Uomo/donna
Tra psicoanalisi e femminismo Lea Melandri affronta il nesso amore/potere
Lea Melandri. Quanti disastri fanno le madri
“La figura parentale alle origini del «fattore molesto», del conflitto maschile/femminile, tra privato e pubblico
Si impone una perversa forma di emancipazione, estremizzando il ruolo di sessualità di servizio, ornamento, passatempo”
di Anna Bravo (La Stampa/ Tuttolibri, 05.03.2011)
Chi non conosce il lavoro di Lea Melandri troverà nel suo nuovo libro Amore e violenza una buona occasione per fare amicizia. O magari inimicizia. Perché l’autrice ha idee forti, e applicandole al «fattore molesto» della storia umana (il nesso amore/potere/violenza nel rapporto uomo/donna) accetta il rischio di apparire a sua volta «molesta» per lesa superficialità. Lo scempio del corpo femminile è ormai ospite fisso nella cronaca, e una schiera di esperti ci invita a vederlo come un raptus , quasi che l’uomo fosse stato «rapito» da un estemporaneo Mister Hyde. Melandri risale invece alla «preistoria» di quella distruttività, l’antica e conflittuale dipendenza dalla madre, che nell’uomo si perpetua a dispetto delle negazioni, degli ausili psicologici e dei motti di spirito sulle mamme nazionali, italiana, ebrea, black e così via.
Composto di ampi saggi dai titoli un po’ rituali, ricco del pensiero psicanalitico e del patrimonio femminista, Amore e violenza affronta il suo tema muovendosi fra il vicino e il lontanissimo, fra la contemporaneità e lo spazio/tempo delle origini, per mettere a fuoco le teorie e le pulsioni sottese al binomio questione maschile/questione femminile. Può così rivitalizzare le domande classiche sul rapporto fra i sessi, compresa la più classica, spostata all’oggi: cosa chiede a una donna il civilizzato uomo moderno o postmoderno (parlo di un modello, non di individui). O anche: di quante donne ha bisogno il clan degli uomini per la propria manutenzione? Per esempio, sentiamo continuamente esaltare le doti femminili dell’empatia, della duttilità, del pragmatismo, come strada maestra verso un lavoro umanizzato: è la donna creativa. Se non che, quando qualcuna prova a applicare quei talenti, spesso incontra ostacoli tali da farle ridimensionare le aspettative: è la donna «normalizzata». Poi ci sono l’ancella, la manager-immagine e la manager addetta o costretta allo sfoltimento del personale; e altre ancora. Ne parla Luisa Pogliana in Donne senza guscio (Guerini, 2009).
Ma il punto è, spiega Melandri, che non basta aprire un ambito alle donne per femminilizzarlo, così come nel ’68 non è bastato dare valore al personale per femminilizzare la politica. Sarà difficile cambiare finché si permette agli uomini di pensarsi, sotterraneamente, come gli eredi universali della razionalità. Visione pessimista? Per verificarla è sufficiente scorrere gli organigrammi aziendali, politici, accademici. Sarà difficile cambiare finché la conflittualità femminile resta debole.
E qui scatta il nesso con la preistoria: titolare originaria dell’umanizzazione è la figura materna, accogliente, paga del suo ruolo. La madre mette ordine nei cassetti del marito/figlio, non decide l’ordine delle sue giornate; e non per questo apre un contenzioso con lui. Antico modello duro a morire, in particolare in Italia, dove l’espressione Madre Coraggio non evoca l’arcitruffatrice di Grimmelschausen e Brecht, ma un prototipo di madre eroico/oblativa.
Grazie al suo sguardo lungo, Melandri può dipanare l’intreccio fra nuovo, falsonuovo, vecchio, similvecchio, che segna tutte le trasformazioni, ma in questo caso è complicato dal fatto che il rapporto uomo/donna sta nel tempo lineare della storia e contemporaneamente nel tempo ciclico della ripetizione. Con effetti a volte sconcertanti.
Oggi da un lato si ripropone l’esempio dell’emancipata anni cinquanta, portatrice di una femminilità rispettabile, contenuta, dotata di un cuore non troppo piccolo ma neppure tanto grande, scrive Carolyn Heilbrun, da sconfinare oltre il recinto familiare. È la donna affidabile, che presiede alla versione moderna del focolare e in più porta a casa lo stipendio.
Al polo opposto, avanzano figure che investono sulla bellezza e l’età giovane, offrono sesso in cambio di benefici privati (e pubblici), e dicono di aver fatto una scelta libera. Melandri le prende sul serio, si chiede cosa significhi l’adesione programmata al modello «riposo del guerriero». E la vede come un tentativo di volgere a proprio vantaggio, oltre che la legge dello spettacolo, la dilagante bramosia di giovinezza; come «una forma di emancipazione», sia pure perversa e discutibile. È il «femminile» che si emancipa «estremizzando il ruolo che si è visto assegnare: sessualità di servizio, ornamento, passatempo, attestato di potenza; il femminile» che si prende la sua rivalsa entrando nella sfera pubblica con una immagine vistosamente sessuata, eccessiva, impresentabile.
Fra i due poli ci sono molti altri modi di essere donna, e questa analisi della femminilità «a disposizione» non è il clou del libro. Ma va meditata, perché non è da tutti riconoscere il nuovo quando è sgradito, dozzinale e per di più alquanto triste. Che un vecchio carico di denaro e potere compri uno stock di 100 collane identiche per le sue ragazze non è solo questione di cattivo gusto; è la conferma della loro interscambiabilità.