immotivato, consentisse comunque all’impresa medio-grande di liberarsi (salvo indennizzo) di un lavoratore, è chiaro che verrebbe stravolto l’equilibrio dei diritti.
Verrebbe stravolto a danno del dipendente. E non sarà certo un passaggio formale all’Ufficio del lavoro a scongiurare l’abuso. Luigi Mariucci spiega bene sul giornale di oggi perché, sul punto, le prime toppe cucite dal governo rischiano di essere peggiori del buco. C’è invece un modo semplice per evitare gli arbitrii: consentire al giudice la facoltà di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Attualmente il reintegro è la sola sanzione al licenziamento senza giusta causa: offrire al giudice il duplice strumento, reintegro o indennizzo, è un elemento di flessibilità tutt’altro che disprezzabile, tanto che fino a poco tempo fa veniva invocato come frontiera del riformismo e dell’innovazione.
È grave, e anche preoccupante, che il governo abbia imboccato una via di ostilità, anziché la ricerca di maggiore coesione. Lo è ancor più davanti alle aperture che giungevano dal movimento sindacale, Cgil compresa. La ragione politica dello «strappo» compiuto dal governo è tuttora una questione aperta che riguarda il destino della legislatura e il rapporto con le forze che sostengono l’esecutivo. La disponibilità di Monti a correzioni in Parlamento, rafforzata dal saggio patrocinio del Capo dello Stato, è senza dubbio positiva: speriamo che si arrivi a una completa riparazione del danno, perché altrimenti verrebbero compromesse le fondamenta di questa stagione di convergenza nazionale. Di certo non ha senso giustificare il premier, come fanno alcuni, perché intanto ha voluto lanciare un messaggio forte ai mercati (nel senso di esibire uno «scalpo»). Il premier avrebbe potuto mostrare da subito assai di più: un consenso ampio attorno a una riforma così importante. L’Italia è più forte con la coesione sociale: basta ricordare i tempi del governo Ciampi.
Peraltro lo squilibrio di questa modifica all’articolo 18 tocca principi costituzionali, che sono essi stessi valori di coesione. L’Italia è una Repubblica «fondata sul lavoro» espressione del personalismo cristiano e delle culture solidariste e pone dubbi radicali una norma concepita al solo scopo di monetizzare un licenziamento, anche quando questo costituisca un abuso. Reintrodurre il reintegro tra le facoltà del giudice, insomma, è necessario. In ogni caso non c’è alcun interesse nazionale alla frattura sociale, tanto più se la convergenza è possibile attorno a un testo di segno riformista.
Ha scritto bene Stefano Folli sul Sole 24 ore: «Davvero la sconfitta della Cgil e la spaccatura del Pd sono obiettivi più importanti del varo di una riforma decente?». Purtroppo c’è un coro di cattivi consiglieri che continua a inseguire il premier, ripetendo la favola di un centrosinistra che detesta l’impresa e regredisce nel vetero-laburismo. Che c’entra il disprezzo verso l’impresa con la constatazione che una modifica dell’articolo 18, come formulata nel ddl attuale, sarebbe un’obiettiva «facilitazione» dei licenziamenti? Per fortuna il neo presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha usato parole di verità nel dire che «non è l’articolo 18 a fermare lo sviluppo italiano» e che la Cgil rappresenta per lui un interlocutore «ragionevole» («Non è mai stato un problema trovare un’intesa anche più vantaggiosa di quella raggiunta da altri in altre condizioni»).
Squinzi poteva avere convenienza a non esporsi così oggi. La sua onestà intellettuale fa ben sperare. Per riportare l’Italia in serie A c’è grande bisogno di coraggio e di serietà. È giusto che l’impresa sia aiutata a crescere e produrre ricchezza, è giusto che ognuno difenda i propri interessi, ma guai a perdere di vista il bene comune.
La coesione sociale è uno dei beni più preziosi. Dopo quanto è accaduto non sarà facile rimediare al vulnus dell’articolo 18 e consentire così alla riforma di liberare le potenzialità positive. Bisognerà lottare. Dentro e fuori il Parlamento. Purtroppo il Pdl continua a occuparsi più dei possibili danni al Pd che non degli interessi del Paese. Tuttavia cresce il consenso al cambiamento di quella norma ingiusta. Il passaggio è decisivo. Perché si tratta di ricondurre il governo Monti alla sua missione originaria: un governo di transizione che affronta l’emergenza sulla base di una larga convergenza e non un laboratorio di confuse operazioni politiche. E perché è ora di mettere finalmente in cima all’agenda il tema della crescita.
Il segretario del più grande sindacato va in tv e invita Monti a tornare indietro sull’articolo 18
Cgil, lo sciopero si farà a maggio
Susanna Camusso attacca il governo: «Monti ha sbagliato i calcoli, credeva che senza di noi avrebbe avuto più consenso, ma non è così». Il leader della Cisl Raffaele Bonanni chiede «dialogo senza estremismi»
di Massimo Franchi (l’Unità, 26.03.2012)
«Il calcolo sbagliato di Monti», «la necessità del dialogo senza estremismi». Da una parte Susanna Camusso, dall’altra Raffaele Bonanni. Domenica televisiva per i leader dei due maggiori sindacati. Le domande dirette che vanno all’osso delle questioni di Lucia Annunziata per il segretario generale della Cgil, il dibattito nazional-popolare de “l’Arena” di Giletti a “Domenica In” per il leader della Cisl. Pubblici diversi, messeggi altrettanto differenziati.
Per Susanna Camusso «nella trattativa sulla riforma del lavoro il presidente del Consiglio ha sbagliato calcolo, pensava che chiudere dando per acquisito che la Cgil non ci stava gli avrebbe dato forza nell’opinione. Non è così, è stato un calcolo sbagliato di Monti». Poi la previsione: «Continuerà un movimento molto serio che premerà sul Parlamento affinché cambi: il Parlamento non può essere impermeabile al Paese». Il leader Cgil ha ribadito che «la partita non è chiusa», rispondendo per le rime al presidente del Consiglio per il quale l’atteggiamento del governo rispetto alle parti sociali ha avvicinato «la Costituzione materiale a quella formale»: «la Costituzione formale prevede che la Repubblica sia fondata sul lavoro e l’Italia in questo modo si sta allontanando da questa previsione».
Sul tema sempre caldissimo dell’articolo 18, la richiesta, reiterata, della Cgil è quella di «trovare una soluzione che reintroduce in tutte le tipologie il reintegro, quello è deterrente», seguendo dunque ad esempio il «modello tedesco».
In collegamento ci sono i delegati sindacali della Mapei, l’azienda del neo-presidente di Confindustria Giorgio Squinzi. Ecco allora che Camusso traccia un parallelo fra lui e il suo predecessore Emma Marcegaglia. Non ci saranno grossi cambiamenti nelle «dinamiche di Confindustria», «certo si potrebbero abbassare i toni», visto che la precedente presidenza era «molto ansiosa di dichiarare l’articolo 18 finito: è sbagliato e non fa bene».
Conferme anche sugli scioperi. «In questi giorni crescono in tutti i luoghi di lavoro», la Cgil seguirà tutto l’iter parlamentare e «lo sciopero generale potrebbe arrivare alla fine di maggio». La data sarà comunque decisa dalla segreteria nei prossimi giorni, tenendo conto del cammino del disegno di legge in Parlamento: lo sciopero generale quindi potrebbe essere indetto «anche prima».
L’ultimo capitolo affrontato riguarda il tema della rottura sindacale registrata martedì davanti a Monti e la possibilità che la si ricostruisca presto, Camusso usa il realismo: «Siamo impegnati a ricostruire l’unità ma ciò che non lo ha permesso è che quando il governo ha forzato, l’unità è sparita».
BONANNI E LA GIACCA DELLA CAMUSSO
Meno di un’ora dopo, Raffaele Bonanni le risponde a distanza: «La politica è malapolitica quando viene gestita dagli estremismi» e «anche in questa vicenda del mercato del lavoro tutto è stretto da estremismi che non favoriscono una via d’uscita autorevole e ragionevole», attacca il segretario generale della Cisl. Poi arriva il «timore» diretto verso la leader Cgil: «Ho il timore che Camusso abbia la giacca tirata da realtà estremistiche al proprio interno». «La soluzione migliore è quella di far dialogare le parti per trovare una mediazione e una via d’uscita in un’Italia che rischia di non avere più un investitore». Quanto alla riforma dell’articolo 18, Bonanni ribadisce di prendersi il merito del ravvedimento del governo sugli abusi possibili sui licenziamenti economici: «Monti, su nostra richiesta e per evitare abusi ha sottolineato il leader Cisl ha detto che farà una norma che stringerà le maglie» per definire i requisiti per i licenziamenti giustificati da cattiva situazione economica delle aziende, «da quelli di altra natura».
UILM NON ESCLUDE SCIOPERO
Il vento di sciopero soffia anche in casa Uil. «Non escludiamo lo sciopero», ha detto ieri Rocco Palombella segretario generale dei metalmeccanici (Uilm) che mercoledì riunisce il direttivo e in quella sede potrebbe anche arrivare chiedere ad Angeletti di indire lo sciopero generale o decidere lo sciopero di categoria. Una scelta che il segretario generale ha detto di «comprendere».
L’ideologia dei tecnici non ha nulla di neutrale
di Michele Ciliberto (l’Unità, 26.03.2012)
I n molti si sono meravigliati per la durezza e l’intransigenza con cui il presidente del Consiglio Mario Monti e il suo ministro Elsa Fornero hanno fin qui rifiutato di modificare il testo della riforma del mercato del lavoro, accogliendo le critiche e i suggerimenti che erano stati loro rivolti.
La riforma presenta aspetti interessanti, riconosciuti da tutti, anche dalla Cgil. Perché resistere in questo modo e mettere a repentaglio un risultato importante, creando difficoltà al Pd e rischiando persino una crisi di governo? Credo che la risposta sia semplice ed evidente: perché nella scelta del governo si esprime in modo del tutto legittimo, ma intransigente, l’ideologia di Monti e di Fornero (e uso questo termine in senso forte, non, debolmente, come «falsa coscienza»). Un’ideologia assai potente, presentata come un elemento oggettivo, tecnico, ma imperniata su due elementi di fondo: il primato del mercato che deve essere lasciato libero di muoversi in modo spontaneo, senza interferenze esterne di qualunque genere esse siano; il rifiuto del principio della mediazione, da cui discende quello della «concertazione». Si discute con i sindacati o con i partiti, ma la responsabilità di prendere la decisione è solo e soltanto del governo. «In passato si è dato troppo ascolto alle parti sociali», ha detto due giorni fa il presidente del Consiglio, ribadendo la non negoziabilità della riforma del lavoro.
Si potrebbero citare molti esempi a conferma di questa ideologia: il ministro Fornero ha argomentato il rifiuto a una modifica dell’articolo 18 sostenendo che solo il padrone della fabbrica e non certo il giudice è in grado di stabilire se e quando licenziare un dipendente; il presidente Monti ha sostenuto che la Fiat deve ricordarsi di quanto l’Italia ha fatto per lei, ma può investire dove ed quando vuole.
Questo sul piano dei contenuti. Sul piano della forma il governo ha proceduto sia con le pensioni che con il mercato del lavoro in un modo altrettanto coerente con questa ideologia: intervenendo «dall’alto», con un atteggiamento di tipo «giacobino», senza un reale confronto con le parti sociali e le forze politiche con un netto rifiuto, come si è detto, della «mediazione», vista come origine di tutti i mali. In breve: si tratta di un’ideologia compatta, organica, della quale occorre prendere piena coscienza per capire dove il governo si propone di guidare la società italiana. Un’ideologia confermata da quella battuta, a dire il vero raggelante, che il premier avrebbe rivolto a Camusso: «Dobbiamo avvicinare la Costituzione formale a quella materiale».
La domanda da porre, con spirito costruttivo, è questa: il governo Monti ha avuto, certo, meriti importanti ed è stato giusto favorire la sua nascita e sostenerlo, ma l’Italia ha bisogno di questa ideologia per riprendere a svilupparsi e crescere? È questo il riformismo di cui ha oggi bisogno il nostro Paese? Non si tratta di una ideologia di corto respiro strategico e soprattutto distante dalle esigenze reali dell’ Italia oggi?
Oggi l’Italia ha bisogno soprattutto di nuovi «legami» .Questione centrale e delicatissima, essa è ben presente anche ad alcuni dei «tecnici» che sono al governo (basta pensare ad Andrea Riccardi). Ma - e sta qui il punto discriminante fra vecchio e nuovo riformismo è alla luce dei diritti che vanno ripensati i nuovi «legami» da costruire nel nostro Paese. Senza diritti i «legami» diventano infatti una gabbia inaccettabile. Se mi è consentito usare un termine filosofico, i diritti costituiscono la dimensione «trascendentale» del processo storico e come tali, una volta acquisiti, non sono alienabili. Tra democrazia e diritti c’è un nesso diretto, organico.
Il nostro Paese, per la crisi da cui è attraversato, oggi non ha bisogno di interventi che favoriscano la divisione, la contrapposizione tra individui, classi, ceti; non necessita di provvedimenti che contrappongano, in fabbrica, capitale e lavoro. Ha bisogno di politiche che generino coesione, riconoscendo un ruolo ai corpi intermedi. Si tratta di scelte sempre opportune, che diventano addirittura indispensabili in tempi di crisi come questi.
La cultura della mediazione è fondamentale per la democrazia: attraverso di essa si esprime la possibilità, e la capacità, di misurarsi positivamente con le contraddizioni della realtà e di trovare, volta per volta, un punto di equilibrio, in grado di sospingere avanti l’insieme del sistema sociale e politico. E la mediazione nel senso forte del termine implica il concetto di politica, mentre l’ideologia dei «tecnici» si pone, volutamente, al di fuori della dimensione sia della mediazione che della politica. Si può dire che l’idea stessa di riformismo moderno per alimentarsi ha bisogno di mediazione cioè di partiti e di diritti.
Al fondo, si confrontano due prospettive diverse, entrambe legittime. Converrebbe cominciare a parlarne, confrontandosi in modo aperto anche per ridare respiro e dignità alla politica. Come sapeva già Tocqueville, che era un liberale: «Con l’idea dei diritti gli uomini hanno definito ciò che sono la licenza e la tirannide... senza rispetto dei diritti non vi è grande popolo; si può quasi dire che non vi è società».