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Uomini e donne, per un "cambio di civiltà" - al di là del Regno di "Mammasantissima": l’alleanza edipica della Madre con il Figlio, contro il Padre, e contro tutti i fratelli e tutte le sorelle.

USCIAMO DAL SILENZIO: UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE. Basta - con la connivenza all’ordine simbolico della madre [Giocasta]!!! - a c. di Federico La Sala

L’antropologia come la teologia della "sacra famiglia" della gerarchia vaticana è zoppa e cieca: è quella del ’Figlio’ che prende - accanto alla Madre - il posto del padre "Giuseppe" e dello stesso "Padre Nostro"... e fa il "Padrino"!!!
lunedì 27 novembre 2006 di Federico La Sala

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> USCIAMO DAL SILENZIO: UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE. Basta - con la connivenza all’ordine simbolico di "Mammasantissima" (l’alleanza edipica della Madre con il Figlio, contro il padre e contro tutti i fratelli e tutte le sorelle) !!!.

venerdì 29 settembre 2006

Materna e colpevole, lo schema dell’immaginario

di Barbara Mapelli *

Scrive Silvia Vegetti Finzi che la maternità è un grande rimosso della contemporaneità, intorno al quale permane un nodo irrisolto di pensieri ed emozioni. Eppure, a quel che appare, di maternità si continua a parlare: perché non si fanno abbastanza figli, perché li si cura troppo o perché li si cura troppo poco, abbandonandoli per lunghe ore davanti alla tv, perché le mamme stanno loro troppo addosso o perché sono troppo lontane e pensano solo al lavoro e "a fare carriera".

Perché, infine, le mamme uccidono i loro figli. E a questo proposito poche, pochissime - ricordo Lea Melandri - sono state le analisi serie, fondate. Prevale un grande "rumore di fondo", come lo definirebbe Foucault, che si trasforma però in discorso, normativo e punitivo, dimenticando elegantemente i paradossi da cui si genera, le affermazioni che convivono - e dotate della medesima assertività - con le loro stesse negazioni, fino a strutturare un immaginario sociale che, troppo spesso, schiaccia e opprime le donne, le madri e le non madri, costrette a dolorose scelte, alternative tra lavoro e figli, e sospinte poi nell’inesorabile risucchio dei sensi di colpa, che paiono non lasciare soluzioni. Come osserva Marina Piazza, "cattive madri" se si occupano troppo del lavoro, "cattive lavoratrici" se si occupano troppo dei figli. Un equilibrio in tutto ciò appare spesso ricerca vana, desiderio lontano. Questo immaginario sociale potente e pesante si forma a partire da stratificazioni profonde di culture tradizionali, solo in superficie verniciate di modernità, che non sanno (non vogliono) elaborare pensiero sui cambiamenti delle biografie femminili e soffocano e frenano, con le cortine opache dei sensi di colpa, le possibilità reali di "pensarsi" nella complessità inedita delle loro vite da parte delle giovani donne, ma frenano anche i giovani uomini, coi loro nuovi desideri di paternità, ancora confusi, mimetici e gregari rispetto ai modelli di maternità.

Non si avviano così, se non in poche e poco ascoltate sedi, vere riflessioni che contribuiscano a formare una nuova cultura della maternità, nuovi modelli e immagini, riferimenti, valori, percorsi collettivi e individuali, ma anche misure sociali, di sostegno e partecipazione concreta e civile a un evento, centrale nelle biografie dei soggetti, ma anche nello sviluppo delle società. E’ qui che si colloca la rimozione di cui dicevo all’inizio, una rimozione che non si nutre di silenzi, ma di assordanti "rumori di fondo", di chiacchiere e giudizi senza pietà, che non offrono a nessuno gli strumenti per comprendere, lasciano spesso le donne sole, con le loro ansie quotidiane, con le consapevolezze di non corrispondere, di non riuscire ad essere "quella" madre che l’immaginario collettivo rimanda anche a loro, specchiandosi nell’immaginario di ciascuna donna rispetto alla propria personale, vissuta o prefigurata, maternità. Allora si viene a scoprire - come è accaduto a me con una recente ricerca svolta tra giovani donne, madri e non madri, di alcune città lombarde - e con poco stupore, che tutte desiderano essere madri. E ci si chiede, ma è una domanda con poche speranze di risposta, se sia un desiderio reale o appartenga a un’immagine sociale che, ancora, dà valore a una donna soprattutto se è madre. In realtà l’unica risposta di senso sarebbe che il dilemma è falso, perché come è possibile pensare di poter distinguere i cosiddetti desideri autentici dalle immagini sociali che li generano?

E ancora, proseguendo tra le parole delle giovani donne che hanno parlato con noi, ci rendiamo sempre più conto che il loro desiderio e vissuto di maternità è, soprattutto, fatto di fatica, ma anche di "onnipotenza". Vogliono fare tutto e bene, figli e lavoro. Si lamentano che i compagni e mariti sono solo in parte disponibili, ma anche in presenza di "buoni" padri prevale nella maggior parte la valutazione della necessità, considerata scontata e naturale, del mantenimento della centralità materna, grazie anche - naturalmente - a una vasta area di complicità, timore e incompetenza maschile. Le nonne e i nonni, soprattutto le prime, sono una risorsa necessaria e centrale, cui si ricorre sovente a tempo pieno, in assenza di servizi sociali. Ma spesso, come i "buoni" padri, sono solo mani in più, la mente resta una sola. E’ lei che coordina la piccola truppa che sta intorno al bambino o alla bambina, che sceglie e interviene nella normalità e nell’eccezionalità, nell’organizzazione quotidiana di tempi e luoghi, negli interventi straordinari, malattie, spostamenti, vacanze. Lei è la regista, usa proprio questo termine, ironicamente, una delle nostre intervistate, riconoscendosi in questa ansia di onnipotenza, che toglie tempo anche al sonno, consuma ogni energia, non lascia risorse neppure per "pensarsi" come protagoniste di questo straordinario cambiamento, che cambia la vita e il significato dell’esistenza.

Molte lo intuiscono e se ne dispiacciono, ma proseguono - non possono diversamente - a intrecciare le trame delle proprie e delle altrui incombenze quotidiane intorno al figlio o alla figlia. Chi riesce a fare dell’ironia in fondo sta abbastanza bene, in fondo è sola, e soprattutto, stanca. Ma c’è chi non riesce a orientarsi nei diversi messaggi che l’immaginario sociale getta addosso a una donna come una rete, chi non riesce a comporre o a convivere con le diverse immagini di sé, con desideri contrastanti, con dover essere opposti che si scontrano. Sono quelle che "non ce la fanno" come l’ultima, più recente, giovanissima donna, accusata di aver ucciso il figlio. Se la generazione di donne a cui appartengo - ora siamo le nonne, vere o virtuali - ha fatto la scoperta della doppia presenza, ormai questo modello spiega solo in parte la vita delle "nuove" donne, impegnate non solo in una composizione continua di tempi e compiti, ma anche di riferimenti simbolici, profondamente contradditori, che non trovano se non sintesi temporanee e inadeguate, sempre da rivedere, sempre insoddisfacenti.

Se le più fortunate riescono a sopravvivere, grazie a condizioni particolarmente favorevoli, alla virtù dell’ironia - virtù generazionale e femminile - e all’esercizio quotidiano di un’altra virtù, l’ambivalenza, che consente il mantenimento di desideri, attese di sè legate a immagini profondamente diverse, talvolta laceranti dell’essere e divenire donne, ci sono, comunque, e sono troppe, quelle che "non ce la fanno". Non sempre sono assassine, naturalmente, molte si limitano a star male, a perdersi di vista, a non capire più cosa vogliono, o a mettere da parte, per lungo tempo, questo pensiero. Sole, davanti a un rimosso sociale e culturale che le nega per quello che veramente sono, o potrebbero. Dolenti, nella loro ricerca vana e sofferente di un’onnipotenza che sembra realizzare e comprendere in una figura diversa dell’essere donna.

Ma non c’è per il momento, a differenza forse del passato, un momento di condivisione, una riflessione collettiva, che inizi a denunciare, e colmare, questo rimosso. Che inizi a ricostruire nuove figure dell’immaginario soggettivo e sociale in cui trovino luogo per sé queste "nuove" donne e madri e gli uomini a loro vicini, possibili "buoni" padri.

*

www.liberauniversitadelledonne.it

questo articolo è apparso in Queer inserto di Liberazione del 12 giugno 2005


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