Le storie degli uomini e lo scandalo della morte
di Michel Vovelle (La Repubblica/DIARIO, 15 dicembre 2006, p. 55)*
«Ogni morte è nel dolore»: la vecchia formula nella sua brutalità ci informa subito sui limiti della tanto desiderata eutanasia, o morte dolce, che ci arriva dagli antichi, ma ciò non attenua l’aspirazione a umanizzare, quando è possibile, l’ultimo istante di vita. Per aver scritto di morte e Occidente dal 1300 ai giorni nostri, eccomi qui - dopo la scomparsa dei miei contemporanei, lo storico Philippe Ariès o l’antropologo Louis-Vincent Thomas - invitato a titolo di esperto a parlare di eutanasia, non senza qualche scrupolo. Nel dramma di questi giorni di Piergiorgio Welby ritrovo il riflesso crudele, al limite dell’insopportabile, della buona morte, da sempre impossibile. Senza voler risalire all’antichità, la nostra civiltà cristiana è stata portatrice del modello, esemplificato dalla morte dei santi, della buona morte che si raggiunge «giacendo a letto malati» e di cui parlano le migliaia di testamenti che ho consultato: è quel tipo di morte che consente di dare le proprie disposizioni, di mettersi in pace con il cielo, evitando la sorpresa della morte violenta, valorizzazione obbligata del dolore in un’epoca, fino a ieri o quasi, nella quale contro di essa non era possibile fare nulla o ben poco. Il colpo di grazia misericordioso era il privilegio rarissimo o clandestino di pochi: il medico Cabanis che da l’oppio a Mirabeau.
Tutto ciò oggi è diverso. Da quando? Non intendo ripercorrere tutte le tappe dell’evoluzione alla quale sono andati incontro i vari modi di prolungare la vita, a cominciare dalle odierne tecniche di rianimazione e di conservazione delle funzioni vitali. Ma questa innovazione, che incontra il proprio limite soltanto sulla soglia stessa della morte, si accompagna a un profondo cambiamento dei nostri atteggiamenti e delle nostre sensibilità. Nelle nostre società, in cui si vive più a lungo, si prende in considerazione la sorte dei malati terminali, ai quali si cerca di rendere più umano l’ultimo passaggio, nell’ambito di cure palliative, lottando contro il dolore, ma anche per salvaguardarne la dignità. Così come la auspicherebbe la maggior parte di coloro che rispondono ai sondaggi, la "morte dolce" oggi sarebbe rapida: ma i mezzi terapeutici invece fanno sì che ormai il concetto di morte naturale si stia facendo sempre più sfumato.
Negli ultimi decenni c’è stata un’accesa denuncia del potere dei medici, che si esplica attraverso quello che noi in Francia chiamiamo accanimento terapeutico, mentre gli anglosassoni parlano di "misure coraggiose". Chi ha torto? Chi ha ragione? La Chiesa, contraria all’accanimento terapeutico, resta ciò nondimeno contraria all’eutanasia, sia attiva sia passiva, al fatto di cessare di combattere, quando tutta una corrente - a dire il vero fino a questo momento ancora elitaria - nelle nostre società occidentali rivendica il diritto a una morte dignitosa. Sentiamo parlare, con progetti alquanto complicati, della possibilità per ogni persona di prescrivere, nell’ambito delle sue ultime volontà, di non voler essere sottoposta a una rianimazione così decisa da prolungare la vita in modo artificiale. In Francia questo problema è stato oggetto di discussioni a livello parlamentare e una nuova legge comincia a essere applicata con grande prudenza. Il fatto è che al di là della polemica in nome dei valori fondamentali "-l’assoluto rispetto della vita contro il diritto individuale a disporre della propria persona- le realtà oggettive si impongono in modo crudele per mezzo di situazioni drammatiche.
I media ci hanno messo in una condizione di familiarità con questi casi di mantenimento in vita vegetativa di morti-viventi, giovani e vecchi, in stato di coma irreversibile, ma talvolta anche in condizioni di assoluto decadimento del loro fisico, e in preda per questo motivo a uno sconforto profondo. Di fronte a questi casi i medici che rompono la consegna del silenzio hanno da tempo ammesso che, a un certo punto, occorre pur "staccare la spina". Alcuni personaggi - di levatura non certo inferiore (in Francia il professor Schwartzenberg) - hanno rivendicato il fatto di aver praticato l’eutanasia attiva in qualche caso senza speranza. Accanto a loro, le famiglie si dividono tra quelle che si aggrappano disperatamente alla tutela del più piccolo soffio di vita e quelle che compiono il gesto misericordioso, con o senza aiuti. La giustizia francese in alcuni casi recenti ha optato, premunendosi in vario modo, per un atteggiamento di comprensione. Il fatto è che i problemi sui quali si focalizza l’opinione pubblica contraria all’eutanasia non sono di secondo piano: a partire da quale stadio l’eutanasia è legittima? A chi tocca la responsabilità di questo gesto, al medico, al personale curante, alla famiglia? I nostri media evocano talora casi di infermiere assassine o di inquietanti anticamere della morte.
In definitiva, che ne è del pazie-te terminale? È sufficiente che quando è in salute esprima una scelta che in punto di morte potrebbe non essere più sua.
Ed eccomi qui, se non proprio al capezzale quanto meno accanto a Piergiorgio Welby. Dall’abisso del suo sconforto, con gli ultimi mezzi di comunicazione che ancora gli sono disponibili, chiede di essere liberato da quella che ormai rappresenta per lui soltanto una parvenza di vita. Pare quasi, leggendo le pagine della stampa italiana che sfoglio, che il suo grido faccia scandalo per il fatto stesso di essere ripreso e ripetuto. Eccolo, il nostro martire, accusato di aver pubblicizzato e strumentalizzato il proprio supplizio. Questo ci riporta evidentemente all’attuale situazione del nostro universo mediatico: da anni ormai abbiamo familiarizzato con l’idea del tabù moderno della morte, che ha scalzato quello di ieri del sesso. È vero, nella realtà oggettiva la morte contemporanea si è fatta clandestina, anonima. Non lasciamoci trarre in inganno, però: al contempo, infatti, noi viviamo la contraddizione del ritorno della morte manifesta, in immagini o in racconti, quella di massa o quella dei grandi personaggi. Si pensi, per esempio, a quella cronaca di una morte annunciata che, orchestrata da lui stesso, ha rappresentato la fine del presidente François Mitterrand. Nel caso più anonimo di Piergiorgio Welby, pare che lo scandalo sia nato dall’averne informato l’opinione pubblica. Ma su chi ricade la vergogna? Su colui che grida o su coloro che vorrebbero distogliere lo sguardo e che si attendesse in silenzio lo spegnersi degli ultimi rantoli? (Traduzione di Anna Bissanti).
* Lo storico Michel Vovelle ha scritto La morte e l’Occidente.