Inviare un messaggio

In risposta a:
Per il dialogo, quello vero ...

EU-TANASIA: IL DIRITTO DI MORIRE. IL CORAGGIO DELLA PAROLA, NON LA TRAPPOLA DEL SILENZIO. Una nota di Claudia Mancina, e di Luigi Manconi - a c. di pfls

lunedì 25 settembre 2006
[...] Dobbiamo davvero augurarci che l’invito del capo dello Stato - si discuta di eutanasia «nelle sedi più idonee» - sia accolto. E proprio perché, come ha aggiunto Giorgio Napolitano, «il solo atteggiamento ingiustificato sarebbe il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabilità». Questo avrebbe, innanzitutto, una conseguenza assai grave: la morte - resa evento ordinario fino alla banalizzazione e oggetto di consumo, serial televisivo e prodotto di mercato - resterebbe un (...)

In risposta a:

> EU-TANASIA: IL DIRITTO DI MORIRE. IL CORAGGIO DELLA PAROLA, NON LA TRAPPOLA DEL SILENZIO. Una nota di Claudia Mancina, e di Luigi Manconi

giovedì 21 dicembre 2006

Quella politica della vita che invoca la giusta morte

La richiesta di Piergiorgio Welby mette in evidenza la pretesa dello stato di regolare vita e morte dei suoi sudditi. Un tema ampiamente discusso dalla filosofia contemporanea e che va al di là della contrapposizione tra cattolici e laici Un percorso di lettura a partire dalla riflessione di Michael Foucault, dove diritto statale e affermazione dell’autonomia individuale incontrano ciò che la norma non può regolare

di Roberto Ciccarelli *

In un sondaggio condotto nel 2002 dal Centro di Bioetica dell’Università Cattolica di Milano tra 259 rianimatori, operatori di prima linea che curano persone la cui sopravvivenza è affidata a macchine, il 3,6% dei medici dichiarò di aver somministrato volontariamente farmaci letali (eutanasia attiva). Il 96,4% negò di averlo mai fatto. Il 15,8% degli intervistati considerò tuttavia questa iniziativa accettabile. Ma il dato più interessante fu senz’altro un altro: il 19,3% del campione negò di aver mai attuato la sospensione delle cure (ad esempio staccare il respiratore, interrompere l’erogazione dell’ossigeno). Il 38,6% riconobbe di averlo fatto almeno in un’occasione, il 42% «più spesso». In nessun caso questo «atto medico» è stato riportato sulla cartella clinica per il timore di essere denunciati dai parenti e finire in tribunale.

Nel 2004, in Gran Bretagna, 2865 malati terminali sono stati aiutati a morire dai medici. E’ il risultato di un sondaggio condotto anonimamente tra 857 specialisti lo scorso gennaio. Tra questi decessi assistiti, 936 furono provocati a seguito di una domanda esplicita del malato. Gli altri (1929 casi) non hanno fornito istruzioni specifiche sulla modalità della loro morte a causa del coma sopraggiunto. La pratica della «morte opportuna» è illegale in Gran Bretagna come nella maggior parte dei paesi europei, salvo Olanda, Belgio e Svizzera, ma sembra che questi dati siano addirittura inferiori alla media europea.

La sovranità sulla vita

Queste informazioni sono tornate d’attualità dopo che Piergiorgio Welby, co-presidente dell’associazione Luca Coscioni, affetto da distrofia muscolare progressiva, ha riportato l’attenzione sul continente sconosciuto dei malati terminali in Italia, evidenziando la difficoltà delle istituzioni di affrontare il problema in maniera chiara e definita. La sentenza del Tribunale di Roma che il 16 dicembre scorso ha definito «inammissibile» il suo ricorso, ha riconosciuto allo stesso tempo il suo diritto di chiedere l’interruzione della respirazione assistita. Il «vuoto legislativo» che la giudice Angela Savio ha riscontrato nella legislazione ha evidenziato un corto circuito nella prerogativa «biopolitica» e costituzionale degli stati di diritto occidentali che impone la protezione della vita, anche a costo di separarla dalla persona che la detiene. Davanti alla richiesta di Welby di interrompere le cure e scegliere la morte piuttosto che continuare a vivere in maniera disumana, lo stato non può autorizzare alcuna forma di «accompagnamento alla morte» che mette fine all’esperienza di una vita che vegeta artificialmente negli ospedali o nel buio delle nostre case, pena la legittimazione dell’eutanasia.

Nei gioni scorsi, molti degli interventi di commento attorno al «caso Welby», hanno sostenuto che è la difficoltà di distinguere tra eutanasia e accanimento terapeutico ad impedire una definizione normativa della situazione delle persone come Welby. Se fosse solo così, duplice sarebbe la soluzione: «staccare la spina» come atto di disobbedienza civile in mancanza di una legge. Oppure attendere l’elaborazione di linee guida da parte del Comitato di bioetica. Nel primo caso, avremmo una disobbedienza civile che mette a un nudo non l’insopportabilità di una legge, bensì la sua assenza. L’attesa di un pronunciamento del Comitato di bioetica congela una situazione, quella di Welby, e rinvia ogni decisione a tempi futuri. Ma uno degli aspetti rilevante di questa vicenda e che radicalizza un tema molto rilevante nella discussione filosofica di questi anni. Il «caso Welby» porta infatti alle estreme conseguenze la prerogativa «biopolitica» che Michel Foucault attribuiva ai moderni stati di diritto costituzionali: la presa del potere sull’uomo come essere vivente e la «statalizzazione» della sua vita biologica.

Quella di Welby, e di coloro che la sostengono, è infatti la rivendicazione più estrema del ruolo biopolitico dello stato: difendere la vita sino in fondo, sia che si tratti di garantirne le prerogative più alte, sia che si tratti di impartirle una «buona morte». Da questo punto di vista, è comprensibile la reazione di chi negli ultimi giorni ha respinto l’accusa secondo la quale si vuole attribuire per legge al paziente, o ai suoi familiari, un potere «tanatopolitico» che stabilisce, in base alla contingenza di un dolore proprio o altrui, quale vita sia degna di essere vissuta. A loro avviso, deve essere lo stato ad occuparsi di un problema che riguarda la vita dei suoi cittadini, dato che è la sua stessa costituzione repubblicana a prevederlo all’articolo 32.

La sacralità della tecnica

Il Tribunale di Roma, il ministro della Sanità Livia Turco e il Comitato di bioetica sono dunque in imbarazzo perché il caso di Welby ha portato alla luce una crepa nella biopolitica statale. La richiesta di ricevere una «morte dignitosa» rivela infatti la difficoltà delle autorità politiche a riconoscere quello che è il rovescio della loro logica, oppure la sua logica continuazione. Il potere biopolitico non dovrebbe infatti occuparsi solo della vita, ma anche della sua parte oscura, quella che si manifesta nella malattia, nella sofferenza e porta anche alla morte. La morte rimane però un oggetto sul quale la biopolitica sembra esitare, quasi fosse estraneo alla materia che intende amministrare, sebbene le sue prerogative dicano esattamente il contrario.

Né rivendicazione al suicidio, né invocazione di un dovere dello stato ad impartire la morte, l’azione di Welby può essere tuttavia intesa come un potenziamento della biopolitica contemporanea, ma è anche il suo punto massimo di crisi. Sebbene questi diritti siano stati sanciti dalla Convenzione europea di biomedicina sottoscritta dall’Italia nel 2001, dalla Carta dei diritti dell’Unione Europea, dalla Convenzione sulla biomedicina, dal Codice di deontologia medica del 1999, come ha ricordato Stefano Rodotà nel suo La vita e le regole. Tra diritto e non diritto (Feltrinelli, pp.288, € 19), la vita che s’intende proteggere manifesta un carattere inquietante e irregolare che rende manifesto un limite non giuridico e non politico oltre il quale anche il potere politico più attento ai diritti delle persone preferisce non avventurarsi.

Il problema è dunque più ampio di un scontro tra cattolici e laici. I primi, è noto, sostengono che nessuno può sottrarre la vita al suo decorso naturale, anche quando essa va incontro a sofferenze indicibili, perché rischia di ledere la «dignità inviolabile della vita umana». «La vita è un dono di cui il soggetto non ha completa disponibilità», ha affermato Benedetto XVI nel messaggio per la «Giornata della Pace» del 12 dicembre scorso, un discorso teso a stabilire vincoli all’azione del governo e a bloccare ogni possibile apertura del parlamento alle richieste di Welby. I secondi sono invece portati a «moralizzare» la natura umana attraverso la creazione di «nuovi tabù artificiali» che legano la vita al rispetto dei valori stabiliti dalle autorità (la chiesa o lo stato). Entrambe queste posizioni si scontrano in un dilemma altrettanto gravoso: la sacralità della vita chiede al malato di dipendere dalla macchina o di dire no? A questa domanda il filosofo cattolico Giovanni Reale ha risposto con parole sagge: «Dobbiamo guardarci dal pericolo di trasferire l’idea di sacralità della vita nella sacralità della tecnica».

Una posizione di mediazione tra la rivendicazione della «sacralità», fatta dai cattolici, e dell’«intelligenza» della vita, fatta dai laici, è stata proposta da Umberto Veronesi nel dialogo con Giulio Giorello, La libertà della vita (a cura di Chiara Tonelli, Raffaello Cortina Editore, pp. 115, euro 9). Il direttore dell’«Istituto Europeo di Oncologia» di Milano e il filosofo della scienza della Statale di Milano hanno il merito di avere portato alla luce l’elemento inquietante che tormenta la biopolitica contemporanea. A destare il disagio degli ambienti teologici, come di quelli laici, è infatti una certa idea della «natura umana»: crudele, imprevedibile e spaventosa alla quale si cerca di rimediare mediante un’ortopedia medica o giuridica. Con il risultato, talvolta paradossale, di separare la «vita» dal vivente, considerandola un valore morale o giuridico trascendente alle sue condizioni oggettive. Capita così di considerare intoccabile la vita della persona, ma tecnicamente modificabile il Dna dei vegetali (come ritiene la Chiesa). Oppure di estenuare la vita con le tecnologie alla ricerca di un rimedio impossibile ad una malattia cronica (il dilemma che ossessiona i medici davanti a casi di particolare gravità). Il risultato, possibile ma non certo, che entrambe queste visioni possono trasformarsi in una tirannia: teocratica o tecnica. Contro questi paradossi, l’appello di Veronesi e di Giorello a ciò che unisce scienza e religione: la tutela della dignità umana.

Roberto Mordacci, docente di filosofia morale al San Raffaele di Milano, autore, tra l’altro, di Una introduzione alle teorie morali. Confronto con la bioetica (Feltrinelli, pp.410, €26) ha condotto una riflessione utile per definire il contenuto della dignità umana dal punto di vista della bioetica. A differenza di Veronesi e di Giorello, Mordacci attribuisce alla bioetica un contenuto normativo che la distingue tanto dall’etica medica, il cui scopo è di orientare il giudizio morale nel contesto delle scelte cliniche, quanto dal bio-diritto che mira alla definizione della vita in ambito giuridico. La bioetica è una teoria morale di stampo kantiano che vincola il trattamento medico e giuridico della vita alla massima kantiana del rispetto: «agisci in modo da rispettare ogni persona come fine in sé». Da questo punto di vista, il bene del paziente è ritenuto superiore al «bene medico» e costituisce una sorta di ammonimento contro il «paternalismo» dello stato che intende occuparsi della sua vita fino al punto di portarla alla morte.

Davanti ai «casi cronici», scrive Mordacci, lo stato deve rispettare la dignità umana ed evitare di espropriare il bene di un paziente imponendogli l’obbligo della cura. In questo caso il rischio è di separare la protezione dei diritti della persona da quelli del suo corpo, considerando la vita come uno strumento del potere e non il suo fine. Casi come quelli di Welby, conclude Mordacci, dovrebbero essere trattati seguendo l’articolo 32 della Costituzione italiana: «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario». All’individuo viene riconosciuto il diritto di decidere quando una cura diventa accanimento terapeutico e, nel nome del rispetto di sé, di rifiutarla senza per questo arrivare al suicidio o invocare l’eutanasia.

Non c’è dubbio che è proprio la rivendicazione della «dignità umana» ad avere provocato un cortocircuito nella biopolitica statale. Per il filosofo tedesco Ernst Bloch, di cui l’editore torinese Giappichelli ha di recente tradotto il classico Diritto naturale e dignità umana (Giappichelli, pp.327, euro 30, a cura di Giovanni Russo), la dignità invocata dagli «oppressi» e dagli «umiliati» è una richiesta non assimilabile ai criteri statali che regolano la «giustizia», cioè l’adeguazione di una situazione ad una norma universale. Oggi questa rivendicazione, che per Bloch indicava una via d’uscita dalla società borghese, fa capolino nelle nuove battaglie per i diritti dei malati e, più in generale, per i cosiddetti diritti di «quarta generazione» che fanno attenzione alla vita dei singoli.

Per Bloch, la dignità umana non è una norma universale ratificata dallo stato, ma un fine da raggiungere che muove il desiderio di ciascuno. Per questa ragione è impossibile fornirne una definizione precisa. La dignità resiste allo sfruttamento economico, non si piega al bisogno e all’umiliazione, sfugge alla gabbia d’acciaio della legge. La giustizia è invece la manifestazione autoritaria di un comando dello stato e le sue disposizioni sono sempre autoritarie. Un cortocircuito che illustra la ragione per cui, quando si parla di «diritto alla morte dignitosa», lo stato erge quasi sempre le barriere protettive della giustizia contro la richiesta di riconoscimento della dignità personale. Per Bloch la dignità è invece l’espressione di una solidarietà più ampia degli esseri umani, e non solo del diritto soggettivo che lo stato riconosce ad un singolo. L’individuo non è una monade responsabile e autonoma, ma è un soggetto sociale che si affida alla solidarietà dei suoi simili quando si tratta di stabilire i confini politici e giuridici di una «vita dignitosa».

Diritto di resistenza

La lettura di Diritto naturale e dignità umana può tornare utile per neutralizzare il conflitto tra la legge e la morale, la sindrome che colpisce laici e neoconfessionali quando si tratta di legiferare sulla vita e, in generale, sulle questioni bioetiche. Qualcuno, forse a ragione, potrebbe lamentarsi del giusnaturalismo blochiano che attribuisce all’«umano» un valore superiore alle umane leggi. In parte è così, ed è un rischio che corrono tanto le vie laiche quanto quelle neo-confessionali alla biopolitica. Ma Bloch attribuisce a questa «umanità» il significato storico ed immanente di una costruzione condivisa che deriva da un atto politico: il diritto di resistenza. In principio diritto liberale rivendicato durante le rivoluzioni europee tra il XVIII e il XIX secolo per resistere ai soprusi del governo nella sfera personale e associativa degli individui, oggi quello della resistenza è un diritto comune evocato da chi chiede più dignità per sé e per gli altri nella malattia. Per usare il linguaggio di Bloch, la solidarietà umana che va oltre i legami parentali e si afferma come legame politico. Davanti alla crisi della biopolitica contemporanea, chi afferma la solidarietà tra gli uomini sani o malati, normali o anormali, auspica la prevalenza dei diritti soggettivi su quelli oggettivi, della dignità sulla giustizia, della vita sul potere normativo della legge.


Scaffali morali

Il diritto a caccia della vita. Da Ernst Bloch a Rodotà

Da quando è stata chiamata in causa dal dibattito sulla personalità giuridica degli embrioni, sulla proprietà privata dei geni, sulla privacy, la «vita» è diventata un tema ricorrente di confronto tra politici, giuristi e filosofi. Stefano Rodotà («La vita e le regole. Tra diritto e non diritto», Feltrinelli, pp.288, euro 19) ritiene che il diritto possa adeguare la crescente richiesta di dignità ad ambiti prima esclusi dalla regolazione normativa. Roberto Esposito («Bios, Biopolitica e filosofia», Einaudi, pp. 216, euro 18,50) ritiene invece che la vita si sottragga ad una definizione giuridica e mette in crisi la biopolitica sulla quale gli stati moderni sono fondati. Infine, per Ernst Bloch («Diritto naturale e dignità umana», Giappichelli, pp. 327, euro 30), la rivendicazione della dignità non è assimilabile alle leggi statali regolate dal criterio della «giustizia».

* il manifesto, 20.12.2006


Questo forum è moderato a priori: il tuo contributo apparirà solo dopo essere stato approvato da un amministratore del sito.

Titolo:

Testo del messaggio:
(Per creare dei paragrafi separati, lascia semplicemente delle linee vuote)

Link ipertestuale (opzionale)
(Se il tuo messaggio si riferisce ad un articolo pubblicato sul Web o ad una pagina contenente maggiori informazioni, indica di seguito il titolo della pagina ed il suo indirizzo URL.)
Titolo:

URL:

Chi sei? (opzionale)
Nome (o pseudonimo):

Indirizzo email: