Il “gendercidio”, punta avanzata della discriminazione sessuale
La denuncia: una strage silenziosa
L’Onu: metà del mondo non è per le donne
I POVERI. In molte nazioni le braccia femminili sono considerate un peso insostenibile
I RICCHI. Anche nell’India avanzata resiste lo stereotipo e muoiono 600 mila bambine l’anno
100 milioni di fantasmi. Sono le donne che mancano all’appello nel mondo secondo una stima (del 1990) del Premio Nobel Amartya Sen
1152 stupri ogni giorno. È l’orrendo primato della Repubblica Democratica del Congo, dopo l’Afghanistan il Paese più pericoloso per le donne
87 per cento di analfabete. Il regime dei talebani ha lasciato un’eredità drammatica: in Afghanistan moltissime donne non sanno leggere né scrivere
134 neonati maschi. Sono i bambini che nascono in Cina ogni 100 bambine: una sproporzione dovuta agli aborti selettivi e al pregiudizio culturale
di Francesca Paxi (La Stampa, 16.06.2011)
Correva l’anno 1985, quando la studiosa americana Mary Anne Warren denunciava, pioniera, i rischi dello sterminio volontario di un genere sessuale nel saggio «Gendercide: The Implications of Sex Selection». È passato un quarto di secolo e lungi dal rivelarsi un’iperbolica previsione, il «gendercidio», punta avanzata della crescente violenza contro le donne, si è trasformato in drammatica attualità. Ieri cinque agenzie dell’Onu hanno firmato a Ginevra una dichiarazione contro l’aborto selettivo delle bambine diffusissimo in Asia sud-orientale, mentre uno studio del Fondazione Thomson Reuters rilascia ora la classifica dei Paesi più pericolosi per la popolazione femminile, uccisa prima o dopo la nascita, socialmente discriminata o marginalizzata fino al silenzio.
È noto che povertà e sottosviluppo non favoriscano le pari opportunità. Con l’87% delle donne analfabete e il 70% costrette a matrimoni combinati, l’Afghanistan guida la lista nera della Fondazione Reuters. Seguono il Congo con l’orrendo primato di 1152 stupri al giorno, il Pakistan degli oltre mille delitti d’onore l’anno, l’India e i suoi 3 milioni di prostitute, il 40% delle quali minorenni, e la Somalia, dove il 95% delle ragazze ha subito mutilazioni genitali. Eppure il benessere economico non sembra serva da antidoto contro la mattanza, che già nel 1990 il Nobel Amartya Sen stimava aver impoverito il mondo di almeno 100 milioni di esseri femminili. Taiwan e Singapore, per dire, sono campioni di crescita, ma mostrano una sproporzione nel numero di fiocchi azzurri che sarebbe biologicamente impossibile senza l’intervento umano.
C’è poi la Cina, dove secondo la Chinese Academy of Sociale Sciences entro il 2020 un uomo su 5 non potrà sposarsi per mancanza di potenziali mogli, decimate dalla selezione «innaturale» che già oggi «produce» 134 neonati ogni 100 neonate. Sbaglierebbe anche chi attribuisse la moria al perdurare atemporale del comunismo o alla famigerata politica del figlio unico. Il fenomeno infatti è in ascesa anche nei Paesi a dir poco allergici all’eredità sovietica, come Armenia, Azerbaijan e Georgia, o nella modernissima India, modello globalmente esaltato di democrazia liberista.
«Crescere una figlia è come innaffiare l’orto del vicino», recita un proverbio indù, alludendo all’inutile investimento sulla prole destinata alla famiglia del futuro marito. Il risultato è che la più grande democrazia della Terra guadagna capacità tecnologica, ma perde ogni anno 600 mila bambine (più esposte a morte precoce perché trascurate). E non conta che dal 1994 il governo abbia bandito l’aborto selettivo: se un tempo la diagnosi prenatale costava 110 dollari e prometteva ai genitori di far risparmiare i 1100 dollari della dote, oggi con 12 dollari lo scanner a ultrasuoni è alla portata dei meno abbienti e più interessati ad allevare braccia maschili. Figurarsi gli altri, benestanti e dunque convinti a riprodursi in modo contenuto e ottimale in termini di benefici futuri. Il tutto con buona pace della legalità.
L’impressione di studiosi come il demografo dell’American Enterprise Institute Nick Eberstadt è dunque che il «gendercidio» abbia poco a che fare con l’arretratezza economica e culturale, ma dipenda piuttosto dall’atavica preferenza per il maschio, dal boom delle famiglie ridotte e dalle tecnologie diagnostiche, una miscela letale di pregiudizi antichi e nuovi bisogni. Qualcuno in realtà comincia già ad invertire la marcia. La Corea del Sud, fino al 1990 assestata su standard cinesi, ha compensato il dislivello maschifemmine con un’impennata di matrimoni misti, che dal 2008 sono oltre l’11% del totale. L’alternativa è l’aggressività macha di città come Pechino, dove negli ultimi 20 anni la delinquenza è raddoppiata, o Mumbai, con gli uomini senza donne responsabili per almeno un decimo dell’aumento dei crimini.
L’emancipazione femminile batte in ritirata? Al ritmo di due passi avanti e uno indietro c’è da sperare. Sebbene la crisi abbia colpito l’occupazione rosa e la violenza domestica avvicini tristemente Oriente e Occidente, un rapporto della Casa Bianca rivela che le donne contemporanee si laureano e brillano nel lavoro più dei maschi. Certo, i loro stipendi sono fermi al 70% di quelli dei colleghi ma gradi e responsabilità combaciano. La sfida è di genere, il pericolo però riguarda tutti: se crolla quella che Mao definiva l’altra metà del cielo è difficile che sotto qualcuno sopravviva.
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“Un aspetto positivo? Ora se ne parla di più”
5 domande a Tiziana Leone demografa
Ricercatrice alla London School of Economics Tiziana Leone ha studiato alla Sapienza di Roma e a Southampton, ha lavorato all’ufficio statistico dell’Onu e dal 2006 è alla London School of Economics
Sembra che il gendercidio sia andato avanti, da quando nel 1990 Amartya Sen denunciava 100 milioni di donne scomparse. È così?
«Purtroppo le proiezioni non sono buone. In India, in particolare, il modello patriarcale un tempo circoscritto alle regioni del nord sembra aver contagiato anche il sud portandosi dietro le sue peggiori conseguenze».
Perché nonostante la globalizzazione del sapere, lo sviluppo economico e la crescente attenzione per i diritti umani, la situazione delle donne in certe zone sta peggiorando?
«La spiegazione è in parte demografica: il fenomeno si è accentuato negli ultimi anni perché la fecondità decresce ma le famiglie continuano a desiderare il fiocco azzurro. Se pianifichi due soli figli invece dei sei di una volta hai meno chance di avere un maschio. Così, oltre all’aborto selettivo, cresce l’infanticidio: nei primi mesi di vita la differenza nella mortalità di bambine e bambini è spaventosa».
Le donne studiano e lavorano di più ma restano vittime della violenza maschile, sia nel mondo povero che in quello “evoluto”. Perché?
«I dati, in realtà, devono essere letti con attenzione. Alcune cose vanno peggio, è vero. Ma l’aumento dell’autonomia, dell’educazione e dell’occupazione femminile significa anche una superiore consapevolezza in termini di diritti che si traduce in maggiori denunce delle violenze subite. Insomma, forse se ne parla di più».
Come si può contrastare la resistenza diffusa del retaggio patriarcale?
«Credo che la cosa migliore sia coinvolgere di più gli uomini, specialmente a livello locale. La legge cambia poco, bisogna intervenire sul piano culturale, sulla mentalità. Il governo di Delhi, per esempio, ha vietato gli aborti selettivi e in tutti gli ospedali ci sono cartelli che lo ricordano. Ma basta una mancia al tecnico di turno perché una strizzata d’occhio riveli il sesso del feto indagato dai macchinari. In alcuni villaggi indiani manca l’acqua ma non lo scanner a ultrasuoni per la diagnostica prenatale».
Cosa caratterizzerebbe un mondo molto meno colorato di rosa?
«Superlavoro per gli psicologi, aumento della violenza e della prostituzione, concorrenza feroce per le mogli. La Cina sta già pagando il prezzo della selezione dei sessi». [FRA.PA.]