Dal femminismo alle veline
-«Così abbiamo rivoltato il significato delle parole»
di Marisa Ombra *
Ragioni anagrafiche mi portano a guardare al fenomeno delle veline partendo da molto lontano, niente meno che dalla guerra e dalla Resistenza. D’altra parte quello è l’inizio, ed è da quell’inizio che occorre partire per misurare la portata di ciò che sta accadendo di questi tempi. In quegli anni infatti comincia - o meglio riprende, dopo il fascismo - la lunga marcia delle donne per ottenere la cittadinanza in questo Paese (a questo riguardo consiglierei la lettura del bel libro di Bianca Guidetti Serra «Bianca la rossa»). Sarebbero occorsi decenni. Avremmo ottenuto diritti ed eguaglianza, libertà e posto nel mondo. Non avremmo aspettato che le leggi cadessero dall’alto, avremmo costruito la cittadinanza conquistando postazioni in ogni piega della società, assumendoci responsabilità e diventando parte essenziale del tessuto che fa funzionare la cosa pubblica. Un Paese arcaico e un po’ bigotto sarebbe diventato, per nostro principale merito, aperto e civile. Per chi è nata politicamente in quei lontani anni ed è stata parte di questo faticoso ma felice cammino, l’oggi si presenta di una tristezza infinita. Grande anche la delusione per quello che già viene descritto come «il silenzio delle donne». Di questo vorrei parlare.
Credo che tutte siamo rimaste attonite davanti all’operazione culturale che si è svolta sotto i nostri occhi: una operazione che, se non ha cancellato, ha sicuramente stravolto buona parte dell’impianto teorico che ha accompagnato il movimento politico delle donne. Le parole chiave sono state rivoltate. Scoperta del corpo, liberazione sessuale, affermazione di sé, autonomia, identità, desiderio, eguaglianza, differenza, eccetera, hanno preso significati opposti. L’affermazione orgogliosa «il corpo è mio e lo gestisco io» per esempio. Intendeva dire la vergogna e chiudere con l’antica figura della donna oggetto, riposo del guerriero, «regalo fatto da Dio agli uomini ». Era sembrata una svolta irreversibile, l’affermazione di un nuovo senso comune.
Non si può dire che le donne non si siano impossessate del proprio corpo. Per farne cosa? Donne immagine e prostitute di lusso hanno fatto di sé una nuova moderna (?) figura del mercato, che procede attraverso l’oculato bilanciamento dei costi e dei profitti, il dosaggio fra servilismo e pretesa di compensi dissociati da ogni personale competenza. Il corpo è diventato impresa da mettere a frutto. Direi che il ritorno indietro è ancora più mortificante del già vissuto. Perché in questa contrattazione uno dei due contraenti ha il potere (anche quando è piccolo potere), l’altra mette sulla bilancia una proprietà massimamente effimera. È questo che volevamo? Com’è potuto accadere? La tendenza non sarebbe inquietante se l’ambizione di avere visibilità e successo attraversoun perverso mercanteggiamento, non fosse diventata l’orizzonte di buona parte di una generazione, il senso stesso della vita, dell’essere donna («mi sento velina dentro» risponde una ragazza all’intervistatrice). E se le ragazze in corsa non fossero spesso accompagnate dalle madri: madri giovani, che hanno visto passare sotto i loro occhi, forse addirittura attraversato, il femminismo.
Da una signora che probabilmente non ha attraversato il femminismo, è venuta una parola che aveva contato molto per le donne di un’epoca segnata dalla soggezione e dall’esclusione: dignità. Avendo nella mente e nel cuore quella parola, una generazione è arrivata a raddrizzare la schiena ed hacominciato a risalire verso la libertà. Ciò che oggi comunica smarrimento e sensazione di impotenza è la perdita di questo sentimento. Perché l’uso programmato del corpo implica una tensione di tutto l’essere, cervello compreso; occupa l’anima. Si realizza così un paradosso: l’autonomia, la capacità di decidere del proprio destino, viene cercata attraverso l’asservimento volontario e la perdita della dignità. Molte di noi, credo, in questi mesi si sono fatte domande e hanno provato vergogna. Sono convinta che quel che manca è la presa di parola collettiva, se non altro per non far mancare una rappresentazione diversa di ciò che una donna vuole e può fare.
* l’Unità, 06 ottobre 2009