Crisi della paternità o dell’ideale virile?
di Lea Melandri (Corriere della Sera, La ventisettesima ora, 19 marzo 2016)
E’ mia abitudine fare maggiore attenzione a ciò che rimane invariato nel tempo, piuttosto che ai cambiamenti. Perciò ho letto con piacere la lettera-editoriale di Barbara Stefanelli sul “Corriere della sera” (19 marzo 2016), dedicato ai “nuovi padri”, “presenti e responsabili”fin dai primi anni nella vita dei figli, ma il mio interesse è stato sviato immediatamente dall’articolo di Luigi Zoja che, sullo stesso tema, lo affiancava.
Posso essere d’accordo su alcuni aspetti della sua analisi: crescita dei divorzi, delle separazioni, nascite fuori dal matrimonio, aumento delle donne singole con figli, eclisse delle figura paterna e conseguente comparsa di forme di aggregazione maschile simili al branco primordiale.
La crisi della famiglia è vista da Zoja fondamentalmente come “assenza del padre” e ritorno al modello del “maschio competitivo”: l’orda barbarica, il bullismo.
Il padre, di cui si lamenta la mancanza, è ancora quello tradizionale, garante della crescita del bambino, sia dal punto di vista educativo che culturale., un ruolo molto lontano da quello del “mammo”, addetto solo all’ “accadimento corporale” del figlio.
Della figura femminile -la madre- non si fa parola, ma è chiaro da tutto il discorso che siamo nell’ordine della complementarietà, a cui sembra oggi fare sempre più difetto uno dei due poli dell’antica dialettica.
Neppure una parola sul paradosso della quasi esclusiva presenza di donne nella scuola, dall’asilo fino alle soglie dell’Università: madri-maestre, figure ibride, funamboliche, a cui si chiede di trasmettere un sapere creato da altri, di “disciplinare corpi”, essendo state esse stesse considerate corpo, natura, materia senza forma propria.
L’incremento del numero delle donne single non è di per sé indicativo di una messa in discussione del ruolo tradizionale di madre che potrebbe, al contrario, uscirne rafforzato, ma del rifiuto sempre più consapevole da parte femminile di assumersi la cura e il sostegno di un marito-figlio: un adulto da loro dipendente al di là del reale bisogno e a discapito della sua stessa autonomia.
Se dietro l’eclisse del padre-padrone emerge oggi l’orda selvaggia dei figli, è perché questi due volti del maschile in realtà non sono mai stati separati, costretti a convivere, come Giano Bifronte, dal confinamento della donna nel ruolo di madre, potenza dominata storicamente ma al medesimo tempo dominatrice nelle cure e negli affetti domestici.
Parlare di padri come “simbolo positivo”, che è venuto a mancare, vuol dire non tenere conto di quel salto della coscienza storica che è stato portare allo scoperto il rapporto uomo-donna, ripensare le costruzioni del maschile del femminile alla luce della divisione sessuale del lavoro, dell’identificazione della donna con la natura, della separazione tra privato e pubblico, della maternità come obbligo procreativo.
Non è la paternità che è oggi in crisi, ma l’”invenzione della virilità” per quello che ha significato nel corso dei secoli, sia come rapporto di potere, sia come perverso funesto intreccio di amore e violenza.