Il corpo negato della democrazia
Storia al bivio. Vinzia Fiorino analizza la realtà transalpina dal 1789 al 1915 in «Il genere della cittadinanza», per Viella. La Rivoluzione francese dichiarò la sovranità popolare, negando però l’uguaglianza alle donne. Le tesi che tendevano a mantenerle ai margini, o fuori, dalla sfera politica, erano sostenute anche da faziose expertises scientifiche dal carattere antropologico. Molte però anche le figure che misero in discussione quel modello. Da Olympe de Gouges, drammaturga, a Hubertine Auclert che nel 1882 parlò per la prima volta di femminismo
di Francesca Maffioli (il manifesto, 14.01.2021)
Il volume di Vinzia Fiorino, Il genere della cittadinanza (Viella, pp. 260, euro 26) traccia i contorni di quella fase, cominciata al principiare della Rivoluzione francese e terminata nel 1915, che vedrà la definizione del concetto di civitas come spazio esclusivamente maschile di esercizio di diritti politici. Insieme alla cittadinanza sono delineate tutte quelle dinamiche di esclusione e marginalizzazione delle donne edificate nel corso dell’Ottocento francese.
FIN DALLE PRIME PAGINE Fiorino sottolinea (e anche altrove nel libro insisterà su questa questione essenziale) che tra i soggetti subordinati e esclusi dalla moderna sfera politica erano da annoverare anche «i neri, ma anche i domestici, i matti, i criminali», mettendo in rilievo l’intersezione tra le discriminazioni. Quando l’autrice scrive che «sulla base delle differenze di genere e di razza sono stati edificati, però, i principali criteri di esclusione dalla comunità politica, in quanto il loro carattere naturale ha reso tale esclusione immodificabile: i domestici avrebbero potuto emanciparsi, i matti rinsavire, i criminali pagare il debito con la giustizia; ma natura non facit saltus», vuole evidenziare anche la stretta di quel filo che ha legato la negazione del diritto di voto ai corpi delle donne con il pretesto della loro diversità rispetto alla norma, universale, maschile.
Come sostiene la storica Michelle Perrot, la rivoluzione francese ha rappresentato uno dei momenti fondativi della costruzione della moderna cittadinanza; tuttavia, come Fiorino riesce a dimostrare con argomentazioni solide e prove storiche, quando la Rivoluzione dichiara l’uguaglianza di tutti gli uomini nei diritti, e di fatto la sovranità popolare, sceglie di negare uguaglianza e sovranità a categorie considerate diverse - segnatamente le donne.
Pensando agli esiti della Rivoluzione francese, insieme allo smantellamento di quello che era l’Ancien Régime (che aveva trascinato per secoli l’ordinamento sociale per ceti e l’esercizio del potere a beneficio di quelli dominanti), spicca infatti la definizione di cittadinanza moderna. Bisogna fin da subito sottolineare che essa non aveva a che fare con il suffragio universale maschile, che in Francia sarà atteso per più di cinquant’anni dopo la Rivoluzione. Ancor meno la definizione di cittadinanza moderna ebbe a che vedere con il voto delle donne, per cui bisognerà aspettare il 1944.
I CENTOCINQUANT’ANNI che separano la Rivoluzione francese dall’acquisizione del diritto femminile di voto danno conto di un nuovo ordine che scelse di non far votare le donne francesi per ragioni diverse: spaziando dall’ordine naturale, per cui le donne sarebbero state caratterizzate da qualità fisiche (uno stato di inferiorità e debolezza) tali da non consentire loro qualunque riflessione intellettuale e quindi anche politica; fino alla negazione dell’esercizio di voto per il mantenimento di uno status quo necessario alla tutela dell’istituzione del nucleo familiare.
Fiorino sottolinea che per corroborare le tesi che premevano per il mantenimento delle donne al margine della sfera politica, erano fornite faziose expertises scientifiche dal carattere antropologico; cita in tal senso le conclusioni dei fisiologi Julien-Joseph Virey e Pierre Jean George Cabanis, che non a caso sono anche due idéologues attivi in quel contesto politico postrivoluzionario che premeva per lasciare le donne al margine dell’ambito politico.
Quando si parla di margine e di luoghi estrinsechi alla politica attiva, il rapporto gerarchico tra pubblico e privato è sancito dalla teorizzazione illuministica della politica e dall’approccio storico della sociologia positivista: il luogo privato, inteso come spazio domestico, sarebbe da situarsi a uno stadio inferiore rispetto a quello pubblico «collocato più innanzi lungo il percorso ideale che evolve da legami di tipo comunitario-religioso familistico verso una società moderna costruita sulla divisione del lavoro». Insieme a un modello di cittadinanza fortemente connotato sulla base del genere, per cui la dipendenza dal marito seguiva quella dal padre, si affermava come indiscutibile quel modello per cui lo status di minorità rendeva difficilmente accessibili alle donne i diritti di cittadinanza.
Nel saggio di Vinzia Fiorino è dato molto spazio proprio alla importante messa in discussione di questo modello ancorato a «quella sollecita preoccupazione per cui la partecipazione attiva delle donne nella sfera del mercato e della politica avrebbe comportato l’abbandono del lavoro di cura familiare fino alla loro mascolinizzazione». Ecco allora farsi avanti figure di donne che sono riuscite a mettere in discussione quel modello che le incastrava in quel luogo reale e simbolico in cui la loro parola, le esigenze e il loro pensiero erano ritenuti trascurabili e indegni di rappresentanza.
Mary Wollstinecraft, pensatrice britannica che nel 1792 partì alla volta di Parigi, la quale con magnifica lungimiranza affermava la necessità di trasformare il mondo iniziando da se stesse, convinta che senza quella che in Italia dagli anni Sessanta si chiamerà la pratica politica dell’autocoscienza femminista, la rivoluzione non sarebbe stata possibile. Olympe de Gouges, nota drammaturga e attivista francese, la quale nel 1791 pubblicò la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, non era partigiana di quella che definiremmo «l’uguaglianza identitaria», ma piuttosto di un’uguaglianza in termini di diritto. La pensatrice abbracciava il tema della libertà congiungendolo a quello di una giustizia sistemica - in una dimensione che comprendesse l’intero gruppo sociale: «La libertà non è più soltanto un diritto dei singoli, sia pur visti nella loro reciprocità, ma un terreno connesso alla giustizia condivisa».
Jeanne Deroin, candidata nel 1849 alle elezioni per l’Assemblea legislativa (la cui candidatura fu ritenuta incostituzionale!), insieme ad altre militanti sansimoniane fu in grado di distaccarsi dagli stereotipi legati alla natura femminile ma anche dal produttivismo. «Nonostante la cultura del socialismo utopistico contrassegni fortemente il pensiero di queste protagoniste, esse autonomamente mantengono ferma l’attenzione sui valori teoretici dell’individualità: proprio questo è il contenuto che la categoria di genere fa emergere con forza; questo è lo spazio da cui trae origine la politica delle donne. Le quali possono essere produttrici e possono condividere le critiche radicali al sistema di produzione capitalistico, ma in nessun caso la loro soggettività giuridica e la loro libertà politica saranno regolate dalla capacità di produrre».
INSIEME A LEI sono ricordate, in una geologia temporale lunga più di un secolo, Etta Palm d’Aelders, Théroigne de Méricourt, Claire Demar ma anche molte altre donne, anche provenienti dai ceti più umili. Due di loro furono anche autrici per una testata giornalistica la cui redazione era composta da donne e quelle che vi scrivevano avevano scelto di firmarsi con il solo nome proprio. Vinzia Fiorino, secondo la buona pratica del rendere visibili donne invisibilizzate, ci parla di queste due donne. Si tratta di due giornaliste, fondatrici di La Femme libre, chiuso dalle autorità nel 1834: Désirée Véret e Marie-Reine Guindorf, due giovani operaie tessili e sostenitrici di quello che nel 1882 Hubertine Auclert chiamò per la prima volta femminismo.