Attente donne: ne uccide più il compagno che l’estraneo. La violenza (non solo sessuale), avviene troppo spesso in famiglia. Se accade occorre parlarne, prima che si trasformi in tragedia.
Che piaccia o meno accettarlo, le donne sono da sempre ed anche in modo più o meno nascosto, soggette a violenza. E’ un dato in alcuni casi non visibile (da insegnante in qualche caso ne sono venuta a conoscenza per “confessione” più o meno esplicita di allieve), questo perché l’effetto più frequente della violenza è la vergogna e la perdita di autostima, e tanto conduce chi ne è vittima a tacere. La violenza é, più spesso di quanto piacerebbe credere, di tipo “domestico”, ovvero si verifica in famiglia da parte di parenti o di amici intimi e accompagna la vittima a effetti che vanno molto al di là del danno fisico, quando non conducono alla morte. Tuttavia non dobbiamo immaginarla soltanto come un evento fisico, perché esistono differenti tipi di violenza: La violenza fisica va dal picchiare con o senza l’uso d’oggetti, spintonare, tirare per i capelli, prendere a schiaffi, a pugni, prendere a calci, strangolare, con le mani o con altri mezzi, ustionare, sfregiare con l’acido, ferire con un coltello o con altre armi (anche improvvisate) ed altresì torturare o uccidere. Deve essere considerata violenza anche quella psicologica, il minacciare, lo stalking e gli atti persecutori anche a mezzo web (che troppo spesso si traducono poi in violenza fisica), l’insultare, l’umiliare, l’attaccare l’identità e l’autostima, l’isolare la malcapitata impedendole o controllandone le relazioni con gli altri, il cacciarla fuori casa o metterla in condizione di andarsene, rendendone impossibile la permanenza, o al contrario, il segregarla in casa (casi di rapimento, segregazione e violenza perpetuati anche per anni sono “comuni”, non in Italia; quelli scoperti hanno indignato il mondo). Nondimeno è recente (3 ottobre del ‘14) ed avvenuta in Italia, a Pavia (non da parte di un italiano), la vicenda di una ragazza diciottenne di origini marocchine, segregata in casa dal fratello di 26 anni, assieme alla cognata di 22, perché non voleva “spacciare”, liberata poi per mezzo dei carabinieri di Vigevano. Occorre considerare anche la violenza economica: il sottrarre alla donna il suo stipendio, l’impedirle qualsiasi scelta nei confronti della gestione nell’economia familiare, l’obbligarla a lasciare il lavoro o l’impedirle di trovarsene uno, ma anche il costringerla a firmare documenti, a contrarre debiti, ad avviare progetti economici (a volte truffe), con l’ansia e la paura per la propria condizione e per quella dei propri figli unite all’autocolpevolizzazione, ad un intimo senso di inettitudine, alla depressione. Quanto esposto si accomuna a traumi dagli esiti più o meno reversibili cui in molti casi fanno seguito problemi psico-somatici, impedimenti del sonno, danni durevoli alle articolazioni, cicatrici, ed inoltre perdita parziale dell’udito e/o della vista. La violenza sulle donne è in moltissimi casi custodita tra le mura di casa e accettata come un dovere. E’ anche a causa di tale silenzio se all’improvviso lo scoppio della violenza si traduce in omicidio, laddove la donna decida -infine- di liberarsi, informando il compagno o coniuge, della sua volontà di lasciarlo. Seppure la storia insegna che la richiesta di aiuto, anche ai parenti o alle forze dell’ordine, non sempre salva la vittima dall’omicidio, dalla brutalità che conduce all’ospedale o dall’essere sfigurate a vita (emblematico il caso dell’aggressione con l’acido subita dall’avvocatessa Lucia Annibali, a Pesaro, da parte dell’ex fidanzato Luca Varani). La violenza, se non fa perdere la vita o non lascia sfigurati nel corpo o nell’animo, può condurre alla perdita del lavoro, della casa e di eventuali altre proprietà, e non difficilmente a quella del proprio tenore di vita, qual ora si decida che la libertà dal coniuge/compagno valga di più della sicurezza economica. La sopportazione di qualsiasi tipo di aggressività conduce all’isolamento, all’assenza di partecipazione nel sociale e nelle relazioni con l’esterno, alla perdita di relazioni amicali. Inoltre: una moglie picchiata è in molti casi mamma e la violenza produce conseguenze gravissime non solo sulla donna, ma anche sui figli, sempre che ne escano vivi entrambi. E’documentato che i bambini e le bambine cui tocca in sorte di assistere a scene di violenza domestica (recentissima quella di Cattolica - Rimini - laddove Raffaele Ottaviano, 30 anni, ha ucciso la moglie Ivana Intilla, 27 anni, a coltellate e si è tolto la vita in presenza dei due figli gemelli di tre anni, che erano a casa con loro (fortunatamente senza scaricare anche su di loro la sua rabbia), o che ne sono stati/e vittime in prima persona, mostrano problemi di salute e di comportamento, tra cui disturbi di peso, d’alimentazione o del sonno. Inoltre possono avere difficoltà a scuola, possono cercare di fuggire da casa o anche mostrare tendenze suicide e da adulti non riuscire a sviluppare relazioni intime corrette. Quando non vengono loro stessi uccisi. Tutto ciò dovrebbe portare l’attenzione della società alla prevenzione di queste violenze, troppo spesso domestiche e ritenute “inattese” dai vicini (e qualche volta dagli stessi parenti). Sappiamo bene, ad indagare a fondo dietro ogni morte, ogni ferimento, ogni omicidio di bambini assieme alle madri o ad entrambi i genitori (omicidio/suicidio), che non è affatto così: Quando le donne non hanno fatto direttamente richiesta di aiuto alle forze dell’ordine, si sono certamente espresse coi familiari, ne sono state consapevoli, hanno intuito che il filo sottile tra la vita e la morte stava per spezzarsi, ma non è stato fatto per loro qualcosa di drastico e conclusivo, che impedisse la tragedia. La storia insegna che l’autore di femminicidio non è uno sconosciuto o quello che può essere definito un "maniaco incontrato per caso". (fatti salvi i casi quali quelli di Yara). Ad uccidere la donna è un partner, un ex partner o un familiare, quindi un essere umano legato a lei da un rapporto stretto e che in teoria avrebbe dovuto amarla. Annotiamo: Solo in 14 casi su 1036 l’assassino risulta essere stato un estraneo; soltanto in 34 casi su 1036 l’assassino è legato al mondo della prostituzione (sfruttatori e clienti della vittima). Soltanto in 82 casi su 1036 l’assassino è collegato alla vittima in modo epidermico e può essere definito un conoscente. In 195 casi su 1036 l’assassino è legato invece alla sfera familiare, comprendendo con essa sia parenti diretti che acquisiti. In 629 casi su 1036 l’assassino è un partner presente (483 casi). Che fine fanno gli assassini? maggiormente emergono (quando viene accertato), due conclusioni più comuni: l’arresto e il suicidio (tentato o riuscito). Su 1036 casi di femminicidio in Italia 553 volte il colpevole è stato assicurato alla giustizia (nella maggior parte dei casi per autodenuncia e spontanea consegna alla polizia) mentre in circa 296 casi l’autore dell’omicidio http://www.stopfemminicidio.it/fineass.phpha tentato (48 volte) o è riuscito nell’intento del suicidio. Ma in ogni caso la donna è morta. Bianca Fasano Note: http://www.stopfemminicidio.it/fineass.php