La culla dell’Europa sotto le mura di Troia
Un’identità che nasce con i poemi di Omero
di Paolo Mieli (Corriere della Sera, 30.10.2012)
Nel 417 Claudio Rutilio Namaziano, prefetto di Roma, si imbarca al porto di Ostia per tornare in Provenza, sua terra natale. Sette anni prima (nel 410), Roma è stata presa e saccheggiata dai Goti di Alarico, che da quel momento spadroneggeranno sulle strade consolari. Rutilio Namaziano ha scelto così la via del mare per raggiungere la Gallia, dove va a sincerarsi se i Vandali, che sono transitati di lì per andare a conquistare l’Africa del Nord, hanno devastato e depredato anche le sue proprietà. Case e terreni nei quali Rutilio Namaziano ha in progetto di trasferirsi definitivamente.
A quel viaggio, contrassegnato da numerose e lunghe soste, l’ex prefetto dedica un magnifico poema, De Redito Suo (Il ritorno, pubblicato da Einaudi a cura di Alessandro Fo), in cui rimpiange la Roma che fu, elogia con punte di commozione i riti pagani a dispetto di quelli cristiani, esprime ammirazione nei confronti del generale Costanzo, che ha da poco sconfitto i Goti in Iberia. Dalla malinconia dei versi si intuisce che Rutilio Namaziano si fa poche illusioni circa la portata della vittoria di Costanzo, è consapevole che un mondo va scomparendo, e avverte la sensazione di essere alla fine della storia sua e forse anche della civiltà. Ma qui il poeta sbaglia.
Scrivono Simon Price e Peter Thonemann in un libro, assai originale, che sta per essere pubblicato da Laterza, In principio fu Troia. L’Europa nel mondo antico: «Rutilio pensa che sta lasciando il centro (Roma) per tornare a casa nella periferia (la Gallia), ovvero crede ancora di vivere nel mondo antico... In realtà egli si trova sulla soglia di un mondo nuovo, dove le periferie sarebbero diventate centri a pieno diritto e in cui la Gallia, alla fine del V secolo d.C., sarebbe stata molto più florida di Roma». È partito dalla Roma del passato ed è giunto nell’Europa del futuro. Già, ma quando è nata quell’Europa? Qual è la sua storia antica?
L’Europa in qualche modo aveva cominciato a profilarsi come tale nel I secolo d.C., quando, in tutte le province occidentali dalla Spagna alla Britannia, si notò una grande diffusione delle ceramiche aretine, recipienti di terracotta usati per cuocere, conservare e consumare cibi e bevande. Ceramiche che in forma ben più rudimentale e in misura infinitamente minore avevano cominciato a circolare già cinque o sei secoli prima.
Nell’Europa nordoccidentale preromana la fonte principale di carboidrati, scrivono Price e Thonemann, era stata fino a quel momento una pappa di cereali inzuppata in una scodella di birra: la comparsa delle ceramiche aretine di cui si è detto segnò il passaggio, almeno per le élite, alla cottura del pane. Quelle stesse élite celtiche iniziarono poi ad assaporare vino importato - anche qui si era iniziato centinaia di anni prima - da Massalia (Marsiglia); mentre le classi più povere ancora bevevano birra di frumento mescolata con il miele o birra d’orzo senza aggiunte. Nel corso di quel primo secolo dell’era cristiana il consumo della birra andò declinando a vantaggio di quello del vino, prodotto per oltre la metà nella regione di Besançon in vigneti gallici.
Il mercato delle ceramiche di tipo romano raggiunse proporzioni tali che nella Gallia meridionale cominciarono a fiorire officine che ne producevano ottime imitazioni a beneficio del mercato locale. La più nota si trovava a La Graufesenque, nei pressi di Millau, regione francese Midi Pirenei: i piatti di La Graufesenque si diffusero non solo nelle province galliche, ma anche in Britannia e persino nell’Africa del Nord. Particolare molto importante è che su ogni singolo prodotto di quel vasellame era apposto un sigillo con il nome del produttore o del destinatario, tradotto dal celtico in latino. I vasai di La Graufesenque volevano apparire romani in tutto e per tutto e a tal fine quegli stessi vasai adottarono, per la loro pregiata opera, la lingua di Roma. A poco a poco gli idiomi locali cedevano il posto al latino (a Occidente) e al greco (a Oriente).
È in questo momento che molte delle varie lingue dell’Asia minore (il licio, il lidio, il galatico, il cario) spariscono dalle iscrizioni su pietra, dai papiri, dalle tavolette scrittorie e dagli stampi di ceramica. Solo nella campagna più sperduta può accadere che, nel III secolo d.C., il frigio resista su qualche pietra tombale, peraltro bilingue; stesso discorso vale per il pisidio. Per il resto niente o quasi niente.
Così fa una certa impressione leggere all’interno del Nuovo Testamento, negli Atti degli Apostoli, che a metà del I secolo, quando Paolo e Barnaba arrivarono nella piccola colonia romana di Listra, la popolazione locale li salutò «in licaonico». «Non ci resta neanche una parola della lingua licaonica», osservano Price e Thonemann, «evidentemente sia a La Graufesenque sia a Listra c’era una netta divisione tra le lingue dell’amministrazione e degli affari pubblici (rispettivamente latino e greco) e le lingue che la gente parlava effettivamente nella vita quotidiana (celtico e licaonico)».
Ma torniamo alla storia e alla storia antica (che si confonde con quella mitica). Colpisce il fatto che nella mitologia greca il nostro continente abbia le sue origini fuori dall’attuale Europa, sull’altra sponda del Mediterraneo.
Nelle Metamorfosi di Ovidio, Europa è la figlia di Agenore, re di Tiro (Sidone) in Fenicia, una ragazza che, mentre gioca con le sue amiche sulla riva del mare, viene conquistata da Zeus con le sembianze di un toro alato, ne è rapita e lo segue sulla sua groppa a Creta. Qui Zeus riprende il suo aspetto e si congiunge a lei generando Minosse, fondatore della civiltà che da lui prende il nome.
Ma a ribadire la circostanza delle origini africane c’è che Agenore di Tiro mandò un altro suo figlio, Cadmo, a cercare la sorella Europa: fu nel corso di questo viaggio alla ricerca della sorella che il fenicio Cadmo si fermò in Beozia e fondò Tebe, dando origine a una dinastia che avrebbe regnato fin dopo la guerra di Troia. Va notato che «Europa, Cadmo e Agenore furono figure puramente greche, senza alcun ruolo nella mitologia fenicia indigena». Solo in un secondo tempo, nel II secolo a.C., quei personaggi entrarono a far parte della mitologia nordafricana.
In ogni caso Martin Bernal già qualche anno fa, nel libro Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica (il Saggiatore), approfondì la questione e giunse a due conclusioni: che, incontestabilmente, le origini della civiltà greca andassero cercate in Africa, a suo avviso specificamente in Egitto; e che questa realtà era stata «occultata in maniera sistematica e deliberata» dagli studiosi occidentali sin dal XVIII secolo, «per eurocentrismo o per aperto razzismo».
Mary Lefkowitz, studiosa del Massachusetts, in un altro libro, Black Athena Revisited, ha confutato punto per punto le tesi di Bernal. Ma Simon Price e Peter Thonemann, dopo averle riesaminate, sostengono che esse reggono alla missione di «contrastare lo sminuimento culturale di popolazioni di origine africana, operato da teorie implicite o affermazioni esplicite secondo le quali non sarebbe mai esistita una grande cultura africana che ha contribuito complessivamente alla civiltà mondiale e secondo le quali i neri siano sempre stati schiavi». Ciò che, proseguono, «ci sembra ragionevole, equilibrato e ben argomentato». Anche se si sentono in dovere di aggiungere: «Se sia il modo corretto di fare storia oppure no, lo lasciamo decidere al lettore».
In ogni caso i primi contatti dei Fenici con il Mediterraneo occidentale sembrano risalire al X e IX secolo a.C.; ma solo a partire dall’inizio dell’VIII i mercanti nordafricani diedero vita a insediamenti stabili. La diaspora fenicia «fu sbalorditiva per la sua rapidità». A cavallo di due secoli, i Fenici avevano fondato insediamenti in Tunisia e in Sicilia occidentale, tra cui Palermo, a Malta, in Sardegna, a Ibiza, sulla costa andalusa della Spagna. Un secolo dopo, attorno al 600 a.C., i Greci fondarono Massalia, l’odierna Marsiglia.
Comunque all’inizio fu definito Europa tutto ciò che si trovava a ovest dell’Asia, dell’Ellesponto, delle terre dominate dai Persiani. E all’origine fu la guerra di Troia. Per i Greci e per i Romani Troia è la città a cui risale la memoria, in cui il mito ha iniziato a farsi storia: essa è sì alle frontiere dell’Asia, ma «storicamente» è in Europa (vale ricordare che la Daimler Benz per aver sponsorizzato i nuovi scavi nel sito di Troia iniziati nel 1988, è stata premiata dall’Unesco per l’opera a favore del «patrimonio culturale europeo»). Per i Greci, i Romani e anche altri popoli «la guerra di Troia e gli eventi immediatamente successivi costituirono il limite più antico della loro consapevolezza del passato e divennero le fondamenta dell’identità europea».
All’inizio del primo millennio a.C. la distinzione più chiara non è quella tra Est e Ovest, ma fra paesi a nord e a sud delle Alpi. E a nord cosa c’era? Sono state trovate le tracce di qualcosa di importante anche a nord, come l’insediamento, piccolo ma fortificato, di Sobiejuchy, nella Polonia centrosettentrionale, probabilmente abitato tra l’Età del Bronzo a quella del Ferro, un sito che può servire da modello per altri insediamenti centroeuropei di quello stesso periodo. Sobiejuchy, grande circa sei ettari (la coeva Micene occupava quattro ettari), sorgeva su un’isola in un lago ed era difesa da una palizzata di legno. Era fondata su un’economia rurale di sussistenza, con una coltivazione intensiva di una gran varietà di raccolti: miglio, grano, spelta, farro, fagioli, lenticchie e piselli; si allevavano maiali, pecore, cavalli, si pescava e si catturavano animali selvaggi.
Nell’Età del Ferro la regione a nord delle Alpi, a est della Borgogna e a ovest della Repubblica Ceca vide nascere un gruppo culturale stabile e relativamente omogeneo chiamato «cultura di Hallstatt», dal nome di un paese dell’Austria famoso per le miniere di salgemma. Questa cultura nel VI secolo a.C. man mano che, come si è detto, i beni di lusso di manifattura mediterranea cominciarono a viaggiare verso nord lungo il corridoio del Reno, subì una grande trasformazione: «Emerse una nuova classe dirigente che risiedeva in città collinari fortificate in stile greco e che si distinguevano da quelle contemporanee per l’utilizzo di beni di lusso greci». I nobili di Hallstatt furono «consumatori di vino massaliota» e compratori di grandi quantità di vasellame greco da degustazione.
Ma se questo è il poco che si era sviluppato in quello che è oggi il centro del nostro continente, l’Europa di quei tempi giocava la sua partita sull’Ellesponto. Nel v secolo gli asiatici furono all’attacco e gli Ateniesi li respinsero a Maratona (490 a.C.), a Salamina (480 a.C.) e a Platea (479 a.C.).
Nell’anno di Platea ci fu la crocefissione di Artaitte, l’episodio dal grande valore simbolico che ci collega all’antica storia europea. Due anni prima, il re persiano Serse aveva condotto il suo immenso esercito al di là dello stretto, con lo scopo di annettere l’intera penisola greca all’impero persiano. Per trasportare l’armata al di là dell’Ellesponto, il gran re aveva unito le due coste con un ponte di barche e si addentrava nell’Europa. In quei giorni Artaitte, governatore per conto di Serse della città di Sesto, aveva «dato ai Greci del luogo una lezione memorabile sul potere persiano» saccheggiando la tomba di Protesilao, sepolcro sacro della guerra di Troia.
Protesilao era stato, secondo Omero, il primo greco a essere ucciso appena balzato a terra sulla costa della Troade; la crocefissione di Artaitte fu dunque, ai tempi della sconfitta definitiva di Serse, la vendetta simbolica nei confronti di chi aveva osato violare la memoria della vittoria dell’Occidente sull’Oriente, dell’Europa sull’Asia. Di chi, in altre parole, aveva avuto l’ardimento di mettere in dubbio la supremazia europea, destinata da quel momento ad essere definitiva.
All’inizio del V secolo, il Giro della terra di Ecateo di Mileto, il primo tentativo di descrivere una geografia universale, fu diviso in due libri, il primo si chiamava «Europa», il secondo «Asia». Ecateo descrisse il mondo abitato come un «disco circolare abbracciato dall’Oceano». Tale disco era diviso in due metà uguali, l’Europa e l’Asia appunto, separate da una sola striscia d’acqua, il Mediterraneo e il Mar Nero legati tra loro dall’Ellesponto.
Nel 449 a.C., quando gli Ateniesi inflissero un’altra sconfitta alla flotta e all’esercito dei Persiani, il monumento celebrativo ateniese affermava che non c’era stata una vittoria più grande «da quando l’Oceano divise l’Europa dall’Asia». Ma non c’era nessun disprezzo per gli asiatici. Erodoto di Alicarnasso, greco nato sulla costa dell’Asia Minore, nelle Storie seppe descrivere anche i popoli «non europei», le «razze barbare» con «acutezza e simpatia». Tebe ai tempi di Platea si era schierata dalla parte dei Persiani, ma non fu mai considerata una città non greca.
Questo dimostra che, anche se era molto importante sapere chi, in battaglie cruciali, era stato dalla parte dei vincitori e chi da quella dei perdenti, l’Europa non confuse mai il proprio diritto ad esistere con un senso di alterità e superiorità nei confronti degli «altri». Del resto, all’inizio della Guerra del Peloponneso, Tucidide osserva che il termine «barbaro» non è mai usato in Omero, «per il fatto che gli Elleni, a mio parere, non erano ancora riuniti sotto un nome distinto che si opponesse a quello dei barbari».
Si tratta, scrivono Price e Thonemann, di «un’osservazione molto acuta». L’Iliade mostra «scarso interesse per le differenze etniche o culturali tra gli Achei e i Troiani»: Tucidide «ha colto il punto cruciale per cui il concetto di barbaro è inestricabilmente legato all’idea di grecità: solo quando i Greci cominciarono a considerarsi un unico popolo con caratteristiche comuni (templi, lingua, antenati), impararono a guardare ai non greci come ad un unico gruppo».
Omero non ha alcuna idea di divisione del mondo in due continenti separati. Almeno fino all’Inno omerico ad Apollo, che è del VI secolo a.C., Europa è solo «un termine comodo per la Grecia continentale a nord dell’Istmo, senza alcuna delle connotazioni geografiche e politiche più ampie che avrebbe sviluppato due secoli dopo».
Si calcola che nel 400 a.C. il mondo greco ospitasse almeno 862 città-Stato indipendenti, la stragrande maggioranza delle quali erano situate nel bacino egeo. La loro fu la prima cultura veramente urbana a emergere in Europa: la popolazione totale della Beozia classica può essere stimata tra i 165 e i 200 mila abitanti, di cui circa 100 mila (il 50 per cento o più) vivevano in centri urbani.
Si tratta di una percentuale «eccezionalmente alta», fanno notare i due storici; 2.400 anni dopo, nel Settecento, la popolazione urbana dell’Europa nel suo complesso sarebbe stata all’incirca solo il 12 per cento di quella totale: «Nei Paesi Bassi, una delle regioni più urbanizzate dell’Europa continentale, la popolazione arrivava forse al 40 per cento». Va anche detto che quella ateniese era una singolare eccezione. La poco lontana Tracia, equivalente all’odierna Bulgaria, per come ce l’ha raccontata Senofonte, aveva villaggi che consistevano in «una manciata di capanne di legno, ognuna circondata da un’area recintata per il bestiame». Niente di più.
L’impero ateniese del V secolo era diverso da qualsiasi altro Stato mai esistito e da quelli ancora esistenti in Europa fino ad allora. C’erano 700 funzionari ateniesi in servizio permanente all’estero, più del quadruplo di quanti Roma ne avrebbe mandati secoli dopo ad amministrare le province di tutto il proprio impero.
Atene imponeva ad ogni città sottomessa l’adozione di pesi, misure e monete uniformi. E in quel periodo gli Ateniesi cominciarono a registrare su pietra inventari dei templi, contabilità edilizia, vendite di proprietà ed elenchi di vittime. Un’«abitudine documentaria» che fa di quest’esperienza un unicum nella storia d’Europa nel mondo antico.
Fu quella ateniese una civiltà superiore? Non in tutto. Price e Thonemann sono colpiti per il fatto che in questa storia antica d’Europa le donne ateniesi avessero una condizione peggiore che nel resto del mondo greco. Per esempio, un codice giuridico del V secolo di Gortina, a Creta, mostra che «le donne del luogo potevano possedere ed ereditare beni, sposarsi e divorziare con relativa libertà e persino generare figli liberi da uno schiavo maschio». Allo stesso modo le donne spartane godevano di diritti legali e di un grado di libertà sociale che inorridiva gli osservatori ateniesi e si diceva che «alla fine del IV secolo due quinti della terra spartana fossero posseduti da donne». Resta dunque «il paradosso che lo Stato più egualitario del mondo greco fosse anche uno dei più repressivi nel trattamento delle donne».
L’Europa fece un importante passo avanti nell’affermazione della propria identità con la comparsa sulla scena di Filippo il macedone e poi di suo figlio Alessandro. Già l’oratore ateniese Isocrate definì Filippo «il più grande dei re dell’Europa», un modo per «identificare gli interessi di quel re con quelli dei Greci», senza dover sostenere che era greco lui stesso. E non è certo un caso che a sua figlia, nata poco dopo la vittoria di Cheronea, Filippo diede il nome Europa.
Con l’ascesa della Macedonia come potenza dominante nel mondo greco, «essere europeo finì necessariamente per significare qualcosa di più che essere greco». Filippo e Alessandro «nel loro tentativo di unire la sfera culturale greca e quella macedone, potrebbero essere indicati plausibilmente come i primi europei consapevoli». E quando nel 334 a.C. Alessandro si apprestò a varcare l’Ellesponto, volle prima rendere omaggio alla tomba del Protesilao di cui si è detto e, appena la sua nave approdò sulla costa della Troade, imitò quello stesso Protesilao e volle essere il primo a metter piede sul suolo asiatico.
Dopodiché, se così si può dire, l’Europa travolse l’Asia. Tra il 334 e il 330 a.C. Alessandro conquistò la penisola dell’Asia Minore, la Siria, l’Egitto, il cuore dell’impero persiano cioè la Mesopotamia e l’Iran occidentale fino a spingersi, all’inseguimento di Dario III, in Afghanistan, Uzbekistan e Tagikistan (in quella zona del mondo è stata ritrovata la colonia greca di Ai-Khanoum), in India.
Ed è curioso notare che un anno prima di questa colossale impresa, che avrebbe spostato sia pure provvisoriamente in Asia il baricentro dell’impero, nel 335, Alessandro incontrò una delegazione dei Celti. I Celti all’epoca erano scesi dalle foreste del Nord per spadroneggiare nell’odierna Europa, si erano spinti fino a Roma (386) e il grande re macedone fu - forse - sul punto di stringere con loro un’alleanza che ad ogni evidenza, se si fosse realizzata, avrebbe cambiato il corso della storia.
Ma quell’incontro non si concretizzò, così come non ebbe un seguito concreto e duraturo la magnifica avventura di Alessandro in Asia. Toccò a Roma respingere le bande razziatrici venute dal Nord e qualche tempo dopo domare sia i Greci (in soli 53 anni a partire dalla fine della dinastia macedone nel 220 a.C.) che i Fenici. La distruzione di Cartagine e quella di Corinto (entrambe nel 146 a.C.) «segnano un punto di svolta nella storia del Mediterraneo».
Da quel momento «anche la conoscenza dell’Europa subì un cambiamento» (i Greci avevano avuto scarso interesse per le aree interne del continente). Le aree dell’Europa centrale si mostrano permeabili alla penetrazione romana. La storia delle società indigene prima della conquista - diversamente da quel che accadeva in Asia - «fu ampiamente dimenticata e rimpiazzata da un passato nuovo e più accettabilmente romano... Le lingue locali entrarono in un rapidissimo declino; persino le pratiche relative al mangiare e al bere furono cancellate dalla diffusione della ceramica e delle colture romane, prima fra tutte la vite».
Fu così che vennero in primo piano popoli un tempo periferici rispetto al mondo greco e che adesso cercavano di assicurarsi un posto in quel mondo, riconnettendo il proprio passato a quello greco più remoto. «Il viaggio di Enea da Troia in fiamme attraverso Cartagine verso l’Italia divenne un punto di riferimento ricorrente per i popoli del mondo romano... La storia che parte da Enea e Romolo, quella dell’ascesa di Roma, che per Agostino d’Ippona (tra il IV e il V secolo d.C.) era la principale città terrena, entrò a far parte del nuovo bagaglio ideologico trasmesso all’Europa cristiana».
Il greco divenne l’idioma dominante nel Mediterraneo («il che spiega perché i primi testi cristiani, incluso il Nuovo Testamento, furono scritti in greco e non in aramaico, che pure era la lingua di Gesù»), ma fu il latino che - dopo una lunga stagione in cui l’aristocrazia aveva l’obbligo di essere bilingue - divenne la lingua dominante dell’Occidente.
La storia stava procedendo lungo l’itinerario di Rutilio Namaziano, che aveva creduto di andare da un centro ancora vitale (Roma) in una regione priva di prospettiva (l’Europa) e non si era accorto (probabilmente non poteva accorgersi) che stava facendo il percorso inverso.
LA PROSPETTIVA INEDITA E INAUDITA DI CARLO LEVI.
Sul tema, mi permetto di invitare a rileggere il ricco e complesso lavoro sociologico-politico (altro che "romanzo"!) di Carlo Levi, “Cristo si è fermato ad Eboli”, e a soffermarsi - in particolare - sul passaggio relativo al tema della civiltà contadina e delle sue guerre ("le sue guerre nazionali") e della storia "di quello che non si svolge nel tempo: la sola storia di quello che è eterno e immutabile, una mitologia (...) (pp. 123, ed. Einaudi: testo integrale disponibile al link: http://lnx.polocorese.it/phpnuke/upload/ebook/Carlo-Levi-CRISTO-SI-E’-FERMATO-A-EBOLI.pdf).
E, poco oltre, così prosegue: "La prima di esse [delle guerre nazionali] è quella di Enea. Una storia mitologica deve avere delle fonti mitologiche; e in questo senso, Virgilio è un grande storico. I conquistatori fenici, che venivano da Troia, portavano con sé tutti i valori opposti a quelli della antica civiltà contadina. Portavano la religione e lo Stato, la religione dello Stato. (...) Poi venne Roma, e perfezionò la teocrazia statale e militare dei suoi fondatori troiani, che, vincitori, avevano però dovuto accogliere la lingua e il costume dei vinti. E Roma si urtò anch’essa nella difesa contadina, e la lunga serie delle guerre italiche fu il più duro ostacolo al suo cammino (pp. 123-124, cit.); e, ancora, fino ad illuminare il suo presente storico, scrive con lucidità e spirito critico: "(...) La quarta guerra nazionale dei contadini è il brigantaggio. Anche qui, l’umile Italia storicamente aveva torto, e doveva perdere. Non aveva armi forgiate da Vulcano, né cannoni, come l’altra Italia. E non aveva dèi: che cosa poteva fare una povera Madonna dal viso nero contro lo Stato Etico degli hegeliani di Napoli" (p. 125, cit.)
Al di là dei vari storicismi idealistici o materialistici, a mio parere, il lavoro (non solo questo! Si veda almeno "Paura della libertà", scritto - dopo il confino - nel 1939 e pubblicato da Einaudi nel 1946) di Carlo Levi, è ancora da leggere e da rimeditare, oggi! - assolutamente profetico; è nell’ottica di una visione inaudita e inedita della storia, per molti versi (per intendersi e orientarsi) vicina a Giambattista Vico* e a Walter Benjanin*.
Federico La Sala
*
SUL PROBLEMA VICO (E, IN PARTICOLARE, SULL’INTERPRETAZIONE DI BENEDETTO CROCE DELL’OPERA DI VICO), SI VEDA NEL SITO:
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5737
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3? id_article=5634
SULLA CONCEZIONE DELLA STORIA DI WALTER BENJAMIN, SI VEDA NEL SITO:
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/IMG/pdf/IMG-13.pdf
segnalazione...
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE
PARMENIDE, UNA "CAPPELLA SISTINA" CARMELITANA, LE XILOGRAFIE DI FILIPPO BARBERI E LA DOMANDA ANTROPOLOGICA. Un lavoro di Federico La Sala, con pref. di Fulvio Papi
Le Sibille di Contursi hanno parentele più celebri nella cattedrale di Siena, nell’appartamento Borgia in Vaticano, nel Tempio Malatestiano di Rimini, nella Cappella Sistina di Michelangelo. La pittura disegna l’eclettismo ermetico-cabalistico-neoplatonico rinascimentale ...
Europa-Asia come si inventa il nemico
Per accreditare l’idea di un antagonismo eterno si risale fino a Troia e alle guerre persiane
di Luciano Canfora (La Stampa, 3.12.2012)
I procedimenti mentali intesi a dare alla nozione di Europa un contenuto storico, o addirittura politico, organicamente unitario sono votati al fallimento: questo non impedisce, ovviamente, che abbiano successo come pseudoconcetti della retorica comiziale.
Tentativi del genere si ripetono nel tempo, e prendono le mosse dagli spunti più diversi. Tra le risorse più utilizzate vi sono, com’è noto, due remotissimi avvenimenti storici, la guerra di Troia (circa 1200 a. C.) e le guerre persiane (490 e 480-478 a. C.). Entrambi proverebbero che Europa e Asia si sono scontrate da sempre, e comunque ab immemorabili tempore, e che dunque oggi - in tempi di crescita esponenziale dell’economia indiana e, ancor più, di quella cinese - è giunto il momento della riscossa europea ancora una volta contro l’Asia: «fare fronte» (come dicevano un tempo gli attivisti dell’ultradestra eversiva) nel nome di Agamennone e di Menelao e, perché no, di Temistocle. Né importa che proprio lui, Temistocle, il vincitore di Serse a Salamina (con buona pace degli «europeisti da comizio») sia poi fuggito in Persia ostracizzato dagli Ateniesi, e ospite di Artaserse fino alla fine dei suoi giorni, in qualità di governatore della satrapia persiana di Magnesia al Meandro per ordine di Artaserse I. La storia, si sa, è complicata, e, se studiata da presso, smentisce la retorica comiziale.
Mette conto osservare, peraltro, che l’operazione di collegare passato e presente per cavarne insegnamenti attuali fu già compiuta in antico, ma non tanto a sostegno della presunta polarità Europa/Asia quanto, semmai, per suffragare il fondamento antico dell’antagonismo Grecia/Asia e portare argomenti alle aspirazioni egemoniche imperiali di chi voleva dominare sui Greci e accampava di chiamarli a raccolta per proseguire la storica, inestinguibile guerra contro l’Asia.
Un tale argomento fu il cemento ideologico dell’impero ateniese nel V secolo e fu ripreso e amplificato - con l’aiuto di devoti propagandisti - da Filippo di Macedonia nel secolo seguente. Ma in un caso come nell’altro si trattava per l’appunto di una copertura propagandistica delle aspirazioni egemoniche sul mondo greco tanto da parte di Atene quanto da parte di Filippo.
Un bell’esempio di come poté svilupparsi questo genere di operazioni ideologiche a base storiografica è dato dalla tardiva nascita della «cornice» dell’opera di Erodoto. Per quanto la prudenza si imponga quando si cerca di stabilire attraverso indizi la stratigrafia compositiva di un’opera antica (per la quale in genere mancano informazioni esterne che rivelino il cammino compiuto dall’autore), è tuttavia ragionevole pensare che la «cornice» riassuntiva iniziale mirante a proiettare molto indietro nel tempo le radici del conflitto greco-persiano sia nata per l’appunto quando il racconto erodoteo si è concentrato, negli ultimi libri, sulle due invasioni persiane della Grecia.
A quel punto si sono verificati, in modo convergente, alcuni fenomeni che hanno contribuito a far nascere quella «cornice» che solo molto tardi Erodoto deve aver collocato al principio della sua opera. E cioè: (a) il dilatarsi oltre misura del racconto di quelle due guerre e soprattutto dell’invasione di Serse, la più pericolosa e la più durevole; (b) il fatto che dunque tale racconto veniva a costituire la metà almeno dell’intera historíae; (c) il fatto che la vittoria sui Persiani venisse da tempo e stabilmente adoperata da Atene per giustificare il proprio impero imposto agli alleati greci; (d) la crescente insofferenza dei Greci verso tale uso imperialistico della vittoria sui Persiani, «nemico storico», nemico «di sempre»; (e) la scelta di Erodoto di far propria quella propaganda nel momento in cui Pericle stava portando Atene verso un micidiale conflitto intergreco; (f) la necessità propagandistica di dare al conflitto da cui la potenza imperiale ateniese era sorta lo sfondo storico mitico di un conflitto eterno, di una minaccia sempre presente da cui Atene aveva salvato i Greci tutti, ivi compresi quelli che ora le si opponevano o le si ribellavano.
Di qui la «cornice» in cui quel conflitto «eterno» viene teorizzato ed esemplificato: una cornice che dà unità a tutta l’opera imponente dello storico di Alicarnasso fattosi ateniese di adozione e pericleo di simpatie politiche.
Grecia e Asia, dunque: non Europa e Asia, stante che l’«Europa» di Erodoto è una Grecia un po’ più vasta, non un continente.
Erodoto è consapevole del carattere ideologico di una tale impostazione. In lui il propagandista generoso della giustificazione periclea dell’impero convive con l’etnografo che sa bene quanto Asia e Grecia e Africa siano realtà compenetrate, non contrapposte, e quanto, semmai, la Grecia debba a quegli altri due mondi, coi quali sin dal principio aveva convissuto mescolandosi.
Tre donne «forti» dietro tre padri della fede
di Marco Garzonio (Corriere della Sera, 25 ottobre 2012)
Il IV secolo è fine di un’epoca e nascita di tempi nuovi anche per i modelli femminili nella cultura cristiana e nella società. Mentre le istituzioni dell’Impero si sfaldano, popoli premono ai confini, corruzione e violenze dilagano e le casse sono vuote, causa guerre ed evasione fiscale, alcune donne sono protagoniste delle trasformazioni almeno tanto quanto gli uomini accanto ai quali la storia le ha accolte. Elena, madre di Costantino, Monica madre di Agostino, Marcellina sorella di Ambrogio.
Ma ci son pure Fausta, moglie di Costantino, da lui fatta assassinare per sospetto tradimento (violenza in famiglia anzi tempo) e la compagna di Agostino, giovane cartaginese vissuta anni more uxorio («coppia di fatto» si direbbe oggi) col futuro santo vescovo d’Ippona. Gli diede pure un figlio, Adeodato, di lei però non è rimasto nemmeno il nome: una rimozione del femminile, nonostante la straordinaria autoanalisi ante litteram compiuta da Agostino nelle Confessioni; un archetipo delle rimozioni collettive della donna praticate dalla cattolicità e di tanta misoginia e sessuofobia che affliggeranno la Chiesa per secoli e ancora la affliggono. Ma andiamo con ordine nel considerare i tipi.
La madre solerte, forte, premurosa, ambiziosa, molto attaccata al figlio maschio, possessiva: è il modello di madre che emerge dalle testimonianze. In parte è un’icona ritagliata sul prototipo della matrona romana, su cui s’innesta la novità del cristianesimo. Questo dalle origini si dibatte in una contraddizione. C’è l’esempio di Gesù che «libera» la donna dalle sudditanze; per lui non è alla stregua di una «cosa» (come negli usi romani); negli incontri rivela l’alta considerazione verso una persona non certo inferiore all’uomo e contraddice così la cultura del tempo. Narrano i vangeli che Gesù si mostra a Maria di Magdala e alle altre donne come il Risorto davanti al sepolcro vuoto: loro sono le protagoniste, a esse affida l’annuncio pasquale. Dall’altra parte c’è San Paolo che invita le mogli a stare sottomesse ai mariti e ispira la visione di un ruolo ancillare, silenzioso, subordinato.
Ecco, allora: Elena anticipa quella che in epoche successive sarà la Regina Madre. Locandiera, legata a Costanzo Cloro cui darà un figlio, Costantino, fa di tutto perché questi diventi padrone dell’Impero: tesse rapporti, guida, consiglia. Verrà ricambiata: Costantino cingerà lei del diadema imperiale (invece della «traditrice» Fausta) introducendo nell’iconografia una coppia un po’ incestuosa: madre e figlio.
Psicologicamente Costantino sarà in un certo modo sottomesso a Elena. A Gerusalemme lei troverà le reliquie del Santo Sepolcro. Dei chiodi della Croce ornerà la corona imperiale (posta sul capo dei padroni del mondo sino a Napoleone) per dire che chi governa è sottomesso a Dio, e farà il morso del cavallo del figlio: anche i sovrani devono frenare le pulsioni.
Madre altrettanto ingombrante, sul piano degli affetti in questo caso, fu Monica per Agostino. Questi aveva cercato di liberarsene partendo per Roma senza dir nulla ma Monica non si scoraggiò, lo inseguì e raggiunse sino a Milano, capitale ai tempi. Qui convinse il figlio, all’apice del successo come retore, a rispedire in Africa la compagna e si diede da fare perché trovasse a corte una moglie. Intanto s’era pure spesa affinché Agostino conoscesse Ambrogio, che a Milano contava più delle insegne imperiali. Così l’amore di madre si trasformò: cadde il progetto di ascesa sociale, venne la conversione e il futuro padre della Chiesa riprese la via dell’Africa, senza più Monica però, che morirà sulla via del ritorno.
Un altro genere di donna, che ebbe e ha importanza nella Chiesa, nei costumi, nella cultura è incarnato da Marcellina. La sorella di Ambrogio, dopo aver contribuito a crescere i fratelli, prese il velo con papa Liberio. Grazie a lei si prospettò una scelta di vita ricalcata sul modello del monachesimo orientale, di cui Ambrogio era estimatore: la verginità (su questa il Patrono di Milano compose una delle sue opere principali), la consacrazione, il chiostro in cui ritirarsi, pregare e, in taluni sviluppi, lavorare, garantire il prosieguo delle tradizioni e aprirsi al mondo attraverso opere di carità. Costantino, Ambrogio, Agostino e lo loro donne: esempi d’una storia plurale che continua, viene costruita giorno dopo giorno ancora, si evolve.
COSTITUZIONE DOGMATICA DELLA CHIESA ’CATTOLICA’ ... E COSTITUZIONE DELL’IMPERO DEL SOL LEVANTE. Un nota sul “disagio della civiltà” di Federico La Sala (www.ildialogo.org/filosofia, 17 novembre 2005)
Il ’delirio’ della Gerarchia della Chiesa ’cattolico’-romana è ormai galoppante!!! E se vogliamo aiutarla a guarire o, che è lo stesso, se vogliamo aiutarci a guarire (il ’delirio’ è generale, e non solo suo!!!) non possiamo non riprendere a pensare - a partire da noi stessi, e da noi stesse!!!
Il problema è pensare proprio a partire da noi, dagli esseri umani in carne ed ossa - dalle persone, quale siamo e quale vogliamo essere, da quell’individuo che non sia un (o una) “Robinson”, come voleva il ’vecchio’ Marx non marxista e non hegeliano!!! Basta con le robinsonate!
La questione è la Relazione (Dio è Amore), e una relazione non edipica!!! Una relazione edipica (sia dal lato della donna sia dell’uomo) porta a postulare l’esistenza di un “dio” (un dio-uomo o un dio-donna) e, di qui, la concezione di un ’mondo’ dove il diritto di comandare in cielo e in terra sia del “dio” (del dio-uomo o del dio-donna)!!!
Da questo punto di vista, la Chiesa ’cattolico’-romana è solo l’ultimo baluardo di quel “dio” che garantisce la proprietà privata dei mezzi di produzione e l’educazione edipico-capitalistica.
Perché i sacerdoti (se vogliono) non si possono sposare?!, o perché le donne non possono diventare sacerdot-esse?!, ma perché il “dio” è concepito come dio-uomo e, come tale, solo il dio-figlio può essere come il dio-padre... e la donna solo come la madre-dea.
Sulla terra (e per tutti e per tutte) il Dio-Figlio è il figlio-dio e il fratello di tutti e di tutte, ma in cielo solo Lui può essere il Padre... e lo Sposo della Madre - e, siccome è solo lui che può avere rapporti con il cielo (ma il messaggio di Gesù proprio perché è un buon-messaggio dice che tutti e tutte siamo tutti e tutte figli e figlie di Dio-Amore... e tutti e tutte possiamo avere rapporti con “Lui”!!!), deve essere anche ’donna’ (perciò si traveste così come si traveste) per ’generare’ e ’riprodurre’ se stesso, in circolo...e comandare su tutti, su tutte, e su tutto! Che follia, senza alcuna saggezza - sconsolatamente!!!
Vedere il caso del Giappone - nella cultura giapponese c’è la Dea in cielo, e l’imperatore sulla terra; ora-oggi!!!, dal momento che alla coppia imperiale è nata una bambina, si parla di cambiare la Costituzione per far sì che Lei possa accedere al trono ... ma il problema è più complesso - come si può ben immaginare - perché ... deve essere cambiata anche la Costituzione celeste dell’Impero del Sol Levante!!! Se no, l’Imperatrice con Chi si ’sposerà’?! Con la Dea?!!
Non è questa forse la ragione nascosta del “disagio della civiltà” dell’Oriente e dell’Occidente ..... e anche della sua fine, se non ci portiamo velocemente fuori da questo orizzonte edipico-capitalistico di peste, di guerra e di morte? Non è ora di andare al di là della tragedia, e riprendere il filo dall’ “Inizio” (filosoficamente, parlando)?! Cosa significa essere EU- ROPEUO*?!!
In principio cosa c’era, il Logos buono o il Logos cattivo?! Sta a noi, tutti e tutte, deciderlo - qui ed ora (come sempre, del resto)!!!
Federico La Sala
*
Sul significato del termine “eu-ropeuo”, cfr. “Terra!, Terra!: il Brasile dà una ’lezione’ all’Europa e alle sue radici”
La memoria ritrovata
A Berlino un monumento per l’Olocausto di Rom e Sinti
Dopo vent’anni di polemiche e tensioni la Germania celebra lo sterminio negato e chiede ufficialmente scusa al popolo zingaro
di Gherardo Ugolini (l’Unità, 28.10.2012)
BERLINO A CIASCUNO IL SUO MEMORIALE. IN QUEL SUGGESTIVO “PAESAGGIO DELLA MEMORIA” CHE CARATTERIZZA IL CENTRO STORICO DELL’ODIERNA BERLINO, precisamente nell’area nevralgica dove si levano la sede del Reichstag e la Porta di Brandeburgo, gli altari del ricordo collettivo si susseguono uno dopo l’altro. C’è quello dell’Armata Rossa con i carri armati sovietici che per primi violarono la capitale del Reich nella primavera del 1945. Ci sono qua e là frammenti del Muro che per tre decenni è stato l’emblema indiscusso della guerra fredda. C’è l’immenso cimitero di steli grigie, disposto da Peter Eiseman per onorare il ricordo dei milioni di ebrei vittime della Shoah. Più nascosto tra i cespugli e gli alberi del Tiergarten, il grande parco cittadino un tempo riserva di caccia della casa reale, si trova il monumento in onore degli omosessuali perseguitati dal nazismo.
Dallo scorso mercoledì la mappa berlinese del ricordo storico si è arricchita ulteriormente. Ci sono voluti oltre vent’anni di discussioni, polemiche a tratti roventi, promesse non mantenute e rinvii inspiegabili, ma finalmente anche gli zingari hanno in Germania un loro monumento che ricorda le deportazioni e i massacri patiti durante gli anni del Terzo Reich.
«Lo dobbiamo ai morti e lo dobbiamo ai vivi» ha dichiarato la cancelliera Angela Merkel nel discorso ufficiale durante l’inaugurazione. Una volta tanto i discorsi non sono stati né rituali né vacuamente retorici. «Lo sterminio di quel popolo ha lasciato tracce profonde e ferite ancora più profonde» ha affermato la cancelliera invitando a considerare il nuovo memoriale come un monito contro ogni forma di discriminazione etnica e razziale.
E rivolgendosi ai rappresentanti delle comunità di sinti e rom presenti all’inaugurazione, Merkel non ha nascosto i pregiudizi e i problemi di convivenza che tuttora si riscontrano nella società tedesca, evidenziando come sia «compito tedesco ed europeo sostenervi nell’esercizio dei vostri diritti». Un discorso tutto sommato coraggioso, anche se qualcuno ha fatto osservare come sia stato proprio il governo di Frau Merkel non più tardi di due anni orsono ad espellere - nonostante le blande proteste del Consiglio d’Europa e nella più assoluta indifferenza dell’opinione pubblica - oltre diecimila rom kosovari, rifugiatisi alla fine degli anni Novanta nel territorio della Bundesrepublik.
Quello dei rom e dei sinti è stato un destino davvero disgraziato. La loro persecuzione da parte dei nazisti iniziò fin da subito e fu portata avanti con una sistematicità e una violenza del tutto analoghe a quelle impiegate contro gli ebrei. Considerati una «razza inferiore», degenerazione di quella ariana, geneticamente predisposta al nomadismo, all’asocialità e alla delinquenza, gli zingari furono deportati in massa nei campi di concentramento badando anche a tenerli isolati dagli altri prigionieri: per questo ad Auschwitz fu istituito un apposito Zigeunerlager, ovvero un «campo per gli zingari».
Per risolvere la «questione zingara» il nazismo dapprima approvò una serie di leggi e provvedimenti fortemente persecutori, quindi avviò la pratica della sterilizzazione coatta (una sorta di sterminio dilazionato nel tempo), per passare, infine, nel 1942 alla «soluzione finale», ovvero il trasferimento obbligatorio di tutti gli zingari ad Auschwitz in vista del definitivo annientamento. Ne morirono almeno 500mila, ma gli storici calcolano che probabilmente furono molti di più: data la loro natura nomade è difficile stabilire con precisione quanti zingari risiedessero nel territorio della Germania e delle zone occupate dai nazisti.
Anche dopo la fine della guerra i patimenti non sono cessati. Per decenni nel Dopoguerra il loro sterminio è stato negato o minimizzato. Nei processi contro i criminali nazisti - a partire da quello di Norimberga - mai nessuno decise di sentire testimonianze di rom e sinti. E nonostante la Convenzione di Bonn - imposta dagli Alleati alla Germania nel 1945 - prescrivesse il pagamento di indennizzi a quanti erano stati perseguitati per motivi razziali, nel caso dei rom e dei sinti tutte le istanze di risarcimento furono eluse dalla magistratura tedesca.
La ferita del «genocidio negato» ha bruciato toppo a lungo, come ha denunciato pochi giorni fa Romani Rose, presidente del Consiglio centrale dei popoli sinti e rom in Germania. Si dovette attendere fino al 1982 perché un’autorità politica tedesca, il cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt riconoscesse le loro ragioni e chiedesse ufficialmente scusa a nome del popolo tedesco. E quindici anni dopo fu il presidente federale Roman Herzog a sottolineare l’analogia tra ebrei e nomadi per quanto riguarda le pratiche di sterminio del Terzo Reich.
Il memoriale che ricorda la loro tragedia sorge ora nel cuore di Berlino e mette una pezza su una parabola fatta di tormenti e dimenticanze. Le comunità degli zingari residenti in Germania lo hanno fortemente voluto come segnale di pacificazione, ma sono stati necessari due decenni perché si superassero incomprensioni e impedimenti e il progetto diventasse realtà.
L’artista israeliano Dani Karavan lo ha realizzato dandogli la forma di una vasca circolare dal fondale nero, con un triangolo vuoto nel centro da cui ogni giorno emerge una stele con un fiore sulla sommità. A chi lo guarda trasmette la sensazione di sprofondamento nell’abisso, quella sensazione che si provava all’ingresso dei lager, come rievocato dai versi del poeta italiano di etnia Rom Santino Spinelli incisi sul bordo della vasca.