Governare il mondo o cambiarlo?
di Lea Melandri *
Il femminismo, come disse lucidamente Rossana Rossanda nelle sue conversazioni su Radio Tre alla fine degli anni Settanta (Le Altre, Feltrinelli 1978), era stato il sintomo più evidente della crisi della politica e l’embrione del suo possibile ripensamento. Chi se ne ricorda più? Confrontato con la “persona” e con la vita tutta intera, così come emergevano dall’esplorazione e dai racconti di soggettività restituite finalmente alla storia, il lessico con cui si erano definite fino a quel momento le istituzioni pubbliche appariva per la prima volta in tutta la sua astrattezza.
Inevitabile che, nel sovvertimento di un ordine protrattosi per secoli, che aveva diviso e contrapposto, subordinato secondo criteri gerarchici di complementarità privato e pubblico, corpo e polis, cadesse anche il dilemma che aveva tenuto fino ad allora l’emancipazione femminile nel limbo di una cittadinanza imperfetta: da un lato, battaglie di parità e diritti; dall’altro, pressione per far riconoscere una specificità della condizione della donna - madre, moglie, responsabile dei bisogni della famiglia -, che doveva essere valorizzata socialmente e come tale fatta oggetto di tutela.
Uguaglianza e differenza, alla luce della critica al dualismo sessuale, apparivano non altro che lo specchio di quel potere maschile che aveva creduto di poter confinare nella natura, insieme al destino dell’altro sesso, esperienze cruciali dell’umano. Sono passati alcuni decenni da quando una pratica politica anomala e sorprendente come l’“autocoscienza” ha portato sulla scena pubblica una cultura “antagonista”, ostile a un processo di “integrazione” della donna che avrebbe finito - come si legge già in un documento del Gruppo Demau del 1967 (Daniela Pellegrini) - “per obbligarla a trovare un compromesso tra due sfere definite finora in modo decisamente separatistico”, dal momento che non era in discussione “il suo ruolo primario di riproduttrice sessuale”. (I movimenti femministi in Italia, Savelli 1977)
Dal dibattito su donne e rappresentanza politica, che si è venuto affermando nelle tante realtà associative femminili e femministe presenti nelle città italiane, e di riflesso anche nei media, si ha l’impressione che insieme alla memoria di una straordinaria svolta culturale e di uno sguardo inedito sulle molteplici implicazioni del conflitto tra i sessi, si stia perdendo anche la capacità di vedere i profondi cambiamenti avvenuti nella nostra società, proprio a partire da quelli che negli anni Settanta erano solo segnali sintomatici, avvertimenti, esigenze radicali del presente che si sarebbero sicuramente ripresentate.
Oggi, a fronte di uno svelamento evidente dei legami che ci sono sempre stati tra sessualità e politica, interessi, bisogni e desideri personali e istituzioni - una contaminazione di cui parla l’antipolitica populista, l’aziendalizzazione dello Stato, l’uso privato del denaro pubblico, il declino delle forme tradizionali della partecipazione, il saccheggio che il consumismo sta facendo della vita intima -, colpiscono prese di posizione, riguardo alla volontà delle donne di “contare di più” nei luoghi decisionali del potere, che sembrano riportare indietro il tempo e la coscienza critica creata pazientemente dalla storia del femminismo: considerazioni contrastanti sulla questione donne e politica, ma accomunate da logiche di genere, sia pure con un singolare ribaltamento di parti. Il rimprovero che viene fatto alle femministe è la facilità con cui i loro gruppi continuano a “dividersi, frammentarsi, disgregarsi”, allontanandole dall’obiettivo di una presenza paritaria in politica.
Ciò di cui le donne mancherebbero, per incidere sulla vita pubblica come forza collettiva, sarebbe la “coesione” e la “compattezza” che ha permesso agli uomini di conquistare potere e di spartirselo. Il prezzo, così come viene solitamente descritto, ricorda l’aspetto più deteriore della politica maschile: risparmiare o rinviare a migliore occasione la critica, anche quando si è in disaccordo, sostenere candidati del proprio schieramento anche quando non li si considera idonei al loro ruolo, limitandosi a “detestarli silenziosamente”, rinunciare alla “schiettezza” e alla voglia di esprimere le proprie emozioni, mantenere la distanza “tra l’amore e la civile convivenza”.
Non si può non restare perplessi di fronte a un’idea di convivenza che sembra tutto fuorché “civile”, fatta di reticenze e odi mascherati, ma soprattutto di compattezze costruite sull’irrigidimento di fedeltà e appartenenza, che come sappiamo hanno sempre avuto come contropartita l’esclusione dell’altro, del diverso, vissuto come un pericolo per l’integrità del gruppo.
Per un movimento che ha avviato con tanta chiarezza quarant’anni fa la critica a ogni forma di dualismo - dalle differenze tradizionali di genere alla separazione tra il cittadino e la persona, tra la politica e la vita quotidiana - e la ricerca di “nessi” tra realtà astrattamente contrapposte, è incomprensibile che si possa cancellare la storia di secoli nell’analisi del comportamento femminile, o ignorare i cambiamenti che sono intervenuti tra privato e pubblico, famiglia e Stato, ruolo maschile e femminile, e le risposte che la cultura femminista nella sua radicalità può dare agli interrogativi del presente, come ripensamento della politica, della rappresentanza, dell’idea stessa di potere.
*-*** Saggista, scrittrice e giornalista, Lea Melandri ha diretto per molti anni la rivista “L’erba voglio” ed è un punto di riferimento del movimento delle donne. Altri suoi articoli sono leggibili qui. Ha aderito alla campagna 2016 Facciamo Comune insieme. È tra le autrici del quaderno Ci vuole il tempo che ci vuole (edizioni Comune). L’articolo di questa pagina è apparso per la prima volta su Gli Altri nell’aprile 2012)
* Comune-info, 13 novembre 2016 (ripresa parziale).