"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI
Pd spaccato sugli inciuci di D’Alema
Franceschini: "Non fanno mai bene"
L’ex premier apre: "Oggi servirebbero"
Veltroni: "Se ne vedono di tutti i colori"
Di Pietro: un’offesa citare i Lateranensi
ROMA Il "passo dell’alpino", con il quale Pier Luigi Bersani pensa di costruire l’alternativa a Berlusconi, rischia di essere rallentato. E non dalla maggioranza ma, in un copione che tende a ripetersi nel Pd, dagli scontri interni. Contro l’"inciucio", evocato ieri da Massimo D’Alema, si compatta la minoranza, capitanata da Dario Franceschini e Walter Veltroni. E, come già avvenuto sul legittimo impedimento, tocca al segretario sgombrare il campo dagli equivoci: «Il Pd è contro ogni legge ad personam e favorevole alle riforme per i cittadini», chiarisce Bersani chiedendo uno stop a strumentalizzazioni che danneggiano solo il Pd.
Bersani è chiamato di nuovo a fare il «pompiere» in casa propria e nei confronti degli alleati. La battuta di Massimo D’Alema su «inciuci che anche oggi servirebbero al paese» viene derubricata, tra i fedelissimi del segretario, come «un evidente paradosso». Ma tanto basta a scatenare l’affondo del leader Idv Antonio Di Pietro: «Mettere sullo stesso piano l’accordo Stato-Chiesa e il salvacondotto giudiziario che Berlusconi pretende è un oltraggio alla Costituzione», attacca l’ex pm. Ma se non stupisce la levata di scudi dell’alleato nella logica della concorrenza, irrita che proprio nel Pd si alimenti una questione che, sostiene il responsabile Giustizia Andrea Orlando, «non esiste». Ed invece il tema è uno dei piatti forti della prima assemblea di Area Democratica.
Franceschini, a conclusione dell’evento di "Area Democratica", ci tiene a dire che l’area «non è all’opposizione nel Pd ma al servizio del partito», però le critiche sono dure. «Di inciuci che hanno fatto bene - ha detto il capogruppo del Pd alla Camera - non ne ho mai visto uno». Poi è passato all’attualità per ribadire che gli inciuci non funzionano nè ieri nè oggi: «Va bene un’alleanza con l’Udc, ma sarebbe invece sbagliato cercare di far nascere in laboratorio un nuovo partito di centro al quale appaltare la ricerca del consenso nell’area moderata e di centrodestra». Sotto i colpi dell’ex leader democratico sono finiti anche i sospetti di un accordo con Berlusconi per salvarlo dai suoi problemi giudiziari in cambio di un confronto sulle riforme: «c’è qualcosa che non funziona. Le riforme si fanno in Parlamento alla luce del sole. Il Pdl ci vuole trascinare in un tranello per allontanare i riflettori dai problemi del paese mai affrontati e per avere un vantaggio nella campagna elettorale per le regionali».
Walter Veltroni, allibito dal fatto che il dalemiano Nicola Latorre sostenga che Berlusconi deve governare per tutta la legislatura, si lascia andare ad uno sconsolato: «Purtroppo se ne vedono di tutti i colori...». E si becca la smentita immediata del vicecapogruppo al Senato: «Mai detto quella frase, Veltroni ascolti il sonoro. Ancora oggi al posto di contrastare il governo, si continuano ad attaccare gli esponenti del proprio partito». È proprio lo spettro del "logoramento" della leadership a preoccupare i piani alti del Pd. Perchè la linea dei democratici per Bersani è «chiara e inequivocabile» ed è quella condivisa da tutto il partito: il Pd è pronto a confrontarsi in Parlamento per riforme vere, a partire da quelle sulla crisi economica, ma non è disposto a qualsiasi tipo di legge mirata a risolvere i problemi giudiziari del premier. Il resto sono solo strumentalizzazioni o polemiche inutili che però rischiano di dare ancora una volta l’impressione di un Pd spaccato al proprio interno.
Prove di dialogo tra il governo e il Pd
D’Alema: "E’ ora di mettersi in gioco"
Tremonti chiede «fase costituente».
L’ex premier apre: pronti al confronto
ROMA- «Il Paese ha bisogno di riforme: riforme sociali e penso al tema degli ammortizzatori sociali e della protezione per chi non ha lavoro; ha bisogno di riforme delle istituzioni, riduzione del numero di parlamentari, un Parlamento più forte e più agile; ha bisogno di riforme in tanti campi, la maggioranza non è in grado di farle e l’opposizione ha il dovere di mettersi in gioco». Così Massimo D’Alema, ai microfoni del Tg2, risponde alle dichiarazioni del ministro dell’Economia Giulio Tremonti sulla necessità di un dialogo per le riforme.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
Una nuova legge elettorale per un nuovo bipolarismo
Un esecutivo nato in Parlamento potrebbe chiudere l’era berlusconiana del «presidenzialismo di fatto» e permettere il ritorno alla Costituzione
di Francesco Cundari (l’Unità, 11.11.2011)
La Seconda Repubblica è stata fondata sul principio secondo cui i governi non nascono in Parlamento, ma nelle urne. In molti, da ultimo in occasione della recente campagna per il referendum, hanno sostenuto il diritto degli elettori a scegliere direttamente il capo del governo e la sua maggioranza. Come è evidente, se il governo Monti nascerà, né il presidente del Consiglio né la sua maggioranza saranno il frutto di una scelta degli elettori.
Questo non significa, naturalmente, che si tratterebbe di un golpe. L’Italia è una Repubblica parlamentare. La nostra Costituzione prevede che i governi nascano in Parlamento e che la nomina del presidente del Consiglio spetti al Capo dello Stato. Semmai, come ha spiegato all’Unità Piero Alberto Capotosti, presidente emerito della Corte costituzionale, lo strappo al nostro impianto costituzionale è venuto dalla prassi di inserire il nome del candidato premier nel simbolo elettorale prima e poi dall’introduzione, con la legge Calderoli, della figura del capo della coalizione. Forzature tese a modificare in modo surrettizio la nostra forma di governo, regalandoci quel presidenzialismo di fatto (cioè senza i contrappesi e le garanzie che equilibrano tale sistema) che è stato non per caso l’ambiente ideale in cui il berlusconismo ha potuto svilupparsi.
Da questo punto di vista, Mario Monti ha mostrato nei suoi interventi di questi anni piena consapevolezza del problema, ad esempio quando sul Corriere della sera del 2 gennaio scorso si scagliava contro quei «corposi interessi privilegiati che, pur di non lasciar toccare le loro rendite, manovrano un polo contro l’altro: veri beneficiari del bipolarismo italiano!». Si tratta di un’analisi controcorrente, ma certo non liquidabile come frutto di nostalgie per la Prima Repubblica. Il fatto è che la divisione artificiale dell’intero spettro politico in due blocchi incomunicanti ha prodotto in questi vent’anni una stabilità più simile alla paralisi che al (dubbio) mito della «democrazia governante».
Abbiamo avuto certamente governi più stabili l’ultimo talmente stabile che c’è voluto il rischio della bancarotta per mandarlo via ma sempre esposti al ricatto di forze minori, in campagna elettorale come al governo. La necessità di tenere insieme tutto, indotta dal meccanismo del bipolarismo di coalizione, ha reso quindi entrambi i poli ostaggio non solo dei partiti minori, ma innanzi tutto, come notava Monti, dei referenti sociali minori, e persino minimi, cioè di tutte le lobby, corporazioni e gruppi di interesse detentori di una quota marginale di consenso decisiva per vincere.
L’emergenza che ha reso necessaio il governo Monti è figlia della paralisi indotta da questo genere di stabilità artificiale. Pertanto, la nuova maggioranza che in Parlamento prenderà forma per sostenerlo non potrà certo proporre al Paese un’altra legge elettorale fondata sul divieto a governi nati in Parlamento, a meno di non volersi autodelegittimare. Dovrà piuttosto rendere agli elettori il potere di scegliere i parlamentari attraverso collegi uninominali, come nella maggior parte dei sistemi elettorali d’Europa (inglese, francese, tedesco). E all’Italia un sistema in cui finalmente ciascuna forza politica possa presentarsi con il proprio simbolo davanti agli elettori, e dove di conseguenza il candidato premier sia naturalmente il leader del partito più votato, come in tutti i paesi democratici del mondo (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna...).
Non si tratta di un compito facile. D’altra parte, un governo appoggiato da tutti i principali partiti appare il solo che possa raggiungere un compromesso ragionevole sulle regole del gioco, superando le forzature e gli strappi di questi anni, prima di restituire la parola ai cittadini.
L’asso di Berlusconi: fiducia a Bersani
Cambio di strategie del premier: «Con Pier Luigi possibili intese»
di UGO MAGRI (La Stampa, 20.12.2009)
ROMA La scelta strategica sta maturando. Berlusconi pare convincersi che il suo destino non dev’essere per forza quello del Caimano. Affrontando a morsi i nemici può sgominarli una, due volte, ma fatalmente verrebbe l’ora della sconfitta, e sarebbe tragica, come nel film di Moretti. Senza scomodare la Buonanima o Bettino, l’aggressione ha fatto vivere fisicamente al premier l’odio che parte della sinistra nutre verso di lui. Gli ha spalancato gli occhi. Nello stesso tempo lascia intravedere al Cavaliere una via d’uscita più degna, onorevole.
Che all’atto pratico s’incarna nella bonomia emiliana disincantata e sorridente di Pierluigi Bersani: finalmente, s’è detto Berlusconi, un potenziale vero interlocutore dall’altra parte. Venerdì sera a cena, in un consesso di amici, ha scoperto le carte: «Con Bersani penso di potermi fidare. Mi sembra ragionevole, dialogante. E pure lui ha interesse a riformare la giustizia, gli serve per non farsi sbranare da Di Pietro. Ho intenzione di provarci sul serio».
E sarebbe una grande svolta, poiché il vero ostacolo a qualunque colloquio coi nipoti di Togliatti finora era stato Berlusconi medesimo. Con i suoi sbalzi d’umore. Con quelle sbandate incontrollabili che D’Alema ha sperimentato sulla propria pelle, e di recente pure Veltroni. Se il dubbio nel Pd è «faremo la stessa fine?», il Cavaliere sa che questo è l’ultimo treno, non gli saranno concesse altre chances. Per cui sta apparecchiando un percorso politico dove la massima urgenza, forse addirittura prima delle leggi «ad personam», diventa quella di isolare gli «odiatori» e restaurarsi l’immagine: da qui l’irritazione manifestata a cena nei confronti del direttore generale Rai, reo di non aver messo alla porta i Santoro, i Travaglio e tutti i comici che gli guastano la reputazione. In cambio di un altro clima, Berlusconi pare orientato a gesti concreti.
Si interroga, ad esempio, se è ancora il caso di trasformare le prossime Regionali in un referendum su se stesso, drammatizzandolo al parossismo. Col risultato magari di strappare alla sinistra una Regione in più, ma di affondare l’unico personaggio, da quelle parti, disposto a dargli retta: cioè Bersani. Gettarsi in prima persona nella campagna elettorale, metterci la faccia, o lasciare che se la vedano il partito e i candidati vari? La seconda ipotesi sembra, di ora in ora, la più gettonata. Non a caso, il Cavaliere ha concesso la massima autonomia in materia ai suoi tre coordinatori nazionali. E ha dato piena fiducia a Fitto, il quale se la vedrà lui con Casini per trovare un candidato comune in Puglia, casomai il Pd dovesse confermare Vendola.
Tutti ragionamenti che Berlusconi ha trovato superfluo sviluppare ieri con Bossi, Tremonti, Cota e Calderoli, accolti verso sera a Villa San Martino dopo una giornata trascorsa, informa Bonaiuti, «nuovamente al lavoro, tra telefonate, visite e studio di dossier». Come sempre quando arriva l’Umberto, gare di barzellette, canzoni dialettali, grande allegria ruspante. La Lega è al settimo cielo per le storiche candidature di Cota in Piemonte e di Zaia in Veneto (quest’ultima decisa ieri). L’accordo col Pdl è stato messo addirittura nero su bianco: come in un protocollo notarile con tanto di firme in calce dei coordinatori berlusconiani da una parte, di Calderoli dall’altra. Vi si prevede quanti assessori andranno ai due partiti in caso di vittoria. E si stabilisce che il ministero di Zaia (le Politiche agricole) verrà riciclato dopo le elezioni. Se la Lega vince in entrambe le Regioni, passerà allo spodestato Galan. Viceversa, se lo terrà ben stretto il Carroccio. E a Galan il premier dovrà trovare posto in qualche ente di Stato.
L’inciucio
È cosa non buona e ingiusta
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 20.12.2009)
Ho letto con molto interesse l’articolo del nostro collaboratore Alexander Stille (figlio di tanto padre) pubblicato venerdì scorso su Repubblica. Spiega perché chi si opponga alla politica del Pdl non può che concentrare le sue critiche su Silvio Berlusconi. Non è questione di distinguere la parola "nemico" dalla parola "avversario", la parola "odio" dalla parola "opposizione". Su queste differenze lessicali potremmo (inutilmente) discutere per pagine e pagine senza cavarne alcun risultato, come pure potremmo discutere sulla personalizzazione degli scontri politici in altri paesi.
Negli Stati Uniti per esempio lo scontro personalizzato è una prassi durissima e assolutamente normale. Basta ricordare (ed è appena un anno fa) la polemica senza esclusione di colpi tra Obama e Hillary Clinton durante le primarie, quella tra Gore e Bush nella corsa alla Casa Bianca, la campagna dei giornali che portò alle dimissioni di Nixon e Bill Clinton ad un passo dall’"impeachment" all’epoca dello scandalo Lewinsky.
Eppure in nessuno di quei casi i protagonisti avevano mai personalizzato su di sé il partito o la parte politica che rappresentavano come è avvenuto per Silvio Berlusconi. Ma chi lo ha detto meglio di tutti e con maggiore attendibilità è stato Denis Verdini. Il suo non è un nome molto noto, eppure si tratta d’un personaggio di primissimo piano: è il segretario del Pdl, il numero uno dei tre coordinatori di quel partito e soprattutto il co-fondatore di Forza Italia.
Quando Berlusconi decise di scendere in campo nell’autunno del 1993, affidò la costruzione del partito ai due capi di Publitalia, la società che raccoglieva la pubblicità per il gruppo Fininvest, nelle persone di Dell’Utri e di Verdini. Il primo è da tempo distratto da altri affanni; Verdini è invece nel pieno del suo impegno politico.
Nell’articolo pubblicato dal Giornale il 18 dicembre Verdini elenca gli obiettivi che il Pdl si propone di realizzare nei prossimi mesi e descrive come meglio non si potrebbe il ruolo di Berlusconi. «Lui ha costruito la figura del leader moderno - scrive Verdini - anzi ha costruito la leadership come istituzione. Per affrontarlo anche gli altri partiti dovranno affidarsi ad una leadership e se non riusciranno a farlo saranno sempre sconfitti. Ma anche i "media" non potranno esimersi dal concentrare sul leader la loro attenzione se vorranno cogliere il vero significato di quanto accade».
Segue l’elenco degli obiettivi: smontare la Costituzione e adeguarla alla Costituzione materiale; cambiare il sistema di elezione del Csm e quello della Corte costituzionale; riformare la giustizia separando le carriere dei magistrati inquirenti da quelle dei giudicanti; concentrare nella figura del premier tutti i poteri dell’Esecutivo e sancire che tutti gli altri poteri siano tenuti a collaborare lealmente con lui perché lui solo è l’eletto del popolo e quindi investito della sovranità che dal popolo emana.
Quest’articolo è infinitamente più preoccupante delle esagitate denunce e liste di proscrizione lanciate da Cicchitto in Parlamento, da Feltri e da Belpietro sui loro giornali e dai vari "pasdaran" del berlusconismo di assalto. Verdini l’ha scritto il 18 dicembre quando già Berlusconi era tornato ad Arcore ed aveva avviato la politica del dialogo con l’opposizione. Esso contiene dunque con lodevole chiarezza le condizioni di quel dialogo, con l’ovvio preliminare che essi comportano e cioè il salvacondotto in piena regola riguardante i processi del premier. Da qui dunque bisogna partire, tutto il resto è pura chiacchiera.
* * *
I giornali di ieri hanno dato notevole risalto alla battuta di D’Alema sull’utilità ed anzi la necessità, in certi momenti della vita politica, di far ricorso agli "inciuci". La parola "inciucio" denomina un compromesso malandrino tra parti politiche avversarie, un compromesso sporco e seminascosto che contiene segrete pattuizioni e segreti benefici per i contraenti, nascosti al popolo-bue.
Per esemplificare la sua battuta sull’utilità dell’inciucio D’Alema ha citato la decisione di Togliatti di votare, nell’Assemblea costituente del 1947, per l’inclusione del Concordato nella Costituzione italiana. Ma l’esempio è stato scelto a sproposito: la costituzionalizzazione del Concordato tra lo Stato e la Chiesa non fu affatto un inciucio ma un trasparente atto politico con il quale il Pci, distinguendosi dal Partito socialista e dal Partito d’azione, dichiarò la sua contrarietà a mantenere viva una contrapposizione tra laici e cattolici.
Si può non concordare con quella posizione; del resto la sinistra ha sempre privilegiato le lotte sociali rispetto alle cosiddette libertà borghesi, iscrivendo tra queste anche la laicità che non fu mai un cavallo di battaglia del Pci. Si può non condividere ma, lo ripeto, l’inciucio è tutt’altra cosa e D’Alema lo sa benissimo.
Credo di sapere perché D’Alema ha scelto di usare quel termine così peggiorativo: vuole stupire, gli piace esser citato dai "media", è una civetteria di chi, essendo molto sicuro di sé, sfida e provoca e si diverte.
È fatto così Massimo D’Alema. I compromessi gli piace descriverli, teorizzarli, talvolta anche tentarne la realizzazione, annusarne il cattivo odore, sicuro che se gli riuscisse di farli sarebbe comunque lui a guidarli verso l’utilità generale perché lui è più bravo degli altri. In realtà non è riuscito a metterne in pista nessuno. Ma la sua provocazione ha suscitato preoccupazioni nel suo partito e parecchie reazioni. Si è dovuto parlare di lui per l’ennesima volta. Sarà contento perché era appunto ciò che voleva.
I suoi contraddittori hanno deciso che bisognerà spostare il tiro sui problemi economici ai quali il governo ha dedicato pochissima attenzione. Sarà su di essi che si svolgerà il grande confronto tra la sinistra e la destra.
È vero, il governo non ha fatto nulla, la nostra "exit strategy" dalla crisi è del tutto inesistente e farà bene l’opposizione e il Pd a darsene carico, ma il centro dello scontro non sarà questo. Il centro dello scontro l’ha indicato Verdini, sarà sullo smantellamento della Costituzione. Sul passaggio dallo Stato di diritto allo Stato autoritario.
* * *
Berlusconi vuole il dialogo. Che cosa vuol dire dialogo? Lo spiega quasi ogni giorno sul Foglio Giuliano Ferrara. Lo spiegano gli editorialisti terzisti "ad adiuvandum": dialogo vuol dire mettersi d’accordo sul percorso da seguire e poi attuarlo con leale fedeltà a quanto pattuito. Insomma un disarmo. Unilaterale o bilaterale? Vediamo.
Berlusconi chiede: la legge sul legittimo impedimento come strumento-ponte che lo metta al riparo fino al lodo Alfano attuato con legge costituzionale; rottura immediata tra Pd e Di Pietro; riforme costituzionali e istituzionali secondo lo schema Verdini. In contropartita Berlusconi promette di parcheggiare su un binario morto la legge sul processo breve e di "riconoscere" il Pd come la sola forma di opposizione. Va aggiunto che Berlusconi non pretende che il Pd voti a favore della legge sul legittimo impedimento; vuole soltanto che essa non sia considerata dal Pd come un ostacolo all’accordo sulle riforme.
Vi sembra un disarmo bilaterale? Chiaramente non lo è. Chiaramente sarebbe un inciucio di pessimo odore.
In una Repubblica parlamentare il dialogo si svolge quotidianamente in Parlamento. Le forze politiche presentano progetti di legge, il governo presenta i propri, il Capo dello Stato vigila sulla loro costituzionalità, i presidenti delle Camere sulla ricevibilità di procedure ed emendamenti nonché sul calendario dei lavori badando che anche i progetti di legge formulati dall’opposizione approdino all’esame parlamentare.
Non si tratta dunque di un dialogo al riparo di occhi indiscreti ma d’un confronto aperto e pubblico, con tanto di verbalizzazione.
Quanto alla richiesta politica di rompere con Di Pietro, non può essere una condizione in vista di una legittimazione di cui il Pd non ha alcun bisogno e che la maggioranza non ha alcun titolo ad offrire. Come risponderebbe Berlusconi se Bersani gli chiedesse di rompere con la Lega? Che non è meno indigesta di Di Pietro ad un palato democraticamente sensibile ed anzi lo è ancora di più?
La conclusione non può dunque essere che l’appuntamento in Parlamento. Il punto sensibile è l’assalto alla Costituzione repubblicana. Ci sarà un referendum confermativo poiché sembra molto difficile una riforma condivisa. A meno che il premier non receda dai suoi propositi che, nella versione Verdini, sono decisamente eversivi. Uso questa parola non per odio verso chicchessia ma per amore verso lo Stato di diritto che è condizione preliminare della democrazia.