Martin Buber tra veggenti e santi ebrei
Ristampato dopo un lungo silenzio «Gog e Magog» in cui lo scrittore, alla vigilia della seconda guerra mondiale, si ispira per la narrazione chassidica a due comunità del ’700, Lublino e Pzysha: gli uni si affidavano ai miracoli, altri al rinnovamento interiore
E l’autore sente l’avvicinarsi di una «crisi tellurica»
DI FULVIO PANZERI (Avvenire, 30.01.2010)
Finalmente ritorna in libreria uno dei grandi libri del Novecento, in Italia non ancora conosciuto abbastanza per l’importanza che riveste nel mettere a frutto due potenzialità quali l’estrema lucidità del pensiero e l’accurato voler essere nella realtà attraverso la tradizione.
Parliamo di Gog e Magog, il grande romanzo epico che ha come sfondo la Polonia di fine settecento e le guerre napoleoniche di espansione e porta in primo piano il mondo chassidico attraverso una serie di personaggi e di storie, ognuna legata all’altra, in quella che l’autore stesso, definisce come un metodo strutturale differente: «Qui, non si trattava, come si fa normalmente con del materiale di carattere leggendario, di mettere un aneddoto vicino all’altro; al contrario quello che bisognava mettere in risalto era proprio il filo, esteriore e interiore, che univa queste differenti tradizioni».
E qui Buber fa riferimento alle due differenti convinzioni tra le comunità chassidiche, quella di Lublino e quella di Pzysha, che diventano l’anima e rappresentano l’epicità del racconto. Ognuna è caratterizzata da un grande Maestro, il «Veggente di Lublino » e il «Santo Ebreo» di Pzysha.
Le visioni teologiche sono diverse: il primo sostiene una tradizione mistica che ammette il ricorso alla magia per giungere al «miracolo »; il secondo crede fermamente nella necessità di una trasformazione interiore.
Una contrapposizione di questioni teologiche che ha un suo fondamento e riscontro storico, come riferisce lo stesso Buber, quando dice che «alcuni zaddiqim hanno tentato, per mezzo di atti teurgici (la cosiddetta Qabbalà pratica) di fare di Napoleone il ’Gog del Paese di magog’ di cui è scritto in Ezechiele, e alle cui guerre, come dicono alcuni testi escatologici, deve seguire la venuta del Messia; ed è anche vero che altri zaddiqim hanno opposto a questi tentativi l’ammonimento che non per mezzo di atti esteriori ma solo attraverso il completo ’ritorno’ dell’uomo si possa preparare il terreno per la Redenzione».
Sono questioni assai complesse, soprattutto da riportare nel contesto epico di una narrazione così caratterizzata dalla tradizione chassidica come quella che interessa a Buber, tanto da rendere complessa la scrittura del testo, a cui lo scrittore aveva iniziato a lavorare dopo la fine della prima guerra mondiale, ma che non ebbe né una prima, né una seconda stesura.
Buber non abbandona questa idea: aspetta, sa che è necessario maturarla piano piano dentro di sé: «Tutta la mia esperienza di lavoro mi ha insegnato che quei libri che uno ha l’incarico di scrivere maturano lentamente e soprattutto quando non ci si occupa di loro».
All’autore, poi non resta altro che «trascriverli». Arrivò così anche il momento tragico che mise alla strette il suo autore: la seconda guerra mondiale, «quell’atmosfera di crisi tellurica, il tremendo ponderarsi delle forze e il segno di un falso messianesimo d’ambo le parti».
Così questo grande libro, pubblicato nel 1949, che si nutre della grande tradizione leggendaria chassidica, trae la sua forza in questo susseguirsi naturale di storie emblematiche sui rabbini, che mettono a fuoco caratteri e grandi questioni teologiche. Si tratta di quello che Buber definisce «il sacro aneddoto», ovvero «la concatenazione di un avvenimento con una enunciazione» e porta al suo culmine, attraverso lo sviluppo di un’autentica epicità, la necessità del suo autore di ricostruire, anche in modo critico, e di portare ad un diverso grado di conoscenza, il senso e la natura di questo movimento religioso di origine popolare, sorto nelle comunità ebraiche e galiziane.
Del resto Buber precisa: «Certo io non sono del mondo dei chassidim con tutta la mia esistenza - in simile condizione si sono trovati coloro che hanno voluto rendere così attuale per gli uomini qualche cosa di passato, da fargli produrre nuovo effetto - ma il mio fondamento è lì, e i miei impulsi sono imparentati ai loro».
È un libro che lancia sempre, ad ogni diversa lettura, una serie di allarmi e pone l’attenzione sulla necessità del dialogo e soprattutto sul rifiuto dei fanatismi. E si pone all’insegna della speranza, quella che auspica Buber, dichiarando di essere senza «dottrina», ritenendo che questa comunque sia del tutto superflua.
Le sue parole risuonano, dopo più di sessant’anni, ancora oggi attualissime, là dove indica la necessità forte «di riconoscere la realtà eterna, per poter, con la sua forza, tener testa alla realtà presente». Da qui la convinzione che «in questa notte oscura non si tratta di mostrare una strada; si tratta di aiutare a perseverare con anima pronta finché sorgerà l’aurora e una strada si mostrerà ai nostri occhi là dove nessuno la supponeva».
Martin Buber
GOG E MAGOG
Guanda. Pagine 300. Euro 18,50