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Guerra, sempre assurda!!!

SHIRIN EBADI, Nobel PER LA PACE. Un’intervista intorno ai temi del suo libro: "IL MIO IRAN".

domenica 15 ottobre 2006 di Federico La Sala
[...] È in Italia per presentare il libro in cui racconta la sua autobiografia di donna magistrato, cui la rivoluzione di Khomeini ha tolto il lavoro e i diritti, ma che non per questo si è rassegnata, cominciando anzi una battaglia per i diritti delle persone, e in particolare delle donne, nella convinzione che, se correttamente interpretato, il Corano non è affatto inconciliabile con la libertà, la pace e il rispetto dei diritti (il titolo è Il mio Iran, Sperling & Kupfer, pp. 294, euro (...)

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giovedì 4 gennaio 2007

Giovani di Teheran

Non solo chador e tradizione «Ma amiamo il nostro Paese» Alì, 21 anni: «Qui per noi ragazzi è tutto così frustrante... Può diventare un problema anche il gesto più banale. Si parla però solo di restrizioni e problemi, la nostra resta una nazione meravigliosa» «Sarebbe assurdo negare le difficoltà, ma stiamo assistendo a una specie di rinascimento, che va oltre la politica, che parte dalla gente comune. C’è un potenziale enorme che sta prendendo vita»

Da Teheran Vicsia Portel (Avvenire, 04.01.2007)

«Take it easy, stai tranquilla». La ragazzina lo dice sorridendo mentre la giornalista tenta maldestramente di sistemarsi il velo in testa. «Guarda me e le mie amiche. Non ti devi mettere il burka, sai? Tieni un po’ fuori i capelli, come noi, non è un problema. Take it easy».

Museo nazionale di Teheran, le 8 e mezzo del mattino. Gli studenti del corso per guide turistiche arrivano alla spicciolata. Oggi passeranno un paio d’ore fra reperti e sculture che vengono dall’antica Persepoli. «Qui ci sono le perle della nostra storia», dice orgogliosa Salome, 20 anni, un cappottino che la fascia stretta e un foulard buttato appena sui capelli tinti. Nei giorni scorsi ha nevicato e un freddo secco e pungente costringe tutti, maschi e femmine, ad andare in giro infagottati. A vederle così, con i loro berretti colorati, il cappuccio della giacca a vento tirato in testa, queste ragazze potrebbero vivere in una qualsiasi città italiana.

Per alcune di loro l’hijab, il tradizionale costume islamico, è un perfetto sconosciuto. Roba da museo archeologico, per l’appunto. Fra i volti truccatissimi e curati, spunta perfino un nasino rimodellato dal chirurgo plastico. «Voi occidentali quando pensate all’Iran, vedete solo il velo che portiamo - commenta nervosa una ragazza con gli occhiali -, ma il nostro Paese è molto di più. È un Paese complesso e voi non lo capite».

E di questa complessità loro, i giovani, due terzi dell’intera popolazione, sono forse l’espressione più evidente. Divisi fra voglia di vivere qui e andare all’estero. Fra tradizione e desiderio di rinnovamento. Fra chador e cellulari high-tech.

Si ritrovano nei caffè della capitale, navigano su Internet, destreggiandosi come equilibristi fra i dettami del governo conservatore e la relativa censura. Se è vietato ascoltare musica occidentale, la scaricano dalla Rete. E se non esistono discoteche, fanno le feste e ballano in casa. I politici lo sanno. E spesso chiudono un occhio.

«La Repubblica Islamica non ci può impedire di pensare e di vivere secondo i nostri gusti», spiega Alì, 21 anni. Studia letteratura inglese all’università e vorrebbe trasferirsi all’estero. «Forse in Canada - aggiunge -. Là c’è più libertà. Qui per noi ragazzi è tutto così frustrante... Può diventare un problema anche il gesto più banale. Si deve però stare attenti quando si parla dell’Iran. Tutti evidenziano solo le restrizioni e i problemi, si deve scrivere invece che questo è davvero un Paese meraviglioso, il nostro Paese».

Ed è forse questo che più colpisce: in linea o meno con l’orientamento del governo, convinti o no della coerenza della Rivoluzione islamica, una cosa hanno in comune i giovani iraniani. Adorano il proprio Paese. Di un amore assoluto e viscerale. Come Mohammed, che ha 24 anni e vuole diventare ricercatore in antiche lingue persiane: «Non so come spiegare il mio rapporto con la mia terra. Io non solo voglio stare qui. Io voglio vivere e morire in Iran». Frasi patriottiche che in Italia, di solito, si possono ascoltare dalla bocca di qualche anziano reduce. «Voi giornalisti stranieri ci dipingete come un popolo di barbari, di folli estremisti - continua -, ma noi abbiamo una cultura millenaria alle spalle. È solo che voi non la conoscete».

Stesso tono nell’affermazione di Fatemeh: «Non posso dire che l’Iran mi piaccia: io amo l’Iran». Ha diciannove anni, chador e libri sottobraccio. Studia ingegneria e da grande vuole fare il manager d’azienda. «Ovviamente a Teheran». Ride di gusto quando le si chiede se per una donna non sia troppo complicato fare carriera nella Repubblica Islamica: «Perché, da voi le donne non fanno fatica a raggiungere i vertici?». Proprio ieri è caduto un altro piccolo tabù sul fronte dell’occupazione: è al lavoro a Teheran la prima autista di autobus, un mestiere finora tradizionalmente riservato agli uomini.

«I nostri ragazzi sono la forza di questo Paese», spiega Behrouz Gharibpour, direttore della Casa della Cultura, un centro che ospita e sostiene g ruppi di giovani artisti. «Sarebbe assurdo negare i problemi, ma stiamo assistendo a una specie di rinascimento della nazione, che va oltre la politica, che parte dalla gente comune. C’è un potenziale enorme che sta prendendo vita». Motore del rinnovamento, i giovani. E vera forza del motore, le ragazze. «Hanno, magari, una limitazione "sopra la testa" - sorride Gharibpour - ma dentro quelle teste, sono più libere che mai».

Certo Teheran non è tutto l’Iran, e all’università o in altri centri di aggregazione spesso si incontrano le figlie di famiglie benestanti (e forse più aperte). Nella capitale tuttavia la presenza delle ragazze colpisce davvero. Qualcuna avvolta nel tradizionale chador, tutte le altre lanciate nella più spregiudicata interpretazione del costume islamico: poco più che un ritaglio di stoffa colorata sui capelli, giubbini aderenti che segnano le forme del corpo e arrivano appena sotto il sedere, scarpe da ginnastica ai piedi e cellulare in tasca. E tutte si stupiscono quando l’occhio dell’osservatore occidentale si sofferma così tanto sul loro abbigliamento. «Ma che cosa pensavate, che ce ne andassimo in giro sul cammello? O che fossimo segregate in casa?», tuona Samar, 19 anni e un futuro da interprete. «i problemi del Paese sono altri, non certo un fazzoletto in testa. Per noi ragazze la vita universitaria è più difficile che per i ragazzi. Abbiamo tante regole in più da rispettare. Ma non ci scoraggiamo, questo è certo». E non si fa fatica crederle. «Solo nel mio campo, per fare un esempio, il 60% degli artisti sono ragazze», fa notare Gharibpour.

«Non è sempre una vita facile, ma ogni nazione ha i suoi problemi - spiega Maryam -. È vero che dobbiamo rinunciare a tante cose che hanno i nostri coetanei in Europa o negli Usa, ma per migliorare dobbiamo stare qui, lavorare da dentro. Non è poi così male». Dello stesso avviso, ma con un pragmatismo tutto suo è Alì, un ragazzo di 24 anni che lavora come speaker alla radio di Teheran. «Ma con chi avete parlato? Nel fine settimana, io vado a sciare, esco con gli amici, parliamo di politica e di cinema. E chi ti ha detto che noi non possiamo ascoltare musica e guardare film occidentali? Io conosco tanti cantanti italiani, per esempio: Laura Pausini, Eros Ramazzotti, Dolcenera...». Mentre lo dice la cresta impomatata, ultima moda della capitale, ondeggia leggermente. Certo, essendo vietati, di sicuro non comprerà i cd europei nel negozio sotto casa. «No, ma che c’entra. Me li portano gli amici. E quando ho voglia di un po’ di tv straniera, uso il satellite». Ma non è vietato anche quello? «Certo, è illegale, clandestino, ma si fa di nascosto».

Vivono così. A metà fra disillusione e voglia di cambiare. Coraggio e abilità da contorsionisti nell’infilarsi fra gli interstizi del potere. E anche un po’ di sano fatalismo. «Scusa Alì, ma non hai mai paura?». Lo speaker guarda l’interlocutore come se fosse una pazza e alza le spalle... Già. Take it easy.


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