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Morale e oiko-nomia

Sette lamentazioni contro la FINANZIARIA. Per Adam Smith, la filosofia morale era un ingrediente essenziale e pre-giudiziale dell’economia politica. E’ bene non scordarlo mai. Un commento di Eugenio SCALFARI

domenica 8 ottobre 2006 di Federico La Sala
[...] il governo, volendo equilibrare un po’ una scala di redditi fortemente squilibrata, è stato generoso nel senso che ha diminuito il prelievo sui contribuenti fino ai 40-50 mila euro e lo ha accresciuto al di sopra di quella fascia. Si dice: doveva tagliare gli sprechi. Doveva riformare il "welfare". Doveva colpire gli statali. Doveva doveva doveva.
Mi viene in mente la risposta di Don Abbondio al cardinal Federico Borromeo che gli rimproverava di non aver celebrato il matrimonio tra (...)

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> Sette lamentazioni contro la FINANZIARIA. Per Adam Smith, la filosofia morale era un ingrediente essenziale e pre-giudiziale dell’economia politica. E’ bene non scordarlo mai. Un commento di Eugenio SCALFARI

giovedì 5 ottobre 2006

Un equo “patto fiscale” è alla base di uno stato civile

di Rina Gagliardi *

La discussione sulla finanziaria è appena agli inizi, anche e soprattutto dal punto di vista politico, sia per ragioni generali (la fisiologica emendabilità di un testo di partenza che non coincide mai con quello di arrivo) che per ragioni specifiche (gli interessi e perfino le identità che vi si giocano anche questa volta, anche e specialmente all’interno della maggioranza). Ancora, però, ci pare rilevante ragionare attorno alla “filosofia” che sostiene o dovrebbe sostenere la legge di bilancio. Il tema, cioè, della battaglia culturale che la accompagna, le sta “dietro” e “dentro”, come sottolineava ieri, proprio su Liberazione un lucido articolo di Andrea Colombo.

Non per caso, sempre ieri, un editoriale del Corriere della Sera affrontava il problema in termini simmetrici ed opposti: più che le singole misure previste, comprese le misure fiscali che tutto sommato non sono così cattive, anzi sono compatibili con un’ottica liberale - scrive Maurizio Ferrera - si tratta di mettere a punto una diversa e più marcata egemonia “riformista”. Quel che non va bene è soprattutto il linguaggio “giustiziero”, insomma, secondo il più importante quotidiano italiano. Non va bene l’armamentario linguistico che la sinistra radicale ha, per l’occasione, rispolverato. Ed è ora di considerarlo, definitivamente, desueto.

Tutto questo potrebbe esser considerato come una classica questione di lana caprina. Ma non è vero, nient’affatto. All’opposto, la sinistra (la sinistra-sinistra) rischia in questa circostanza l’ennesimo paradosso: quello cioè di ottenere - magari - un buon successo politico e un (relativo) insuccesso culturale, rimanendo impicciata, e impacciata, in schemi difensivi.

Partiamo dalla faccenda più controversa: le tasse. Si sentono in giro, perfino tra le nostre file e perfino tra persone “insospettabili”, umori preoccupati, paure, dubbi. Anche tra chi aderisce senza riserve alle proposte di rimodulazione delle aliquote, che vanno tutte nella direzione di una maggiore progressività e di una più marcata equità sociale, non mancano riserve sui possibili contraccolpi elettorali che potrebbero piombare sulll’Unione e sulla sinistra.

Da dove nascono queste esitazioni, percepibili soprattutto nel Nord e nei territori più “avanzati” d’Italia, quanto meno dal punto di vista produttivo? Dalla persuasione sotterranea, presente da sempre nella storia d’Italia (mancata rivoluzione borghese?) e consolidata da più di due decenni di egemonia neoliberista, che le tasse siano in fondo un “male”. Che l’evasione fiscale sia nemmeno un peccato veniale, ma una “necessità” di cui non pentirsi, come discettava su Repubblica il tabaccaio-barista, reo confesso e fiero di dichiarare al fisco il 50 per cento dei suoi guadagni. Che, insomma, più si frega il fisco, meglio è.

Questa cultura profonda, ahimè, attraversa anche una parte dell’elettorato di sinistra - scuote la sicurezza, perfino, di quei lavoratori dipendenti che le tasse, non per scelta ma per non innocente meccanismo, le pagano tutte fino all’ultimo euro, ma forse invidiano, nel loro cuore, la libertà di evadere di cui dispongono autonomi, professionisti, commercianti, e così via.

Ora, bisognerebbe ricordarsi che un equo “patto fiscale” è alla base non del comunismo, ma di qualsiasi Stato civile e democratico, almeno dal punto di vista del sistema politico - sarà un caso che negli Stati Uniti l’evasione fiscale sia un reato gravissimo e che la più piccola delle evasioni contributive, se scoperta e pubblicizzata, basta a rovinare folgoranti carriere politiche? E bisognerebbe ribadire che nella stessa cultura liberale la leva fiscale è uno degli strumenti insostituibili per garantire quel (minimo) di redistribuzione della ricchezza, senza il quale trionfa l’egoismo e si perde la coesione sociale. Un sistema fiscale equo e progressivo, insomma, non è caratteristica precipua della sinistra radicale: è, dovrebbe essere, la base portante di una democrazia matura.

In Italia, tuttavia, l’iniquità fiscale è così radicata, specie dopo il lungo periodo berlusconiano, da rendere “rivoluzionarie” tutte le misure in controtendenza. Questa “parvenza” nasce, a sua volta, da almeno due ragioni. La prima attiene alla disgregazione, meglio alla crescente “liquidità” della società attuale (la ricordava Marco Revelli, sempre su Liberazione di ieri) che ne rende difficilissima, quasi impossibile, una lettura, o anche una fotografia, in qualche modo lineare, od “oggettiva”. L’antico schema borghesi-proletari, più un “ceto medio” che tende a moltiplicarsi a dismisura, non riesce più a dar conto della complessità e della frammentazione reali: non perché si tratta di uno schema desueto (in gran parte non lo è), ma perché le classi sociali sono tali e “veritiere” quando corrispondono ad una coscienza condivisa, ad una identità rivendicata, ad un “vissuto” soggettivo. Né basta un unico indicatore - il reddito - adefinire un’appartenenza, o una collocazione di classe.

Se è vero, quindi, che oggi tra “coscienza borghese” e “coscienza proletaria” vi è un’infinita zona grigia, fatta di pulsioni individuali, “comunitarie”, tribali, talora indefinibile perfino a se stessa, è vero che il primo a risentirne gli effetti è proprio il patto fiscale. L’identità di “cittadino” e “cittadina”, da questo punto di vista, si dimostra terribilmente astratta, lontana dalle persone - quasi quanto la politica nel suo insieme. Se io sono prima di tutto un tabaccaio, un barista, un disoccupato, una colf pagata in nero, un ex-operaio deluso, una casalinga frustrata, una consumatrice incallita, un raider, uno scommettitore clandestino fortunato, che cosa mi lega allo Stato, alla comunità nazionale?

Non è certo un caso che, in una fase storica così critica, il sentimento forse più diffuso sia, ahimè, lo “spirito di vendetta” sociale nei confronti di quelli che sono o appaiono privilegi sociali. Qualunque professionista benestante, interrogato sulle sue evasioni, risponde d’istinto «e i bar che non rilasciano scontrini?». Qualunque lavoratore autonomo (o che tale si percepisce) si scaglia con veemenza contro i “fannulloni” che affollano i ministeri, dipinti in toto come parassiti privilegiati. Non qualunque, ma molti lavoratori perbene ce l’hanno prima di tutto con gli stranieri che “rubano” il lavoro e anche le case. Eccetera eccetera.

La seconda ragione attiene, ancora, alle categorie culturali perdute. In una situazione così confusa e così poco leggibile, a sinistra (e non solo) si tendono ad usare nozioni che, per essere più chiare e comunicative, rischiano di accrescere la confusione (e ulteriormente diminuire l’egemonia). Esemplare, in proposito, la (pur meritoria, almeno nelle intenzioni) polarità “ricchi” e “poveri”, che è tornata proprio attorno a questa legge finanziaria. Ora, come dice Lidia Menapace, i “ricchi” e i “poveri” non appartengono alla politica - se mai, forse, attengono all’etica - e rinviano non alla materialità sociale reale, ma a una sorta di “legge di natura”. Si sa, ricchezza e povertà abiteranno a fortiori la migliore delle società possibili - o no? Inoltre, i “poveri” sono uno strato sociale da assistere, non una parte di popolo che può accampare diritti. Ma, soprattutto, ricchi e poveri non sono né seriamente definibili né facilmente riconoscibili - e così si ripiomba nella soggettività confusa, o nel gramsciano senso comune disgregato. Un problema quasi analogo si pone sul “lusso”: provate a trovare un criterio condiviso, e non bacchettone, e resterete stupiti di quanto sia difficile approssimarsi ad una definizione convincente.

Eppure, anche noi parliamo, con crescente frequenza, di ricchi e di poveri, e di lusso: perché sembra più chiaro e semplice, perché in una certa misura è davvero più chiaro e semplice. Forse, la via d’uscita è invece l’introduzione, anche su questo cruciale fronte, della complessità. Ciò che definisce la condizione della parte sfruttata della società, quella che tendiamo a rappresentare e ricomporre, sono molti fattori: il reddito, certo, ma anche i diritti, la collocazione produttiva, sì, ma anche la possibilità di accesso alla conoscenza, alle relazioni sociali, alle opportunità della modernità. “Oggettivamente” parlando (se mai è lecito un tale avverbio), la sinistra è tale, oggi, in quanto si rivolge ai “senza”: coloro che sono penalizzati sul reddito, sui diritti, sulla conoscenza, sull’accesso sociale - e nessuna di queste privazioni può esser considerata di minore importanza, o sovrastrutturale.

Qui si colloca evidentemente la contraddizione di genere. Qui è la base concreta della lotta alla precarietà. E qui, forse, ci sono le tracce per la ri-costruzione di un’idea e una pratica di cittadinanza, nutrita di corpi, bisogni, materialità. Ma vale la pena di continuare a pensarci su, come dicono nel progredito e barbarico Nord.

*

www.liberazione.it, 05.10.2006


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