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EUROPA: LA CRISI UNGHERESE E NOI. Per il dialogo. quello vero!!!

"Forza" ITALIA ... e "Forza" UNGHERIA!!! Il paradosso del politico mentitore. Una grande LEZIONE TEOLOGICO-POLITICA, all’altezza della nostra cultura e della nostra dignità di cittadini-sovrani e di cittadine-sovrane. Un’analisi di BARBARA SPINELLI.

lunedì 25 settembre 2006 di Federico La Sala
[...] da tempo l’Ungheria vive nell’illusione e nella menzogna delle cifre. Quel che colpisce nel paradigma ungherese è la confusione degli animi e dei ruoli. I mentitori si contrabbandano come uomini veraci. L’uomo di verità è quello che ammette d’aver mentito e che è giudicato persona non grata, fedifraga, o come dicono le destre ungheresi: «moralmente morto».
Siamo in pieno paradosso del mentitore, quale enunciato da Epimenide: «Tutti i cretesi mentono», pare abbia detto il filosofo (...)

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>"Forza" UNGHERIA!!! ---- Budapest, dove il sonno dell’Europa genera mostri. Stravince il premier conservatore Orban. Gli xenofobi di Jobbik salgono al 20%. Flop della sinistra

lunedì 7 aprile 2014


-   Ungheria, le destre fanno il pieno di voti
-  Stravince il premier conservatore Orban
-  Gli xenofobi di Jobbik salgono al 20%
-  Flop della sinistra

-  di Andrea Sceresini (La Stampa, 07.04.2014)

Nuovo trionfo per Viktor Orban. Il premier uscente ungherese, leader del partito di centrodestra Fidesz, ha sbaragliato la fragile coalizione composta da socialisti, liberali e verdi, si è aggiudicato il 48% dei consensi e si appresta a governare, per altri quattro anni, forte di una assoluta maggioranza parlamentare, ben 134 seggi su 199 secondo le prime proiezioni. Nulla da fare per il centrosinistra, che si ferma al 25%. Il partito dell’estrema destra Jobbik, più volte tacciato di antisemitismo e xenofobia, fa registrare un ulteriore balzo in avanti, seppure non travolgente, attestandosi a ridosso del 20%. Un risultato ottenuto a suon di provocazioni e slogan nazionalistici: «Votate Jobbik per sconfiggere gli zingari», è il testo del lapidario sms che milioni di ungheresi si sono ritrovati ieri mattina sul proprio cellulare.

Budapest si getta ancora più a destra, confermando i sondaggi della vigilia e i timori di parte della comunità internazionale. Per Viktor Orban è il secondo mandato consecutivo, il terzo della sua carriera politica. «Andremo avanti senza esitazione sulla strada che abbiamo tracciato», aveva promesso alla vigilia. Certamente sarà così. Dopo il clamoroso trionfo del 2010 - quando ottenne il 53% dei consensi contro il 19% dei socialisti - il leader di Fidesz diede vita a una controversa serie di riforme: fece approvare unilateralmente una nuova carta costituzionale; varò la legge sui media, che contribuì a imbavagliare le voci d’opposizione; riformò la Banca centrale magiara, riservando all’esecutivo il potere di nomina dei nuovi governatori.

Cinquantuno anni ancora da compiere, decisionista dal piglio burbero e spiccio, Viktor Orban ha ottenuto il suo primo mandato di governo nel lontano 1998. Durante gli ultimi quattro anni si è conquistato la stima - e le preferenze elettorali - dei membri delle comunità ungheresi residenti in Romania, Ucraina e Slovacchia, concedendo loro, con l’ennesimo colpo di teatro, il diritto di voto in patria. «Manifestare contro il governo equivale a tradire il Paese», ha dichiarato. Grande amante del calcio, ex centravanti di belle speranze, fierissimo self-made man in salsa post-socialista: «il Berlusconi magiaro», così lo chiamano da queste parti. Il suo Milan si chiama Felcsùt, la squadra del villaggio dove è cresciuto, per la quale ha fatto edificare un futuristico stadio da quattromila posti, che troneggia come un’astronave tra le modeste casupole dal tetto di legno.

Ha detto di lui il leader dell’opposizione, il socialista Attila Mesterházy: «Orban è a capo di una potentissima lobby politico-economica, grazie alla quale è riuscita a soggiogare l’intero Pease». L’ultimo colpo di scena risale a un paio di mesi fa, quando il premier magiaro ha firmato un accordo economico con Vladimir Putin, concedendo alla società russa Rosaton l’incarico di costruire due nuovi reattori nella centrale nucleare di Paks, l’unica dell’Ungheria. I suoi provvedimenti sono stati aspramente contestati dall’Unione Europea, che lo scorso anno minacciò sanzioni finanziarie. Ben lungi dal lasciarsi intimorire, il leader di Fidesz ha reagito alzando la voce: «Noi non crediamo nell’Unione Europea - ha dichiarato -, crediamo nell’Ungheria».

Il suo cavallo di battaglia si chiama economia. Nel ultimi quattro anni il Paese è riemerso dalla crisi, i salari sono aumentati e la disoccupazione è stata sensibilmente ridotta. Un dato su tutti: dalla primavera del 2013 a oggi il numero dei senza lavoro è sceso dall’11% all’8%. Oggi Orban promette nuovi miracoli: gli ungheresi hanno deciso di credergli.


-  Budapest, dove il sonno dell’Europa genera mostri
-  Oggi c’è un abisso tra la ragion d’essere della Ue e i comportamenti concreti
-  Alla freddezza sociale fa riscontro una colpevole insensibilità verso i diritti e i doveri della democrazia

di Paolo Soldini (l’Unità, 07.04.2014)

Il sonno dell’Europa genera mostri. Un mostro è Fidesz, il partito di Viktor Orbàn, che ha vinto le elezioni in Ungheria sulla base di un politica ultranazionalistica e autoritaria sul piano interno.

Non è ancora chiaro se riuscirà a conservare la maggioranza dei due terzi dei parlamentari che gli consentirebbe di proseguire la sua politica di smantellamento delle garanzie nell’ordinamento democratico del paese, ma comunque la sua vittoria è chiara. Jobbik, il partito fascista alla sua destra, ha avuto un successo temperato per fortuna dalla buona (e inattesa) tenuta dell’opposizione democratica, ma il suo estremismo xenofobo, revanscista e antisemita che va a sommarsi all’autoritarismo in doppio petto di Fidesz rende ancor più minacciosi i molti fantasmi dell’eversione che si agitano per l’Europa, dalla Francia lontana alla vicina Ucraina.

La conferma dello strapotere di Orbàn racconta all’Europa il contrario di quello che predicano le anime belle delle attuali istituzioni di Bruxelles e del Ppe, il partito popolare cui l’uomo forte di Budapest e i suoi aderiscono. Senza che nessuno abbia mai posto loro un problema di coerenza. Anzi, il capogruppo del Ppe al parlamento europeo, Joseph Daul, ha fatto addirittura un comizio con il primo ministro magiaro.

Ha «messo la faccia» (come si ama dire di questi tempi) sua e del Ppe accanto all’uomo che rivendica l’esistenza della Grande Ungheria in cui dovrebbero riunirsi tutte le minoranze sparse per l’Europa orientale. Che ha asservito al governo la Banca centrale e ha cacciato i giudici costituzionali che lo infastidivano. Che ha istituito un organismo che distribuisce direttive e «visti di qualità» ai giornali e alle tv per controllare che non diffondano notizie «inopportune, offensive e non rispettose delle esigenze di ordine pubblico». Che ha promosso una politica di incentivi alle imprese, dopo averle strette in una ragnatela di clientele, che fa a pugni con le direttive Ue.

Ora ci si può chiedere: se le autorità di Bruxelles fossero state più coerenti e più attente, se i partiti che fanno capo al Ppe, a cominciare dalla Cdu tedesca, non avessero pesato col bilancino dei propri vantaggi l’apporto di Fidesz al gruppo popolare nel parlamento europeo sarebbe cambiato qualcosa in Ungheria e lo strapotere di Orbàn sarebbe stato almeno contenuto? Poiché la controprova non c’è nessuno può dirlo.

Si sa però che tempo fa il gruppo dei liberali europei propose l’apertura di un procedimento contro Budapest in base all’art. 7 del Trattato di Lisbona, quello che prevede la sospensione dei Paesi che non rispettano i criteri minimi di democraticità e di rispetto dei diritti fondamentali dell’Unione.

L’iniziativa fu bloccata, e non solo dai popolari, ma anche dai socialisti perché i loro colleghi ungheresi temevano che potesse sfociare nell’uscita pura e semplice del Paese dalla Ue. Patetica manifestazione di impotenza e di colpevole rassegnazione che dice tutto sulla debolezza della sinistra magiara, povera di idee politiche e ricca di scandali, non ultima delle cause della resistibile ascesa di Viktor Orbàn. A voler essere ottimisti si può pensare che il risultato migliore delle pessime previsioni che circolavano alla vigilia ottenuto dalla coalizione democratica tra i socialisti, centristi e liberali sia un primo segnale di risveglio. Un segnale, nulla di più.

Ma la riflessione più seria che l’Europa deve fare prendendo spunto da quanto accade in un paese piccolo ma importante nella sua geografia e nella storia come l’Ungheria è quella evocata all’inizio. Ed essa non riguarda solo la contingenza, l’imminenza di elezioni per il parlamento europeo che rischiano di far diventare l’unica istituzione dell’Unione votata dai cittadini la tribuna di un populismo senza princìpi che vuole sfasciare tutto. Riguarda qualcosa di ben più profondo.

Oggi c’è un abisso tra la ragion d’essere dell’Unione europea, la comunità di valori che essa rappresenta, prima e oltre l’economia, e i comportamenti concreti delle sue istituzioni e dei governi nazionali. Alla freddezza sociale, l’inimicizia quasi verso i cittadini, che le politiche economiche europee hanno dispiegato con l’austerità, i tagli e le trojke specie negli ultimi anni, fa riscontro una colpevole insensibilità verso i diritti e i doveri della democrazia, che pure sono esplicitamente sanciti nella Carta fondamentale approvata 14 anni fa e recepita nei Trattati.

Il problema, prima che con l’Ungheria di Orbàn, si era posto con l’Austria delle coalizioni con gli xenofobi di Jörg Haider e per qualche altro paese in più di un passaggio della sua vita politica.
-  Inclusa l’Italia, almeno per quanto riguardava l’informazione e la giustizia, ai tempi del Berlusconi trionfante. A Bruxelles e nelle cancellerie si sono commessi peccati di omissione.


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