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4 NOVEMBRE 1966: ITALIA FERITA !!! FIRENZE E’ TRAVOLTA DA UNA CATASTROFICA ALLUVIONE. Un ’ricordo’ di Giorgio Bocca

domenica 8 ottobre 2006 di Federico La Sala
[...] Firenze ha anche una guida spirituale, il professor Giorgio La Pira, evangelico e poeta, che dice: «E così si risorge, un mattone dopo l’altro, un mattone per ciascuno senza discriminazioni. Firenze è un’isola, un esperimento nuovo, prezioso. Presto presto, tutto il mondo ora è Firenze, la Russia manda aerei carichi di aiuti, i parroci collaborano con i comunisti». Si impegna un grande laico, il professor Carlo Ludovico Ragghianti, lo storico dell’arte, che esorta uomini di cultura e (...)

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lunedì 30 ottobre 2006

ZEFFIRELLI: 4/11 ’DATA FELICISSIMA’, HO VISTO I FIORENTINI *

FIRENZE - Franco Zeffirelli non ha dubbi: "il 4 novembre 1966 è una data felicissima. Sembrerò pazzo ma in quei giorni ho visto una Firenze incredibile, ho visto i fiorentini". Il regista, che accorse nella sua città con una macchina da presa e portò in tutto il mondo le immagini di Firenze invasa dall’acqua, raccontata dalla voce cupa e profonda di Richard Burton, da molti è considerato uno dei protagonisti di quei giorni.

"Per Firenze", il film-documentario che raccontava il dramma e la rinascita dei fiorentini, ancora oggi viene studiato nelle scuole di cinema e sarà riproposto in questi giorni, alla sua presenza, durante le manifestazioni per i 40 anni dell’ alluvione. "A volte - spiega il maestro - la verità è impressionante se colta in momenti involontari, non preordinati. A volte è meravigliosa. Facce stupende, talvolta, ci sono anche nei telegiornali. Lì, in una città come Firenze, in una situazione di estremo disagio come quei giorni, con i fiorentini che si buttarono a capofitto nel fango per rimettere in piedi la città, le immagini per forza dovevano essere belle: bisognava essere ’grulli’ per farle brutte".

"Nelle domeniche d’estate, venivo a San Niccolò con i parenti - racconta il regista che nell’ Arno ha imparato a nuotare - e mi tuffavo nell’acqua verdissima". "Oggi invece - ha detto alcuni giorni fa in Palazzo Vecchio, in occasione della manifestazione per Oriana Fallaci - vengo spesso a Firenze per celebrare le disgrazie". Ma quella del 4 novembre, per il regista, è una "lietissima" ricorrenza perché "dimostra come una città possa risorgere da quella orrenda situazione in cui si è venuta a trovare riproponendosi in maniera festosa al mondo". Ma, insieme ai fiorentini, sono protagonisti di quella rinascita anche l’Arno ("il tema di uno dei miei primi quadretti a olio, quando avevo circa 14 anni, dipinto proprio sulle rive del fiume"), gli ’angeli del fango’, e "gli uomini e le donne di tutte le età arrivati da ogni parte del mondo con uno slancio che non ho mai visto in vita mia in nessun disastro, neppure durante la guerra". Certo, tutto questo successe perché "Firenze era Firenze, allora".

In quel novembre del ’66, ’’e nel successivo Natale, perché i ragazzi, da tutto il mondo, tornarono per passare il Natale con i danneggiati - ricorda non senza una vena polemica - é stata l’ultima volta che ho visto i giovani fare qualcosa di straordinario. Immediatamente dopo si sono guastati con il ’68 e quella roba li’ ed è finito tutto". Poi ci ripensa, e lancia un messaggio di fiducia per i giovani e per la "sua" Firenze: "Credo che nei ragazzi, se non mettono loro bastoni tra le ruote con ideologie sbagliate, con globalismi o non globalismi, ci sia ancora un tessuto popolare e culturale positivo forte. Ma non lo posso dire perché ci sono disgraziati - prosegue - che colgono ogni occasione, anche la più nobile, per fare una propaganda spaventosa dei loro gravissimi principi distruttivi della nostra cultura". E allora come risponderebbe oggi Firenze ad una nuova emergenza? "Non lo so - conclude Zeffirelli con un sorriso - Penso, e spero, che ci sia rimasto quel seme che potrebbe rifiorire, ma mi auguro non debba mai rifiorire".

* http://www.ansa.it/opencms/export/main/notizie/rubriche/approfondimenti/visualizza_new.html_2022291883.html


’COSI’ SALVAMMO IL CRISTO DI CIMABUE’ *

A 40 anni di distanza il simbolo dell’ alluvione di Firenze e della resurrezione della città è ancora il Cristo del Cimabue (1240-1302) che acqua e fango avevano quasi sommerso completamente nel cenacolo di Santa Croce, ma che un restauro difficile, guidato dal professor Umberto Baldini, fece rinascere. Il livello dell’ acqua del 4 novembre 1966 raggiunse i sei metri in città e il complesso religioso che custodiva l’ opera non fu risparmiato.

Dal legno medievale inzuppato di umidità (arrivata al 147%) si era staccato il 70% della pittura e le gravi lacune impedivano una valida lettura dell’ opera. Il disastro, ad un primo momento, aveva due soluzioni: il deposito di quanto rimaneva dell’ opera in uno scantinato della soprintendenza fiorentina e, per chi si accontentasse, le fotografie scattate in precedenza. Invece, il Cristo risorse in modo fedele alle intenzioni del suo autore. Merito di un restauro innovativo da cui scaturì un metodo, ’l’ astrazione cromatica, che per interventi di questa gravità ha fatto scuola nel mondo e che per la prima volta venne applicato sul campo.

"Fu un lavoro di recupero graduale in cui ci guidò la potenza espressiva di quanto rimaneva dell’ opera originale e che non si faceva ignorare", ricordano oggi Ornella Casazza e Paola Bracco, all’ epoca giovani restauratrici chiamate ad intervenire nel laboratorio di restauro della Fortezza. Era l’ ultima, decisiva fase, che va dal 1975 al 1976, l’ anno in cui, finalmente, il crocifisso venne riconsegnato alla basilica dopo il restauro. Quella che si preannunciava come una missione impossibile diventò un successo.

"Il Cristo di Cimabue - racconta Ornella Casazza, oggi direttrice al Museo degli Argenti di Palazzo Pitti - poteva finire in un deposito, oppure diventare osservabile come era rimasto, cioé con solo il 30% della pittura che si era salvata, oppure si poteva, grazie alle immagini che avevamo, realizzare una pittura uguale a quello originale cioé fare un falso, un Cimabue-Casazza-Bracco che non avrebbe avuto senso". "Invece - prosegue la studiosa - la potenza del colore e dell’ espressione era tale da indurci a cercare una soluzione per rendere una visione dell’ opera fedele all’ intenzione dell’ autore". Così nacque l’ ’astrazione cromatica’. Lievi pennellate di collegamento da una zona superstite all’ altra permisero di ricomporre le lacune rispettando la visione di chi osserva. Fu questa la soluzione scelta e il colore usato era il risultato della media dei colori dell’ originale.

"Agimmo con un pennellino finissimo - racconta con rinnovato entusiasmo Ornella Casazza - e collegammo le parti rimaste in migliori condizioni alle lacune maggiori. Erano tratti debolissimi e finissimi che non dovevano assolutamente urtare l’ originale ma condurre l’ occhio a cogliere nell’ insieme ciò che Cimabue ci voleva trasmettere. Considerate le condizioni di rovina dovevamo interpretare e restituire all’autore ciò che egli aveva voluto che si cogliesse della sua opera".

"In modo intuitivo - spiega Paola Bracco che è ancora oggi uno dei ’pilastri’ del laboratorio di restauro dell’ Opificio delle Pietre Dure - avevamo applicato una legge dell’ ottica. Ce lo riconobbero alcuni fisici che esaminarono il crocifisso nei tempi successivi alla riconsegna. Questo restauro fu una pietra miliare anche per il tipo di approccio. Prima non c’ era l’ analisi delle grandi lacune. Dovemmo analizzare il rimanente e trovare un collegamento che non fosse imitazione di una situazione sul dipinto provocata dall’ evento, dal trauma. Riuscimmo a legare le parti sanificate a quelle perdute".

Chi, dopo il restauro, guarda la tavola a croce nel suo insieme percepisce una visione simile a quella precedente al danneggiamento e tale da trasmettere la sofferenza del Cristo. Questo è un elemento centrale perché il Cristo di Cimabue, risalente alla fine del ’200, e’ riconosciuto dagli storici dell’ arte come elemento di rottura della tradizione gotico-bizantina e di avvio della grande stagione della pittura fiorentina e italiana. Papa Paolo VI, visitando Firenze alluvionata, parlò dell’ opera di Cimabue come della "vittima più illustre". Oggi il crocifisso superstite dell’ alluvione si erge alla stessa altezza di 40 anni fa ma è protetto da un congegno a carrucola che, nel caso di nuova esondazione, lo fa alzare fino al tetto mettendolo in salvo.

* http://www.ansa.it/opencms/export/main/notizie/rubriche/approfondimenti/visualizza_new.html_2022291881.html


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