Il governo nel letto
di Vittorio Zucconi *
Un governo, che purtroppo in Italia è sinonimo di Stato, capace di farfugliare frasi fatte e imparaticce, trasformarle in decreto e far timbrare da un Parlamento addomesticato e ricattato dal pietismo televisivo una legge che si appropria della vita dei cittadini, ordinando a tutti di prolungare senza senso il calvario di una paziente usata come pretesto, dovrebbe terrorizzarci.
Con la stessa facilità e faciloneria, uno Stato che si impadronisce di ciò che non gli appartiene, la mia vita, la vita degli individui, può farne quello che vuole e può domani decidere, con la stessa garrula superficialità da talk show o da predellino con la quale questa classe dirigente si muove, di fissare dove e come quella stessa vita possa finire. Quando si agisce per sondaggi, per diversivi o per demagogia, la “difesa della vita” può diventare il giorno dopo “un’apologia della morte”, magari di fronte al prossimo “rumeno assassino” e alla conseguente collera popolare.
Uno Stato che entra nel letto dei pazienti (o degli amanti) naturalmente “a fin di bene”, che è sempre stata la giustificazione di tutti gli orrori della storia e il fondamento di ogni totalitarismo, tende a non uscirne più, perchè questa, di essere invadente, è la natura di ogni Stato, se non viene fermato sulla soglia. Soltanto in Italia chi si proclama “liberale” può non vederlo.
Questo, oltre il calvario di una famiglia, è ciò che in queste ore disperanti è in gioco anche per coloro che dicono di non avere opinioni sulla signorina Eluana Englaro e si credono fuori dalla tragedia. Non lo siamo.
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Tempo reale, Il blog del direttore di Vittorio Zucconi, 09.02.2009
Perché ho il diritto di scegliere la mia morte
di UMBERTO ECO *
BENCHE’ il problema mi turbasse molto, e forse proprio per questo, ho cercato negli ultimi mesi di non pronunciare alcun giudizio o opinione sul caso Englaro, per molte e sensate ragioni, ma anzitutto perché non volevo partecipare alla canea di chi stava sfruttando per ragioni ideologiche, da una parte e dall’altra, la vicenda di una sventurata ragazza e della sua famiglia.
Quando il presidente del Consiglio ha preso pretesto dal caso per tentare uno dei suoi ormai reiterati attacchi alla Costituzione, sono intervenuto con Libertà e Giustizia, in piazza, e mi sono unito agli appelli alla vigilanza. Ma nelle poche interviste che non ho potuto evitare ho sempre detto che le poche centinaia di persone che erano con me davanti a palazzo di Giustizia a Milano non erano lì a manifestare sul caso Englaro, perché ero pronto a scommettere che se si fosse fatta la conta si sarebbe visto che metà la pensavano in un modo e metà nell’altro, ma per protestare contro l’attacco al presidente della Repubblica, attentato bonapartista (ringrazio Ezio Mauro per aver rievocato questo precedente) su cui tutti erano d’accordo.
Adesso, sfogliando le gazzette, mi rendo conto come sia difficile dividere questi due problemi e quanta sottigliezza politologica, giuridica e (permettetemi) morale ci voglia a capire quanto i due problemi siano diversi. Ma cosa si può pretendere da chi, come accadeva secoli fa con Terenzio e gli orsi, ha preferito il Grande Fratello alla discussione su questi casi?
Così mi sono trovato citato tra coloro che sul caso Englaro avevano idee chiare e decise. Intervengo per dire che non le avevo, altrimenti le avrei espresse. Solo che, ora che la ragazza è morta, forse si può parlare di questi problemi senza temere di far sciacallaggio su un corpo in sofferenza.
In effetti non intendo parlare della morte di Eluana Englaro. Voglio piuttosto parlare della mia morte, e ammetterete che in questo caso ho qualche diritto all’esternazione.
Dovendo parlare della morte mia, e non di quella altrui, non posso non citare alcuni aspetti della mia vita, tra cui il fatto che qualche anno fa ho scritto un romanzo intitolato La misteriosa fiamma della regina Loana, dove il protagonista, dopo un primo incidente cerebrale per cui perdeva la memoria, cadeva nuovamente in coma.
Non so se scrivendo volessi affermare qualcosa di scientificamente valido o cercassi solo un pretesto narrativo, ma fatto sta che ho impiegato più di cento pagine a far monologare il mio personaggio ormai in coma (non avevo allora calcolato se ridotto a vegetale, imputato di morte cerebrale o in coma eventualmente reversibile - segno che non avevo precise preoccupazioni scientifiche).
In ogni caso il personaggio, in quello stato che chiamerò di "vita sospesa", pensava, ricordava, desiderava, si commuoveva. Sapeva benissimo che probabilmente i suoi cari lo credevano ridotto allo stato di una rapa, o al massimo di un cagnolino dormiente, ma si accorgeva che i medici sanno pochissimo di quanto succede nel nostro funzionamento mentale, e che forse dove essi vedono un encefalogramma piatto noi continuiamo a pensare, che so, coi rognoni, col cuore, coi reni, col pancreas...
Questa era la mia finzione letteraria (per calmare coloro che dall’eccezionale si attendono tutto, dirò che alla fine il mio personaggio sprofondava nel buio) ma devo dire che se l’avevo pensata era perché un poco ci credevo. Non sono sicuro che là dove gli strumenti scientifici di oggi vedono solo una terra piatta, e una assenza di anima, ci sia del tutto assenza di pensiero - e lo dico con sereno materialismo, non perché ritenga che un’anima sopravviva alla morte delle nostre cellule ma perché non mi sento di escludere che - morte e definitivamente alcune cellule - altre non sopravvivano e prendano il controllo della situazione, testimoniando di una straordinaria plasticità non del nostro cervello (questo ormai lo sanno tutti) ma del nostro corpo.
Insomma, siccome sospetto che quando si è sani si pensi anche con l’alluce, allora perché no quando il cervello non dà segni di vita?
Non farei una comunicazione in merito a un congresso scientifico, ma in qualche modo ci credo. Visto che c’è gente che crede al cornetto rosso lasciatemi credere a questo.
Ora che cosa vorrei, se se mi trovassi in una situazione del genere?
A cercare proprio col lanternino tutte le possibilità credo proprio che esse si riducano a tre. Prima possibilità, sopravviverei come una rapa, senza coscienza, senza poter dire "io", reagendo al massimo a qualche modificazione dell’umidità atmosferica, come se fossi una colonnina di mercurio. In effetti a queste condizioni non sarei più "io", ma appunto una rapa e non vedo perché dovrei preoccuparmi di me.
La seconda possibilità è che in quello stato si riviva tutto il proprio passato, si torni all’infanzia, si abbiano visioni e si realizzino quelli che in vita erano stati i nostri desideri, insomma si viva una sorta di sogno paradisiaco. È un poco quel che accade al personaggio del mio romanzo, ma poi purtroppo anche lui cala nelle tenebre.
La terza ipotesi è la più angosciante, è che in quella vita sospesa ci si interroghi su cosa faranno e penseranno di noi i nostri cari, si riviva col cuore in gola gli ultimi momenti di coscienza, si tema per l’orrido futuro che ci attende, o addirittura ci si consumi come ha fatto mia madre negli ultimi dieci anni che è sopravvissuta a mio padre, raccontando a noi figli, ogni volta che poteva, come era stata orribile la notte in cui mio padre era stato colto da infarto, e se non fosse stata colpa sua che aveva preparato una cena forse troppo pesante. Questo sarebbe l’inferno - e ho accolto quasi con sollievo la morte di mia madre perché sapevo che stava uscendo da quell’inferno.
Adesso facciamo una botta di conti alla Pascal. Di tre possibilità solo una è gradevole, le altre due sono negative. In termini di roulette (e sui grandi numeri, tipo diciassette anni di vita sospesa) si è già perso in partenza. Ma il problema non è questo. Io sono pronto a dichiarare che, nel caso incorra nell’incidente della vita sospesa, desidero che non si protraggano le cure (anche se potrei perdere alcuni istanti o millenni di paradiso) per evitare tensioni, disperazione, false speranze, traumi e (permettetemi) spese insostenibili ai miei cari. Ma chi sono io per distruggere la vita a una, due, tre o più persone per la remota possibilità di avere qualche istante o qualche anno di paradiso virtuale?
Io ho il diritto di scegliere la mia morte per il bene degli altri. Guarda caso, è quello che mi ha sempre insegnato la morale, e non solo quella laica, ma anche quella delle religioni, è quello che mi hanno insegnato da piccolo, che Pietro Micca ha fatto bene a dare fuoco alle polveri per salvare tutti i torinesi, che Salvo D’Acquisto ha fatto bene ad accusarsi di un crimine non commesso, andando incontro alla fucilazione, per salvare un intero paese, che è eroe chi si strappa la lingua e accetta la morte sicura per non tradire e mandare a morte i compagni, che è santo chi accetta l’inevitabile lebbra per baciare le piaghe al lebbroso. E dopo che mi avete insegnato tutto questo non volete che io sottoscriva alla sospensione di una vita sospesa per amore delle persone che amo? Ma dove è finita la morale - e quella eroica, e quella che mi avete insegnato, che caratterizza la santità?
Ecco perché, turbato a manifestare la sia pur minima idea sulla morte di Eluana (non sono, maledizione, fatti miei, ma dei genitori che l’hanno amata più di quanto l’abbia amata Berlusconi, che ha sinistramente fantasmato sulle sue mestruazioni) non ho esitazioni a pronunciare la mia opinione circa la mia morte. E all’amore che una morte può incarnare. "Laudato s’ mi Signore, per sora nostra Morte corporale, - da la quale nullu homo vivente po’ skappare: - guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; - beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati, - ka la morte secunda no ’l farrà male".
* la Repubblica, 12 febbraio 2009
«Scontro tra due violenze. Vincerà la più forte»
Per ora dobbiamo rassegnarci a quello che è sempre successo: è stata chiamata verità, giustizia, legge la forza vincente
intervista di Daniela Monti (Corriere della Sera, O8.02.2009)
MILANO - «Mi fa schifo». Emanuele Severino è uno dei maggiori pensatori contemporanei. Ha il linguaggio dei filosofi: denso, arguto (a volte oscuro). «Mi fa schifo» è un’espressione che suona stonata. Eppure ora la usa: «Non ho dubbi, appena posso farò il testamento biologico in cui rifiuto tutto. Ma si tratta di vedere se la mia volontà riuscirà a iscriversi in una legislazione che la rispetti. Mi fa schifo pensarmi in una situazione in cui non posso nutrirmi da solo, in cui non posso pensare». Ha chiaro da che parte stare.
Una legge giusta, sul tema della fine della vita, sarebbe dunque quella che riconosce il diritto a scegliere?
«Non è così semplice» e, chiusa la parentesi privata, Severino comincia a parlare di filosofia. «Quello che vedo è lo scontro tra due forme di violenza. Le intenzioni possono essere le migliori, anzi diamolo per scontato, ma la sostanza non cambia: da una parte c’è la Chiesa, e il governo la segue, che intende difendere la vita umana ad ogni costo, impedendo precedenti pericolosi; dall’altra le istanze laiche. Anche se non intenzionali, sono comunque due forme contrapposte di fede».
È uno scontro ideologico, aspro, ma ancora nei termini della legalità. Perché parla di violenza?
«Né una parte né l’altra dispongono di verità assoluta. Il problema si può impostare così: è bene che si sospenda la vita di questa donna? Ma che cosa significa "bene": la nostra cultura è in grado di dire che cos’è "bene"? E poi: è giusto sospendere questa vita? Ma daccapo: la nostra cultura è in grado di indicare il vero senso della giustizia? Certo è più visibile il desiderio di alcuni di mostrare la propria adesione agli insegnamenti della Chiesa, che non il significato di bene e giustizia. Come pure è più visibile la volontà di mostrare il proprio dissenso. In questa situazione, anche se può sembrare cinico, l’esito non può essere dato che dal prevalere di una parte sull’altra».
È una visione cupa. Ma in un modo o nell’altro dovremo pure uscirne.
«Per ora dobbiamo rassegnarci a quello che è sempre successo: che è stata chiamata verità, giustizia, legge la forza vincente. Per cui è patetico invocare un bene assoluto. Oggi la cultura dominante non è in grado di risolvere questi problemi. Si risolvono in modo pratico, politico».
E la politica ha fallito. Dopo il decreto del governo, siamo allo scontro istituzionale.
«È un braccio di ferro, si tratta di vedere chi è più forte, ma essere più forte non vuol dire essere più vero, più giusto. D’altra parte quando si rimproverano i cattolici di imporre le loro convinzioni a chi non è cattolico ci si dimentica che in democrazia chi ha la maggioranza fa le leggi. Però sembra più democratica una legge che non impone anche ai non credenti le convinzioni dei credenti».
Torniamo al caso di Eluana, c’è il problema della volontà presunta. Cosa ne pensa?
«Il padre di Eluana sostiene che la figlia non avrebbe mai sopportato una vita come quella di ora».
Ma - obietta qualcuno - non si può sapere se questo è ancora il volere di Eluana.
«Mi sembra una gigantesca contraddizione. Se infatti si è d’accordo sul fatto che a Eluana la coscienza è venuta a mancare, non si può dire quale sarebbe oggi la sua intenzione, appunto perché lei non è più cosciente. Quindi non ha intenzioni. Tutte queste considerazioni - ha o non ha coscienza, cosa sente, cosa prova - sono ipotesi. È con questo che abbiamo a che fare: solo ipotesi. Vedo molti atteggiamenti tartufeschi in questa vicenda. Che ci siano persone attaccate ai principi lo credo, ma che ci siano persone così grondanti amore per Eluana lo metterei in dubbio. A contare, qui, è piuttosto la volontà che la vita pubblica sia regolata in una certa direzione».
Chi può dire una parola di verità su Eluana, e sulla fine della vita. La filosofia?
«La filosofia comincia a mettere in discussione il contesto in cui si gioca lo scontro fra volontà. Le cose più grandi non avvengono dall’oggi al domani. Se tramontasse la volontà che le cose siano nulla (e qui siamo nel cuore della critica di Severino alla cultura dell’Occidente, perché se le cose nascono, muoiono, sporgono provvisoriamente dal nulla, tirate le somme, spiega il filosofo, sono di per sé nulla) allora sì ci sarebbero le condizioni perché anche la violenza delle tesi contrapposte venga meno. Ma bisogna risalire molto più indietro del limite a cui riescono a portarsi le forze culturali e pratiche delle nostre civiltà, si tratta di un impegno infinitamente più radicale. La modestia da parte della filosofia sarebbe fuoriluogo».