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MAMMASANTISSIMA. Il grande ordine simbolico del "Che-rùbino" ... tutti e tutto!!!

lL "LOGO" DELLA SAPIENZA, L’UMANITA’, E L’ACQUA. PAESE IMPAZZITO: FORZA "CHE RùBINO" TUTTO E TUTTI !!! PER IL "logo" della "SAPIENZA" DI ROMA, UN APPELLO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA!!! Una nota, con articoli - a cura di Federico La Sala

sabato 12 luglio 2008
[...] Affinché il "cherubino" non diventi "un diavoletto"... che ha trovato una pietra "cara" e "preziosa" ed esclami: "che - rubìno!" ... Qui non capiscono il valore di un’"ACCA" - H, lo prendo Io: lo venderò a "caro-prezzo" ("caritas"); e fonderò un ’nuovo’ partito, una ’nuova’ chiesa [...]
ITALIA: LA NOSTRA PATRIA E’ LA LINGUA, NON LA TERRA NON IL SANGUE. Dante e Saussure insegnano.
EMERGENZA EDUCATIVA: TRADIMENTO DEGLI INTELLETTUALI.
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> lL "LOGO" DELLA SAPIENZA, L’UMANITA’, E L’ACQUA. PAESE IMPAZZITO: FORZA "CHE RUBINO" TUTTO E TUTTI !!! --- Nel fortino della Sapienza: «Pronti al blocco, non vogliamo l’università in mano alle banche».

giovedì 16 ottobre 2008

l’Unità, 16.10.2008

Nel fortino della Sapienza: «Pronti al blocco, non vogliamo l’università in mano alle banche»

La lezione di Diritto pubblico sullo Statuto Albertino del professor Francesco D’Onofrio, esponente Udc già ministro della Pubblica Istruzione, è interrotta intorno alle undici e mezza dall’assemblea degli studenti arrivati in massa nell’aula A al secondo piano di Scienze Politiche della Sapienza. L’ex ministro dell’Istruzione si ferma ad ascoltare l’assemblea ed interviene solo per una breve nota: «Almeno qui si discute, al Senato non è stato possibile».

Già, perché l’obiettivo principale della protesta che qui come in altre parti d’Italia ha già acceso focolai nelle facoltà di Psicologia, Fisica e Lettere, è la legge 133 del 2008, ennesima conversione di un decreto legge (questa volta di finanza), passata a Palazzo Madama in pochi minuti nell’agosto trascorso.

Una legge che tiene dentro, per quanto riguarda l’università, tagli di 1,5 miliardi in 5 anni, la possibilità per gli atenei di trasformarsi in fondazioni di diritto privato e un rallentamento del turn-over al 20% (ogni cinque professori pensionati se ne potrà assumere uno). Eppure non c’è solo questo nelle parole di Dario, Vanessa, Luca, Francesco e Carlo. Non c’è solo questo nello slogan della protesta che all’una del pomeriggio parte dall’aula di Scienze Politiche per arrivare in un corteo interno a Lettere e poi uscire per strada, su un percorso concordato che gira attorno all’università seguendo la direzione del traffico.

Lo slogan che afferma «Noi la crisi non la paghiamo» è il manifesto di questa generazione tenuta a mollo negli atenei italiani, convinta che in un diverso modello di sviluppo potrebbe essere considerata una risorsa per il Paese. E invece è messa dietro «la competizione dei tondini di ferro con la Cina». E alle beghe di cassa.

«Questa crisi non l’abbiamo determinata noi, ma gli speculatori. Le banche a cui questo decreto vorrebbe dare la possibilità di entrare all’università». Luca Cafagna ha 24 anni, studia a Scienze Politiche, e vede che nel suo futuro si sta facendo strada un modello «americano», con lo Stato che toglie soldi dal Welfare, da Sanità, Scuola e Istruzione per darlo in mano alle banche «e non coglie il segno storico di quello che sta succedendo». Con le banche che arrancano davanti alla crisi di prestiti e mutui «di quelle famiglie che devono pagare l’assicurazione per gli ospedali e mettere da parte i soldi per iscrivere i figli all’università». Un’idea condivisa da Francesco Raparelli, che di anni ne ha 30 e prende 800 euro al mese per fare un dottorato di ricerca in filosofia politica a Firenze: «340 euro se ne vanno per l’affitto, 250 per spostarsi ogni mese tra Roma e Firenze. E questo è solo il presente perché il futuro non c’è. Siamo passati dall’incertezza alla catastrofe». Certo, afferma, quando iniziò l’università aveva idea di concentrarsi sullo studio, di avviarsi sul percorso scivoloso della ricerca che in Italia non ha mai pagato in termini economici. Oggi, però, raggiunto quel primo obiettivo, davanti non vede niente. E non è colpa solo di questa legge 133 che toglie soldi all’università senza nemmeno disegnarne un assetto coerente. È che da anni il Paese ha scelto di concentrarsi su altro.

Vanessa, che di anni ne ha 24 e frequenta Scienze Politiche, è convinta di stare studiando a vuoto, che quelle lezioni che segue giorno per giorno alla fine non la porteranno nel posto che meriterebbe. Che gli stessi insegnamenti a volte siano «troppo specifici» per essere spendibili nel mondo del lavoro. Che loro, alla fine, saranno dei precari che non si spenderanno nelle cose che hanno studiato. Ma che si fa? Cosa chiedono questi ragazzi? Risponde sempre lei: «Chiediamo che lo Stato investa sull’università e sulla ricerca. Che investa su di noi e che non ci tratti come una questione finanziaria. Guarda, già ci hanno abituato con la messa in funzione dei “crediti” e dei “debiti” scolastici». Come dice Stefano, 25 anni, due esami alla tesi e un presente da studente-lavoratore (proiezionista e gestore di un banchetto che vende libri): «Non è possibile che a questa età dobbiamo ancora vivere con i genitori perché non riusciamo ad avere i soldi in tasca per andarcene di casa». È lui che nell’aula di Scienze Politiche ha lanciato intorno all’una l’idea del corteo interno, mentre nei plessi di fianco continuavano a tenersi assemblee pubbliche.

Dietro a queste proteste non ci sono partiti, come spiega Dario, ma reti e movimenti di studenti. Nell’immaginario collettivo c’è ancora la Francia. Non quella del maggio di quarant’anni fa, ma quella degli studenti che nel 2005 misero all’angolo il «contratto di primo impiego» (Cpe) del governo di Dominique De Villepin (Nicolas Sarkozy ministro dell’Interno). Quella delle occupazioni e dell’ultima lotta studentesca vinta.

Prima di tutto, però, la battaglia va combattuta contro il luogo comune che sta sommergendo, in nome di una bizzarra efficienza economica, una parte delle battaglie della sinistra nel nostro Paese. Quello che tiene tutto sullo stesso piano. Sintetizzato nello slogan di ribellione del personale non docente rivolto all’assemblea di Scienze Politiche: «Noi non siamo fannulloni, voi non siete bamboccioni». Eccolo il nodo del problema. Sottolineato anche dalle parole di Vanessa che spiegano quel «Noi la crisi non la paghiamo». Non è una ritirata dei ragazzi dalle proprie eventuali responsabilità: «È al contrario una presa di coscienza. Noi vogliamo impegnarci. Vogliamo fare la nostra parte. Vogliamo solo che qualcuno creda in noi».

La legge 133 è la prima battaglia di una lotta politica che appare lunga e che non tiene dentro, per ora, nemmeno tutto il corpo studentesco.

Dario spiega: «Vogliamo il blocco della didattica. È l’unico segnale possibile per dire che l’università reagisce a questo ennesimo taglio». Oggi il Pro-rettore Luigi Frati risponderà alla richiesta degli studenti. Non sembra ci si orienti su questa linea. Come spiega Fulco Lanchester, preside di Scienze Politiche: «Io verrò all’assemblea, ma devo anche garantire che chi voglia fare lezione possa farlo».


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