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Terra e libertà...

OAXACA !!! Qualcuno salvi il Messico, qualcuno salvi gli abitanti di San Salvador Atenco. Appello da una delegazione di "Ya Basta"

martedì 31 ottobre 2006 di Federico La Sala
[...] Il subcomandante Marcos, pipa in bocca e sagoma massiccia, arriva in sala come uno spettatore qualsiasi. E’ l’ospite d’onore, eppure il "delegato zero" si presenta per primo ed aspetta paziente, seduto al tavolo delle conferenze. [...] Marcos usa, con sapienza antica, l’arma preferita dagli zapatisti: la parola. Scioglie i concetti di "Autonomia, terra e liberta’" in aneddoti, metafore, racconti. Non si puo’ innovare il neoliberismo. Bisogna creare un altro mondo. [...]
Poi, ringrazia (...)

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> Qualcuno salvi il Messico, qualcuno salvi gli abitanti di San Salvador Atenco. Appello da una delegazione di "Ya Basta"

lunedì 30 ottobre 2006

Messico, una carneficina nella città occupata dai maestri

di Angela Nocioni (www.liberazione.it, 29.10.2006)

Oaxaca - nostra inviata

Una pallottola in pieno petto. Brad Will è morto venerdì pomeriggio con la telecamera in mano in una stradina stretta e lunga, piena di sole, mentre filmava per Indymedia l’attacco di un gruppo paramilitare a una delle novecentocinquanta barricate tirate su alla meglio per proteggere Oaxaca dall’arrivo dell’esercito. Pareti di lamiere e sassi abbandonate quasi tutte ieri mattina dopo l’ordine di intervento della polizia federale.

Quando chiudiamo l’edizione gli agenti mandati dal presidente Fox sono ancora fermi all’aeroporto, armati fino ai denti. La morte di un cittadino straniero è stato il pretesto per un intervento preparato da mesi. Non sono iniziati gli scontri, ma si sente il rumore di spari arrivare dalle porte della città. Il passaparola tra le vedette sulle barricate è di concentrarsi in quattro punti diversi e di organizzarsi per difendersi. Il Zocalo, la piazza della cattedrale, è dalle otto di mattina una unica, immensa barricata. Porte sbarrate, finestre chiuse, centinaia di persone (tantissime donne) sedute dietro muri di materassi e ferri. Ferme ad aspettare. I portavoce della città insorta sono in perenne riunione sotto una tenda blu. I cartoni con le facce di Stalin, Lenin e Marx, vicino a Emiliano Zapata e a “Che” Guevara, dondolano su fili legati attorno ai pali della luce.

Fiorentino Lopez Martinez, un ragazzo esile dall’aria mite che parla sempre a bassa voce, è il coordinatore dell’assemblea popolare, organizzazione in stragrande maggioranza indigena. «Non abbiamo armi - giura tenendosi la testa tra le mani - resisteremo con quel che abbiamo. Ci stanno arrivando notizie di rastrellamenti in corso in tutto lo Stato. Abbiamo bisogno d’appoggio. A Città del Messico si stanno preparando per scendere in piazza ma ci serve l’aiuto di tutti, anche all’estero. Dite di protestare ovunque contro la repressione del movimento pacifico di Oaxaca».

La città è isolata. Cancellati tutti i voli. Chiusa la stazione degli autobus. Il gioiello coloniale del sud messicano è in autogestione da cinque mesi. Quattordici morti finora (ma il bilancio potrebbe cambiare di molto prima di domenica mattina). Venerdì gli ultimi quattro: Will Bradley, l’insegnante indio Emilio Alonso, un uomo di cui non si conosce ancora l’identità ed Esteba Ruiz, uno degli attivisti di Radio Universidad, la radio del movimento, finito dissanguato perché non è arrivata l’ambulanza. Tutti uccisi venerdì pomeriggio in azioni simultanee, in luoghi diversi della città, da sconosciuti a volto scoperto. Maestri e indigeni occupano da maggio uffici governativi e palazzi, radio, porticati, scuole e piazze, decisi a cacciare il governatore Ulises Ruiz Ortiz, considerato un usurpatore.

Brad Will era arrivato da New York all’inizio di ottobre a raccontare la ribellione di Oaxaca contro Ruiz Ortiz. La pallottola che l’ha ucciso nella stradina della colonia Santa Lucia, alle porte della città, è stata sparata a trenta metri. Difficile stabilire se il colpo era diretto a lui o se l’hanno preso per caso. «Era tutto dentro questa storia. L’ho visto spesso in giro in questi giorni. Era bravo. Si prendeva dei rischi pur di filmare» raccontava venerdì sera David Delapaz, fotografo messicano dell’agenzia Efe, con lo sguardo fisso sull’ultima immagine del reporter statunitense con gli occhi già sbarrati nei minuti disperati degli inutili soccorsi. Erano a pochi metri di distanza quando Brad è stato ucciso. «Stavo dietro l’angolo - ricostruisce la scena il fotoreporter - l’ho visto un attimo prima che lo colpissero».

La protesta delle barricate ora chiede le dimissioni immediate di Ulises Ruiz, governatore dello Stato. E Il presidente uscente Fox ha inviato migliaia di agenti federali

Messico, la strage di Oaxaca la città occupata dai maestri

di Angela Nocioni (www.liberazione.it, 29.10.2006)

Oaxaca, Messico nostra inviata

«All’ingresso della strada c’era un gruppo di uomini a volto scoperto. Non più di sette, otto persone. Sparavano contro una barricata, difesa da quelli dell’assemblea popolare. Lui era in mezzo, faceva le riprese da dietro un palo della luce. Mi sono sporto per scattare e ho avuto l’impressione che si stesse muovendo, credo per proteggersi perché era praticamente allo scoperto. Non ha fatto in tempo». Nel quartier generale degli insorti dicono di aver riconosciuto nel gruppo paramilitare facce note del braccio armato del Pri, il partito del governatore.

Prima dell’arrivo della polizia federale Oaxaca viveva già in stato d’assedio. Uomini incappucciati dentro jeep a vetri scuri giocano da giorni al tiro al bersaglio contro le barricate. Fino a ieri il coprifuoco c’era solo di notte, anche se da almeno una settimana sparano ormai pure in pieno sole. Impossibile stabilire il numero dei feriti perché molti si curano nei posti di pronto soccorso volanti. Il movimento denuncia decine di desaparecidos.

L’escalation è cominciata giovedì pomeriggio. I maestri, in sciopero dal 22 maggio, erano riuniti nell’“Hotel magistero” per decidere a quali condizioni riaprire martedì le scuole. C’era anche Bradley “Brad” Will. Filmava. Dalla finestra è entrato un grido: «Esplode, correte via, ci arriva addosso». Un autobus del trasporto pubblico in fiamme, in bilico, in mezzo alla strada. Fernando Ruiz, l’autista, era stato scaricato pochi metri più giù da un gruppo di incappucciati che lo aveva fermato puntandogli un coltello alla gola: «Non ce l’abbiamo con te, basta che ci porti all’hotel magistero e poi scendi». L’autobus si è fermato su un avvallamento prima d’arrivare addosso all’edificio. Un’auto rossa bruciava dall’altro lato dalla strada. Le avevano tolto il freno e poi incendiata. E’ finita sulla parete di una casa a fianco dell’hotel. Nella strada accanto un gruppo di uomini vestiti di nero sparava in aria. Poi è fuggito in un’auto senza targa con i vetri oscurati.

L’assemblea popolare, la Appo, si è sostituita ai maestri nella direzione della rivolta. Gli analisti della sinistra di Città del Messico, corsi fin qui per raccontare “il nuovo Chiapas” (gli zapatisti hanno garantito da tempo disponibilità piena ad appoggiare il movimento) descrivono i maestri del sindacato 22, cellula dissidente dell’elefantiaca organizzazione di categoria degli insegnanti, come «gli intellettuali organici dell’ultima ribellione messicana».

Nei fatti, però, chi decide ogni passo degli insorti sono gli indios della Appo. Loro controllano gli accessi al centro, loro decidono cosa occupare e quando, loro gestiscono la sicurezza. A loro il governo ha offerto ieri, a metà pomeriggio, di sedersi al tavolo della trattativa. «Stiamo per riunirci e decidere cosa fare», ci dice Flavio Sosa, leader politico della Appo venuto a presiedere l’assemblea del Zocalo. La polizia, per ora, è ferma all’aeroporto in un grande spiazzo, a dieci minuti dal centro cittadino.

In città non sono tutti d’accordo con la resistenza ad oltranza. Molta gente è stanca, chi vive del turismo vuole una soluzione, una via d’uscita che faccia tornare i turisti. «Soluciòn ya» imploravano cartelli dalle vetrine dei negozi deserti del centro. Il grosso del commercio però è ambulante. E gli ambulanti stanno tutti con il movimento. «Que se vaya el asasino gobernador», sta scritto sui banchi volanti del Zocalo: dove mentre si aspetta la polizia federale continuano a sventolare surreali festoni di carta, accanto alle tende del pronto soccorso.

Nella cattedrale un doppio cartello spiega la posizione della Chiesa. Che è appena più accorta di quella dei commercianti. Chiede «una soluzione presto», ma non accenna alle condizioni del movimento.

Sotto ogni albero del Zocalo c’è un capannello di persone attorno a radioline portatili. Tutte sintonizzate su Radio universidad, diventata l’unica voce della rivolta da quando il governo ha tolto il segnale alle emittenti occupate dal movimento. Erano undici.

E’ rimasta solo Radio universidad perché si tratta dell’antenna di un ateneo autonomo ed è più difficile per il governo intervenire sul segnale. Le stanno però tagliando l’energia elettrica. E gruppi di incappucciati fanno la ronda attorno alla redazione, chiusa a chiave in un edificio a cinque minuti di auto dal Zocalo.

«Ci servono generatori elettrici - dicono dai microfoni della radio - gas e qualsiasi cosa utile a difenderci. Le linee telefoniche sono saltate, chiamate i cellulari. Resisteremo».

Ruiz è un colonnello del Partito rivoluzionario istituzionale (il Pri), il partito-Stato che ha governato ininterrottamente per 70 anni il Messico prima di essere scavalcato a destra dall’ascesa del Partito d’azione nazionale (Pan) dell’ex dirigente della Coca Cola, Vicente Fox, che a dicembre dovrà passare la presidenza a Felipe Calderon, uomo dell’Opus dei che ha strappato per 300mila voti (e accuse di frodi) l’elezione del 2 luglio all’uomo forte della sinistra Lopez Obrador. A Ruiz il movimento imputa, tra l’altro, di esser stato eletto due anni fa con schede false e di governare al di fuori della legge.

La protesta non è una novità per Oaxaca, dove i maestri scioperano da 26 anni e mai meno di un mese. Questa volta non si è trattato di un braccio di ferro per i salari, tanto che gli insegnanti hanno rifiutato tutte le proposte di aumenti. Il Senato della Repubblica la settimana scorsa è stato chiamato a votare «l’estinzione dei poteri dello Stato». Se l’è cavata con una soluzione paradossale. Ha deciso che a Oaxaca esistono ancora i margini per l’esercizio del potere esecutivo, legislativo e giudiziario, e che quindi Ulises Ruiz può rimanere al suo posto, ma che la situazione è comunque ingovernabile. Tradotto: via libera alla possibilità di un intervento militare. Che infatti è arrivata puntuale sabato mattina. Perché «gli ultimi fatti accaduti minacciano l’ordine e la pace degli abitanti della città» sta scritto nel comunicato con cui il presidente Fox ha dato agli agenti l’ordine di riprendersi Oaxaca.

Già il 14 giugno scorso era stato tentato lo sgombero. La polizia, quella volta, era quella mandata dal governatore. L’operazione non riuscì. Ulises Ruiz spedì tremila poliziotti, altrettanti agenti in borghese e due elicotteri contro i maestri insorti. Quattro ore di pallottole ad altezza d’uomo e una pioggia incessante di granate. Quel gesto furioso ed inutile fu solo l’ultimo di una serie di scontri armati tra polizia e manifestanti durante la campagna elettorale per le presidenziali. Ad aprile la mobilitazione dei minatori dello stato del Michoacan era stata fermata con l’esercito che aveva lasciato in strada due morti e ottanta feriti. A maggio la protesta dei venditori ambulanti in una delle città satellite di Città del Messico era stata soffocata da un’azione di guerra della polizia, con due morti e un’infinita serie di violenze compreso lo stupro delle donne arrestate. Tutte decisioni prese personalmente da Vicente Fox che ieri ha deciso di fare un bel regalo a Felipe Calderon e gli ha tolto le castagne dal fuoco prima dell’assunzione formale dell’incarico del primo dicembre. L’uomo dell’Opus Dei debutta comunque alla presidenza con le mani già sporche di sangue. Toccherà a lui, capo di stato a metà, contestato da mezzo Paese già prima di insediarsi al governo, decidere cosa fare del sud del Messico. Di nuovo in fiamme.


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