su twitter: “altri quattro anni”
Usa, Obama si conferma presidente:
“Per noi il meglio deve ancora venire”
Romney lo chiama: “Lavoriamo uniti”
Barack Obama si è confermato presidente: immediata è esplosa la gioia a Chicago,alla sede dei democratici
Il presidente si aggiudica almeno 285 grandi elettori
ma nel voto
popolare sostanziale parità al 49% *
ROMA Barack Obama ce l’ha fatta,. Non sarà un presidente da un solo mandato, l’incubo che lo perseguitato in questi mesi di durissima campagna elettorale. Sarà lui a guidare l’America per i prossimi quattro anni. «Four More Years»: è stato ancora una volta uno slogan vincente a trascinarlo alla vittoria, come il «Yes We Can» del 2008. «Finirò quello che ho iniziato. Il meglio deve ancora venire», esulta rivolgendosi ai sostenitori in delirio: da Chicago, dove si trova il suo quartier generale, a New York, dove Time Square è gremita di gente in festa. Fino a Washington, dove la folla esulta davanti alla Casa Bianca. Proprio come quattro anni fa.
Eppure all’Election Day si era arrivati con un serratissimo testa a testa tra lui e Mitt Romney - quello sancito da tutti i principali sondaggi - che lasciava presagire una nottata elettorale difficilissima. Qualcuno agitava lo spettro del riconteggio dei voti in alcuni Stati in bilico - come in Florida nel 2000 - altri addirittura ipotizzavano uno storico pareggio.
Invece per Obama è filata via più liscia del previsto. E alla fine non è servito nemmeno aspettare il risultato del «Sunshine State»,la Florida, e nemmeno quello della cruciale Virginia. A rivelarsi decisivo - come ci si attendeva alla vigilia - è stato l’Ohio. Vinto questo Stato è bastato aspettare i risultati degli Stati della West Coast (dalla California a quello di Washington), e la soglia dei 270 elettori necessaria per l’agognata è stata superata.
Romney, che ha conquistato gli Stati del sud e ha confermato il testa a testa nel voto popolare, ha regalato un po’ di suspense. Non ha concesso immediatamente la vittoria. Dopo l’annuncio di tutti i media, l’ex governatore del Massachusetts ha aspettato un’ora prima di far sapere che aveva chiamato Obama per congratularsi. «Auguro al presidente, alla First Lady e alle loro figlie ogni bene. Questi sono tempi molto difficili per la nostra grande Nazione», ha detto rivolto ai supporter riuniti nel quartier generale di Boston su cui già da parecchio era calato un silenzio di tomba. Niente a che vedere con la folle esultanza del MacCormick Center di Chicago, dove gli obamiani hanno rivissuto le emozioni del 2008.
Ed è un Obama versione 2008 quella che sale sul palco: di nuovo la stessa grinta, la stessa ispirazione, nonostante l’enorme fatica delle ultime settimane. «Torno alla Casa Bianca più determinato che mai», promette nel tripudio generale, assicurando come «l’America migliore deve ancora venire». Come molto probabilmente deve ancora venire l’Obama migliore, quello che in questo secondo mandato potrà agire senza più essere condizionato dalla prospettiva di una rielezione, di una nuova campagna elettorale all’orizzonte. Un Obama che potrà dare a questo punto il massimo di sé stesso e che dovrà dimostrare non non fare promesse solo a parole, come insistentemente lo hanno accusato Mitt e i repubblicani .
Il presidente sa che non sarà facile far fronte alle promesse ancora rimaste evase. Gli americani gli hanno riconsegnato un Congresso spaccato, con la Camera ai repubblicani e il Senato ai democratici. Ma tende la mano e promette di lavorare per trovare «quei compromessi necessari per portare il Paese avanti». «Lavorerò con Romney - assicura - lavorerò con i leader di entrambe gli schieramenti per affrontare quelle sfide che possiamo risolvere solo insieme». A partire da quella del crescente debito pubblico e da quella della crescita e dell’occupazione: «L’economia si sta riprendendo», ha detto, sottolineando come manchi comunque ancora molto lavoro da fare. Lavoro che - è il suo appello - potrà essere compiuto se tutti si impegneranno a lavorare nella stessa direzione, quella dell’interesse generale del Paese, mettendo da parte il cinismo e le partigianerie.
Intanto l’America, il giorno dopo l’Election Day, fa passi avanti anche su alcune spinose questioni sociali. E grazie ai referendum svoltisi in concomitanza del voto si legalizzano le nozze gay nello Stato del Maine e l’uso della marijuana, anche per fini ricreativi, in Colorado e nello Stato di Washington. (Ansa)
Obama ha fatto il miracolo perché non ha ceduto
di Furio Colombo (il Fatto, 8.11.2012)
Voglio annotare due frasi che ho raccolto, una all’inizio della notte di Obama, l’altra alla fine. A Roma, la più importante notte elettorale in molti anni è iniziata in un albergo dove l’ambasciatore americano aveva riunito alcune centinaia di persone (soprattutto americani a Roma) per vedere in diretta l’evento.
Ma prima ha fatto un discorso, gentile e diplomatico, da ambasciatore. Salvo una cosa. A un certo punto ha detto: “Queste elezioni sono costate 6 miliardi di dollari. É una cifra davvero eccessiva. Troppi soldi e troppo poche idee”. In quell’istante, senza sapere il risultato che sarebbe venuto dopo alcune ore, l’ambasciatore Thorne ha spiegato il senso, ma anche la gravità di ciò che stava per concludersi, quella notte, in America: una cifra immensa riversata sulle elezioni americane con un unico scopo, rimuovere Barack Obama. Per questo la seconda frase mi sembra memorabile. Ha detto il conduttore della Cnn, Wolf Blitzer, quando la vittoria di Obama è apparsa sicura: “La prima elezione di Obama è un evento storico. La sua rielezione è un miracolo”.
IL FATTO È che Obama ha affrontato la rischiosissima prova della rielezione (essere presidente una volta sola è un segno che resta, non gradevole, nella storia del Paese e che si fa notare persino ai bambini a scuola) facendo il contrario di ciò che un buon manager o stratega avrebbe dovuto suggerirgli: non ha ceduto su nulla, non ha ridisegnato la sua immagine secondo un profilo più accettabile per il probabile nemico. Non ha lasciato cadere gli aspetti più contestati delle cose fatte o di quelle da fare. Qualcuno avrà fatto caso a una piccola frase del suo discorso che, da sola, lo distingue da tutti i predecessori.
Eccola: “L’America è di bianchi e di neri, di nativi americani e di ispanici, di giovani e di vecchi, di abili e disabili, di etero e di gay”. Mai detto prima nella storia americana. Nuove minoranze entrano, accettate alla pari nel “melting pot”, la grande fusione di religioni e di razze che a mano a mano ha preso a bordo gli esclusi.
Ma c’è un altro aspetto che attribuisce a Barack Obama un ruolo unico, finora, nella politica americana. Per salvare la sua legge per l’assistenza medica gratuita gli hanno chiesto un piccolo ritocco: niente aborto, non importa se terapeutico o no. L’aborto è omicidio (è la visione della Chiesa cattolica e di alcune potenti chiese fondamentaliste) e lo Stato non può finanziare omicidi.
Di colpo il Partito Repubblicano è diventato religiosissimo, ha tentato di impadronirsi di una massa di poveri e di indurli a votare contro se stessi. Tutto ciò Barack Obama lo conferma nel suo discorso di vittoria, nel modo più chiaro possibile. Prima frase da ricordare: la democrazia è fondata sull’uguaglianza. Il valore di questa affermazione è sconvolgente perché è un gesto che respinge la gara fra privilegiati.
Seconda frase. Obama racconta la storia di un padre che lo ha avvicinato, nell’Ohio, per parlargli della sua bambina di otto anni. La bambina è malata di leucemia. Dunque è condannata a morte, perché, neppure vendendo le poche cose che possiede, il padre potrebbe pagare le cure e gli ospedali che la salverebbero. Obama racconta, perché la sua folla raccolga l’impegno: non si abbandona nessuno. Terza frase: “Voi avete fatto di me un presidente migliore, perché noi siamo una famiglia e nessuno va avanti da solo. O insieme o niente. Questa è l’America”.
È IMPORTANTE fare molta attenzione al modo in cui Obama dice “famiglia”. Non intende un family day in cui si certificano certe vite e se ne scartano altre, e ciascuno, per famiglia intende i propri congiunti. Qui famiglia sta per popolo, sta per nazione, e anche per Stato. Poi Obama affronta l’idea di eccezionalismo. È una strana definizione con due facce. La prima è un vanto, che non può non essere caro a Obama perché significa: noi non abbiamo alcun passato in comune. Noi abbiamo in comune il futuro e, in questo, siamo l’unico popolo al mondo. Ma il secondo significato di questo strano e misterioso fattore della costruzione dell’America è: nel momento in cui ti vanti di essere eccezionale, l’eccezionalità scompare.
Questo vale soprattutto per la potenza. Obama la concepisce come diplomazia e come politica, non come forza. E così comincia la seconda epoca Obama, ora l’ancor giovane presidente degli Stati Uniti definisce la sua immagine, vita e lavoro, non per un sondaggio, ma per la Storia.
ORA LA SUA SFIDA SARA’ L’USCITA DALLA CRISI ECONOMICA
Obama, il presidente
dell’America senza razze
Maurizio Molinari (La Stampa, 07/11/2012)
inviato a chicago
Eletto nel 2008 come il portatore di un radicale cambiamento, Barack H. Obama ha governato per quattro anni nel segno del pragmatismo affrontando una difficile rielezione a causa di una crisi economica che non è riuscito a battere. E ora è da qui che riprende la sfida, puntando a entrare nei libri di Storia come il presidente che ha sconfitto la più grave recessione dai tempi della Grande Depressione.
Il 44° presidente degli Stati Uniti è il primo a essere afroamericano e la sua identità è parte integrante del suo messaggio politico. Obama è post-razziale perché la sua pelle è nera ma la madre era una bianca del Kansas, si è formato nelle migliori Università americane ed è entrato a far parte dell’élite anglosassone a Harvard sposando poi Michelle Robinson, nipote di schiavi, cresciuta nei quartieri più poveri di Chicago, studiosa dell’irredentismo afro e combattivo avvocato. Con il padre venuto dal Kenya, cresciuto alle Hawaii, i nonni bianchi anglosassoni e protestanti, la madre sposata in seconde nozze in Indonesia e per secondo nome H come Hussein, Obama ha un’identità che esce dagli schemi del Novecento e rappresenta la nuova frontiera dell’America multietnica, dove la convivenza fra etnie diverse lascia il posto a una nuova generazione talmente mista da non potersi identificare con un solo tipo di radici.
Per i suoi avversari politici ciò nasconde che Obama è «il più grande falso mai venduto agli americani», come suggerisce l’attore Clint Eastwood, oppure un «non americano probabilmente nato in Kenya», secondo il magnate conservatore Donald Trump, ma per chi lo ha eletto nel 2008 e riconfermato nel 2012 si tratta piuttosto di un leader che rompe gli schemi, sfida i pregiudizi e può dunque rinnovare la missione di «unire l’America» che Abramo Lincoln si diede dopo la sanguinosa guerra civile. Per questo è riuscito a creare nelle urne la coalizione più multietnica che abbia mai eletto un presidente, dove le minoranze contano più dei bianchi.
L’essere uomo di frontiera fra più identità spiega perché Obama, sin dall’insediamento il 20 gennaio 2009, ha governato con un pragmatismo da molti tacciato di celare ambiguità, incapacità e impreparazione. Davanti all’impatto della crisi finanziaria innescata dai subprime nel settembre 2008, Obama fa propria la scelta del predecessore repubblicano George W. Bush di usare fondi pubblici per stabilizzare le banche e salvare le imprese in difficoltà, a cominciare dall’auto. Obbligato a ripensare l’equilibrio economico internazionale, inizia dal G-20, per assegnare più potere ai Paesi emergenti, a scapito di quelli industrializzati, seguendo ancora la ricetta di Bush. E nella guerra al terrorismo scavalca addirittura il predecessore perchè il massiccio uso di droni che autorizza - combinato a intelligence hi-tech e truppe speciali - consente di decimare Al Qaeda così come la determinazione a sfidare l’alleato Pakistan gli consente, nella notte del primo maggio 2011, di seguire via satellite il blitz con cui i Navy Seals eliminano Osama bin Laden, il mandante degli attacchi dell’11 settembre 2001 che hanno causato quasi tremila vittime civili.
Con la «Kill List» Obama diventa il primo presidente a disporre di una lista di terroristi islamici da cercare e uccidere in tutto il mondo, 24 ore su 24, inclusi quelli che sono cittadini degli Stati Uniti. Non chiude il super carcere di Guantanamo e dà la caccia a chi, una volta uscito, ricomincia a uccidere. Sono scelte che lo potrebbero avvicinare ai repubblicani al Congresso, ma se ciò non avviene è perché Obama persegue una sua agenda, senza curarsi troppo degli equilibri di potere a Washington. In cima a tale agenda nell’estate 2009 arriva la battaglia per la riforma della Sanità, che riuscirà a far approvare dal Congresso l’anno seguente ma al prezzo della rottura totale con i repubblicani e di un grave ritardo nell’affrontare la sfida della disoccupazione che dilaga. Per Obama la riforma della Sanità conta non solo perché garantisce a tutti i cittadini - per la prima volta nella Storia - una copertura medica ma anche in quanto dimostra di voler davvero cambiare l’America, spingendo il governo a curarsi di più dei cittadini. È lo stesso motivo per cui vara le leggi sulla parità di remunerazione femminile, sul finanziamento della pianificazione famigliare, sulle borse di studio per gli universitari più poveri, sulla piena ammissione dei gay nelle forze armate e sull’impossibilità di deportare gli immigrati clandestini giunti da bambini oppure i loro figli americani. È un’agenda di innovazioni che trova il favore della base liberal e suscita le ire dei conservatori, che arrivano a definirlo un «socialista» perché continua a rafforzare il ruolo del governo nella società americana. Barack Obama non presta troppa attenzione a chi lo critica: difende la «Kill List» a dispetto delle obiezioni della sinistra democratica e non accetta marce indietro sulla riforma della Sanità, nonostante i sondaggi dicano che resta fra le leggi più impopolari.
Anche sulla politica estera segue un cammino tutto suo, slegato da logiche di partito, ideologie e tradizionali rapporti di alleanza. Davanti alla Primavera araba apre ai nuovi governi guidati dai partiti islamici moderati, di fronte alla corsa dell’Iran verso il nucleare vara un aggressivo programma di sabotaggi clandestini e per rispondere al riarmo cinese ordina al Pentagono di rischierare in Estremo Oriente gran parte di uomini e mezzi ritirati da Iraq e Afghanistan, individuando nel Mar della Cina e nell’Oceano Indiano lo scacchiere dove si decideranno gli equilibri del XXI secolo.
Ciò che lo indebolisce tuttavia è l’economia, e in particolare l’occupazione: non riesce a rialzare gli indici pur spingendo il governo a pesanti interventi keynesiani e la Federal Reserve a stampare fiumi di dollari che valgono sempre meno. Le misure fiscali a favore del ceto medio non evitano l’aumento della povertà e a pagarne il prezzo più alto è il suo elettorato: i giovani universitari temono di non trovare lavoro, le casalinghe hanno mariti e figli disoccupati, molti immigrati ispanici sono obbligati a tornare in America Latina per trovare lavoro e gli anziani devono fare i conti con ospedali meno efficienti a causa dei risparmi imposti dalla riforma della Sanità. È un boomerang di scontento che dilaga nel Paese, fa vincere ai repubblicani le elezioni per il Congresso nel 2010 e quasi gli costa il secondo mandato. Anche perchè il debito cresce a dismisura e fa perdere all’America l’ambita «tripla A».
Ecco perché, a rielezione ottenuta, il presidente Obama, rimasto con di fronte solo il giudizio della Storia, ha l’obbligo di provare che la sua ricetta per la crescita funziona davvero. È convinto di diventare un nuovo Bill Clinton, guidando nel secondo mandato l’America in un boom economico senza precedenti, ma dovrà riuscire a dimostrarlo con l’aritmetica. In attesa di sapere come tenterà di sciogliere il nodo del «fiscal cliff» - la crisi fiscale di fine anno dovuta alla sovrapposizione fra tagli al bilancio e fine degli sgravi fiscali - non ci sono dubbi su come passerà i primi weekend di riposo: il famiglia con le figlie Malia e Sasha, cui non potrebbe essere più legato, e a giocare a «street basket» con il gruppo di amici che condivide lo stesso modo di andare sotto canestro: farsi largo sgomitando, anche al prezzo di compiere qualche fallo di troppo, mostrando una forte determinazione a prevalere sul campo.
«Giurò sulla Bibbia di Lincoln Barack completi la sua missione»
Spielberg: «Nella lotta al razzismo resta ancora molto da fare»
di Alessandra Farkas (Corriere della Sera, 6.11.2012)
NEW YORK - «Io sono un obamiano convinto», spiega Steven Spielberg, «e proprio perché l’America è ancora lacerata dal razzismo, l’aver assistito di persona all’elezione del primo presidente nero della nostra storia è stato per me un momento simbolico straordinario che porterò dentro finché campo». In una lunga intervista concessa al settimanale del Corriere della Sera, Sette (che la pubblicherà la settimana prossima), in occasione del debutto del suo nuovo, attesissimo film Lincoln, il regista più famoso d’America conferma la sua fedeltà al presidente Barack Obama, di cui è tra i massimi sostenitori, (con oltre un milione di dollari versati solo nel 2012 al Super Pac obamiano Priorities Usa).
«A casa mia ho appeso la foto che mi ritrae all’inaugurazione di Obama insieme a mia moglie Kate, entrambi seduti sulla gradinata intorno al palco», incalza il 65enne regista di Schindler’s List che nel 2007 appoggiò Hillary Clinton alle primarie (il marito Bill è amico intimo degli Spielberg). Ma dopo la nomination si è schierato con Barack Obama, che l’ha ospitato alla Casa Bianca per ben tre volte, una delle quali per guardare insieme un film nella sala di proiezione presidenziale. Quindi c’era anche lei quel giorno a Washington?
«Eravamo stati invitati dalla senatrice californiana Dianne Feinstein. Io mi ero portato dietro la macchina fotografica con lo zoom e la videocamera e quando il giudice capo della Corte Suprema John Roberts è arrivato sul podio sono trasalito».
Che cosa è successo?
«Roberts aveva tra le mani la stessa Bibbia ingiallita sopra la quale nel 1861 prestò giuramento Abramo Lincoln, il presidente che ha abolito la schiavitù in America. Nel vedere il primo presidente nero degli Stati Uniti sfiorare la stessa Bibbia, e poi giurarci sopra, un brivido mi è corso lungo la schiena. Sono orgoglioso d’aver diretto un video per Obama proiettato alla Convention democratica nell’agosto del 2008».
I siti web dei cosiddetti «birthers» (seguaci delle varie teorie secondo cui Obama non sarebbe un «nativo americano») continuano ad affermare che quell’inaugurazione era illegale, proprio perché Obama non è nato in America.
«Gli animatori di quei folli blog sono persone disperate e il loro miserabile gesto tradisce un profondo squallore esistenziale e umano. Obama non c’entra nulla con quelle tesi farneticanti che sono state sbugiardate mille volte, il problema è soltanto loro».
Negli ultimi rilevamenti Obama e Romney restano testa a testa e secondo alcuni sondaggisti la vittoria del primo non è affatto scontata.
«Non mi preoccupo affatto, anche se credo che questa volta sia ancora più cruciale che tutti i democratici americani votino. L’affluenza determinerà il risultato di queste elezioni e ciò che mi preoccupa adesso è contribuire a far si che tutti gli aventi diritto si rechino ai seggi. Dobbiamo elettrizzare la base, soprattutto i giovani, le donne e le minoranze, per far sì che i numeri siano robusti come nel 2008. Sarà una gara serrata ma sono ottimista e anzi certo che Obama otterrà un secondo mandato».
Che cosa deve aspettarsi il mondo dall’America nei prossimi quattro anni?
«Se Obama sarà rieletto, la battaglia iniziata da Lincoln 150 anni fa sarà completata. Ma la strada da percorrere è ancora lunga e tortuosa anche perché il Paese resta più che mai spaccato a metà, con due anime che non si parlano e non si capiscono. Lincoln voleva condurre la nazione fuori dalla guerra civile, verso un sentiero di pace, riconciliazione, progresso e ricostruzione dopo un conflitto lungo, divisivo ed estenuante. La storia si ripete. Spero solo che sia Obama a scriverla».
La scelta dell’America né bianchi, né operai: i nuovi americani
Le minoranze ispaniche e asiatiche verso il sorpasso
Demografia chiave del duello repubblicani-democratici
di Marilisa Palumbo (Corriere della Sera, 7.11.2012
C’erano anche il cubano americano Marco Rubio, senatore della Florida, e l’indiano americano Bobby Jindal, governatore della Louisiana, nel comizio delle star repubblicane che hanno tirato la volata a Romney qualche giorno fa a Cincinnati, Ohio. Sono i volti della nuova America cui i repubblicani devono cominciare ad affidarsi: pena la marginalizzazione per anni a venire, non possono più permettersi di essere il partito di una classe bianca che invecchia mentre giovani istruiti, donne (specialmente non sposate), abitanti delle città e minoranze (che da sole formano già un quarto dell’elettorato) trovano la propria voce nel partito democratico. Nel 2008 furono questi gruppi di elettori a far vincere Obama, ma anche i liberal devono chiedersi se un altro candidato possa avere il suo stesso appeal e riconquistare la sua coalizione multi-colore.
Le minoranze
I demografi dicono che l’America è vicina a un «tipping point», un punto di svolta. Secondo William Frey, della Brookings Institution, queste elezioni sono state «l’ultimo hurrah per i bianchi». D’ora in poi i repubblicani non potranno più contare sulla cosiddetta «southern strategy», ossia puntare quasi esclusivamente su elettori «sudisti», evangelici e rurali.
Per la prima volta nella storia l’anno scorso i bambini nati da coppie miste o appartenenti alle minoranze - 2,02 milioni - hanno sorpassato le nascite dei bianchi non ispanici: 50,5% (erano il 37% nel 90) contro il 49,5%. Un dato premonitore di quello che accadrà tra un paio di decenni, quando l’America potrà dire addio alla sua maggioranza bianca: l’aumento esplosivo (anche se frenato nell’ultimo paio d’anni dalla crisi economica) dell’immigrazione e la crescita costante della popolazione latina e asiatica dovrebbero condurre al sorpasso attorno al 2040.
La campagna del 2008 è stata in qualche modo il racconto di un Paese che questa trasformazione la guardava con speranza e fiducia, materializzandola nel volto di quell’uomo dal nome improbabile, metà africano metà americano del Kansas, con una famiglia che, come lui stesso ama ripetere, «quando si riunisce sembra un’assemblea delle Nazioni Unite». Ma questa campagna, e prima ancora i quattro anni di Obama al governo, con il fallimento del suo sogno bipartisan e l’esplosione dei Tea Party, hanno raccontato invece un’America che davanti al cambiamento punta i piedi. Di mezzo c’è stata una crisi economica, e i limiti di un uomo caricato di aspettative messianiche, ma le trasformazioni che attraversano l’America non si possono fermare.
Se in una situazione economica ancora traballante e con una disoccupazione così alta il presidente è stato in testa ai sondaggi per quasi tutta la campagna, nonostante un misero 37% di sostegno da parte dell’elettorato bianco, è perché è sempre rimasto fortissimo tra gli elettori delle minoranze. Soprattutto tra i latinos, che quattro anni fa gli avevano accordato il 67% delle preferenze e che sono decisivi in molti stati chiave. Il New Mexico, dove gli ispanici sono ormai il 46,7 per cento della popolazione, non è neanche più comparso nella colonnina degli Stati indecisi.
E pensare che nel 2004 Karl Rove, il «cervello» di Bush, considerava i latinos un gruppo di elettori in bilico: in fondo George W. aveva ottenuto il 44% delle loro preferenze. Peccato che poi sia arrivato il pugno duro sull’immigrazione. Il «Dream act», che garantirebbe la residenza e un percorso verso la cittadinanza ai giovani entrati illegalmente nel paese con i loro genitori, è fermo al Congresso per l’opposizione repubblicana. Ma c’è da scommettere che se ne tornerà a discutere. Ci sono voci pesanti nel partito, come quella di Jeb Bush, che da tempo suonano l’allarme: senza il voto ispanico il Grand Old Party è destinato a diventare una forza di minoranza. Dominare le preferenze dell’elettorato bianco, come Romney ha fatto per tutta la durata della campagna, non è più sufficiente.
L’elettore post-industriale
Ma non è solo la composizione razziale ed etnica dell’America a cambiare. Il passaggio, in molte aree del Paese, a un’economia post-industriale basata sulla produzione di idee più che di beni, ha aumentato il peso di un tipo di elettorato fatto di professionisti urbanizzati, che tende a votare democratico. Di più: che ha sostituito il «blue collar voter», l’operaio, come spina dorsale della coalizione democratica. Ne parlavano, descrivendo un’economia che ha la sua base nelle aree urbane e suburbane ribattezzate «ideopolis», John Judis e Ruy Teixeira in un famoso libro di ormai dieci anni fa, The Emerging Democratic Majority. Molte di queste aree sono dentro i famosi stati indecisi: Charlotte, il triangolo della ricerca in North Carolina, i sobborghi della Virginia settentrionale, la regione attorno a Denver, Colorado, Orlando e il sud della Florida. E poi ci sono gli spostamenti interni di popolazione, come quelli dei californiani liberal che hanno scelto di andare a vivere nell’area di Reno, in Nevada, di Albuquerque in New Mexico e in Colorado.
La religione
E infine, per quanto ancora le campagne elettorali si combatteranno su temi sociali come aborto e matrimoni omosessuali, su cui spingono soprattutto i repubblicani, davanti a un elettorato che vede crescere i non credenti (un americano su cinque, uno su tre tra gli under 30)? Un altro gruppo, i non affiliati, che secondo una recente indagine del Pew sono molto liberali sui temi sociali, meno sul ruolo del governo, ma comunque votano a larga maggioranza progressista. E sono quindi un gruppo solidamente democratico almeno quanto gli evangelici bianchi (anche loro il 19% della popolazione) possono essere considerati solidamente repubblicani.
Non è detto, anzi molto probabilmente non è vero che la demografia è destino. La sicurezza nazionale - come è accaduto dopo l’11 settembre, o l’economia come quest’anno - possono risultare più importanti di qualsiasi divisione razziale, di censo e di istruzione. Soprattutto, i partiti possono ridefinire la loro identità. È questa la sfida che attende i repubblicani nei prossimi quattro anni.
di Massimo Faggioli (Europa, 7 novembre 2012)
Dove i cattolici americani potevano fare la differenza - Florida, Pennsylvania, Wisconsin, Ohio - essi hanno scelto Obama, nonostante la maggioranza dei cattolici bianchi si sia schierata con Romney e di quelli non bianchi con Obama. La nomina di un candidato alla vicepresidenza visibilmente cattolico della nuova leva dei “valori non negoziabili” come Paul Ryan ha aiutato Romney esattamente come lo hanno aiutato i vescovi: hanno aiutato Romney a perdere. La Conferenza episcopale americana aveva lanciato proprio ieri, nel giorno di “election day”, un nuovo sito internet dedicato alla protezione della libertà religiosa in America...
Sia il Partito repubblicano sia i vescovi americani hanno puntato su un’ideologia sociale che prescinde dalla realtà sociale e demografia dell’America di inizio secolo XXI. La contaminazione tra repubblicani e ideologia anarchico-individualista del Tea Party ha prodotto un contraccolpo che ha portato ad un improvviso revival del “Catholic social thought”, che ha parlato agli indecisi e ai centristi molto di più dell’estremismo della retorica anti-Obama (spesso confinante con il razzismo).
Dai risultati elettorali della notte del 6 novembre potrebbe sembrare che gli Stati Uniti hanno rieletto un candidato additato dalla gerarchia cattolica americana come la maggiore minaccia alla libertà religiosa dei cattolici. Da domani i vescovi americani ripartono da zero: per riconquistare la politica americana, e per ricominciare a parlare con la loro chiesa.
Il cardinale di New York per il GOP
di Massimo Faggioli (Europa, 24 agosto 2012)
Il cardinale di New York Timothy Dolan, presidente dei vescovi cattolici americani, pronuncerà una preghiera di benedizione alla convention repubblicana dell’inizio della settimana prossima in Florida, proprio nella sera in cui Mitt Romney riceverà la nomination dal partito. Il portavoce del cardinale Dolan si è affrettato a precisare che l’apparizione del presidente della Conferenza episcopale sul palco del GOP non è un “endorsement”, un appoggio al ticket repubblicano. Ma è chiaramente un “non-endorsement endorsement” (analogo a quelle “scuse non-scuse” che si fanno dicendo “non era mia intenzione offendere nessuno, se ho offeso qualcuno”).
La decisione è senza precedenti storici*, e non perché violi la “separazione tra Stato e Chiesa” in America - una separazione che non impedisce a politica e religione di combinarsi come in nessun altro paese occidentale. È senza precedenti perché prassi vuole - non senza buoni motivi teologici - che sia semmai il vescovo locale (e non il presidente di tutti i vescovi americani) ad offrire una preghiera per un evento pubblico-politico di questo tipo.
Il presidente dei vescovi americani che prega alla consacrazione politica del candidato repubblicano alle presidenziali non è di certo solo “un sacerdote che va alla convention per pregare”, come hanno tentato di dire in maniera tutt’altro che ingenua dalla curia di New York. La precisazione del portavoce di Dolan sembra voler dire che il cardinale è aperto anche ad un invito dei democratici alla loro convention di inizio settembre a Charlotte: ma dopo i rapporti tempestosi degli ultimi due anni tra vescovi e Obama, il messaggio di Dolan alla convention dei democrats potrebbe essere molto diverso dalla benedizione rivolta al duo Romney-Ryan.
Nei tre anni da arcivescovo di New York, Dolan ha più volte mostrato di non aver paura di sfidare le prassi consolidate: il funzionamento della Conferenza episcopale, i rapporti coi media, e i rapporti tra chiesa cattolica e politica e con l’amministrazione Obama in particolare.
Contro la Casa Bianca, nella primavera-estate 2012 i vescovi guidati da Dolan hanno mosso una campagna senza precedenti in nome della difesa della libertà religiosa, a loro dire violata da alcune norme della riforma sanitaria che sta per entrare in vigore.
La mossa di Dolan si avvicina molto ad un’investitura del ticket Romney-Ryan. Contrariamente al cattolico Joe Biden, uno degli ultimi “cattolici sociali” vecchia scuola, il candidato alla vicepresidenza Paul Ryan è il tipo di cattolico che piace a Dolan e al cattolicesimo neo-conservatore e neo-liberista americano. Pro-life e pro-business, distante dal magistero sociale dei vescovi americani degli anni ottanta, il giovane Ryan ha ricevuto pubbliche parole di elogio dal cardinale Dolan, mentre nell’aprile scorso una commissione dell’episcopato americano aveva bocciato il “piano Ryan” per la riduzione del deficit con queste parole: “la riduzione del deficit deve proteggere e non danneggiare le necessità dei poveri e dei vulnerabili. I tagli proposti falliscono in questo minimo requisito morale”.
La decisione di pregare sul palco del GOP a Tampa avrà molteplici conseguenze. Dal punto di vista ecclesiale, la mossa di Dolan dividerà ulteriormente la chiesa americana, che già vede, quando si tratta delle emergenze sociali del paese, i cattolici schierati su posizioni opposte: gran parte dei vescovi e i cattolici neo-liberisti col Partito repubblicano, e la maggioranza dei teologi, delle suore e dei laici col Partito democratico.
Dal punto di vista politico, Dolan espone la chiesa cattolica americana nei confronti di un partito e di un ticket presidenziale come non mai prima: c’è solo da immaginare quale tipo di relazioni si avrebbero tra Dolan e la Casa Bianca se Obama dovesse rivincere le elezioni.
Dal punto di vista culturale, infine, le elezioni del 2012 segnalano un passaggio epocale verso l’epoca post-protestante: non solo non c’è nessun protestante bianco in nessuno dei due ticket, ma la questione religiosa della campagna elettorale non ruota più attorno al valore morale della Bibbia, ma attorno alle interpretazioni della dottrina sociale della chiesa cattolica nella società americana.
Circa un secolo fa, l’America usciva dall’era dei “robber barons” e della “gilded age” per diventare, anche grazie al magistero sociale della chiesa cattolica e al “social gospel” protestante, un paese meno ineguale e con un sistema di protezioni sociali che il GOP ha deciso oggi di eliminare in nome di un “vangelo della prosperità” che suona molto più Gordon Gekko che Gesù di Nazareth. Il cardinale Dolan, prete cattolico con un dottorato in storia, lo sa certamente, ma ha deciso che la cultura liberal del Partito democratico è il vero nemico della chiesa americana e che per combatterla ogni mezzo è legittimo. Si può contare sul fatto che questa dichiarazione di guerra sarà ricambiata dall’altra metà del paese contro i vescovi, con conseguenze di lungo periodo che oggi sono difficilmente calcolabili per i fedeli della chiesa cattolica più grande d’Occidente.
* (errata corrige: c’è un precedente storico. Il cardinale Krol, presidente dei vescovi USA, fece lo stesso alla Convention repubblicana del 1972 per Nixon)