Una vita in difesa dei diritti del 99%
Le forme della prepolitica nella lunga lotta di don Zeno Saltini
di Marco Dotti (il manifesto, 17 agosto 2012)
«Chi ha i soldi da una parte, chi non ne ha dall’altra». Un messaggio chiaro, che tutti potevano capire. «Fê du mucc. Fate due mucchi» e poi, concludeva don Zeno Saltini, prenderemo a contarci. Sarà allora evidente chi è maggioranza e chi no, chi possiede e chi è posseduto, chi non ha pane e chi invece ha i granai pieni e attende solo che il prezzo salga per speculare ancora e speculare di più. L’oppresso e gli oppressori, l’affamato e chi lo affama, il servo, il padrone e poi la retorica dell’esser liberi, quando la servitù non è più un vantaggio per gli uni, ma continua a essere un peso, sotto altri nomi e forme, per gli altri, quelli che arrivano comunque ultimi o a corsa finita.
Una storia semplice, forse ingenua - ma non troppo, se è sempre alla struttura elementare di questa storia che si torna, finita la festa. Finita la nostra, di festa, scopriamo che don Zeno Saltini ha ancora molto da dire. Le sue tracce concrete, frutto di una passione che ha saputo farsi azione, si inscrivono forse in un futuro che vorremmo nostro e per il quale già proviamo nostalgia.
Le soluzioni dei poveri
Affermava don Zeno: «Ecco il mio consiglio. L’Italia è un pero che fa delle prugne, perché siamo il 99% poveri e finiamo per avere un governo che protegge i capitalisti. Facciamo due mucchi, i poveri da una parte e quelli con i quattrini dall’altra. Poi si va al potere con la maggioranza semplice del programma: fare gli interessi dei poveri. Siamo tutti poveri e troveremo le soluzioni. E se gli altri dicono: non siete mica capaci di amministrarvi. Risponderemo: come ci avete amministrato voi ci riusciamo comunque anche noi. Lo vedono tutti cosa avete combinato».
Don Zeno amava parlare di politica, ma anche - con un termine che fu tra i primi a usare - di prepolitica, ossia di tutto ciò che la precede e, incontenibile nelle vecchie forme, ne cerca di nuove. Magari mancandole, magari sbagliandole, ma le cerca.
Il 5 maggio del 1945, a mezzogiorno in punto, dal balcone del palazzo comunale di Carpi a pronunciare queste parole non era solo il prete che aveva trasformato una frazioncina della Bassa modenese, San Giacomo Roncole, poche centinaia di abitanti, in un vero laboratorio di comunità, raccogliendo ragazzi abbandonati, respinti ai margini e orfani attorno all’Opera Piccoli Apostoli da lui fondata dodici anni prima.
Zeno Saltini, nato a Fossoli nel pomeriggio del 30 agosto del 1900, nono figlio in una famiglia patriarcale di possidenti terrieri, sacerdote dal 1931, era anche un «vicesindaco» essendosi insediato in ragione della nomina decretata dal Comitato di Liberazione Nazionale di Mirandola. Neanche il tempo di riambientarsi, dopo essere rientrato dalla zona libera dove si era nottetempo rifugiato, per sottrarsi al Tribunale Militare, e don Zeno si affrettò a dar vita a una commissione comunale per l’assegnazione degli alloggi nel comune di Mirandola, assumendone la presidenza e provvedendo a sistemare in ville coloniche, nell’ex Casa del Fascio e persino nella vecchia caserma della Milizia, restaurata dai suoi ragazzi, i numerosi senza tetto che gli chiedevano aiuto. Non ultimo, ma ultimo della lista - «per non dare l’idea che qui ci siano privilegiati» - il presidente dello stesso Cln mirandolese.
Mediazioni ex post
Nel secondo dopoguerra, come già era avvenuto nel primo, don Zeno è un vulcano in piena: progetta di istituire a San Giacomo una scuola di cinematografia, un liceo, un’università popolare e un’università vera e propria, ma questa solo «in un secondo tempo», quando si saranno gettate le basi di una società nuova, e progetta persino di dar vita a un movimento di democrazia diretta e di fratellanza universale.
Cosa che, ovviamente, non fu vista di buon grado da molti esponenti del clero, anche se molti altri lo seguono, non foss’altro per la sua capacità di parlare a tutti, comunisti compresi, riempiendo piazze, chiese e quel cinematografo che, negli anni più bui del regime, gli era servito per rompere la retorica dominante, con film americani e dibattiti nemmeno velatemente antifascisti.
«Abbasso i preti, tranne don Zeno», aveva scritto qualcuno su un muro di Modena. E sull’Unità, il 4 agosto del 1945, apparve un articolo, firmato «Stella Rossa», che dopo duri attacchi al clero concludeva: «don Zeno ci piace ». Ma don Zeno non piaceva a tutti. Tra i comunisti era pur sempre un prete, tra i preti era in sospetto di comunismo mistico-evangelico, ma lui non si lamentava, «si vede che ho qualcosa da dire a tutti e tutti hanno qualcosa da dire a me».
«Testa calda», «tribuno», «sovversivo» - lo definiranno parroci e prelati della zona, indisposti verso quell’uomo dalla non comune capacità di attrarre con un’oratoria raffinata e schietta, ancorché velata di dialetto e anacoluti, e dai metodi spicci.
Tratto caratteristico dell’azione di don Zeno fu sempre quello di mettere le autorità dinanzi al fatto compiuto, attendendo e operando ex post la mediazione. Anche questo, va da sé, non piaceva.
Dai suoi studi in teologia, don Zeno aveva imparato che «le opere sono di Dio, le parole di Satana e nel giorno del redde rationem» dovremo rendere conto di quanto non abbiamo fatto al pari di quanto abbiamo fatto, mentre dalla sua laurea in giurisprudenza seppure presa con voto basso, 75/110, nel 1929 alla Cattolica di Milano, l’avvocato Saltini aveva tratto una passione per la sostanza materiale e le forme vive del diritto. Quel diritto degli ultimi, che spesso poggia su residui di ordinamenti consuetudinari in frantumi, che aveva appassionato anche il giovane Marx.
Lo stato di necessità, per don Zeno, legittima la rottura delle forme. Sia che si trattasse di celebrare la prima messa, appena ordinato sacerdote, facendosi accompagnare nel Duomo di Carpi - era il 1931 - da un ragazzo appena uscito di galera che diventerà il primo dei suoi «figli», sia che si dovessero affrontare Scelba, Montini, un questurino qualsiasi o De Gasperi oppure contestare il fisco che con lui non fu mai clemente, in tutti i casi, don Zeno sembrava animato da una convinzione certa: il mondo è diviso in due, non c’è terza via. Chi ha fame ha fame e non può aspettare che la fortuna arrivi dal cielo, la fortuna te la devi prendere, ma con giustizia anche quando giustizia significa rompere uno stato di fatto.
Ma per la giustizia, osservava, occorrono «libertà, eguaglianza, fraternità». Le stesse parole che chi lo seguiva - e furono tanti, in una vita che taglia il secolo - scrisse sulle schede elettorali, quando don Zeno invitò i suoi a annullarle alle amministrative del 10 giugno 1951, facendo perdere voti alla Democrazia cristiana e ottenendo un’eco nazionale.
Scrisse Anna Maria Ortese: «Non era un prete, ma qualcosa di più. Non era un politico, malgrado avesse attaccato così arditamente fatti e persone del governo; né un diplomatico, perché aveva perduto tutto. Un educatore neppure, perché la sua rude semplicità glielo impediva. Ci chiedevamo segretamente a chi e a che cosa somigliasse, chi fosse in realtà quest’uomo buono, leale, impulsivo, legato da un amore così appassionato a una famiglia così diversa da lui: lui così vivo, generoso, tenero, la testa piena di sogni, e i figli così scialbi, prudenti, duri. Ma definirlo era difficile».
Tedescofobo e antifascista
«Se il Cristianesimo fosse quello predicato dalla Democrazia Cristiana, io sarei o ebreo o ateo», ribadiva don Zeno. Un partito di ispirazione cristiana, così come si stava sempre più configurando nella DC, gli sembrava d’altronde un pro forma e la veste da prete - «la cornice, il Vangelo è la sostanza», ma d’altronde lui in seminario c’era stato solo dodici mesi - non gli poteva certo impedire di denunciare che, dietro quello che veniva allora definito il male minore, rispetto al pericolo rosso, si configurasse «il beneficio migliore per i capitalisti». Fê du mucc, appunto. Chi è di qua e chi è di là, non c’è via di mezzo, anche quando le cose sono complesse, difficili, ostiche la scelta etica è sempre possibile.
La Prefettura di Modena lo conosceva bene e conosceva le sue testarde intemperanze, contro le quali aveva cozzato a più riprese, avendolo schedato da tempo. In una nota del 31 gennaio 1944, firmata dal commissario di Mirandola Alberto Paltrinieri si legge infatti: «L’attività del clero fiancheggia in linea di massima quella delle attività locali. Solo don Zeno Saltini, curato di S. Giacomo Roncole, specialmente nell’infausto periodo 25 luglio - 8 settembre ’43, si è dimostrato tedescofobo ed antifascista». Il 30 luglio del ’43, d’altronde, don Zeno era stato tratto in arresto, per la pubblicazione di una dura critica al Regime formalmente caduto da cinque giorni. Critica apparsa sul suo giornalino Piccoli Apostoli.
«Un governo poliziesco è destinato al fallimento», aveva scritto in una lettera contro il perdurante divieto di assembramento e riunione, inviata tre giorni prima al generale Matteo Negro, comandante a Modena, che voleva continuare a mantenere un ordine già morto, minacciando di aprire indiscriminatamente il fuoco su qualsiasi drappello «sedizioso» composto da più di tre persone.
Nel frattempo, la sua comunità cresceva e non bastavano più le vecchie stanze del Casinone, a San Giovanni, per contenere tutti quelli che chiedevano un tetto o da mangiare. La guerra volgeva alla fine, ma per la fame non era certo tempo di armistizio. Il 19 maggio del 1947, la grande decisione. Con fanfare e tamburi e cineprese al seguito don Zeno si mise in testa a una strana processione, diretta verso l’ex campo di concentramento Fossoli per una nuova sfida: rendere abitabile l’inabitabile, bonificare l’orrore. I ragazzi di don Zeno tagliarono le reti e il filo spinato, abbatterono i muri, scavarono e spalarono e infine occuparono, dopo un lungo lavoro appena «tollerato » dalla autorità, l’ex campo di concentramento nel quale si trovavano reclusi oramai solo pochi «indesiderati».
In nome della fraternità
Ricorderà don Zeno: «La mattina del 19 maggio abbiamo formato una piccola autocolonna. In testa c’era il camion con la banda musicale, poi altre macchine e corriere prese a noleggio. Io li avevo preceduti. Quando l’autocolonna è arrivata davanti all’ingresso la banda ha cominciato a suonare e il poliziotto di guardia ha aperto. Mica abbiamo spinto noialtri il portone. Entra dunque il camion con questi ragazzi che suonano e le guardie sono andate a prende i ragazzini più piccoli, a prenderli sulle spalle e tutti i prigionieri, al di là dal muro e sui tetti a guardare e applaudire». A cose fatte, sempre a cose fatte, Zeno scriverà al capo della Polizia, annunciandogli: «Ho ritenuto immorale lasciare ancora per un giorno tanti figli d’Italia in così pietose condizioni di abbandono». Come dire: il dado è tratto.
Dopo mesi di richieste, di anticamera, di pratiche burocratiche e burocratiche attese, ancora una volta don Zeno decide di fare da sé, fondando Nomadelfia, una città dove non la burocrazia, non l’astratta libertà, non la ricchezza, non la finta eguaglianza, ma «la fraternità è legge». Un nome splendido, commenterà Guido Calogero sul Mondo, un nome che compare per la prima volta in uno scritto di Saltini del 22 maggio del 1947. Fraternità e legge inscritte nel nome vennero sancite da una costituzione, approvata il 14 febbraio del 1948, un mese e mezzo dopo l’entrata in vigore di quella repubblicana.
La Costituzione di Nomadelfia venne approvata e firmata sull’altare da tutti i membri di una comunità che si stava sempre più ingrandendo e presto avrebbe accolto centinaia di «scartini», i ragazzi dei brefotrofi che nessuno voleva in adozione ai quali don Zeno, le famiglie e le mamme per vocazione - donne che accoglievano come figli propri i ragazzi - diedero «dignità di popolo». Senza denaro, a Nomadelfia si usavano i «Tis», titoli interni di scambio, non c’era proprietà privata, si lavorava e si studiava in comune e la comunità raggiunse in poco tempo i 1600 cittadini. Si può vivere senza denaro e il popolo di Nomadelfia era lì a dimostrarlo.
La resa dei conti
Nel 1951, sulla comunità - presto smantellata, ma pronta a rinascere in Maremma, nella sua sede attuale, dove nel ’49 era andato in avanscoperta un giovane architetto di nome Danilo Dolci - e don Zeno iniziarono ad abbattersi colpi durissimi.
Era la resa dei conti. Un processo per millantato credito, truffa, peculato, firma di assegni a vuoto lo ridurrà allo stato laicale per anni, anche se poi verrà completamente assolto. Io non so, scriverà all’onorevole Scelba, se lei «abbia mai pensato che è finita una guerra e gli uomini hanno creato gli stati nella speranza di una libertà. Non so se l’on. Scelba sappia che i Piccoli Apostoli nel 1943 si sono buttati nella lotta per conquistare questo diritto di libertà; e che sono stati impiccati, fucilati, sette dei nostri, tra i quali don Monari che era sacerdote, e dei giovani di 16 e 17 anni. Non so se l’on. Scelba sappia che noi, durante il fascismo, siamo stati combattuti e che nessuno è riuscito a scioglierci; e che - nonostante il decreto di scioglimento della prefettura di Modena - da quel giorno, anno dopo anno, ci siamo trovati raddoppiati». Ma nemmeno per don Zeno la guerra era finita.
Don Zeno Saltini si spegnerà nella sua nuova Nomadelfia, nei pressi di Grosseto, il 15 gennaio 1981. «Fê du mucc. Fate due mucchi». Noi sappiamo in quale dei due mucchi ha vissuto, per quale dei due mucchi ha sperato, per quale dei due ha lottato e pagato un prezzo molto alto. Ma ne valeva la pena.
Milletrecento pagine di approfondimento
È difficile dar conto nel giro di poche righe di una vita che ha percorso tutto l’arco di un secolo, come quella di don Zeno Saltini. Una vita con le sue contraddizioni, attraversata dalle contraddizioni del suo - e in parte anche nostro - tempo.
L’approfondimento e la contestualizzazione sono però uno dei meriti dei due volumi, «Storia di don Zeno e di Nomadelfia», circa milletrecento pagine complessive, che arrivano finora al 1962, scritti da Remo Rinaldi (autore anche di un volume uscito nel 2008 per le Edizioni San Paolo, «Il profeta di Nomadelfia», pp. 310, euro 18) e pubblicati dalle edizioni di Nomadelfia. I volumi possono essere richiesti scrivendo all’indirizzo: edizioni@nomadelfia.it
Papa Francesco indica l’ultima carta per cambiare il paradigma dell’umano
Fratelli tutti. Poiché è sull’amore, questa è un’enciclica laica, di una straordinaria laicità, perché l’amore non si lascia irretire in un solo stampo, in un unico codice
di Raniero La Valle (il manifesto, 07.10.2020)
È una lettera sconcertante e potente questa che papa Francesco, facendosi “trasformare” dal dolore del mondo nei lunghi giorni della pandemia, ha scritto a una società che invece mira a costruirsi “voltando le spalle al dolore”.
Per questo la figura emblematica che fa l’identità di questa enciclica, prima ancora che quella di Francesco d’Assisi, è quella del Samaritano, che ci pone di fronte a una scelta stringente: davanti all’uomo ferito (e oggi sempre di più ci sono persone ferite, tutti i popoli sono feriti) ci sono solo tre possibilità: o noi siamo i briganti, e come tali armiamo la società dell’esclusione e dell’iniquità, o siamo quelli dell’indifferenza che passano oltre immersi nelle loro faccende e nelle loro religioni, o riconosciamo l’uomo caduto e ci facciamo carico del suo dolore: e dobbiamo farlo non solo con il nostro amore privato, ma col nostro amore politico, perché dobbiamo pure far sì che ci sia una locanda a cui affidare la vittima, e istituzioni che giungano là dove il denaro non compra e il mercato non arriva.
Ci si poteva chiedere che cosa avesse ancora da dire papa Francesco dopo sette anni di così eloquenti gesti e parole, cominciati a Lampedusa e culminati ad Abu Dhabi nell’incontro in cui si è proclamato con l’Islam che “se è uccisa una persona è uccisa l’umanità intera”, ragione per cui non sono più possibili né guerre né pena di morte.
E per Francesco neanche l’ergastolo, che “è una pena di morte nascosta”, e tanto meno le esecuzioni extragiudiziarie degli squadroni della morte e dei servizi segreti. Ebbene, la risposta sul perché dell’enciclica è che ormai non si tratta di operare qualche ritocco qua e là, ma si tratta di cambiare il paradigma dell’umano, che regge tutte le nostre culture e i nostri ordinamenti: si tratta di passare da una società di soci a una comunità di fratelli.
Perciò questa seconda lettera (l’altra è stata la Laudato sì, mentre la prima era in realtà di Ratzinger) non è un’enciclica sociale; solo una volta il papa si fa sfuggire di aver scritto un’”enciclica sociale”; in realtà essa non ha nessuna somiglianza con il “Compendio della dottrina sociale della Chiesa” fatto pubblicare nel 2004 da papa Wojtyla, in cui si pretendeva di definire per filo e per segno tutto ciò che si doveva fare nella società.
Questa invece è un’enciclica sull’amore perché passare da soci a figli vuol dire passare dalla ricerca dell’utile all’amore senza ragione: i migranti non si devono accogliere perché possono essere utili, ma perché sono persone, e i disabili e gli anziani non si devono scartare perché una società dello scarto è essa stessa inumana.
Poiché è sull’amore, questa è un’enciclica laica, anzi di una straordinaria laicità, perché l’amore non si lascia irretire in un solo stampo, in una sola proposta, in un unico codice. È impressionante come papa Francesco lasci aperte sempre altre possibilità, altre considerazioni del reale, altre strade possibili, perfino dinanzi al peccato e all’errore; sempre è invocata la pluralità, mai il relativismo, sempre il gusto delle differenze, dell’inedito, del non ancora compreso; il poliedro, mai la torre di Babele, dalla pretesa unificante.
Ci vuole fantasia per costruire la società fraterna e non è facile passare dal “legame di coppia e di amicizia” all’accoglienza verso tutti e all’”amicizia sociale”. Alle volte sembra di leggere una lezione di laicità al mondo, alle culture fissiste, come il liberismo, che fa della proprietà privata, che è “un diritto secondario”, un valore primario e assoluto, mentre originario e prioritario è il diritto all’uso comune dei beni creati per tutti; come c’è una lezione al populismo e al nazionalismo, incapaci di farsi interpellare da ciò che è diverso, di aprirsi all’universalità, chiusi come sono nei loro angusti recinti come in “un museo folkloristico di eremiti localisti”; il male è che così si perdono proprio beni irrinunciabili come la libertà o la nazione: l’economia che si sostituisce alla politica non ha messo fine alla storia ma ruba la libertà; e con la demagogia il rischio è che si perda il concetto di popolo, “mito” e istituzione insieme, a cui non si può rinunziare perché altrimenti si rinunzia alla stessa democrazia.
La stessa fraternità, dice Francesco, va strutturata in un’organizzazione mondiale garantista e efficiente, sotto “il dominio incontrastato del diritto”, anche se un progetto per lo sviluppo di tutta l’umanità “oggi suona come un delirio”.
Mentre l’enciclica si distribuiva in piazza san Pietro ed era tolto l’embargo, nelle chiese si leggeva, tra le letture del giorno, questa frase del profeta Isaia: “Egli (il Signore) si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi”. Sembrava un giudizio scritto per l’oggi, mentre Francesco è assediato, fin dentro al tempio, da mercanti e falsi difensori della fede.
È forse questo il segreto di questa enciclica: c’è, per un mondo malato, dove “tutto sembra dissolversi e perdere consistenza”, da giocare l’ultima carta, cambiare i soci in fratelli. Si potrà poi essere anche cattivi fratelli, incapaci di memoria, di pietà, di perdono, però tutti si riconosceranno investiti della infinita dignità dell’umano, questa verità che non muta, accessibile a tutti e obbligante per tutti.
Ma per essere fratelli ci vuole un padre. Perciò tutto il ministero di papa Francesco è volto a “narrare” al mondo la misericordia del Padre; lui che è il primo pastore della religione del Figlio, si mette nei panni del Figlio (com’è del resto suo compito) per recuperare la religione del Padre, per dare agli uomini un Padre in cui si riconoscano finalmente fratelli. Una cosa così “religiosa” che la voleva perfino la Rivoluzione francese; solo che, dice ora papa Francesco, se la fraternità non si esercita veramente anche la libertà e l’uguaglianza sono perdute. E il mondo, ora, sarebbe perduto con loro.
LA PARABOLA DEi "TALENTI", I "DUE CRISTIANESIMI", E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO.... *
Destinazione sinodo/18.
Dall’ascolto all’incontro. È la gioventù del Papa
di Stefania Falasca (Avvenire, mercoledì 8 agosto 2018)
Una generazione fa, nell’estate del 2013, di fronte alla marea di più di tre milioni di giovani assiepati sulla spiaggia di Copacabana per la Giornata mondiale della gioventù di Rio, papa Francesco era rimasto per un attimo in silenzio spaziando con lo sguardo su quella sconfinata folla di ragazzi sul bordo dell’oceano. Gli parve di vedere «guardando il mare, la spiaggia e tutti voi», disse, quel momento dell’inizio della storia cristiana sulla riva del mare di Galilea quando i primi due, alle quattro del pomeriggio, avevano incontrato Gesù. Gli erano andati dietro attratti da lui. E Gesù a questi due ragazzi - Andrea era sposato, quindi avrà avuto qualche anno di più, ma Giovanni era proprio un ragazzino -, voltandosi aveva domandato: «Che cosa cercate?». E questi non gli risposero ’cerchiamo la verità’, o ’cerchiamo la felicità’, non gli dissero neppure ’cerchiamo il Messia’. Quello che il cuore cercava lo avevano davanti. Allora a quella domanda - «Che cosa cercate?» - risposero chiedendo l’unica cosa che si può domandare: «Maestro dove abiti?», cioè ’dove rimani?’, dove rimani perché possiamo stare con te?
Sono passati cinque anni da quell’esordio vis-à-vis di Papa Francesco con i giovani di tutto il mondo in Brasile, e l’attualità ne resta intatta, anche se è cambiata nel frattempo la generazione dei «nati liquidi», come titola l’opera postuma di Zygmunt Bauman dedicata a queste ultime generazioni considerate sempre più «come bidone dei rifiuti per l’industria dei consumi» e «come un ulteriore fardello sociale», giovani che «hanno smesso di essere inclusi dalla promessa di un futuro migliore», sempre più «parte di una popolazione smaltibile la cui presenza minaccia di richiamare alla mente memorie collettive rimosse della responsabilità adulta». «Vuoti a perdere» a rischio «rottamazione», quelli che escono dalla lucida analisi dell’autore della società liquida, «gli scartati dall’impero del Dio denaro» da parte di chi divora la dignità umana e di cui gli Stati nascondono le stime crescenti dei suicidi. Giovani che sempre più non sanno cosa sia la Chiesa, anzi, che sempre più sono figli e nipoti di generazioni che non sanno più niente della religione.
Ma il dialogo intrapreso da Francesco da quel primo incontro sulla spiaggia di Copacabana si è fatto in questi anni serrato, spesso confidente, nel quale ai sermoni il Papa ha preferito domande e risposte a braccio come espressione di conversazioni dirette, di incontri. «Anche le migliori analisi sul mondo giovanile, pur essendo utili - sono utili -, non sostituiscono la necessità dell’incontro faccia a faccia. Parlano della gioventù d’oggi. Cercate per curiosità in quanti articoli, quante conferenze si parla della gioventù di oggi. Vorrei dirvi una cosa. La gioventù non esiste, esistono i giovani», ha detto di recente Francesco, tanto per essere chiaro. «Esistono le singole storie, i volti, gli sguardi, le illusioni, esistono i giovani... tu, tu.... Parlare della gioventù - ha ripreso in altra occasione - è facile: si fanno astrazioni, percentuali», invece «bisogna interloquire con loro», incontrarli «a tu per tu». Sono ormai decine i colloqui intrapresi non solo nell’ultima Gmg a Cracovia come in ogni viaggio apostolico nel mezzo delle crisi del mondo.
Forse anche da questi dialoghi è nata la decisione di un Sinodo non su ma dei giovani, per andare insieme. Camminando in controtendenza ha aperto le porte. E ha rotto la divisione noi-voi:
«Nella Chiesa - sono convinto - non dev’essere così: chiudere la porta, non sentire. Il Vangelo ce lo chiede: il suo messaggio di prossimità invita a incontrarci e confrontarci, ad accoglierci e amarci sul serio, a camminare insieme e condividere senza paura» ha ribadito anche nell’ultima riunione in vista del Sinodo di ottobre. «Questa riunione presinodale - ha aggiunto - vuol essere segno di qualcosa di grande: la volontà della Chiesa di mettersi in ascolto di tutti i giovani, nessuno escluso.
E questo non per fare politica. Non per un’artificiale ’giovano-filia’, no, non per adeguarsi, ma perché abbiamo bisogno di capire meglio quello che Dio e la storia ci stanno chiedendo. Se mancate voi, ci manca parte dell’accesso a Dio».
E se ha tenuto conto di tutte le realtà, il Papa più volte ha ribadito la volontà di lasciarsi interpellare da loro e di vederli protagonisti: «Siamo insieme parte della Chiesa, anzi, diventiamo costruttori della Chiesa e protagonisti della storia. Ragazzi e ragazze, per favore: non mettetevi nella ’coda’ della storia. Siate protagonisti. Costruite un mondo migliore, un mondo di fratelli, un mondo di giustizia, di amore, di pace, di fraternità, di solidarietà».
Ma perché la richiesta di questo protagonismo? «In tanti momenti della storia della Chiesa, così come in numerosi episodi biblici, Dio ha voluto parlare per mezzo dei più giovani: penso, ad esempio, a Samuele, a Davide e a Daniele. A me piace tanto la storia di Samuele, quando sente la voce di Dio. La Bibbia dice: ’In quel tempo non c’era l’abitudine di sentire la voce di Dio. Era un popolo disorientato’. È stato un giovane ad aprire quella porta. Nei momenti difficili, il Signore fa andare avanti la storia con i giovani. Dicono la verità, non hanno vergogna».
E se nella storia della salvezza il Signore si fida dei giovani, nell’incontro pre-sinodale del 19 marzo il Papa ha anche detto che il Sinodo di ottobre sarà anche un appello rivolto alla Chiesa, perché «riscopra un rinnovato dinamismo giovanile». Così come nell’udienza del gennaio 2017 ai partecipanti a un convegno dell’Ufficio Cei per la pastorale delle vocazioni aveva ripetuto che «sono le nostre testimonianze quelle che attirano i giovani. È la testimonianza: che vedano in voi vivere quello che predicate. Quello che vi ha portato a diventare preti, suore, anche laici che lavorano con forza nella Casa del Signore. E non gente che cerca sicurezza, che chiude le porte, che spaventa gli altri, che parla di cose che non interessano, che annoiano, che non hanno tempo... No. Ci vuole una testimonianza grande!».
Ritorniamo così all’inizio, all’incontro dei primi due discepoli con Gesù. Anche questa dinamica di come si diventa e si rimane cristiani percorre tutto il magistero di Francesco, ed è sempre la stessa - sempre nuova - che attraversa i tempi, le crisi e le generazioni, così che quell’episodio di Giovanni e Andrea raccontato a Copacabana è ripetuto ancora nell’ultimo intervento per il Sinodo di ottobre. E affinché l’assemblea non si trasformi in occupazione momentanea per monsignori forse sarà necessario non lasciarsi andare a una banale sociologia, e assumere invece queste intramontabili provocazioni evangeliche.
Sabato e domenica ci sarà l’incontro del Papa con i giovani delle diverse diocesi d’Italia. In molti sono già in cammino verso Roma per il pellegrinaggio, si parla di 40mila ragazzi. Marta, parte di un gruppo di universitari milanesi, parlando davanti a una pizza insieme agli altri dice che non le interessa niente dei discorsi sui giovani, e che non parte per sentire discorsi ma spinta da un incontro, che l’ha attirata e vuole vedere. Papa Francesco ha fatto sentire più volte come anche duemila anni fa un ragazzo e una ragazza, Giuseppe e Maria, hanno visto Dio con gli occhi e non in una visione mistica. Maria l’ha partorito, Giuseppe e lei lo hanno guardato. È iniziata così la storia cristiana. Sono stati lì a guardare Dio.
Francesco ha messo bene in evidenza come sia la grazia che crea la fede. Per questo la vita cristiana è semplice. La fede è il riconoscimento di questa attrattiva, di un incontro. E la grazia crea la fede non solo quando la fede inizia ma per ogni momento in cui la fede rimane. In ogni momento, non solo all’inizio, l’iniziativa è Sua, dice sant’Agostino. Solo a partire da questo cuore la Chiesa ringiovanisce e attrae. Il prossimo incontro con i giovani a Roma, come anche il Sinodo, può essere l’occasione per chiedere, per ciascuno, che questo avvenga e continui ad accadere.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?!
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
LA PAURA DI PENSARE E LA PARABOLA DEI TALENTI. Perché chiudere la nostra vita in una scatola?
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?
Federico La Sala
La visita del Papa nella comunità creata da don Zeno. Il Papa a Nomadelfia. Quando Buzzati arrivò e restò «imbesuito»
NOMADELFIA, LUOGO DOVE «LA FRATELLANZA E’ LEGGE»
In questo luogo nel maggio 1965 arrivò l’agnostico Dino Buzzati che disse di sentirsi «lontano dal mondo». Una cronaca che raccontò un’esperienza unica
di Stefania Falasca, inviata a Nomadelfia (Avvenire, 10 maggio 2018)
«Siamo a 12 chilometri da Grosseto. Dodici, o dodici miliardi di chilometri? Vien fatto di chiedersi, tanto ci si sente lontani dal solito mondo... Chi arriva per la prima volta ha il dubbio che sia tutta una montatura, retorica, belle parole, illusione. Poi guarda, ascolta, domanda e resta imbesuito».
Forse queste parole stampate sulle pagine del Corriere della sera negli anni Sessanta uscite dalla penna di uno scrittore agnostico come Dino Buzzati, fra i cui racconti ce n’è uno dal titolo Il cane che ha visto Dio, anche a tanti anni di distanza non sono destinate a rimanere senza eco, restano ad indicare la sorpresa per l’esistenza di questa comunità dove la fraternità non è un consiglio, ma legge, che lascia ancora «imbesuiti», intontiti.
A portarci è una strada bianca orlata di cipressi, di là corrono i filari delle viti ben curati, i campi seminati, le case basse di pietra dei gruppi famiglia tra gli ulivi, un via vai di bambini con le biciclette, gli abitati in comune, in cima una croce bianca, segno di un monachesimo sociale che ha trovato radici dalla primavera del ’49, in quest’angolo della maremma toscana.
E la sorpresa è la stessa che Buzzati riporta da scrupoloso cronista venendo qui nel maggio del 1965: «Un giornalista straniero, che ha l’aria di non credere a niente, si rivolge a un ragazzetto e gli fa vedere un altro bambino. “Quello là - gli chiede con una faccia da presa in giro - quello là è un tuo fratello?”. “Perché? - gli risponde il bambino -. Non è anche fratello tuo?”».
Nomadelfia, che dal greco significa “legge di fratellanza”, non è il mondo irreale degli elfi del Signore degli anelli, ma la possibilità di sperimentare di persona un luogo di fraternità e di solidarietà che ha come fondamento la realtà della vita cristiana: il Vangelo. L’ha voluta così, don Zeno Saltini, il sacerdote modenese che ne mise la prima pietra nel lontano 1954 ricavandola dalle prime comunità cristiane di cui parlano gli Atti degli apostoli, perché è proprio dalla convinzione che il Vangelo genera una nuova civiltà e che non era utopia la vita delle prime comunità cristiane la sorgente da cui è scaturita: «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un’anima sola e nessuno considerava proprietà quello che gli apparteneva ma fra loro tutto era comune».
«Una vera e propria realtà sociale che oggi è un piccolo popolo di trecento persone, cinquanta famiglie decise a vivere insieme la fraternità secondo il codice evangelico in tutti gli aspetti della vita e del lavoro: familiare, sociale e politica. Né padroni né servi, qui i beni sono messi in comune e le famiglie sono disponibili ad accogliere figli in affido. Quattro o cinque famiglie insieme formano un “gruppo familiare”. Le scuole sono interne e l’obbligo scolastico è stato portato a 18 anni» spiega Francesco, il presidente di Nomadelfia mentre ci porta alla tomba del fondatore percorrendo il tratto che papa Francesco compie giovedì 10 maggio, venendo a rendere omaggio alla sua memoria.
«Ad un mondo di parole bisogna rispondere coi fatti, il Vangelo non sono chiacchiere. Don Zeno era un uomo lungimirante dalla coscienza lucida, un uomo netto semplice e pratico per il quale cambiare la civiltà significava cominciare da se stessi». Nella sala don Zeno centotredici bambini della comunità sono alle prese con i regali da offrire al Papa che viene qui per incontrare tutti i nomadelfi dopo aver incontrato uno dei gruppi familiari.
Don Ferdinando, terzo successore di don Zeno ci lascia «L’uomo è diverso», una meditazione sulle beatitudini scritta dal sacerdote modenese dove dice che non ci salva da soli e quasi a ricalcare quanto oggi Papa Francesco afferma le beatitudini sono il programma di vita che ci propone Gesù... e un protocollo sul quale noi saremo giudicati: “Sono stato affamato e mi hai dato da mangiare, ero assetato e mi hai dato da bere, ero ammalato e mi hai visitato, ero in carcere e sei venuto a trovarmi”». Poche parole, semplici parole, ma pratiche a tutti «perché il cristianesimo è una religione pratica: non è per pensarla, è per praticarla, per farla». «Precorriamo i tempi cominciando a vivere da uomini. Scopriremo in noi stessi che l’uomo è diverso e i nostri figli saranno la civiltà vivente» scrive don Zeno.
Non desta meraviglia perciò oggi l’arrivo qui, in questa comunità che evoca quasi come uno scorcio nostrano le lontane Reducciones gesuite, dopo aver rimesso in fila al centro della Gaudete et exsultate le beatitudini evangeliche come canovaccio non solo per una degna vita cristiana. Questa visita apostolica, a settant’anni dalla nascita di Nomadelfia, dopo aver indicato la memoria di preti discussi in vita ma testimoni autentici del Vangelo, vuole perciò indicare come sia possibile vivere il cristianesimo delle beatitudini. Perché in fondo questo dice Nomadelfia: che il cristianesimo non è affatto una utopia. Utopia è, solo di fronte al nostro egoismo. E dice che non è neppure una chiacchiera, è un fatto; e che bisogna fare, prima di dire. «Altrimenti nostra religione è solo un minare il nome di Dio invano», diceva già nel 1951 David Maria Turoldo. Tra tanto cristianesimo edulcorato, ridotto, smussato si scorge qui un’oasi di cristianesimo integrale con tutto ciò va da sé che ha di arrischiato, di pericoloso, di scandaloso anche, per l’uomo della civiltà del benessere.
Il non credente Dino Buzzati si era confrontato e lasciato interrogare intimamente dalla provocazione evangelica di Nomadelfia. Arriverà a scrivere che essa «è un brevetto di Gesù» rimanendo disarmato di fronte allo spirito di comunione e alla spontaneità dei loro bambini. «Nomadelfia - scrive - senza dire una sola parola, ci fa il più doloroso rimprovero, ci fa capire come sia sbagliato il nostro modo di vivere, gli affanni, i desideri, le vanità, la corsa disperata dietro il vento. Essere ricchi, essere famosi, essere invidiati. Bella roba! Per quanto si faccia non basta mai. Mai sazi, mai tranquilli! E pensare che sarebbe così semplice. La bontà. Volersi bene. Loro ci sono riusciti e noi no... Possibile che degli uomini di carne ed ossa come noi abbiano potuto realizzare il Vangelo in piena letizia?... Il sogno dei santi è qui diventato realtà quotidiana».
«Oggi è necessario capire cosa Nomadelfia significa per la Chiesa, e cosa la Chiesa significa per Nomadelfia» ci dice il vescovo Rodolfo Cetoloni.
Quanto a don Zeno proprio il vescovo della diocesi di Grosseto nel 2013 aveva inoltrato alla Santa Sede la richiesta per l’introduzione della causa di canonizzazione, ma la risposte negative dalla Congregazione per la dottrina della fede non hanno permesso di concedere ad oggi il nulla osta. Non è una novità. Il 7 agosto 1978, all’indomani della morte di Paolo VI, che aveva mostrato profonda stima per la sua opera, don Zeno aveva scritto: «Quando Montini era cardinale di Milano, disse alla contessa Albertoni Pirelli che diede in dono queste terre: “Se Nomadelfia riuscirà, dovremo rivedere molte cose nella Chiesa”».
Don Zeno Saltini
Nato a Fossoli di Carpi (Modena) il 30 agosto 1900, morto a "Nomadelfia" (Grosseto) il 15 gennaio 1981, avvocato, sacerdote e educatore.
di ANPI *
Nono di dodici figli di un agricoltore benestante, all’età di quattordici anni Zeno decide di lasciare la scuola, considerando inutile l’insegnamento che vi s’impartisce. Il ragazzo va a lavorare nei poderi della famiglia, a gomito a gomito con i braccianti della cui vita comincia a valutare la durezza.
Sei anni dopo il giovane, che si trova in servizio di leva a Firenze, presso il III Telegrafisti, ha una discussione ideologico-religiosa con un commilitone anarchico che, molto più colto di lui, lo mette in confusione davanti agli altri soldati. Zeno - che prima del servizio militare aveva cominciato un’attività per il recupero di giovani sbandati - capisce quanto sia importante la cultura. Congedato, pur continuando ad impegnarsi nel suo apostolato, decide di riprendere gli studi. Si laurea in legge all’Università Cattolica di Milano, perché ritiene che, da avvocato, potrà meglio difendere i ragazzi che incappano, a causa della loro condizione sociale, nelle maglie della Legge e non possono pagarsi un difensore.
Ben presto Zeno Saltini si convince che per aiutare i ragazzi è meglio un’attività di prevenzione e decide, allo scopo, di farsi prete. Celebra la sua prima Messa nel duomo di Carpi e viene poi mandato come vice parroco a San Giacomo Roncole (Modena). Qui comincia a pubblicare un giornalino dal titolo Piccoli Apostoli,getta le basi - in un edificio antistante la chiesa, dove ospita i ragazzi sbandati che chiama "figli" e che poi si chiameranno "Piccoli Apostoli - di quella che diventerà Nomadelfia.
Accorrono ad aiutarlo nella sua opera (l’Italia è ormai in guerra) alcune donne e, all’inizio del 1943, sette sacerdoti delle diocesi di Carpi e di Modena. Alla caduta del fascismo, la comunità diffonde, in migliaia di copie, il suo giornaletto che contiene un appello di don Zeno. Vi è scritto tra l’altro: "... È caduto un regime che ha rovinato l’Italia ... Guai a coloro che credono che essere cristiani significhi anche essere conigli: Cristo ha saputo imporsi al Sinedrio e a Cesare a costo della vita ... Questa sera alle otto terrò il consueto discorso sul tema di attualità ... Lasciate il lavoro e venite a S. Giacomo: uniamoci attorno all’altare per trattare i nostri sacrosanti diritti ... Noi rappresentiamo l’ordine, noi siamo coloro che hanno lavorato, sofferto, pianto, lottato per tirare su la nostra gioventù rovinata dal fascismo ... Operai, contadini, lavoratori in genere che siete sempre stati sfruttati più dei buoi, onesti datori di lavoro, uomini di buona volontà, venite tutti e ascoltatemi. ... Vigliacchi e sfruttatori statevene pure a casa perché a voi non spetta, in questo momento, altro compito che attendere per imparare da noi come si realizza una vera fraternità cristiano-sociale ... Padri di famiglia, guai a noi se non comprendiamo l’ora di nostra responsabilità che attraversiamo. I nostri figli ci maledirebbero in eterno."
L’arresto di don Zeno Saltini è pressoché immediato. Lo rinchiudono nel carcere di Mirandola, ma viene scarcerato per la compatta protesta popolare. Qualche mese dopo, con l’occupazione nazista, i fascisti rialzano la testa. Pretendono che la Curia faccia internare in manicomio don Zeno, definito "prete bilioso" e "mestatore da bordello". La sua Comunità viene perseguitata; così il sacerdote passa le linee e raggiunge il Sud con alcuni ex prigionieri neozelandesi e venticinque "piccoli apostoli", che sarebbero sicuramente stati deportati dai nazifascisti. Altri "piccoli apostoli" entrano nelle formazioni partigiane (sette di loro moriranno combattendo per la libertà) ed alcuni dei sacerdoti rimasti contribuiranno all’organizzazione della Resistenza e ad aiutare ebrei e perseguitati politici.
Dopo la fine della guerra, nel 1947, don Zeno, che è tornato nel Modenese, occupa con i "piccoli apostoli" l’ex campo di concentramento di Fossoli e l’anno successivo esce il testo della "Costituzione di Nomadelfia". Due anni ancora e nasce il "Movimento della Fraternità Umana", avversato dal governo democristiano di allora e da alcuni ambienti ecclesiastici.
Nel 1952 il Sant’Uffizio ordina a don Zeno di lasciare la comunità, che ormai conta più di mille persone e che si richiama ai valori del comunismo delle origini del Cristianesimo. Il sacerdote ubbidisce. Viene anche processato per truffa. È assolto, ma Nomadelfia sta ormai per dissolversi. Si salva perché la contessa Maria Giovanna Albertoni Pirelli dona ai "nomadelfi", costretti a lasciare Fossoli, una tenuta di alcune centinaia di ettari da bonificare nel Grossetano. Don Zeno, per meglio tutelare i suoi "figli" che si sono sbandati, chiede ed ottiene, nel 1953, da Pio XII la laicizzazione "pro gratia". Sarà riordinato sacerdote soltanto nel 1962 e gli sarà affidata Nomadelfia eretta a parrocchia. Quando don Zeno muore, una delegazione di "nomadelfi" è in visita da Papa Giovanni Paolo II, che gli invia la sua benedizione.
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VEDI: ANPI.
“Corvi, Ior e potere
Povera Chiesa”
intervista a don Andrea Gallo,
a cura di Gianni Barbacetto (il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2012)
“La mia non è una riflessione di gioia. Io mi sento dentro la Chiesa, e la vedo ridotta così”. Don Andrea Gallo pensa agli scandali del Vaticano, alla richiesta di rinvio a giudizio del maggiordomo del Papa. “Da 53 anni sono presbitero di questa Chiesa e oggi vedo la sede apostolica in difficoltà. Non ne sono contento. Sono triste, addolorato. Il Papa dovrebbe essere il centro della carità mondiale e invece è il centro di scandali, di contese, di corvi, di scontri attorno allo Ior, la banca del Vaticano. Un tempo la Chiesa era considerata una ‘comunità perfetta’, comunità di credenti al servizio della carità. Oggi appare un centro di potere attorno a cui si muovono gruppi come l’Opus Dei, Cl, i Legionari di Cristo...”.
La miccia che ha fatto scoppiare gli scandali sembra essere lo Ior, la banca del Vaticano : una banca offshore nel cuore di Roma.
Lo Ior era un centro di raccolta di fondi per la carità senza fine di lucro. Poi Papa Pacelli, nel 1942, in piena guerra mondiale, lo trasformò in una vera e propria banca. Ed è diventato un centro di potere. In passato ha avuto a che fare con Michele Sindona. Poi è stato diretto da Paul Marcinkus, che in Vaticano ha trovato riparo da tre mandati di cattura internazionali. Oggi lo Ior è oggetto di sospetti per la cacciata del suo presidente, Ettore Gotti Tedeschi, e per le accuse di riciclaggio per 20-23 milioni di euro. Il Papa personalmente ha incaricato della questione un cardinale che appartiene all’Opus Dei. Molte critiche sono state rivolte al cardinale Segretario di Stato. Dobbiamo tornare al messaggio evangelico, dobbiamo salvare la Chiesa che è anche la nostra Chiesa, questa Chiesa di cui mi dichiaro appartenente, con le sue luci e le sue ombre. La logica di potere pesa sulla Chiesa, in Vaticano e nella Cei, tra i vescovi italiani. Mentre Papa Gregorio si definiva “servus servorum Dei”, servo dei servi di Dio. La Chiesa deve avere non una logica di potere, ma di servizio.
L’unico “corvo”, il solo colpevole della fughe di notizie dal Vaticano è il maggiordomo del Papa...
Mai io mi chiedo: è mai possibile che un maggiordomo possa aver fatto tutto da solo? Può essere l’unico corvo, può aver organizzato lui la fuga di notizie e di documenti vaticani? Non credo. Dietro a un maggiordomo vedo figure più potenti, vedo cardinali, vedo lo scontro tra gruppi di potere, vedo l’Opus Dei, Cl, i Legionari di Cristo... Il linguaggio della Chiesa, dice il Vangelo, deve essere “sì, sì, no, no”. Invece nell’indagine sul maggiordomo del Papa ci sono oltre 40 omissis. Il popolo di Dio aspetta chiarezza. Ha il diritto di sapere che cosa è davvero successo. Mi pare che non gli abbiano neppure sospeso lo stipendio: il maggiordomo è un ostaggio e basta. Lui sta nell’anticamera, dietro di lui ci sono quelli, ben più potenti, che stanno nelle camere. Il suo è stato un arresto anomalo, un segnale alla segreteria di Stato”.
Padre Lombardi, il portavoce vaticano, sostiene che la stampa ha gettato fango sul Vaticano.
Ma è un’impalcatura che non sta in piedi. In questi scontri, i gruppi di potere del Vaticano si sono fatti male da soli. E allora ricordo che la Chiesa, la nostra Chiesa, è “semper reformanda”, come dice il Concilio, è gloriosa ma anche composta di peccatori che devono riconciliarsi davanti a Cristo e alla Croce. A dicembre dovremo ricordare i 50 anni del Concilio ecumenico Vaticano II. Con che coraggio celebreremo questo anniversario? Come ricorderemo il Concilio che ha detto che la Chiesa è una comunità di fedeli e di carità, e non di potere (Lumen Gentium)? E l’opzione per i poveri? E il primato della coscienza personale? Come faremo a parlare di “nuova evangelizzazione”?
Anche sul Concilio, dentro la Chiesa, ci sono giudizi molto diversi.
La scelta del Concilio ci deve portare alla globalizzazione della solidarietà, non ad accettare un mondo in cui i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Bisogna mettere in discussione il modello egemone di sviluppo, in vista di una solidarietà liberatrice. La Chiesa non può ridursi a una crociata sul testamento biologico, non può basare la fede sul solo principio d’autorità. È questa la fede? La diocesi di Genova nel 2011 non ha ordinato neppure un presbitero, nel 2012 uno solo. Vedo molti attorno a me che sono tentati dall’abbandono. Ma io dico no: non dobbiamo abbandonare la nostra Chiesa, dobbiamo salvare insieme la nostra barca che ci porta alla salvezza.