Ormai è una vera questione nazionale
Ebbene sì, sugli evasori d’accordo con Padoa-Schioppa
Il problema del cittadino evasore e della sua sostanziale impunità rimane. Ed è di tale incidenza da meritare a nostro avviso il titolo di "Questione fiscale", un qualcosa cioè che dovrebbe assumere una rilevanza sociale, etica
di Giorgio Ferrari (Avvenire, 05.10.2006)
Su una cosa almeno - in attesa che il dibattito parlamentare chiarisca e, speriamo, modifichi ed emendi quei tratti per taluni in odore di soviet della legge finanziaria - ci sentiamo di concordare con il ministro dell’Economia Tomaso Padoa Schioppa: chiosando un pamphlet degli anni Cinquanta del polemista Ernesto Rossi dal significativo titolo Settimo non rubare, Padoa Schioppa ci ricorda come il vero ladro, il rapinatore occulto non è lo Stato che mette le imposte, bensì chi quelle imposte e quei tributi evade, letteralmente sottraendo dalle tasche dei cittadini onesti il denaro che essi pagano due volte, una per sé e una per conto degli evasori.
Aggiungiamo doverosamente una puntualizzazione: il cittadino a reddito fisso di per sé non è necessariamente più onesto o più virtuoso di quello che un reddito fisso - dunque certo - non ce l’ha; semplicemente il contribuente a reddito fisso non può, lo voglia o no, evadere o eludere il fisco. La sua è una virtù apprezzabile seppure per certi versi coatta, o, come suggeriscono taluni sociologi, una coazione alla virtù.
Il problema del cittadino evasore e della sua sostanziale impunità rimane. Ed è di tale incidenza da meritare a nostro avviso il titolo di "Questione fiscale", un qualcosa cioè - come lo furono nell’Ottocento il Rapporto Sonnino sul meridione o l’Inchiesta Jacini sull’agricoltura - che dovrebbe assumere una rilevanza sociale, etica, epocale.
Prerogativa del nostro Paese - ma non siamo gli unici al mondo, sia chiaro - è una secolare riluttanza a pagare le imposte, cui si aggiunge un’altrettanto secolare abilità nell’evaderle. Il motivo di fondo è la sfiducia sostanziale nello Stato, l’elevato tasso di inefficienza (e non di rado di corruzione) dell’amministrazione pubblica, la sottile persuasione che la tassa sia un furto perpetrato dall’alto e che dunque il denaro raccolto dagli esattori vada a beneficio esclusivo delle oligarchie al potere. In altre parole manca in la rghi strati della società italiana la convinzione che vi sia un bene comune da tutelare e da salvaguardare, uno spazio giuridico cioè che prescinda le convinzioni politiche e le ideologie e che viceversa appartiene sempre e comunque ai cittadini.
Evadere il fisco, non rilasciare scontrini e fatture, assumere dipendenti in nero, finisce così per diventare una sorta di necessità storica, un esercizio qualificante di furbizia collettiva al quale solo gli sfortunati salariati a reddito fisso o gli ingenui non possono sottrarsi. Gli altri, ricchi o poveri che siano, lo fanno con condiviso compiacimento.
E’ questo tipo di sottocultura che Padoa Schioppa avversa, e noi con lui. Sottocultura cui da sempre si affianca - e negarlo sarebbe ipocrita - una tolleranza dello Stato nei confronti del contribuente infedele che altrove - e parliamo di società avanzate come la Svezia, la Germania, l’Olanda, gli Stati Uniti, la Svizzera - è da secoli impensabile. Paesi in cui al rigore del fisco (c’è il carcere per una dichiarazione infedele in America) si accompagna però la consapevolezza che lo Stato siamo noi, i cittadini e che a questo servono le tasse, al bene di tutti noi.