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CAPITALISMO DELINQUENZIALE: "GOMORRA" ITALICA !!! L’ultimo colpo dei "furbetti" che volevano scalare l’Italia, raccontato da Alberto Statera

lunedì 25 settembre 2006 di Federico La Sala

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sabato 11 novembre 2006

Ingroia: «Scardinare la classe dirigente che vive di affari e favori mafiosi»

di Saverio Lodato *

Continuiamo a parlarne di mafia, in un momento in cui il suo profilo - apparentemente - è bassissimo. Dopo il procuratore Francesco Messineo, e gli aggiunti Sergio Lari e Roberto Scarpinato, interviene Antonio Ingroia, pubblico ministero nei processi di mafia più incandescenti ormai da quindici anni.

Dottor Ingroia, il vulcano Napoli e una Sicilia Svizzera...

«Non direi. Penso infatti che sarebbe ora che nella lotta al crimine organizzato, in tutte le sue forme, lo Stato facesse la prima mossa senza aspettare, come è sempre avvenuto, che siano i boss a riaprire la partita. Quello che accade a Napoli è già accaduto in Sicilia tanti anni fa: omicidi, regolamenti di conti fra i clan, taglieggiamenti, i poteri criminali che alzano il tiro. Titoli da prima pagina e finalmente ecco che qualcosa si muove».

Il governo però, questa volta, parla di interventi stabili e duraturi, non emergenziali.

«È un reale segno di discontinuità, rispetto al passato, che ci aspettiamo. Una diversa e permanente attenzione alla questione mafia non cadendo nel solito trabocchetto che se la mafia non spara vuol dire che non c’è».

E questo, mentre si manifesta a Napoli, in Sicilia ancora non si vede. È questo che vuole dire?

«Vorrei dire di più. La storia ci insegna e le risultanze investigative più recenti ci confermano, che la mafia è e si sente più forte quando non spara. Ritorna allora una domanda di fondo: bisogna convivere con la mafia degli affari che fa buona condotta, come auspicava l’ex ministro Lunardi, o la mafia va comunque affrontata senza risparmio di mezzi?»

Il procuratore Messineo non definisce la mafia un gigante inespugnabile. La fotografa per l’altezza che oggi ha. Un’altezza inferiore rispetto alla statura del passato. Concorda?

«Sì. In ogni caso, continuare a disegnare la mafia come un gigante inespugnabile equivale a rassegnarsi alla sua eternità criminale: il contrario del realismo storico propugnato sia da Falcone sia da Borsellino. I capi mafia di oggi non hanno neppure la statura e il prestigio di boss del passato come Stefano Bontate, uomo ben inserito nei salotti palermitani e non a caso definito il Principe di Villagrazia... Il vero problema è semmai scardinare il sistema di potere che della mafia si è sempre servito e che rischia di rimanere immune da ogni ventata repressiva che inevitabilmente colpisce solo chi spara. E quando non si spara, il sistema di potere mafioso si perpetua».

Dottor Ingroia, il suo collega Scarpinato parla apertamente del ritorno del Principe che, in questo caso, non è quello di Villagrazia. E si spinge quasi ad affermare che la mafia viene accesa o spenta a piacimento proprio da quel sistema di potere al quale lei allude. Non potrebbe apparire eccessivo?

«Non credo proprio. L’altalena dei consensi attorno all’azione giudiziaria antimafia non è estranea a precisi interessi diffusi nella società siciliana. I rapporti fra braccio armato della mafia e classe dirigente siciliana e nazionale sono costituiti dall’alternanza di alleanze e contrapposizioni che talvolta sfociano nella guerra. Proprio nei momenti di crisi dei rapporti fra i due mondi il consenso rispetto all’azione antimafia dei magistrati si dimostra frutto non di una disinteressata opzione a favore della legalità, bensì di smaliziati interessi di parte».

Può fare degli esempi?

«Prendiamo la stagione post stragi. Come si spiega l’unanime consenso all’azione della magistratura finalizzata alla cattura dei grandi latitanti da Riina a Provenzano? E come si spiega l’enorme divario di consenso all’azione dei magistrati a seconda che si occupi della cattura dei latitanti ovvero che si occupi dei rapporti mafia classe dirigente? C’è qualcosa che non funziona. Non c’è solo una finalità autoprotettiva da parte della classe dirigente, c’è qualcosa di più...»

Cosa?

«Da una parte l’esigenza di ridimensionare l’aggressività di Cosa Nostra nei momenti in cui affronta a viso aperto lo Stato, ma anche l’inconfessabile finalità di mantenere l’operatività di una mafia sommersa con la quale continuare a concludere affari nell’ombra».

Se è così la mafia ce la porteremo dietro ancora per parecchio...

«Il rischio c’è. Ecco perché occorre un urgente segnale di discontinuità rispetto al passato. Un aperto segno di rottura con questa classe dirigente siciliana che ha vissuto di affari e favori e che, tutt’ora, si dichiara antimafiosa. Siamo in una fase di grande confusione, anche di ruoli, e compenetrazione fra mondi diversi. Sarebbe sbagliato parlare di società civile per bene separata dal mondo mafioso. Abbiamo oggi una mafia più civile e una società più mafiosa».

Siamo all’imbarbarimento?

«Una mafia sempre più in giacca cravatta e una società che cambiandosi abito troppe volte al giorno sceglie il travestimento. Insomma, abbiamo interi pezzi di società che hanno ormai introiettato i modelli comportamentali dei mafiosi. E lo si vede in tutti i campi».

Quali?

«Temo che nessuna figura sociale ne sia risparmiata. Mi preoccupa che nei più disparati ambienti, compresi quelli istituzionali, il dossieraggio e il ricatto sembrano essere all’ordine del giorno».

Sente odore di servizi?

«Ciò che si legge sui giornali è certamente allarmante».

Si riferisce al fatto che Gian Carlo Caselli era nell’elenco dei magistrati "pericolosi" per i settori occulti del Sismi?

«Evidentemente Caselli, come procuratore di Palermo, dava fastidio. Del resto non sarebbe l’unico intervento contra personam che Caselli ha subito... Se questo è lo scenario, il vero segno di discontinuità non si dà solo arrestando i mafiosi e con uno straordinario impegno di uomini sul territorio, lo si dà soprattutto con un taglio netto con quel pezzo di classe dirigente che è il vero nucleo del sistema di potere mafioso».

Ricorda Leonardo Sciascia quando diceva che lo stato italiano se volesse fare davvero la guerra alla mafia dovrebbe decidere di suicidarsi?

«Aveva ragione. Ma è anche vero che è possibile una dolorosa operazione chirurgica, salvando le parti sane che sono la maggioranza. La questione è essere disposti a pagare un prezzo, se parliamo di politica, in termini di voti e di consenso».

Sintetizza un pacchetto di misure antimafiose che la politica potrebbe varare e non vara?

«Tirare fuori dai cassetti del ministero della giustizia - tanto per cominciare - il progetto del testo unico della legislazione antimafia varato dal primo governo Prodi e mai proposto in Parlamento».

Che c’era scritto?

«La revisione e l’aggiornamento dei più importanti strumenti per colpire i due nodi del rapporto mafia - classe dirigente siciliana: la riforma del concorso esterno sul terreno mafia-politica, e la revisione degli strumenti per colpire i patrimoni dei mafiosi sul terreno mafia-economia. Sarebbe un’ottima partenza».

* www.unita.it, Pubblicato il: 11.11.06 Modificato il: 11.11.06 alle ore 12.28


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