Culture e convivenze
Multiculturalismo e conflitto tra i sessi
di Bianca M. Pomeranzi (Liberazione, 08.09.2006)
Il dibattito sulla violenza nei confronti delle donne sta coinvolgendo progressivamente il tema della convivenza tra le diverse comunità etniche, sempre più visibili nel nostro paese. Anzi, sembra quasi che nel caso della violenza sessuale alle italiane come nella violenza di genere contro le migranti sia sempre in gioco l’“altro patriarcato”, quello che viene dal Sud del mondo e riduce le donne a soggetti totalmente vulnerabili.
Recentemente, anche autrici serie, come Elisabetta Rasy sul Corriere della Sera, non hanno perso occasione di denigrare il “multiculturalismo femminista” che non osa prendere parola sulla mancanza di libertà delle straniere migranti. Su questo, concordo con quanto ha scritto Monica Lanfranco proprio su questo giornale, citando le voci delle donne migranti in altri paesi occidentali con una storia molto più lunga del nostro in materia, che da tempo hanno svelato come un certo tipo di multiculturalismo sia spesso un “contratto tra patriarcati”, che rimuove e allontana il conflitto di sesso.
Prendere posizione su un tema così complesso comunque, non è semplice e richiede un “salto epistemologico” che solo alcune pratiche politiche stanno iniziando a compiere. D’altronde, l’incapacità è diffusa nella cultura politica italiana corrente, particolarmente arretrata anche a causa dell’imbarbarimento culturale subito nel quinquennio berlusconiano. Di questo imbarbarimento fa parte un uso improprio della retorica sulle donne migranti “vittime”, lanciato dalle rappresentanti istituzionali del governo di destra che avevano fatto della “tutela delle donne” un’arma per criminalizzare le culture dell’immigrazione.
E’ proprio di questo atteggiamento che il movimento delle donne vorrebbe velocemente sbarazzarsi, senza chiudere gli occhi, ovviamente, di fronte al patto patriarcale che trasforma il dialogo tra civiltà in un cupo silenzio sulle condizioni materiali di vita delle donne.
I casi recenti e clamorosi di Hina e di Kaur non possono passare in secondo piano, non possono non essere chiamati per quello che sono: violenze di genere. In un caso, quello di Hina, la nostra legislazione è sufficiente a punire, ma non a prevenire, nell’altro semplicemente nè totalmente inefficace. Perché come ben sanno anche le donne italiane, non ci sono strumenti per resistere alle pressioni patriarcali all’interno della famiglia, se non la presa di coscienza, la presa di parola, e la ribellione.
Occorre dunque riflettere su cosa si può fare per intervenire efficacemente. Su questo le pratiche avviate dalle donne, spesso a livello locale, hanno dimostrato che accanto alle campagne di informazione e di denuncia, vanno costruite strategie di intervento concrete in cui il ruolo del pubblico, locale o nazionale, è quello di sostenere iniziative che valorizzino l’autonomia delle donne migranti anche rispetto alle loro comunità.
Si tratta di una strategia semplice, ma complessa nella sua realizzazione, poiché richiede l’attenzione a una “pratica delle relazioni” che anche una grande parte della politica, schiacciata solo sulla decisionalità istituzionale, non è in grado di comprendere in tutta la sua importanza. La situazione è resa più difficile dal fatto che neanche le associazioni di rappresentanza delle differenti comunità migranti hanno interesse a spezzare il patto patriarcale che sta alla base di un multiculturalismo omertoso sul conflitto tra i sessi (quindi di facciata). L’azione delle “native” - per tornare al titolo di un convegno femminista sull’emigrazione organizzato a Torino più di dieci anni fa - dovrebbe essere quella di mettere in luce l’insostenibilità di quel “patto patriarcale” per tutte le donne che vivono in questo paese.
Mi auguro che gli sciagurati episodi di violenza - verso le italiane e verso le straniere - rimangano tutti, senza distinzione, al centro dell’attenzione mediatica: per fare in modo che il dibattito, aperto tra intellettuali, giornaliste/i, rappresentanti istituzionali e attiviste, non si chiuda relegandoli di nuovo in episodi di cronaca locale. Il giusto scandalo per questi massacri non può tuttavia tradursi in una sbrigativa condanna delle culture “altre”, e deve far riflettere sulle conseguenze della globalizzazione sfrenata che non ha mai tenuto in conto la sostenibilità umana del modello di sviluppo neo-liberale. Fare fronte a questi fenomeni costringe adesso uomini e donne, politica istituzionale e movimenti, a radicali mutamenti di visione e di pratica politica. In questo senso anche la cooperazione verso i paesi del Sud del mondo, può servire a comprendere e a intervenire in modo appropriato e va mantenuta costantemente “in tensione” con quello che accade all’interno del nostro paese.
Cercare di affrontare il problema delle violenze di sesso e di genere in questo nuovo contesto globale impone di mettere in luce l’esperienza delle donne, native e migranti, nel Nord come nel Sud del mondo, per smascherare le connivenze e le gerarchie tra patriarcati. Solo così avremo una possibilità di superare la concezione liberale del multiculturalismo: attraverso una politica delle relazioni e della conoscenza, capace di fornire le basi per una convivenza tra diversi che non offenda i corpi e i desideri di nessuna.