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Al di là della “concezione edipica del tempo”(Vattimo).

LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!! DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL - Ratzinger e Habermas!!! MARX, come VIRGILIO, gli fa strada e lo segue. Contro il disfattismo, un’indicazione e un’ipotesi di ri-lettura. AUGURI ITALIA!!!

Solo con Giuseppe, Maria è Maria e Gesù è Gesù. Questa la fine della "tragedia", e l’inizio della " Divina Commedia"!!! LA "SACRA FAMIGLIA" DELLA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA E’ ZOPPA E CIECA: IL FIGLIO HA PRESO IL POSTO DEL PADRE "GIUSEPPE" E DELLO STESSO "PADRE NOSTRO" ... E CONTINUA A "GIRARE" IL SUO FILM PRE-ISTORICO PREFERITO, "IL PADRINO"!!!
domenica 24 giugno 2007 di Federico La Sala
[...] Per chi è diventato come Cristo, un nuovo re di giustizia e un nuovo sacerdote, non resta che denunciare tutta la falsità (non della donazione, ma) delle fondamenta stesse dell’intera costruzione teologico-politica della Chiesa di Costantino - e re-indicare la direzione eu-angélica a tutti gli esseri umani, a tutta l’umanità!!! Per sé e per tutti gli esseri umani, Dante ha ri-trovato la strada: ha saputo valicare Scilla e Cariddi, andare oltre le colonne d’Ercole ... e non restare (...)

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> LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI" --- Dante ha una concezione molto moderna anche della donna .. quando Dante si smarrisce nella selva oscura, una catena di donne si mette in movimento per salvarlo (di Aldo Cazzullo - alla «Milanesiana»).

lunedì 28 giugno 2021

      • CONTINUAZIONE DAL POST PRECEDENTE E FINE

«Dante e il paesaggio dopo la battaglia»: la lectio magistralis alla «Milanesiana», oggi

di Aldo Cazzullo (Corriere della Sera, 28 giugno 2021)

      • [...]

Nel 1865 l’Italia unita celebrò i seicento anni della nascita di Dante con feste e concerti. A Ravenna si lavorò a restaurare la tomba, la chiesa di san Francesco e l’area circostante; e un muratore trovò una cassetta con la scritta «Dantis ossa». Erano proprio quelle: combaciavano con le tre falangi mancanti.

Ugo Foscolo si commuove a santa Croce davanti alla tomba di Vittorio Alfieri, e scrive nei Sepolcri: «E l’ossa fremono amor di patria». Giacomo Leopardi compone l’Ode al monumento a Dante che si preparava in Firenze. Alessandro Manzoni viene a sciacquare i panni in Arno. Ippolito Nievo prima di morire a trent’anni tornando dalla vittoriosa spedizione dei Mille scrive le Confessioni di un italiano: «Io nacqui veneziano e morrò italiano».

La Divina Commedia è anche un viaggio in Italia. Dante descrive l’Italia. Parla di posti che conosce bene, come la Romagna: c’è un dannato, Guido da Montefeltro, che gli chiede notizie della Romagna, e Dante gli fa una rassegna delle città romagnole, Ravenna Rimini Cervia Forlì Faenza Cesena Imola, che comincia così: «Ravenna sta come sta è molt’anni»; a Ravenna non cambia mai nulla.

Dante è stato anche un grande reporter, questo potrebbe essere l’attacco di un formidabile reportage, come quello di Giorgio Bocca da Vigevano: «fare soldi per fare soldi per fare soldi, se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste...».

Ma Dante descrive con altrettanta maestria anche posti in cui non è mai stato. Come la Sicilia, che ama perché è la terra della poesia, della scuola siciliana: la chiama la bella Trinacria, descrive l’Etna - lo chiama Mongibello, con il nome arabo con cui ancora adesso lo chiamano i siciliani -, e lo stretto di Messina, Scilla e Cariddi.

Dante traccia proprio i confini d’Italia. Lo fa nel decimo canto, quello di Farinata degli Uberti, di cui parleremo.

Qui sono puniti gli eretici, chiusi dentro sepolcri. Per dare un’idea del paesaggio infernale, Dante lo paragona a due sepolcreti. Uno ad Arles, in Provenza, ai confini occidentali dell’Italia, sorto secondo la leggenda in una notte per dare sepoltura ai cavalieri cristiani caduti combattendo contro gli infedeli. L’altro a Pola, nel golfo del Quarnaro, che Italia chiude e i suoi termini bagna, i suoi confini. Questo è un verso citato da generazioni di irredentisti: trentini, triestini, giuliani, istriani, dalmati, che erano sudditi austriaci ma italiani di lingua e di cuore, e si battevano per innalzare statue a Dante, e per aprire scuole italiane da intitolare a Dante. Quando poi scoppiò la grande guerra, duemila di loro disertarono dall’esercito austriaco e andarono a combattere accanto agli italiani, sotto falso nome, andando incontro a morte quasi certa: se venivano catturati li impiccavano. Di questi duemila, mille avevano studiato al liceo Dante di Trieste. Tra loro c’era Nazario Sauro, che era di Capodistria. Catturato dagli austriaci, dichiarò di chiamarsi Nazario Sambo. Lo misero a confronto con la madre, che negò di conoscerlo, ma nonostante questo fu impiccato.

E quando dopo la seconda guerra mondiale 350 mila esuli istriani e dalmati dovettero lasciare le loro case portarono con sé le spoglie di Nazario Sauro, che ora riposano al Lido di Venezia.

Dante descrive l’Arsenale Di Venezia. Che era all’epoca la più grande fabbrica d’Europa. Poi Dante descrive il lago di Garda. È la più lunga descrizione geografica della Divina Commedia. A Nord le dolomiti, che separano il mondo tedesco dal mondo latino. E poi le valli bresciani e quelle veronesi, il lago, Sirmione, la fortezza di Peschiera, il Mincio, Mantova, la città di Virgilio, la Lombardia... Poi Dante descrive le città toscane. Lo fa spesso con rabbia, con indignazione.

Quando descrive il corso dell’Arno dice che prima scorre tra i porci, nel Casentino, poi tra i botoli, i cani ringhiosi, gli aretini, poi tra i lupi, i fiorentini, infine tra le volpi, i pisani. I lucchesi invece li mette all’inferno tuffati nella pece tra i barattieri, i corrotti, derisi dai diavoli che gridano: «Qui non ha loco il santo volto!», il crocefisso ligneo cui i lucchesi sono molto devoti, «qui si nuota altrimenti che nel Serchio!». E a noi viene in mente un altro grande poeta toscano, Giuseppe Ungaretti, e la sua poesia «I fiumi», in cui enumera i fiumi della sua vita, e per primo il Serchio, sulle cui rive sono nati i suoi antenati.

Ma i diavoli di Dante non sono veramente cattivi. Quando Dante inventa i nomi dei diavoli pare Caravaggio quando dipinge il cesto di frutta, o Maradona quando palleggia scalzo con le arance: è di una bravura al limite del virtuosismo.

Il capo si chiama Malacoda e deve comporre una squadra di dieci diavoli che scortino Dante e Virgilio fuori dalla malabolgia. In realtà è una trappola: il piano è che li portino su una strada sbagliata e facciano in modo che si perdano nell’inferno. Malacoda chiama a raccolta Alichino, Cagnazzo, Barbariccia, Libicocco, Draghignazzo, Ciriatto Sannuto, Graffiacane, Farfarello, Rubicante pazzo. Nomi che scoppiano come granate, che sembrano presi dalla commedia dell’arte: Alichino ricorda Arlecchino, Libicocco è la crasi tra libeccio e scirocco, venti che portano tempesta. Ma i diavoli di Dante non sono davvero cattivi. Il diavolo può essere raffigurato in molti modi. Può essere affascinante, come Mefistofele. Può essere spaventoso, terrificante, come il diavolo della saga cinematografia dell’esorcista. Oppure può essere buffo, grottesco, come Belfagor Arcidiavolo, il protagonista della novella di Machiavelli, che sale sulla terra per verificare se davvero le mogli siano la rovina degli uomini, si innamora perdutamente di monna Onesta, la prende in sposa; ma è talmente infelice per i suoi capricci che, insieme con i diavoli suoi aiutanti, preferisce tornare all’Inferno.

I demoni di Dante appartengono a questa terza categoria. Non hanno nulla di terrificante; sono inaffidabili e burloni, proprio come gli uomini.

Il male è dentro di noi. L’Inferno sono gli altri, come diceva Sartre; oppure l’Inferno può essere dentro l’animo umano. Homo homini lupus, diceva Plauto: l’uomo è un lupo per l’uomo.

Dante si pone il problema del male. Ma la pensa semmai come Terenzio: Homo sum, nihil humanum a me alienum puto; sono un uomo, nulla che sia umano lo considero estraneo a me.

A volte con i malvagi Dante è spietato. Nella Palude Stigia incontra Filippo Argenti, il suo nemico. Si chiamava in realtà Filippo Adimari, lo chiamavano Argenti perché ferrava di argento il suo cavallo e cavalcava per le vie di Firenze con le gambe larghe per ferire con gli speroni chi non era lesto a saltare di lato. Aveva schiaffeggiato Dante, e la famiglia degli Adimari aveva incamerato i beni degli Alighieri. Dante lo ritrova all’Inferno, lui gli dice: abbi pietà di me, vedi che son un che piango. Ma Dante non ha pietà: «Con piangere e con lutto, spirito maladetto, ti rimani, ch’io ti conosco, ancor sia lordo tutto»: anche se sei sporco di fango ti riconosco, e tu stai bene dove stai.

In fondo all’Inferno, tra i traditori della patria, Dante incontra Bocca degli Abati: il traditore di Montaperti. Montaperti per i fiorentini del Duecento e del Trecento era come per noi Caporetto: il sinonimo della sconfitta. Bocca degli Abati è un fiorentino che, corrotto dal nemico, mentre la cavalleria va all’assalto mozza la mano del portastendardo di Firenze, il gonfalone cade nella polvere, i fiorentini sbandano, i senesi contraccano e vincono la battaglia: diecimila morti in un giorno, l’Arbia colorato in rosso. Alla fine il comandante senese, Provenzano Salvani ordina di smettere di ammazzare i prigionieri guelfi, di salvare loro la vita per chiedere un riscatto: tutti tranne i fiorentini, quelli dovevano essere ammazzati senza pietà, anche quelli che invocavano san Zanobi.

Provenzano Salvani seconda la leggenda aveva un diavolo in bottiglia che gli prevedeva il futuro, e gli aveva detto che la sua testa sarebbe stata la più alta sul campo di battaglia. Parve che la vittoria avesse realizzato la profezia. Ma nove anni dopo Montaperti i fiorentini si presero la rivincita, sconfissero i senesi a Colle Val D’Elsa, Provenzano Salvani fu decapitato e la sua testa issata su una picca, per far vedere che Montaperti era stata vendicata. E quindi la sua testa fu davvero la più alta sul campo di battaglia.

Dante troverà Provenzano Salvani in Purgatorio, tra i superbi; salvato da un gesto di umiltà, aveva chiesto l’elemosina in piazza del Campo per un compagno d’armi fatto prigioniero dagli angioini, dai francesi. Ebbene quando Dante incontra in fondo all’Inferno Bocca degli Abati, il traditore, conficcato nel ghiaccio fino al collo, con solo la testa che spunta, gli strappa i capelli per fargli confessare il suo nome e il suo peccato.

Ma quando incontra Farinata degli Uberti, il vincitore di Montaperti, il comandante dei ghibellini fuoriusciti da Firenze, Dante gli riconosce la grandezza e la dignità. Virgilio gli dice: «“Voltati, che fai?/ Vedi là Farinata che s’è dritto/da la cintola in sù tutto ‘l vedrai”./ Io avea già il mio viso nel suo fitto;/ ed el s’ergea col petto e con la fronte/ com’ avesse l’inferno a gran dispitto».

Il petto e la fronte sono le parti del corpo dell’uomo che meglio manifestano la dignità. E Dante la riconosce a Farinata perché fu l’unico tra i comandanti ghibellini a «difendere Firenze a viso aperto», mentre gli altri la volevano radere al suolo. Poi Dante manda nell’Inferno i tiranni, affogati nel sangue che hanno sparso. E quattro Papi del suo tempo. Altri due li manda in Purgatorio, tra cui Martino IV tra i golosi perché era ghiotto di vernaccia e di anguille.

Celestino V è tra gli ignavi, tra coloro che non scelgono, perché «fece per viltade il gran rifiuto»: si dimise, lasciando il campo al grande nemico di Dante, Bonifacio VIII, l’uomo che consegnò Firenze ai Neri, e che andrà tra i simoniaci, tra coloro che fanno mercato delle cose religiose. Per Dante il Papa doveva essere un’autorità spirituale, non un sovrano assoluto: proprio quello che ora il Papa è diventato.

Anche per questo Papa Francesco ha definito Dante non solo un grande poeta, ma anche un profeta, che ha antevisto cose che poi sono accadute.

E Dante mette all’Inferno anche gli usurai, tra coloro che fanno violenza contro Dio, come i bestemmiatori. E spiega il motivo.

La natura - la terra, l’acqua, il grano, l’uva - è figlia di Dio. L’arte dell’uomo imita la natura; e quindi l’arte può dirsi nipote di Dio. L’uomo trae il suo pane dalla natura - i contadini, i vignaioli - o dall’arte: gli artigiani, gli artisti. Ma chi fa soldi con altri soldi sulla pelle della povera gente finisce all’Inferno.

Dante aveva già intuito le degenerazioni della finanza.

Dante ha una concezione molto moderna anche della donna. In un tempo in cui ci si chiedeva se la donna avesse o no l’anima, e molti rispondevano di no, Dante scrive che la specie umana supera tutto ciò che è sulla terra grazie alla donna.

È la donna che salva l’uomo; è Beatrice che salva Dante. Anzi, quando Dante si smarrisce nella selva oscura, una catena di donne si mette in movimento per salvarlo. La Madonna va da Santa Lucia - Dante era molto devoto a santa Lucia, protettrice della vista, perché le attribuiva la guarigione di una malattia agli occhi che aveva avuto da ragazzo -, santa Lucia va da Beatrice che scende dal Paradiso all’inferno, perché l’inferno non la tange, e affida Dante a Virgilio, che lo condurrà lungo l’Inferno e il Purgatorio sino al giardino dell’Eden, in cima alla montagna del Purgatorio, dove Dante ritrova Beatrice, scoppia in un pianto dirotto e purificatore, e vola con lei in Paradiso, sino davanti al volto di Dio.

E questa idea della donna che salva l’uomo, che salva il genere umano, è molto moderna. Perché la donna è capace di cura; e la cura non sminuisce, esalta. La donna da sempre si prende cura, nelle case, nelle famiglie, la donna dà la vita in tutti i modi in cui la vita può essere donata, concependo un figlio, dandolo alla luce, nutrendolo, curandolo; e oggi finalmente la donna è entrata nella vita pubblica, prende decisioni, esercita un potere. E la cura è una forma di potere, ora che abbiamo capito che la terra non è immortale, e la specie umana, come ci ha confermato la pandemia, è fragile; e tocca a noi, uomini e donne insieme, prendercene cura.

Dante mette in scena una pandemia all’Inferno. I falsari sono puniti con una malattia infettiva che li prostra, li costringe ad appoggiarsi l’uno alla schiena dell’altro: una scena terribile. Del resto le pandemie ai tempi di Dante non erano dolorose sorprese, erano dolorose abitudini.

La generazione successiva a quella di Dante sarà spazzata via dalla peste nera; la generazione dopo ancora farà il miracolo del Rinascimento. Ce l’abbiamo sempre fatta, ce la faremo anche questa volta. Diceva Borges - il grande letterato argentino, che adorava Dante e imparò l’italiano leggendo la Divina commedia sul tram che lo portava alla Biblioteca di Buenos Aires -, diceva Borges che la Divina Commedia è il più bel libro scritto dagli uomini.

Ed è un libro scritto nella nostra lingua, l’italiano, da un italiano: un nostro compatriota, un vostro concittadino. E già questo ci ricorda che essere italiani non è una sfortuna, come tendiamo a pensare; è un’opportunità ed è una responsabilità.

Ci ricorda chi siamo noi italiani. Ci ricorda quello che abbiamo fatto e possiamo, dobbiamo ancora fare, per tornare a riveder le stelle.


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