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EU-TANASIA: IL DIRITTO DI MORIRE. IL CORAGGIO DELLA PAROLA, NON LA TRAPPOLA DEL SILENZIO. Una nota di Claudia Mancina, e di Luigi Manconi - a c. di pfls

lunedì 25 settembre 2006
[...] Dobbiamo davvero augurarci che l’invito del capo dello Stato - si discuta di eutanasia «nelle sedi più idonee» - sia accolto. E proprio perché, come ha aggiunto Giorgio Napolitano, «il solo atteggiamento ingiustificato sarebbe il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabilità». Questo avrebbe, innanzitutto, una conseguenza assai grave: la morte - resa evento ordinario fino alla banalizzazione e oggetto di consumo, serial televisivo e prodotto di mercato - resterebbe un (...)

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> EU-TANASIA: IL DIRITTO DI MORIRE. IL CORAGGIO DELLA PAROLA, NON LA TRAPPOLA DEL SILENZIO. Una nota di Claudia Mancina, e di Luigi Manconi

sabato 16 dicembre 2006

Le storie degli uomini e lo scandalo della morte

di Michel Vovelle (La Repubblica/DIARIO, 15 dicembre 2006, p. 55)*

«Ogni morte è nel dolore»: la vecchia formula nella sua brutalità ci informa subito sui limiti della tanto deside­rata eutanasia, o morte dolce, che ci arriva dagli antichi, ma ciò non attenua l’aspirazione a umanizza­re, quando è possibile, l’ultimo istante di vita. Per aver scritto di morte e Occidente dal 1300 ai gior­ni nostri, eccomi qui - dopo la scomparsa dei miei contempora­nei, lo storico Philippe Ariès o l’an­tropologo Louis-Vincent Thomas - invitato a titolo di esperto a parla­re di eutanasia, non senza qualche scrupolo. Nel dramma di questi giorni di Piergiorgio Welby ritrovo il riflesso crudele, al limite dell’in­sopportabile, della buona morte, da sempre impossibile. Senza voler risalire all’antichità, la nostra ci­viltà cristiana è stata portatrice del modello, esemplificato dalla mor­te dei santi, della buona morte che si raggiunge «giacendo a letto ma­lati» e di cui parlano le migliaia di testamenti che ho consultato: è quel tipo di morte che consente di dare le proprie disposizioni, di mettersi in pace con il cielo, evitan­do la sorpresa della morte violenta, valorizzazione obbligata del dolo­re in un’epoca, fino a ieri o quasi, nella quale contro di essa non era possibile fare nulla o ben poco. Il colpo di grazia misericordioso era il privilegio rarissimo o clandestino di pochi: il medico Cabanis che da l’oppio a Mirabeau.

Tutto ciò oggi è diver­so. Da quan­do? Non in­tendo riper­correre tutte le tappe del­l’evoluzione alla quale so­no andati incontro i vari modi di pro­lungare la vi­ta, a comin­ciare dalle odierne tecniche di ria­nimazione e di conservazione del­le funzioni vitali. Ma questa inno­vazione, che incontra il proprio li­mite soltanto sulla soglia stessa della morte, si accompagna a un profondo cambiamento dei nostri atteggiamenti e delle nostre sensi­bilità. Nelle nostre società, in cui si vive più a lungo, si prende in consi­derazione la sorte dei malati termi­nali, ai quali si cerca di rendere più umano l’ultimo passaggio, nel­l’ambito di cure palliative, lottan­do contro il dolore, ma anche per salvaguardarne la dignità. Così co­me la auspicherebbe la maggior parte di coloro che rispondono ai sondaggi, la "morte dolce" oggi sarebbe rapida: ma i mezzi terapeutici invece fanno sì che ormai il con­cetto di morte naturale si stia fa­cendo sempre più sfumato.

Negli ultimi decenni c’è stata un’accesa denuncia del potere dei medici, che si esplica attraverso quello che noi in Francia chiamia­mo accanimento terapeutico, mentre gli anglosassoni parlano di "misure coraggiose". Chi ha torto? Chi ha ragione? La Chiesa, contra­ria all’accanimento terapeutico, resta ciò nondimeno contraria al­l’eutanasia, sia attiva sia passiva, al fatto di cessare di combattere, quando tutta una corrente - a dire il vero fino a questo momento an­cora elitaria - nelle nostre società occidentali rivendica il diritto a una morte dignitosa. Sentiamo parlare, con progetti alquanto complicati, della possibilità per ogni persona di prescrivere, nel­l’ambito delle sue ultime volontà, di non voler essere sottoposta a una rianimazione così decisa da prolungare la vita in modo artifi­ciale. In Francia questo problema è stato oggetto di discussioni a livel­lo parlamentare e una nuova legge comincia a essere applicata con grande prudenza. Il fatto è che al di là della polemica in nome dei valo­ri fondamentali "-l’assoluto rispet­to della vita contro il diritto indivi­duale a disporre della propria per­sona- le realtà oggettive si impon­gono in modo crudele per mezzo di situazioni drammatiche.

I media ci hanno messo in una condizione di familiarità con que­sti casi di mantenimento in vita ve­getativa di morti-viventi, giovani e vecchi, in stato di coma irreversibi­le, ma talvolta anche in condizioni di assoluto decadimento del loro fisico, e in preda per questo motivo a uno sconforto profondo. Di fron­te a questi casi i medici che rompo­no la consegna del silenzio hanno da tempo ammesso che, a un certo punto, occorre pur "staccare la spina". Alcuni personaggi - di levatura non certo inferiore (in Francia il professor Schwartzenberg) - han­no rivendicato il fatto di aver prati­cato l’eutanasia attiva in qualche caso senza speranza. Accanto a lo­ro, le famiglie si dividono tra quel­le che si aggrappano disperata­mente alla tutela del più piccolo soffio di vita e quelle che compiono il gesto misericordioso, con o sen­za aiuti. La giustizia francese in al­cuni casi recenti ha optato, premu­nendosi in vario modo, per un at­teggiamento di comprensione. Il fatto è che i problemi sui quali si focalizza l’opinione pubblica con­traria all’eutanasia non sono di secondo piano: a partire da quale sta­dio l’eutanasia è legittima? A chi tocca la responsabilità di questo gesto, al medico, al personale cu­rante, alla famiglia? I nostri media evocano talora casi di infermiere assassine o di inquietanti antica­mere della morte.

In definitiva, che ne è del pazie-te terminale? È sufficiente che quando è in salute esprima una scelta che in punto di mor­te potrebbe non essere più sua.

Ed eccomi qui, se non proprio al ca­pezzale quan­to meno ac­canto a Pier­giorgio Welby. Dall’abisso del suo sconforto, con gli ultimi mezzi di co­municazione che ancora gli sono disponibili, chiede di essere liberato da quella che ormai rappresenta per lui soltanto una parvenza di vita. Pare quasi, leggendo le pagine della stampa italiana che sfoglio, che il suo grido faccia scandalo per il fatto stesso di essere ripreso e ripetuto. Eccolo, il nostro martire, accusato di aver pubblicizzato e strumentalizzato il proprio supplizio. Questo ci ripor­ta evidentemente all’attuale situa­zione del nostro universo mediatico: da anni ormai abbiamo familia­rizzato con l’idea del tabù moder­no della morte, che ha scalzato quello di ieri del sesso. È vero, nel­la realtà oggettiva la morte con­temporanea si è fatta clandestina, anonima. Non lasciamoci trarre in inganno, però: al contempo, infat­ti, noi viviamo la contraddizione del ritorno della morte manifesta, in immagini o in racconti, quella di massa o quella dei grandi perso­naggi. Si pensi, per esempio, a quella cronaca di una morte an­nunciata che, orchestrata da lui stesso, ha rappresentato la fine del presidente François Mitterrand. Nel caso più anonimo di Piergior­gio Welby, pare che lo scandalo sia nato dall’averne informato l’opi­nione pubblica. Ma su chi ricade la vergogna? Su colui che grida o su coloro che vorrebbero distogliere lo sguardo e che si attendesse in si­lenzio lo spegnersi degli ultimi ran­toli? (Traduzione di Anna Bissanti).

* Lo storico Michel Vovelle ha scritto La morte e l’Occidente.


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