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Eco-nomia

PENSIONI: L’INUTILE TORTURA. Un commento di TITO BOERI

martedì 5 settembre 2006 di Federico La Sala
[...]
Viene da pensare che i nostri politici e sindacalisti siano afflitti, come lo Zeno di Svevo, dalla «malattia dell’ultima sigaretta»: dicono sempre che sarà l’ultima per poterla fumare con grande voluttà, ben sapendo, in cuor loro, che non è così, che non sarà davvero l’ultima volta che si parla di riforma delle pensioni. Bene invece che sia davvero l’ultima e che la smettano di torturare inutilmente gli italiani [...]
L’inutile tortura
di Tito Boeri (La Stampa, 05.09.2006)
Succede, (...)

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> PENSIONI: L’INUTILE TORTURA. Un commento di TITO BOERI

mercoledì 6 settembre 2006

Pensioni, l’esempio dell’Europa di Beniamino Lapadula *

La proposta di pensionamento graduale avanzata a Cernobbio da Romano Prodi e la conferma della volontà del governo di ripristinare la flessibilità nell’età di pensionamento prevista dalla riforma Dini, mettono sul giusto terreno il confronto sulle pensioni. Di fronte al fenomeno senza precedenti dell’allungamento della speranza di vita e dello sviluppo di tecnologie sanitarie sempre migliori che si accompagna, in tutti i paesi sviluppati, a quello di tassi di natalità nettamente più bassi del passato, affrontare il tema della previdenza in termini di cassa, non ha senso alcuno. Bene ha fatto, quindi, il Presidente del Consiglio ad avanzare l’ipotesi di uno strumento diverso dalla Legge Finanziaria. Occorre muoversi, infatti, su un terreno riformatore di largo respiro che non si può restringere al solo campo pensionistico, ma deve allargarsi a quelli del mercato del lavoro e della formazione.

Più in generale, occorre far affermare l’idea che una popolazione in fase di invecchiamento, ma in condizione di salute fisica e mentale nettamente migliore del passato, può rappresentare una opportunità e non un problema, una importante risorsa per le imprese e per lo sviluppo del Paese. L’idea di promuovere una prassi di pensionamento graduale attraverso il passaggio dal lavoro full-time a quello part-time (integrando il reddito da lavoro con quello da pensione) è uno dei pilastri di questa impostazione. Non a caso la Commissione Europea ha affrontato questa tematica già nel lontano 1982 con una proposta avente come oggetto "I principi della politica comunitaria sul pensionamento graduale". Bruxelles è poi tornata più volte su questo argomento delineando una vera e propria strategia per l’active ageing policy (invecchiamento attivo). Provvedimenti per il pensionamento graduale sono stati adottati già negli anni ’80 in Danimarca, Francia, Germania, Finlandia e Austria. A fare da apripista ancora una volta è stata la Svezia che ha introdotto questa possibilità già nel 1976. Anche in Italia, se pur con ritardo, si è posto il problema. Con un decreto legislativo entrato in vigore dall’ottobre 1996 è stata introdotta la possibilità per il dipendente, in possesso dei requisiti per il pensionamento di anzianità, di chiedere la trasformazione a part-time del proprio rapporto di lavoro e l’obbligo per l’impresa di assumere un giovane per coprire il tempo lavorativo lasciato libero dal lavoratore anziano. L’eccessiva rigidità di questa normativa e l’assenza di adeguati incentivi ne ha sostanzialmente bloccato l’attuazione.

Si tratta ora di riavviare un moderno percorso riformatore dopo la disastrosa legislatura di centro-destra e il furbesco provvedimento di Maroni. Questo ha innescato una vera e propria "bomba a orologeria" programmando per il 2008 un innalzamento repentino dei requisiti per la pensione di anzianità tanto iniquo, quanto insensato (3 anni per le donne e 5 per gli uomini). L’intervento di riforma non può limitarsi alle normative pensionistiche. In rapporto agli effetti della demografia sul mercato del lavoro che si profilano già per l’immediato futuro vanno, infatti, ripensati gli incentivi per le politiche pubbliche e aziendali a sostegno dell’occupazione. Queste dovranno sempre più indirizzarsi verso l’impiego delle persone in età avanzata a cui va offerta l’opportunità di continuare a essere parte attiva nello sviluppo economico del Paese. Si tratta di un obiettivo cruciale per affrontare la contrazione della popolazione in età lavorativa che si registrerà nel nostro Paese nel corso dei prossimi due decenni. Per fare questo occorre perciò invertire la tendenza che ha segnato negli ultimi trent’anni la situazione occupazionale italiana, come di tutti i Paesi industrializzati, caratterizzata da un’uscita precoce degli anziani dal mercato del lavoro, favorita da specifiche normative (invalidità, indennizzo di mobilità, piani di prepensionamento). Occorre, in altre parole, porre definitivamente termine al "vecchio patto" stipulato implicitamente tra Stato, imprese e sindacati che si prefiggeva l’obiettivo di ridurre la disoccupazione giovanile, esplosa negli anni ’70 - ’80 con l’ingresso nel mercato del lavoro delle generazioni del baby-boom, attraverso il pre-pensionamento di lavoratori anziani. Nel corso degli ultimi anni il quadro è sensibilmente cambiato: i nuovi andamenti demografici, lo spostamento massiccio di posti di lavoro verso il settore terziario richiedono una impostazione radicalmente nuova.

Del resto il pensionamento visto come evento definitivo è strettamente connesso allo sviluppo dell’industrializzazione. Fu allora che si affermò l’idea di prevedere un’età obbligatoria di pensionamento per persone ritenute ormai vecchie e quindi non più utili al sistema produttivo. Questo avvenne prima per i minatori e gli addetti a lavori rischiosi o usuranti, poi anche per gli impiegati. Oggi la cosiddetta "terza età" abbraccia una fase della vita lunga decenni. Essa può essere pianificata in modo dinamico, con nuove attività a cui le persone si possono preparare anche attraverso un periodo di transizione fatto di lavoro part-time e pensione parziale. Ha ragione D’Alema a dire che oggi è aberrante un ritiro dal lavoro a 57 anni, anche se non bisognerebbe mai dimenticare che questa età resta più che giustificata per chi ha fatto fin da ragazzo lavori usuranti e ripetitivi. Il problema però non si risolve soltanto con penalizzazioni e incentivi perché la stragrande maggioranza dei lavoratori italiani non è libera di scegliere l’età in cui andare in pensione. L’esperienza concreta è ancora fatta di ristrutturazioni che espellono lavoratori ben prima del raggiungimento dei 57 anni di età. Contrariamente al passato anche recente, in cui si è facilitato il ritiro anticipato dal mondo del lavoro, occorre oggi agire in senso contrario, cercando nuove soluzioni e approcci positivi nei confronti della forza di lavoro anziana con sistemi di incentivi e disincentivi che riguardino, in primo luogo, le imprese.

* www.unita.it, Pubblicato il: 06.09.06 Modificato il: 06.09.06 alle ore 12.44


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