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Per l’inizio del dialogo, quello vero (B. Spinelli)

ITALIA E PAKISTAN: LA DIVINA COMMEDIA (Dante Alighieri) E IL POEMA CELESTE (Muhammad Iqbal). Ri-leggiamo insieme... le due opere e i due Autori! Un’ipotesi di rilettura di DANTE .... e un appello per un convegno e per il Pakistan!!!

DANTE PER LA PACE, PER LA PACE TRA LE RELIGIONI E TUTTI I POPOLI.
venerdì 9 novembre 2007 di Federico La Sala
[...] W O ITALY ... Dopo di lui, in Vaticano, è tornata la confusione, la paura, e la volontà di potenza e di dominio. Un delirio grande, al di qua e al di là del Tevere, ma La Legge dei nostri ‘Padri’ e delle nostre ‘Madri’ Costituenti è sana e robusta ... Dante è riascoltato a Firenze, come in tutta Italia - e nel mondo. Anche nel Pakistan - memori del “Poema Celeste” (Muhammad Iqbal) - la Commedia non è stata dimenticata!!! [...]
PENSARE UN ALTRO ABRAMO: GUARIRE LA NOSTRA (...)

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> ITALIA E PAKISTAN ---- "Hina. Questa è la mia vita. Storia di una figlia ribelle" di Giommaria Monti e Marco Ventura (di Flore Murard-Yovanovitch - Hina uccisa perché libera).

domenica 20 marzo 2011

"Hina. Questa è la mia vita. Storia di una figlia ribelle" di Giommaria Monti e Marco Ventura pagine 304, euro 16,00 Piemme

Hina uccisa perché libera

di Flore Murard-Yovanovitch (l’Unità, 20.03.2011)

È sepolta a Brescia, davanti alla pizzeria dove cercava di diventare libera e indipendente, la giovane pachistana Hina. Sgozzata dal padre a Sarezzo il 12 agosto del 2006, a colpi di 20 coltellate, perché desiderava vivere la propria libertà come voleva; seppellita una prima volta nella buca del giardino di casa, cosi lui l’avrebbe avuta sempre per sé, anche da morta.

Hina, questa è la mia vita è il racconto irrealmente vero, ad opera di due cronisti di razza, Giommaria Monti e Marco Ventura, dell’efferato omicidio che per mesi è stato la «prima pagina» dei media ed è diventato emblematico del «femminicidio» in Italia. Ricostruita senza infarciture né pietismi dal diario della ventenne, dalle pagine processuali e da decine di testimonianze e interviste: la vita di Hina, che voleva volare come farfalla. Portare i jeans e le magliette, ballare come le coetanee bresciane, amare chi le pareva e studiare. Costruirsi una propria identità.

A 17 anni, Hina si ribella al matrimonio combinato con un cugino mai visto, rifiuta le asfissianti norme di un Paese che non sente più suo: «sono musulmana ma non sono più pachistana, non voglio più esserlo. Non voglio neppure essere cristiana, sono italiana e basta». Ma la comunità di origine la addita e la rinchiude nel velenoso cerchio di pettegolezzi e rimproveri al padre, come una di «facili costumi» con «l’ombelico in vista», scavando piano il terreno del dramma. Un dramma dai risvolti bui e complicati. Consumato nel silenzio e la complicità torbida degli altri membri del clan, zii e cognati, tutti d’accordo che «questa» li svergognava; e che se non avesse accettato quell’estate stessa il ritorno in Pakistan, o di farsi «domare», si sarebbe cercata un’altra soluzione... premeditata. Neppure gli affetti e conoscenze del mondo intorno, i vicini, i premurosi carabinieri, i servizi sociali (forse fu sbagliata la scelta della «comunità di recupero», perché lei cercava una vita tutta sua), furono da riparo. Fragili tasselli nella spirale verso la tragedia finale. Persino Beppe Tempini, il suo fidanzato, presentiva che la morte della «sua bambola» era avvenuta per mano del pater familias e che lei giaceva nel giardino di casa. Hina stessa annotava nel suo diario: «Ho paura del papà, qualcosa un giorno pure me lo farà, ma io non torno indietro». Pure la madre Bushra, ambivalente e sottomessa, si era sognata il dramma. Come se la fine fosse stata da sempre, nei meandri dell’inconscio, «intuita» o saputa.

I media, in coro e troppo presto, accreditarono l’eccitante versione dell’«esecuzione islamica», dello «sgozzamento rituale e religioso». Dietro il motivo del delitto, invece, non c’era né Corano, né soltanto un folle «onore» da salvare. Ma pazza e assoluta violenza patriarcale, quella che colpisce ancora centinaia di donne nel mondo e in Italia dove, dopo Hina, ci fu ancora Sanaa e le altre, uccise da mariti, fratelli ed ex fidanzati tra le mura domestiche.

Da questo importante libro-inchiesta spuntano anche nuovi particolari: i ripetuti abusi (addirittura a sfondo sessuale, come Hina aveva denunciato prima di ritrattare) di un padre-padrone che considerava la figlia una sua esclusiva proprietà: la sua cosa. Ben poco c’entra l’origine «etnica» o il «fondamentalismo islamico», come si è troppo detto in un dibattito politico pronto sempre a sfociare in vere campagne sicuritarie per la «scarsa integrazione» di queste comunità chiuse. Il problema semmai è la universale malattia millenaria di un patriarcato che, sotto ogni cielo, e alleandosi con la religione di turno, esercita la sua violenza sulla donna libera. E la «annulla», fino a farla «sparire». In una buca.


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