Stupri arma di guerra. Storie dall’album dell’orrore
di Marina Mastroluca (l’Unità, 22.06.2008)
«Mi costrinsero a ballare nuda sul tavolo. Poi mi violentarono davanti a mio figlio che aveva 10 anni. Venivano militari serbi , i soldati del Montenegro e anche i miei vicini di casa. Abusavano di me e delle altre». E. è una delle «Zene zrtve rata», donne vittime della guerra, un’associazione nata a Sarajevo per aiutare chi ha subito uno stupro: a trovare una casa, ad avere assistenza e soprattutto giustizia. «Dopo la guerra abbiamo incontrato per strada i nostri violentatori, sono ancora liberi». Liberi anche dalla vergogna e dal disonore che pesano sulle donne stuprate, a Sarajevo come in Africa.
A Goma, in Congo, una dottoressa canadese nel 2003 ha fondato un’ospedale che aiuta le donne stuprate. I numeri sono solo ipotizzabili, non c’è nessun registro. Tante donne hanno paura anche solo di raccontare che cosa hanno subito, per non rischiare l’emarginazione sociale. Decine di migliaia di stupri, sistematici, segnati dal marchio della diversità etnica. In ospedale arrivano solo i casi più gravi: i medici ricuciono i muscoli strappati tra retto e vagina da stupri multipli, da torture inflitte con baionette e coltelli. Anche da colpi di pistola inferti con la canna infilata in vagina. Linda, 24 anni, era incinta quando i soldati l’hanno presa in un campo. «Mi hanno stuprato. Il bambino ha cercato di nascere ma è morto - ha raccontato -. Perdevo urina da tutte le parti e in queste condizioni ho raggiunto il villaggio. Tutte le case erano bruciate, la gente uccisa, anche mia madre. Mi ha raccolto una cognata. Mio marito si è sposato con un’altra. Ora sono sola».
La vergogna, la solitudine. Persino la condanna: in Sudan le donne rischiano di essere incriminate di «zina», adulterio, se denunciano uno stupro: la pena è la lapidazione. E le violenze dei janjaweed, i diavoli a cavallo che seminano il terrore nel Darfur in stretta collaborazione con le truppe governative sudanesi, sono pane quotidiano. Qui sono le milizie arabe, altrove hanno avuto altri nomi e stesse strategie. In Ruanda erano gli interahmwe, i ribelli hutu ispirati dalla radio delle mille colline ad annientare l’etnia tutsi. Non una casualità, non l’effetto collaterale di un delirio di violenza. Lo stupro di guerra da tempo è altro. Jean-Paul Akayesu era il sindaco della città ruandese di Taba. È stato il primo ad essere condannato all’ergastolo, nel 1998, per il massacro di 2000 tutsi rifugiati nel municipio di Taba e per stupro. Il Tribunale internazionale per i crimini commessi in Ruanda allora per la prima volta individuò la catena di comando che da un unico centro diramava la violenza in mille rivoli: lo stupro collettivo venne associato al genocidio, perché diretto a cancellare una etnia. Ad umiliare, distruggere, devastare una comunità intera attraverso il corpo delle donne. Cinquecentomila stupri in poco più di tre mesi di follia sanguinaria, hutu contro tutsi, un milione di morti a testimoniare l’inerte impotenza dell’Onu. E un Tribunale per cercare di ricondurre la tragedia ad un universo comprensibile, dove si chiede ragione delle atrocità commesse. Almeno a qualcuno.
22 febbraio 2001. La guerra di Bosnia è finita da sei anni, la Serbia di Milosevic è stata sconfitta anche in Kosovo. Nascoste dietro una tenda, donne identificate solo con numeri, raccontano e puntano l’indice contro gli uomini alla sbarra. Donne ridotte a schiave sessuali, spesso solo ragazzine. Per la prima volta lo stupro è definito crimine contro l’umanità da un Tribunale internazionale. I serbo-bosniaci Zoran Vukovic, Radomir Kovac e Dragoljub Kunarac vengono condannati a 12, 20 e 28 anni di carcere per le violenze sistematiche di Foca, dove il centro sportivo Partizan era stato trasformato in un bordello. Zoran, Radomir, Dragoljub: non era scontato riuscire a scrivere un giorno i loro nomi.
Stupro etnico, un’arma di guerra come tardivamente ha riconosciuto in questi giorni il Consiglio di sicurezza del’Onu, con la risoluzione 1820. Ammettendo quello che le cronache dell’ultimo quindicennio di guerre - Bosnia, Ruanda, Congo, Darfur - hanno raccontato allo sfinimento: che lo stupro di guerra non rientra in nessuna storica normalità, non è solo la prepotenza del vincitore. Ma l’arma di conflitti dove i civili sono il primo e vero obiettivo, la mina che continuerà a perseguitare le generazioni a venire. Il 70 per cento delle donne stuprate in Ruanda ha contratto l’Aids, in molti casi il contagio è stato intenzionale ed ha finito per devastare anche le famiglie dei sopravvissuti. Nessun anagrafe ha tenuto il conto dei figli imposti a forza alle donne bosniache stuprate. Chi ha potuto, ha abortito. Tante hanno abbandonato i neonati, testimoni incolpevoli della violenza subita dalle madri: ordigni anche loro di guerre che non hanno più una linea del fronte.
Bosnia. La pulizia etnica attraverso il terrore
La disgregazione della Jugoslavia investe la Bosnia nel ‘92. Per la prima volta dalla fine della II guerra mondiale tornano in Europa i lager, dove vengono commesse le peggiori atrocità contro i civili. La logica della pulizia etnica impone il terrore, per costringere la popolazione alla fuga creando così aree etnicamente omogenee. Insieme ai massacri - 8000 i morti di Srebrenica, dove vennero uccisi tutti i maschi dai 15 anni in su - lo stupro è stato l’arma per umiliare il nemico e annacquarne l’etnia. Si stimano in 50-60.000 le violenze.
Rwanda. Hutu contro tutsi, un genocidio in 100 giorni
Aprile 1994. Preparato dai mezzi di informazione, divampa uno spaventoso massacro, in quella che viene in genere definita una guerra tribale fra Hutu e Tutsi ed è stata in realtà una lotta per il potere frutto dell’era coloniale, quando i colonizzatori belgi instaurarono un rigido sistema di separazione razziale e sfruttamento favorendo i Tutsi ai danni della maggioranza Hutu. Con l’indipendenza le parti si invertirono e iniziò un periodo di conflitti e di vendette. Il culmine nel ‘94: un milione di morti, 500.000 stupri.
Congo. Milioni di morti nella guerra dei diamanti
Finita ufficialmente nel 2004, la guerra civile in Congo, è stata la più grande guerra della storia recente dell’Africa ed ha coinvolto 8 nazioni africane e circa 25 gruppi armati. In gioco le enormi ricchezze minerarie del Paese: diamanti, oro, uranio, cobalto, rame. Al 2008 la guerra - proseguita nella regione di Ituri - e le sue conseguenze hanno causato circa 5,4 milioni di morti. Milioni i profughi. Secondo Amnesty international sono oltre 40mila le donne violentate. Degli stupri spesso accusati anche i peacekeeper.
Darfur. Esercito e janjaweed contro i civili
Nella regione del Sudan dal 2003 si combatte una guerra, che ha già causato più di 200.000 vittime e oltre due milioni di sfollati. L’Onu e le organizzazioni internazionali hanno più volte denunciato che i civili continuano a subire attacchi e sono vittime di stupri. Il governo sudanese nega di appoggiare e finanziare le milizie janjaweed, accusate di genocidio dalla popolazione del Darfur e responsabili dei principali massacri e saccheggi di villaggi e centri abitati e dello stupro sistematico di donne e bambine.