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Differenza e dialogo...

"PENSIERO DELL’ESPERIENZA". A Roma il XII simposio dello Iaph, l’associazione internazionale delle filosofe. Stralci dell’intervento di Françoise COLLIN

giovedì 31 agosto 2006 di Federico La Sala
[...] «Pensiero dell’esperienza»: tema proprio di tutto il pensiero femminista e in particolare del pensiero della differenza italiano, che della pratica del partire da sé ha saputo fare principio di pensiero e di azione politica. Improntato appunto all’esperienza del femminismo italiano, che diversamente da altri femminismi occidentali non si è mai chiuso nel perimetro dell’accademia e dell’organizzazione disciplinare del sapere, questo simposio Iaph (come pure quello che si tenne a (...)

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giovedì 7 settembre 2006

L’eterno ritorno del trauma

di Ida Dominijanni (il manifesto, 05.09.2006)

Una lugubre coazione a ripetere sembra essersi impossessata del nostro presente globalizzato: da quando la profezia della «fine della storia» (oggi revocata in dubbio dal suo stesso autore Francis Fukujama) sembrava doverne orientare il futuro, la storia passata è diventata sempre più un archivio di traumi del passato a cui attingere non per superarli, ma per riproporne ossessivamente l’eterno ritorno. La Shoah, la seconda guerra mondiale, la guerra civile spagnola - per limitarsi a qualche esempio europeo - tornano continuamente nel discorso pubblico, soggette a ondate successive di revisionismi, in cui cambiano le interpretazioni e vengono stravolte le responsabilità, ma resta confermata l’impossibilità di elaborare il trauma, liberare la memoria, redimere il passato e, con ciò, aprire una porta per il futuro.

Questo eterno ritorno del fantasma è ovviamente in parte ineliminabile, data l’entità dei traumi suddetti, della scia di colpe che hanno lasciato, delle controversie interpretative che tutt’ora li avvolgono. Ma in parte è altresì funzionale al dispositivo della produzione di nuovi traumi che, a onta della profezia di Fukujama, muove il mondo globale con la sua guerra preventiva e permanente, i suoi ritorni ai campi e alla tortura stile Guantanamo, i suoi ordinari massacri in medioriente e altrove, le sue croniche violenze nel «continente dimenticato» africano eccetera eccetera. Se dai traumi del passato non si esce, infatti, nemmeno si libera lo spazio per l’immaginazione, prima che per la costruzione, di un mondo meno martoriato, e i traumi del presente ne escono psicologicamente, prima che politicamente e giuridicamente, legittimati.

Sono considerazioni portate al simposio dello Iaph che si è tenuto a Roma nei giorni scorsi (ne parliamo oggi a pagina 12) dalla storica spagnola Marìa-Milagros Rivera Garretas, e a me paiono tanto più pertinenti in prossimità del quinto anniversario dell’11 settembre, evento che si va imprimendo nella coscienza contemporanea come il paradigma per eccellenza del trauma senza uscita che genera altri traumi, altra risposta non essendo stata trovata alla dolorosa ferita di Ground Zero che quella della ritorsione e della guerra infinita contro un nemico incerto e onnipresente. .

Milagros Rivera è una storica impegnata nel movimento femminista, e inseriva queste considerazioni nel quadro della sua ricerca sulla differenza femminile come principio di interpretazione storica capace di mutarne i paradigmi correnti: differenza femminile significa anche relazione, capacità di agire e leggere il conflitto al di fuori dello schema amico-nemico o vincitore-vinti, e l’elaborazione dei traumi del passato, lei sostiene, può avvalersi di queste modalità per rintracciare e leggere i vissuti di quegli eventi più complessi e irriducibili allo schema amico-nemico, o per riportare a galla le istanze vitali che dal trauma si salvarono, o i legami che la violenza non impedì di tessere nella vita quotidiana, o i sentimenti positivi che riuscirono a contrastarla, tutto quello insomma che non resta compromesso dalla colpa o dalla brutalità; e questa redenzione quantomeno parziale del passato può proiettarsi sul presente e sul futuro.

Io credo che la lezione valga altrettanto per leggere i traumi del presente, liberando lo sguardo e l’ascolto per ciò che, in regime di guerra e di violenza, alla guerra e alla violenza riesce a sottrarsi, o nonostante la guerra e la violenza riesce a nutrirsi e a nutrire, in Iraq come in Libano o a Gaza: non per derubricare la devastazione che l’uso della forza provoca, ma per strappare al paradigma della forza le sue pretese di totalità, che non fanno che riprodurla.

E mi vengono in mente considerazioni analoghe proposte durante la guerra in Iraq su queste stesse pagine da Chiara Zamboni e Luisa Muraro, o l’appello di Judith Butler a elaborare l’11 settembre in termini di fragilità e di interdipendenza invece che di forza e di vendetta, o l’invito di Wendy Brown alla sinistra post-89 a ritrovare la forza politica dell’amore. Forse un principio femminile d’interpretazione storica comincia a dileguare il fantasma del trauma ritornante.


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