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SAPERE BIOPOLITICO. L’esercizio del potere sui corpi e i comportamenti. A partire da Foucault, una riflessione di Ida Dominijanni

venerdì 1 settembre 2006 di Federico La Sala

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martedì 5 settembre 2006

Biopolitica, controllo dei corpi e forme di ribellione

Due volumi fanno il punto della riflessione: “Biopolitica, storia e attualità di un concetto” e “Lessico di biopolitica”. Resta centrale la teoria di Foucault: l’importanza assunta dalla sessualità come oggetto di scontro politico

di Beatrice Busi (Liberazione, 23.06.2006)

Più che ad una categoria del pensiero, la biopolitica assomiglia ad uno strano animale proteiforme. Flessibile, liquida e sinuosa, riesce ad adattarsi ad ambienti teorici molto diversi tra loro. Come testimonia l’antologia curata da Antonella Cutro (Biopolitica. Storia e attualità di un concetto, Ombrecorte, pp. 171, euro 16) l’idea di un “governo della vita” ha un’origine lontana e un raggio d’azione molto ampio che si estende dal concetto positivista di “biocrazia” coniato da Auguste Comte a metà dell’Ottocento fino alle ricerche attuali del gruppo dei Biopolitics americani, impegnati nella definizione di un approccio biologico allo studio della politica. In mezzo ci sono alcuni tristissimi capitoli della storia del pensiero occidentale che tracciano una linea di continuità tra l’eugenetica statunitense di inizio Novecento e la “tanatopolitica” nazista entrambe legate a quelle estremizzazioni razzistiche del “darwinismo sociale” che tentava spiegazioni biologiche delle disuguaglianze di classe. Per chi intende la politica non solo come tecnica della governance ma soprattutto come arte creativa per una radicale trasformazione dell’esistente, il lavoro fondamentale nella riflessione sulla biopolitica rimane comunque quello di Michel Foucault.

Il filosofo francese la utilizza per la prima volta in una conferenza sulla nascita della medicina sociale tenuta nel 1974 all’Università di Rio de Janeiro, ma è nel primo volume della Storia della sessualità, che vengono gettate le basi della tesi sulla biopolitica sviluppata tra il 1976 e il 1979 nei corsi svolti al Collège de France. «Si potrebbe dire che al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte (...). La vecchia potenza della morte in cui si simbolizzava il potere sovrano è ora ricoperta accuratamente dall’amministrazione dei corpi e dalla gestione calcolatrice della vita». Il passaggio di consegne dal potere sovrano al biopotere si costituisce e si articola principalmente in due forme: una “anatomo-politica del corpo umano” impegnata nel processo di normalizzazione delle sessualità eccentriche oltre che dell’addomesticamento dei corpi ai ritmi e alle esigenze del lavoro produttivo e riproduttivo, ma anche una “bio-politica della popolazione”, ovvero la creazione di un’apparato specifico di sapere e potere che passa attraverso fenomeni di “statalizzazione del biologico” legati all’affermazione dell’economia liberale come strumento di governo. «Su questo sfondo si può capire l’importanza assunta dal sesso come oggetto di scontro politico: esso è l’elemento di connessione dei due assi lungo i quali si è sviluppata tutta la tecnologia politica della vita (...) il sesso è contemporaneamente accesso alla vita del corpo e della specie. Ci si serve di esso come matrice delle discipline e principio delle regolazioni».

Tra le cinquantasei voci che costituiscono il recente e corposo volume Lessico di biopolitica (Manifestolibri, pp. 382, euro 30), le più interessanti sono proprio quelle più “fedeli” all’impostazione foucaultiana che desiderava tenere assieme problematizzazione della biopolitica e analisi sull’emergere di pratiche di resistenza radicate nel corpo. Talmente fedeli a Foucault da reiterarne anche la sua sottovalutazione del movimento femminista che ha invece rappresentato un potentissimo “brivido sociale” proprio a partire dalla politicizzazione del sesso e delle relazioni. In particolare sono i lemmi relativi a “Corpi”, “Differenze”, “Singolarità” e “Sessualità”, oltre a quella specifica sulle “Pratiche di resistenza” che ci aiutano ad uscire dal dibattito accademico.

«Riappropriandosi del diritto a esprimere un sapere sulla propria condizione, i gay, le lesbiche, i delinquenti, i pazzi, hanno fatto emergere le strategie attraverso cui i discorsi medici, giuridici, scientifici, religiosi, delegittimano e squalificano le loro condotte. A partire dalla denaturalizzazione delle proprie forme di vita, le minoranze hanno avviato una lotta politica contro il sistema sociale che crea esclusione e stigma» (“Pratiche di resistenza”).

Ma lo sganciamento della sessualità dalla riproduzione e delle identità dal sesso anatomico operato dai movimenti degli anni Settanta che ha aperto ampi spazi di libertà sociale nei processi di soggettivazione, di costruzione delle identità e delle relazioni affettive, è una lotta politica ancora attualissima.

«La riduzione a natura di qualunque stile di vita poco incline al conformismo sociale, è un escamotage della razionalità scientifica per difendere i confini normativi definiti dall’organizzazione politico-sociale»: una mossa riduzionista che sembra non conoscere sosta e deve farci stare costantemente in guardia riguardo ad ogni “uso pubblico” della biologia in favore di una presunta naturalità dell’ordine sociale. E la tendenza neoconservatrice di una larga parte della maggioranza di governo che si è espressa nell’istituzione di un Ministero della famiglia e di una Commissione interministeriale di bioetica presieduta dal Ministro degli interni, la dice lunga sull’attualità stringente di una riflessione e un dibattito approfondito sulla biopolitica. Come abbiamo tristemente già sperimentanto durante la campagna referendaria sulla legge 40, la posta in gioco attuale nello scontro tra Stato, Chiesa e Grande Scienza è proprio la stessa definizione di “vita”. Ma come sottolinea Foucault, «questo non significa che la vita sia stata integrata in modo esaustivo a delle tecniche che la dominano e la gestiscono; essa sfugge senza posa».

Dopo la potente esperienza dei movimenti delle “minoranze” negli anni Settanta rimane aperto l’interrogativo su quali siano le forme dell’organizzazione e della lotta adeguate al presente. Rileggendo Foucault, quando nella Volontà di sapere scrive che è la vita intesa «come bisogni fondamentali, essenza concreta dell’uomo, realizzazione delle sue virtualità e pienezza del possibile» a rappresentare la posta in gioco delle lotte politiche contemporanee anche quando si modulano attraverso richieste di diritti, non possiamo non guardare al significato dei movimenti recenti che, da Roma a Parigi, hanno espresso gesti di ribellione e biosindacalismo radicale contro la precarietà come dispositivo di controllo postfordista. Diritto alla casa, diritto al reddito, diritto alla formazione e alla libera circolazione dei saperi, diritto alla libertà di movimento delle persone significano semplicemente diritto alla vita. L’unico diritto alla vita che un governo di centrosinistra dovrebbe preoccuparsi davvero di garantire: di fronte alle continue rapine del biopotere le lotte sociali non possono essere “arrestate”. Piuttosto, sono destinate a generalizzarsi.


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