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No al SUPERMAN...ismo israeliano

Il sionismo non è l’ebraismo!!! Lettera a ISRAELE - di Moni Ovadia

sabato 5 agosto 2006 di Federico La Sala
[...] Israele è tutto fuorché un paese «normale». La sua collocazione geografica è in Medio Oriente ma in questo momento la sua vocazione è occidentale. Per certi aspetti potrebbe essere uno stato degli Stati Uniti, anche se più di metà della sua popolazione viene da stati arabi e il 17% di essa è arabo-palestinese. La sua politica, in grande misura coincide con quella delle amministrazioni americane. [...]

Lettera di un ebreo a Israele (...)

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> Il sionismo non è l’ebraismo!!! Lettera di Moni Ovadia a ISRAELE

domenica 6 agosto 2006

Il sonno dogmatico

di Barbara Spinelli (La Stampa, 6/8/2006)

Gli israeliani lo sperimentano sulla propria pelle ogni giorno, da quando il 12 luglio si son trovati nell’obbligo di rispondere a un attacco Hezbollah che non ha più come scusa i territori occupati, ma è un’aggressione che minaccia esistenzialmente Israele ed è al contempo laboratorio di uno scontro Iran-Usa: in questa guerra libanese sono in realtà soli, nonostante le attestazioni solidali che vengono da Bush e Blair. Non si sentono rassicurati neppure dall’accordo, ambiguo, che si delinea fra Parigi e Washington al Consiglio di sicurezza Onu. Quella congerie di stati cui viene dato il nome falso di comunità internazionale si agita, domanda la «piena cessazione di ostilità», ma non osa chiedere che essa sia «immediata» e simultanea. Nell’immediato devono cessare gli attacchi Hezbollah e le operazioni offensive israeliane: una formula che consente a Israele di restare in Libano per operazioni difensive, ma che non gli risparmierà aggressioni. Difficilmente infatti Hezbollah - non sconfitto - accetterà la tregua. Alcuni governi europei son pronti a schierare soldati per aiutare l’esercito libanese a conquistare il monopolio della violenza ai confini meridionali, ma è improbabile che intervengano finché la tregua sarà ambigua: un’ambiguità cui l’amministrazione Usa non sembra rinunciare.

Quel che Bush desidera è la continuazione della guerra contro Hezbollah, fatta da Israele o da altri: gli strumenti impiegati possono cambiare ma non l’obiettivo, e l’obiettivo è una guerra-test con l’Iran, con la Siria, per interposte persone. È come se l’amministrazione volesse proprio quello che sta accadendo: lo stato d’Israele sprofondato in un conflitto che sta perdendo, il Libano che è stato scardinato e offeso, l’Iran e la Siria che manovrando Hezbollah son divenuti attori di primo piano in Medio Oriente e nell’Islam, e in quanto tali vengono messi in guardia e minacciati. Poi c’è il conflitto in Iraq, da cui l’odierna catastrofe discende e che il Libano ha obnubilato: anche qui, è forte l’impressione di un voluto ampliamento dei disastri. Ogni giorno muoiono 100 civili in Iraq, ma è la guerra in Libano che occupa le prime pagine dei giornali. In America, lo spazio televisivo dedicato a Baghdad è caduto del 60 per cento fra il 2003 e questa primavera. Una manna, per il governo americano: fin quando dura la piaga libanese, Washington non dovrà rispondere del caos suscitato - tramite Iraq - in Medio Oriente e nel mondo.

Non son pochi gli israeliani che cominciano a intuire il terribile ingranaggio in cui rischiano di restar impigliati: un ingranaggio che fa del loro Paese il tassello della strategia Usa di esportazione della democrazia e di mondiale guerra antiterrorista, e che ha finito col debilitare Israele anziché proteggerlo. Una strategia che ha tutta l’aria di trattare Israele come un mezzo, non un fine come Bush pretendeva. Lo storico Tom Segev s’indigna sulle colonne di Haaretz, denunciando una politica americana che lascia solo Israele, che lo aizza in guerre perdenti, che ha perduto ogni autorità nel mondo. Daniel Levy che ha partecipato a numerosi negoziati di pace (Oslo, Taba, accordi di Ginevra) scrive che Israele non può continuare a subire una linea dettata fin dal ’96 da neoconservatori come Richard Perle e Douglas Feith (Haaretz 4-8-06). E ricostruisce quella linea, che i neocon suggerirono all’allora Premier Netanyahu e che aveva come scopo la fine delle trattative di pace e una rivoluzione nei rapporti tra Israele e Usa. Oggi, essi adoperano la guerra libanese per rifarsi della bancarotta irachena.

Molti (Tom Segev, Avi Schlaim sull’Herald Tribune) sostengono che l’America non aiuta più Israele, dal momento che l’aizza invece di disciplinarlo: «Mai nella nostra storia è accaduto che Washington ci spronasse così poco all’autocontrollo», scrive Schlaim, ed è il motivo per cui gli Stati Uniti «sono ormai parte del problema e non della sua soluzione». Segev sospetta che le modalità della guerra libanese nascano da un coordinamento con Washington e ricalchino il modello Iraq, con effetti perniciosi: anche questa guerra sembrava facilissima, anch’essa era tassello d’una vasta lotta contro l’asse del male, e la degenerazione insidia anche lei. Uscire dall’Asse del Bene, ritrovare la realtà di questioni e guerre che hanno origini locali: è questa l’opportunità, per i critici dell’America in Israele, di uscire dal sonno dogmatico che l’alleanza esclusiva con Washington impone agli israeliani.

Il sonno dogmatico sacrifica l’esperienza, sull’altare di concetti generali e globalizzanti; non vede il particolare, dunque il reale. Secondo Levy, questo è il vizio dei neoconservatori che da un decennio propugnano un Nuovo Medio Oriente, una rottura netta con le passate politiche israeliane (così s’intitola il documento del ’96, A Clean Break). Il loro obiettivo: spingere i governi israeliani ad abbandonare la strategia di restituzione dei territori; incitarli a regolare i conti con Siria, Iran, Autorità palestinese; convincerli a cercare un’autosufficienza che spezzi le pratiche del contenimento e della cooperazione internazionale tornando ai vecchi equilibri di potenza. La cosa più esiziale è stata quando questa visione s’è intrecciata con quella degli evangelicali, in cui Bush si riconosce. Gli evangelicali americani sono filo-israeliani solo in apparenza. Nei loro affreschi messianici la nazione ebraica deve disporre di territori possibilmente vasti, per poter accogliere il secondo avvento di Cristo. Un avvento non promettente per gli ebrei: nei Tempi Finali Israele sarà convertito, distrutto. Anche per gli evangelicali Israele è un mezzo, non un fine.

Chi aspira all’uscita dal sonno dogmatico chiede passi politici sostanziali anche se scabrosi, per il Libano. Chiede che si negozi col nemico (fu Rabin a dirlo, dopo gli accordi di Oslo nel ’93: «Con chi dobbiamo negoziare, se non con il nemico? La pace non si fa con gli amici!»). Chiede il ritorno alla diplomazia, alla restituzione delle terre, e se la guerra è necessaria: che sia la continuazione di una politica, non di una non-politica. L’uso americano d’Israele è un male che può rivelarsi grande, ed è la ragione per cui Segev e altri sperano disperatamente nell’Europa: «La spinta su Israele perché eserciti autocontrollo non viene più da Washington, ma dagli europei». Il senso delle realtà locali sono gli europei ad averlo. Bisogna negoziare con Iran, con Siria: gli europei ne sono convinti e sapranno farlo. La maniera in cui Israele viene adoperato (come non-persona) è utile a tutti coloro che si sentono orfani di lotte ideologiche fra bene e male, fra destra e sinistra. Israele è pedina dispensabile, in quest’ordine del giorno interamente occidentale.

«Anche se l’America conquistasse l’Iran, a Israele resterà pur sempre l’obbligo di vivere accanto ai palestinesi», spiega Segev. Il che vuol dire: Israele deve capire di cosa è fatto l’odio Hezbollah in Libano, deve distinguerlo da quello di Hamas nelle terre occupate, deve tener conto che la Siria reclama con ragione la restituzione delle alture del Golan. Hezbollah è una malattia difficilmente estirpabile perché non è solo una cellula terrorista: in Libano è al governo e ha un’agenda politica, si occupa di sanità e scuola in regioni povere, è profondamente scontento per come gli sciiti sono emarginati, nonostante l’alta loro forza demografica (40-50 per cento della popolazione. Gli equilibri attuali si basano sul censimento del 1932, che premiava sunniti e cristiani). Secondo Robert Pape, studioso di terrorismo a Chicago, il partito di Dio è proteiforme, raccoglie tutti coloro che hanno combattuto i 18 anni d’occupazione israeliana. Nel suo libro sul terrorismo, ha studiato da vicino il profilo di 38 Hezbollah kamikaze: «Ho scoperto che solo 8 erano fondamentalisti islamici. 27 appartenevano a gruppi di sinistra (Partito comunista, Unione socialista araba), 3 erano cristiani, tutti erano libanesi» (New York Times 3-8-06. Il libro s’intitola: Dying to Win - Morire per Vincere, Usa 2005):

Studiare più da vicino e non da lontano: uscire dai sonni dogmatici comincia così, aiutando davvero Israele. Ed è significativo che siano studiosi di terrorismo come Pappe a mostrare la strada. O come Jessica Stern, che suggerisce di non mescolare Iraq e Libano, guerra globale anti-terrore e guerre locali: «Gli errori fatti su un fronte guastano l’efficacia nell’altro, anche perché gli eventi (Guantanamo, Abu Ghraib, Cana) vengono filmati, confermando l’idea che l’Occidente stia combattendo una guerra contro l’Islam» (The Boston Globe, 1-8-06). Da questo punto di vista, scrive Stern, i terroristi hanno vinto. Il Gihàd è divenuto una «moda globale», non diversa dai violenti ritmi del gangsta rap: si nutre di bambini morti, di risentimento, pervadendo le zone di conflitto come le città d’Occidente. Ignorare questi pericoli è sonno dogmatico.

Lo dice Thomas Friedman, che approvò la guerra in Iraq e ora invita a riconoscerne il fiasco. Essa ha moltiplicato il terrorismo, ha irrobustito l’Iran suscitando negli sciiti una sete di rivincita mondiale, e ha lasciato solo Israele. Dunque oggi non resta che trattare con l’Iran oltre che con la Siria, «così come la Casa Bianca trattò nel 2003 con la Libia» (New York Times 2-8-06). Non si può ottenere da Ahmadinejad la rinuncia all’atomica, e al tempo stesso tenere l’Iran sotto tiro. Bisogna dargli precise garanzie di sicurezza, simili a quelle date a Gheddafi. Bisogna instaurare con Teheran una guerra fredda, fondata sul suo contenimento anziché sul suo arretramento forzato (roll-back). Si dirà che il comunismo sovietico non colpiva come oggi vengon colpiti Israele e Occidente. Ma l’Urss non aggrediva alla maniera di Hezbollah perché contenimento e dissuasione avevano funzionato, non perché esistessero buone condotte da premiare. È questa dissuasione che oggi non funziona e per questo Washington barcolla come un ubriaco, fra la brama di abbattere regimi avversari e il desiderio - limitato ma più praticabile - di modificare i loro comportamenti.


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