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MAMMASANTISSIMA. Il grande ordine simbolico del "Che-rùbino" ... tutti e tutto!!!

lL "LOGO" DELLA SAPIENZA, L’UMANITA’, E L’ACQUA. PAESE IMPAZZITO: FORZA "CHE RùBINO" TUTTO E TUTTI !!! PER IL "logo" della "SAPIENZA" DI ROMA, UN APPELLO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA!!! Una nota, con articoli - a cura di Federico La Sala

sabato 12 luglio 2008
[...] Affinché il "cherubino" non diventi "un diavoletto"... che ha trovato una pietra "cara" e "preziosa" ed esclami: "che - rubìno!" ... Qui non capiscono il valore di un’"ACCA" - H, lo prendo Io: lo venderò a "caro-prezzo" ("caritas"); e fonderò un ’nuovo’ partito, una ’nuova’ chiesa [...]
ITALIA: LA NOSTRA PATRIA E’ LA LINGUA, NON LA TERRA NON IL SANGUE. Dante e Saussure insegnano.
EMERGENZA EDUCATIVA: TRADIMENTO DEGLI INTELLETTUALI.
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> PAESE IMPAZZITO: FORZA "CHERUBINI"!!! Università: contro la catastrofe culturale in atto, la ’ripresa’ del paradigma del "principio": "Ecce Homo"!!! PER IL "logo" della "SAPIENZA" DI ROMA, UN APPELLO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, Giorgio Napolitano, e al prof. Tullio De Mauro. Non il "che .. rubìno" o il "che .. rùbino", ma "IL CERVO ALLA FONTE", che beve l’ "acqua" dalla "Fontana dei Libri"!!!

venerdì 8 dicembre 2006

scienza in azione

Quel valore d’uso della diversità nell’atelier del riduzionismo

Un percorso di ricerca che tocca i nodi fondamentali della riflessione teorica del nostro tempo, quali l’evoluzione dei sistemi viventi, l’organizzazione della società. E le forme di resistenza al potere «Il supermarket di Prometeo» di Marcello Cini per Codice edizioni. Un impegnato saggio sul ruolo e lo statuto filosofico della scienza nell’economia della conoscenza

di Gianni Giannoli (il manifesto, 06.12.2006)

Sotterranea, dietro la crisi dei nostri riferimenti teorici, corre spesso a sinistra una vecchia domanda: quali pezzi della cultura vigente possano essere messi al lavoro, per disegnare scenari, formulare programmi. Guardandosi dietro alle spalle, una risposta provvisoria viene subito in mente: negli anni ’80 del secolo scorso, in ambiti apparentemente lontani, si sono andati consolidando nuovi punti di vista, coerenti nel mettere in dubbio quell’idea di «progresso» che la tradizione precedente ci aveva consegnato. In quegli anni, ha cominciato ad affermarsi l’idea che le trasformazioni dei sistemi complessi non sono mai lineari e pre-determinate, ma piuttosto caotiche, discontinue, largamente imprevedibili. Dunque, è forse la nostra idea di «programma» che dovrebbe essere scossa dal dubbio.

È guidato da questo punto di vista l’ultimo libro di Marcello Cini, Il supermarket di Prometeo. La scienza nell’età dell’economia della conoscenza (Codice edizione, pp. 486, euro 29). Spaziando su un terreno molto ampio della cultura scientifica e filosofica contemporanea, in oltre 450 pagine di analisi Cini espone la sua tesi principale, che in estrema sintesi è questa: i sistemi complessi - e, più in particolare, le specie viventi, gli esseri in grado di apprendere, i prodotti della cultura e le strutture sociali - non evolvono in un modo determinato e determinabile, ma piuttosto per livelli gerarchici di organizzazione, caratterizzati da proprietà che appaiono in genere irriducibili a quelle dei livelli più bassi. In questo quadro, la diversità degli esseri viventi e delle strutture sociali è una condizione necessaria della loro sopravvivenza e del loro sviluppo; l’elemento più critico del rapporto capitalistico (al di là delle disuguaglianze intollerabili che esso comporta e dei limiti che l’ecosistema terrestre attualmente pone) risiede proprio nella distruzione della diversità che il capitalismo produce, per la sistematica tendenza a unificare ogni aspetto del reale sotto la categoria della merce e sotto la misura del profitto. Un battaglia per l’eguaglianza, all’altezza del XXI secolo, dovrebbe caratterizzarsi come un contrasto radicale alla distruzione delle diversità.

La rivoluzione di Thomas Khun

La prospettiva da cui muove Cini tocca alcuni nodi fondamentali della riflessione teorica del nostro tempo: il ruolo e lo statuto della scienza, i risultati dell’epistemologia del ’900, l’evoluzione di medio e lungo termine dei sistemi viventi, le forme di organizzazione delle società e la questione dell’evoluzione della cultura. Si tratta di temi estremamente problematici e controversi; ed è proprio qui, dagli assunti generali che rendono così caratteristica la posizione di Cini, che potrebbero avere origine gli aspetti più dubbi delle sue proposte conclusive, quanto alle possibilità reali di resistere alla mercificazione progressiva dell’esistenza e al degrado progressivo del pianeta. Cini stesso fa trasparire una certa insoddisfazione per gli esiti politici del libro; infatti, non è senza ragione se nel capitolo finale la «speranza» di momenti migliori è espressa appunto nella forma di un auspicio; ciò basta a rivelare un’incertezza, la consapevolezza di non poter disporre ancora degli elementi concreti di un progetto, a livello che sarebbe richiesto dagli eventi. Si tratta - ben inteso - di una precarietà che ci riguarda tutti, figli del XX secolo; ma che potrebbe essere forse accentuata, nel caso di Cini, da un approccio coerentemente pluralista, nel senso che diremo, quanto agli assunti teorici di fondo.

Un riferimento decisivo per Cini, fin dalla metà degli anni Settanta, è stato il punto di vista esposto nel 1963 da Thomas Kuhn, a proposito di «rivoluzioni» scientifiche; si tratta di un’acquisizione fondamentale del pensiero contemporaneo, che nessuno studioso potrebbe seriamente revocare in dubbio. Ma l’applicazione della nozione kuhniana di paradigma ha dato spesso origine a diatribe. Se Kuhn pensava ai mutamenti di paradigma come a eventi alquanto rari nella cultura degli uomini, nella pratica corrente il termine viene spesso utilizzato come sinonimo di insieme di ipotesi, o addirittura come sinonimo di protocollo sperimentale specifico; cioè, in definitiva, come qualcosa che può mutare di frequente.

Per altri versi, il concetto di «rottura paradigmatica» è entrato nel repertorio della pubblicità scientifica, diventando una sorta di slogan, utilizzato per finalità promozionali. Per questo, si può dubitare del fatto che lo studio dei sistemi complessi, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, abbia effettivamente avuto i caratteri della svolta paradigmatica, nel senso di Kuhn. Nelle scienze cognitive, per esempio, si tende a contestare che esista una differenza incolmabile tra l’approccio classico, funzionalista, e l’approccio basato sui modelli tipici dei sistemi complessi.

C’è poi un risvolto della impostazione kuhniana che è particolarmente sgradevole: è quello «anarchico», che insiste sull’incommensurabilità dei paradigmi, sull’intraducibilità dei concetti, sul relativismo estremo dei punti di vista. A Cini, che è stato un professionista della fisica, le pretese riduzioniste di molti suoi colleghi avranno generato nel corso degli anni un senso di rigetto; per questo, ogni eccessiva pretesa di unità della scienza potrebbe risultargli un po’ sospetta. Per altri, impegnati nell’antropologia scientifica, nella psicologia evolutiva, nella neuropsicologia, nella filosofia della mente e del linguaggio, la crisi di rigetto riguarda spesso l’uso puramente retorico del lessico kuhniano, per giustificare posizioni programmaticamente antiscientifiche, derive ermeneutiche, esiti postmoderni.

Le gerarchie dell’evoluzione

Del resto, anche sul carattere «emergente» delle strutture complesse occorre intendersi. Nella concezione originaria di Charlie Broad, del 1925, le proprietà emergenti erano passibili addirittura di deduzione, grazie a leggi di tipo «trans-ordinale». Anche il padre della «teoria generale dei sistemi», Ludwig von Bertalanffy, nel definire gli organismi come «complessi di elementi interagenti», si affrettava a chiarire che il comportamento olistico di queste totalità è qualcosa che scaturisce dall’interdipendenza delle variazioni degli elementi costitutivi, non certo dal fatto che il comportamento collettivo sia indipendente da quello dei costituenti. Certamente, oltre una certa soglia di complessità, può risultare impossibile calcolare il comportamento complessivo di un sistema del genere, sulla base delle relazioni che i suoi componenti intrattengono. Ma, anche in questo caso, possono essere date altre definizioni formali, atte a garantire la coerenza dei modelli adottati ai differenti livelli e a limitare (se non evitare) l’eclettismo e l’anarchismo esplicativo.

Negli ultimi cinque o sei anni, proprio a partire da un bilancio dei risultati ottenuti dalle teorie evoluzionistiche, dalle teorie della mente, dalle teorie sociali e da quelle che riguardano i sistemi complessi, numerosi filosofi e storici della scienza hanno pensato di poter ricondurre tutti i vari modelli di spiegazione al modello proposto dai padri della cibernetica, da Norbert Wiener in particolare. Questo modello di spiegazione - correntemente indicato nella letteratura come «modello meccanicistico» - avrebbe la possibilità di riassorbire l’approccio nomologico (cioè quel metodo delle scienze sperimentali, prima di tutte la fisica, che punta all’individuazione delle regolarità tra i fenomeni), l’impostazione funzionalista e il punto di vista adottato dagli studiosi dei sistemi dinamici. Un’impostazione del genere non è necessariamente in contrasto con quella difesa da Cini. Infatti, in questo approccio l’accento viene posto sull’organizzazione dei sistemi in blocchi funzionali specifici, correlati gerarchicamente tra loro; si tratta di qualcosa di molto vicino al «modello gerarchico di evoluzione», che Cini riprende da Stephen Jay Gould. Ma si tratta anche di una posizione che, con tutta evidenza, tende a sdrammatizzare il problema del riduzionismo e a negare che esista una differenza incolmabile tra i metodi sviluppati negli ultimi decenni e quelli tipici della tradizione precedente.

Guardando le cose da un altro punto di vista, si può concordare in prima istanza con il giudizio positivo che Cini riserva alle posizioni di Steven Rose, Richard Lewontin e Samuel Kamin, cioè a coloro che attaccarono fin dai primi anni ’80 la sociobiologia di Edward Wilson e il determinismo biologico; quella era infatti una reazione sacrosanta a un uso ideologico del darwinismo, che andava combattuto. Però, si deve anche riconoscere che la discussione in seno al darwinismo ha visto riaffiorare negli ultimi venti anni qualche altra accentuazione ideologica. Per esempio, tali possono essere oggi giudicati alcuni aspetti dello scontro intercorso tra Gould e Dawkins, a proposito del ruolo del genoma.

Come Telmo Pievani ha opportunamente notato, il carattere contingente del percorso evolutivo - che Gould privilegiava, rispetto al carattere maggiormente vincolato, propugnato da Dawkins - «dipende dalla scala alla quale lo osserviamo: ciò che a una grana fine di dettagli ci appare contingente, può invece appartenere a un pattern più ampio di regolarità». Estremizzando la posizione di Gould, se qualsiasi evento occasionale fosse in grado di deviare il percorso evolutivo su binari diversi, «la "teoria" dell’evoluzione coinciderebbe con la descrizione infinitamente dettagliata dell’evoluzione stessa, perché non potrebbe selezionare, come ogni teoria inevitabilmente fa, i dettagli pertinenti da quelli ininfluenti». Ecco, se si dovesse sollevare un dubbio sulla posizione di Gould, sottoscritta da Cini, questo potrebbe consistere nel fatto che l’indebolimento eccessivo di ogni pretesa (in senso lato) nomologica lascia ogni teoria disarmata.

Tutto questo ha inevitabili riflessi sulla parte finale del libro, quella che ha come riferimento la seguente domanda: quale sinistra per il XXI secolo? Un interrogativo del genere si staglia su una scena costituita da tre presupposti, coordinati tra loro: il carattere planetario del capitalismo, le trasformazioni indotte dalla «economia della conoscenza», la crisi dell’ecosistema terrestre. Abbozzando un tentativo di risposta, Cini difende in primo luogo la tesi secondo la quale un buon programma della sinistra dovrebbe tendere a «demercificare ogni cosa»; su questa linea, un obbiettivo contingente e strategico potrebbe essere quello della «difesa della diversità»; si tratta infatti di un assunto che già vive nelle coscienze del movimento di resistenza al capitalismo globale. Però, è anche vero che la resistenza all’oppressione (e la difesa di prerogative specifiche) è qualcosa di connaturato al conflitto, qualcosa che avviene in modo spontaneo, al di là di qualsiasi teoria. Cosa dovrebbe fare, di più, la sinistra? Sul punto, Cini propone di recuperare il tema dei valori, facendo in parte propria una autorevole tradizione di antropologia positiva: per questa via, lo spirito di resistenza dei popoli potrebbe individuare criteri d’azione e obbiettivi, coerenti agli ideali di giustizia.

Malgrado non si possa negare che il tema dell’etica è tornato ad imporsi, anche nella riflessione di studiosi materialisti, non si può nemmeno nascondere che - su questa strada - i risultati della ricerca potrebbero alla fine coincidere con quelli tipici della filantropia pre-marxista; da ciò discende quella sensazione di inadeguatezza che lo stesso Cini lascia trasparire, alla fine del libro. Infatti, come è ben risaputo, almeno a partire dal 1848 il ruolo e l’ambizione della sinistra non è stato soltanto quello di organizzare la resistenza sociale, ma piuttosto quello di prefigurare una diversa modalità di esercizio del potere, cioè un diverso assetto dello Stato. Al di là degli esiti nefasti che hanno avuto le grandi rivoluzioni del ’900, il problema dell’organizzazione politica della società e dell’esercizio effettivo del potere è un nodo che sembra difficile trascurare, anche nel quadro di un mero esercizio del diritto di resistenza. Tanto più questo problema sembra arduo, quanto più i centri della decisione politica si allontanano dagli individui concreti e travalicano i confini delle loro nazioni.

L’economia dell’immateriale

Al di là delle inadeguatezze soggettive, che tutti dobbiamo lasciare forzatamente sullo sfondo, resta poi qualcosa di impellente: la sensazione che le trasformazioni indotte dal capitalismo globale e dallo stato di crisi dell’ecosistema terrestre siano andate ormai troppo avanti, perché possano essere condizionate da imperativi di carattere etico e dalla salvaguardia delle differenze. È tipico dei materialisti pensare che le grandi trasformazioni avvengano (quasi) sempre in un contesto di crisi e (quasi) mai per correttivi parziali. Quando un sistema complesso entra in crisi, i suoi livelli di organizzazione conoscono in genere un drastico riordinamento; in un quadro del genere, «difendere la diversità» potrebbe risultare privo di senso. Di più: è possibile che la crisi planetaria dell’ecosistema, indotta dal capitalismo globale, produca un’implosione della economia fittizia che si è sviluppata grazie alla produzione, alla distribuzione e al consumo di beni immateriali.

In un quadro del genere, la qualità dei valori d’uso - in particolare quella dei beni necessari per la sopravvivenza - ritornerebbe ad essere probabilmente un criterio di scelta. Di fronte a un rapido collasso delle condizioni di vita, è plausibile che la gestione della crisi tenda a essere trasferita a un certo punto nelle mani dell’autorità militare. Sarebbe allora paradossale che la sinistra, piuttosto che consegnarsi ai signori della guerra, si trovi ad auspicare i lumi di qualche neo-bonapartismo. Si tratta di scenari che non possiamo immaginare, ma che non potrebbero essere nel caso affrontati, se la riflessione teorica non ricomincia da subito a cercare quella che, un tempo, tutti noi chiamavamo banalmente «la contraddizione principale».

In breve: l’epistemologia del ’900, al di là degli ambiti disciplinari ai quali si è applicata la scienza, ha sempre concepito l’atteggiamento normativo come un tratto specifico dell’intelligenza umana; ogni deroga da questo atteggiamento, lungi dall’essere liberatoria, espone inevitabilmente all’arbitrio, alla sopraffazione, alla deriva impersonale, alle «leggi» durissime, prive di senso e di obbiettivi finali, che sono tipiche di questo nostro mondo. Allora, almeno nelle nostre menti, dovremmo forse continuare a immaginare criteri differenti, leggi per governare i potenti, modelli per i quali la complessità si semplifichi, per assi principali. Continueremo forse a sbagliare, cercando di riordinare le cose, ma abbiamo solo questo.


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