intervista Shamsie: il Pakistan vuole normalità non fanatismo
La scrittrice a Milano parla del suo nuovo romanzo: «C’è troppa diffidenza reciproca fra islam e Occidente. La provo sulla mia pelle. Ma la cultura può davvero servire a vincere la paura»
DI DANIELA PIZZAGALLI (Avvenire, 21.01.2010)
La giovane Hiroko, marchiata dall’esplosione atomica di Nagasaki nel corpo e nell’anima, arriva a Nuova Delhi nel 1947, in tempo per innamorarsi di un indiano musulmano che dovrà forzatamente lasciare l’amata città e andare a vivere in Pakistan a causa della Partizione. E’ una storia di irrimediabili perdite ma anche di ostinata speranza, quella raccontata dalla pakistana Kamila Shamsie nel romanzo Ombre bruciate (Ponte alle Grazie, pagine 386, euro 18,60): nonostante gli eventi della vita di Hiroko contemplino anche un figlio recluta- to in un campo afgano di mujaheddin, un marito ucciso da un agente della Cia e si trovi infine a New York l’11 settembre 2001, lei non perde la voglia di sopravvivere e di guardare avanti. Hiroko è un personaggio di tale forza da essersi imposta anche all’autrice: «Il protagonista doveva essere il giovane pakistano Raza», ci dice Kamila Shamsie, già nota in Italia per il successo dei romanzi precedenti, Sale e zafferano e Versi spezzati «e gli ho attribuito una madre giapponese per il richiamo alla bomba atomica, perché il romanzo doveva iniziare al tempo dei test nucleari di India e Pakistan, con il conseguente pericolo di una deflagrazione mondiale. Ma la personalità della madre e le ragioni del suo arrivo in Pakistan mi hanno tanto preso da costringermi a mettere al centro dell’attenzione la generazione precedente, con Hiroko a fare da simbolo di un nuovo tipo di donna, uscito più volitivo e autonomo dal crogiuolo infuocato delle tragedie inflitte dalla Storia ».
Ombre bruciate , già tradotto in 17 lingue e finalista in Inghilterra all’Orange Prize, intreccia destini privati e riflessione storica: «Creiamo la desolazione e la chiamiamo pace », dice un personaggio del romanzo, un idealista che ha creduto nell’intervento americano in Afghanistan contro l’invasione sovietica, ma dopo il 2001 vede infrante le prospettive di una democrazia esportata. La scrittrice ha molta familiarità con questo argomento, perché vive tra gli Usa, dove ha studiato all’Università, Londra, dove scrive e collabora come opinionista per il Guardian , e Karachi, dove vive la sua famiglia.
«Ero in America l’11 settembre 2001, e mi ha colpito come la gente fosse presa alla sprovvista: non avevano idea dell’accumularsi dell’odio contro gli Stati Uniti, non sapevano quanto si fosse acuito e diffuso il fanatismo. Una parte significativa del romanzo si svolge in Afghanistan, perché come pakistana è una situazione esplosiva che abbiamo alle porte, anche nel recente attacco suicida è morto qualcuno che conoscevamo, a Karachi non c’è famiglia che non abbia subito disagi e lutti. La mia opinione è che gli americani non dovevano lasciare l’Afghanistan dopo aver cacciato i sovietici, dovevano restare a lavorare per la ricostruzione. Lo sbaglio è stato di non avere un programma a lungo termine, in quel momento Al Qaeda non disponeva ancora di un vasto seguito, poteva essere annientata. Di questo vuoto hanno approfittato i talebani, ora tutto è distrutto, e tutti sono armati, dunque la possibilità di una ricostruzione è sempre più remota».
Nell’ultima parte del romanzo, che si svolge a New York, prende spazio una giovane amica americana di Hiroko, Kim, che sogna, grazie ai suoi studi ingegneristici, di costruire grattacieli indistruttibili da attacchi nemici e, pur volendo essere ottimista sul futuro del mondo, si lascia sopraffare dai sospetti verso un giovane afgano che esalta i martiri della jihad. «Questa strisciante diffidenza reciproca - osserva Kamila Shamsie - io la provo sulla mia pelle. Ho sempre viaggiato molto fra un mondo e l’altro, e mi accorgo con fastidio di una crescente retorica ’ della differenza’, dei pregiudizi che impediscono una convivenza rilassata e sincera. Fra pochi giorni andrò a Karachi, che fra l’altro è sempre stata una città con grande voglia di vivere: i teatri sono pieni, la vita intellettuale è intensa, si fa di tutto per vincere la paura, che è sempre in agguato. Ogni atto ’normale’ richiede coraggio, anche solo quello dei genitori nel portare i bambini a scuola».