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Per l’inizio del dialogo, quello vero (B. Spinelli)

ITALIA E PAKISTAN: LA DIVINA COMMEDIA (Dante Alighieri) E IL POEMA CELESTE (Muhammad Iqbal). Ri-leggiamo insieme... le due opere e i due Autori! Un’ipotesi di rilettura di DANTE .... e un appello per un convegno e per il Pakistan!!!

DANTE PER LA PACE, PER LA PACE TRA LE RELIGIONI E TUTTI I POPOLI.
venerdì 9 novembre 2007 di Federico La Sala
[...] W O ITALY ... Dopo di lui, in Vaticano, è tornata la confusione, la paura, e la volontà di potenza e di dominio. Un delirio grande, al di qua e al di là del Tevere, ma La Legge dei nostri ‘Padri’ e delle nostre ‘Madri’ Costituenti è sana e robusta ... Dante è riascoltato a Firenze, come in tutta Italia - e nel mondo. Anche nel Pakistan - memori del “Poema Celeste” (Muhammad Iqbal) - la Commedia non è stata dimenticata!!! [...]
PENSARE UN ALTRO ABRAMO: GUARIRE LA NOSTRA (...)

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> PAKISTAN --- IL FRONTE DI ISLAMABAD. Dove l’esercito rieduca i piccoli jihadisti. «La nostra scuola insegna a non seguire falsi profeti».

sabato 20 marzo 2010

TERRORISMO, IL FRONTE DI ISLAMABAD

Pakistan, dove l’esercito rieduca i piccoli jihadisti

«La nostra scuola insegna a non seguire falsi profeti»

di FRANCESCA PACI (La Stampa, 20/3/2010)

INVIATA A PESHAWAR

Quando taleban e qaedisti in fuga da Mazar-i Sharif hanno attraversato il confine pakistano e si sono rifugiati nella gola dello Swat, Abid, il padre emigrante a Dubai e la madre assorbita dalla famiglia di 17 persone, passava il dopo scuola tra la moschea e i videogiochi made in Usa.

Non c’è voluto molto perché i profeti armati di Corano e granate lo conquistassero mettendogli in mano gli esplosivi che fino a quel punto, 13 anni appena compiuti, aveva maneggiato alla consolle. Nella realtà però, dalla parte dei nemici c’erano gli americani. Oggi Abid è uno dei cento ragazzini tra gli 8 e i 18 anni sottoposti alla terapia di riabilitazione per terroristi che l’esercito pakistano e la Ong Hum Pakistani stanno sperimentando in un blindatissimo istituto nella valle lunare tra Malakand e Swat.

«Li abbiamo trovati quando abbiamo attaccato la regione» spiega il comandante Mowadat Hussain Rana, direttore del reparto psichiatrico dell’ospedale militare di Rawalpindi e mentore del progetto a cui è stato dato il nome pashtun di Sabaoon, «il primo raggio di sole». Man mano che i talebani si ritiravano Abid e gli altri, più simili ai piccoli soldati della Sierra Leone che ai tira-pietre dell’Intifada palestinese, tornavano nelle case abbandonate sin dal 2003, quando i jihadisti s’erano infiltrati nelle madrasse dove vengono mandati i figli ribelli. Peccato che nella versione sanguinaria, formata a dosi massicce d’estremismo anziché di botte, i parenti non li volessero più.

Meglio consegnarli alle caserme: «Che succede se un bambino cresciuto senza autorità, dando la caccia ai gatti, trascurando la scuola magari per difficoltà d’apprendimento, incontra un leader carismatico, armato, un eroe capace ai suoi occhi di riconoscere il bene e il male? Alcuni avevano lavorato tipo schiavi, altri facevano le sentinelle, i più audaci erano stati addestrati per missioni suicide». Invece di incarcerarli l’esercito li ha intervistati, catalogati in base al rischio e affidati a una ventina tra medici e insegnanti d’inglese, islam, ginnastica.

La parlamentare pashtun Bushra Gohar diffida della «rieducazione» militare ma il dottor Rana garantisce l’uso di test psicologici di standard internazionale e chiede tempo. Per mappare la radicalizzazione dei giovani pakistani, l’anima d’una società in cui uno su due ha meno di 25 anni, bisogna partire da Peshawar, antico avamposto della Via della Seta a pochi chilometri dal confine circondato oggi da un milione e mezzo di rifugiati afghani censiti, un decimo della popolazione del distretto. Qui, tra i bazar dove i disoccupati sbarcano il lunario e gli sterrati regno di camion decorati come carretti siciliani e rekscia, sorta di Ape adattata a taxi, i terroristi riescono a nascondersi e farsi sentire. I sacchi di sabbia davanti agli edifici governativi e i poster con le foto dei poliziotti caduti rivelano la routine di un attentato al giorno.

«Il vero pericolo della regione è la presenza destabilizzante degli Stati Uniti» insiste il mullah Amanullah Haqani, leader del partito oltranzista Jamiat Ulema-e-Islam e seguace della stessa scuola coranica del mullah Omar che nel tempo libero caccia conigli lungo la frontiera. Altro che al Qaeda. Secondo lui dietro le bombe c’è lo zampino di Blackwater, la società di security americana che anche i media pakistani hanno talvolta indicato come l’occulto mandante delle stragi. Difficile poi toglierlo dalla testa al quindicenne che prende l’acqua al pozzo del campo profughi Kabayan, dove è sempre vissuto, e, masticando caramelle Imlee Titanic, quelle con Leonardo Di Caprio sulla scatola, spiega che «Obama è nemico dell’Islam tale e quale a Bush».

A Peshawar, come nel resto del paese, il numero delle moschee supera di gran lunga quello delle scuole. «Fino al 2008 i talebani avevano l’85% del sostegno popolare ma i kamikaze l’hanno ridotto al 5%» osserva Rasheed Safi, cronista di Mashriq, il principale quotidiano in lingua urdu stampato ancora, in parte, in una vecchia tipografia. Sepolta con le vittime pakistane l’infatuazione per i nemici degli americani è rimasto l’estremismo d’un popolo che sfoga nell’ossessione del complotto straniero il bisogno di partecipazione politica. «Negli Anni 80 i governanti si son dimenticati di rimuovere il fondamentalismo religioso che avevano usato contro i sovietici e è germogliato, cultura della paranoia, nella nostra generazione» nota Saba Nur, classe 1986, analista del Pak Insitute for Peace Studies. Con il 47% dei ragazzi appena alfabetizzati e la laurea lungi dal garantire un lavoro, il terreno era dei più fertili.

«Dobbiamo distinguere radicalismo e terrorismo per evitare che si colleghino» ragiona Saba. Vicino al suo ufficio, in uno dei centri commerciali della capitale, gli adolescenti stazionano al Kentucky Fried Chicken sognando la caduta yankee in Afghanistan. «Vorrei specializzarmi negli Stati Uniti ma non ci resterei mai» dice Aisha, 24 anni, studentessa d’economia all’università Qaid e Azam di Islamabad. Basta un giro nel prestigioso ateneo per confermare il Pew Global Attitude Project secondo cui il 64% dei pakistani considera l’America un nemico e solo il 9% un partner. Non contano i 7,5 miliardi di dollari in 5 anni concessi dal Congresso al presidente Zardari. Sadi, statistica, 23 anni, non si fida di Obama: «Ci mollerà dopo averci usato». Nessuno odia più intensamente dell’amante tradito.

«L’estremismo islamico ha colmato il vuoto di antiamericanismo lasciato dalla crisi dei partiti di sinistra e dopo la guerra in Iraq la situazione è peggiorata» chiosa Zaffar Abbass direttore di Dawn, il principale quotidiano del paese. Ci vorrebbe che la Casa Bianca rispolverasse il soft power. Ma per ora dal fronte distante meno di 250 chilometri giunge l’eco di quello hard.


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